Economy Luglio 2017

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GESTIRE L’IMPRESA/SUD L’INTERVISTA LE IMPRESE AL SUD VANNO LIBERATE DALLA CORRUZIONE, LA NUOVA LUPARA DEI CLAN Intervista esclusiva al Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti, che spiega come è cambiato il rapporto tra criminalità e aziende e come si può liberare l’economia soffocata del Mezzogiorno di Francesco Condoluci LA MAFIA OGGI NON SPARA, CORROMPE. E ALTERA LA LIBERA CONCORRENZA “DESERTIFICAZIONE INDUSTRIALE, DISOC- CUPAZIONE INCONTROLLABILE, SOTTOSVI- LUPPO E DISUGUAGLIANZE PERMANENTI”. Questo dice, del Mezzogiorno, il Rapporto Svimez. Un quadro rispetto al quale, lei non si stanca mai di ribadire che sono le mafie la causa principale, e che bisogna usare gli strumenti giusti per liberare il Sud da questa cappa. Ne sono assolutamente convinto. Il contrasto alla criminalità organizzata, e per estensione all’economia criminale, è presupposto fondamentale per avviare lo sviluppo reale e concreto delle imprese e dell’occupazione. La presenza delle mafie condiziona pesantemente l’economia dei territori dove operano. E, come emerge dalla Relazione <strong>2017</strong> della Procura Nazionale Antimafia che abbiamo presentato a giugno, oggi mafia sempre più spesso vuol dire corruzione. È questo lo strumento privilegiato dei clan: corrompere per ottenere informazioni riservate, ottenere documenti falsi, accaparrarsi gli appalti, gestire il tessuto economico, riciclare capitali illeciti. Ecco allora che la lotta alla corruzione diventa la chiave di volta per assicurare l’avvio di un percorso virtuoso che può portare a uno sviluppo vero del Mezzogiorno. È in questo che è cambiato il “pactum sceleris” tra clan, aziende e malapolitica, negli ultimi 30 anni? Intanto non è mai venuto meno, purtroppo. Come dicevo, c’è stata un’evoluzione rispetto al modo in cui la mafia s’infiltra nel mondo degli appalti e delle imprese. Prima lo faceva con la forza dell’intimidazione, oggi lo fa attraverso la corruzione. Rispetto, ad esempio, al “modello tavolino” nella Sicilia degli anni ’80 o al rapporto Cap, “Camorra, Affari, Politica” degli anni ’90, la novità è sostanzialmente questa. La mafia adesso non spara più, ma corrompe. I clan, ai giorni nostri, esercitano una presenza 50
di controllo, garanzia e rispetto dei patti corruttivi: è quello che dicono gli accertamenti giudiziari. Nell’ultimo anno, ad esempio, nel campo dello smaltimento rifiuti, è venuta fuori in maniera evidente la presenza di soggetti mafiosi i quali, nella veste di corruttori, e non di intimidatori, mettevano insieme gli attori che, dal “modello tavolino” e il “rapporto Cap” ad oggi, sono sempre gli stessi. Ovvero: politici, funzionari, imprenditori. Ci sono state molte indagini significative in tal senso. Una per tutte, quella della Procura Distrettuale di Catania sul “sistema Paratore” e lo smaltimento illegale di rifiuti, che vede imputati mafiosi e non mafiosi, accusati di associazione mafiosa e corruzione. Con una corruzione che pesa 60 miliardi all’anno, l’Italia in effetti, continua ad avere questo triste primato in Europa. Eppure le norme anti-corruzione ci sono. La corruzione ostacola la competitività e frena sviluppo e occupazione perché altera la libera concorrenza. È da considerarsi ormai un vero e proprio “fenomeno di sistema”. Dilagato perché per troppo tempo tollerato. Oggi le norme, da sole, non bastano se poi non vengono correttamente applicate. Ci vuole anche un’organizzazione idonea a farle funzionare. Ci vogliono organismi di polizia giudiziaria efficienti e specializzati e, a completamento del quadro anticorruzione, bisogna prevedere una forma di premialità per chi collabora con la giustizia su fatti corruttivi. Queste persone che collaborano, inoltre, vanno adeguatamente protette. Personalmente, ritengo necessaria anche la possibilità di operare con agenti sotto copertura. Come Procura Antimafia abbiamo suggerito al legislatore di prevedere anche, all’interno dell’articolo 416 bis, un’aggravante di pena quando viene accertato che le mafie conseguono appalti attraverso il metodo corruttivo. La corruzione è, nella gran parte dei casi, espressione di organizzazioni criminali, mafiose e non. Per cui, per affrontarla, oltre al rafforzamento del quadro normativo, ci vuole metodo e organizzazione. L’Autorità Nazionale Anti Corruzione da sola non basta, sul fronte prevenzione? L’Anac è un ente importante e, nell’ambito del Piano Nazionale Anti Corruzione, fa bene il suo lavoro. Ma si occupa di casi che vengono portati alla sua attenzione. Non ha poteri investigativi, come quelli dell’Autorità giudiziaria. E in ambito corruttivo, l’attività investigativa è fondamentale. Per cui questo tipo di attività andrebbe potenziata. E tra le norme: servono anche le white list? Certo. Per arginare la corruzione, bisogna rafforzare anche i protocolli di legalità, come è stato fatto per prevenire le infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici. Come Procura Nazionale, abbiamo dato il nostro contributo sulla prevenzione negli appalti più importanti, dalla bonifica della “terra dei fuochi” in Campania alla ricostruzione post-terremoto in Italia Centrale. Anche nell’ambito corruttivo servono griglie d’accesso rigorose alle white list. Se vuoi lavorare con la Pubblica Amministrazione, devi denunciare chi ti chiede la tangente. Se paghi, invece, vieni espulso dalle associazioni di categoria e non puoi più partecipare ai bandi pubblici. L’Istat stima l’incidenza dell’economia criminale al 16-17% del PIL, cioè introiti tra i 255 e i 275 milioni di euro. Non le sembra un valore sottostimato? Diciamo che i dati hanno un valore puramente orientativo. Le cifre sono oscillanti, ma ti danno comunque l’idea della dimensione del fenomeno. E l’economia soffocata, invece? Nel suo libro “Il Contrario della Paura” scrive che il vero danno delle mafie sta in ciò che soffocano, ancor più che in ciò che provocano. Ma aggiunge pure che al Sud l’impresa sana esiste. Perché non fa massa critica? Anche su ciò che le mafie soffocano, ci sono dati eloquenti. In Puglia e Basilicata, negli ultimi 30 anni, la presenza delle mafie ha inciso fortemente sul Pil: rispettivamente meno 16,5% e meno 17,5% . Per converso, l’impresa corretta, quella che non fa ricorso al metodo corruttivo, ha difficoltà a operare e rischia di uscire dal mercato, a tutto vantaggio di chi ricorre alla corruzione sistematica. In un contesto di corruzione generalizzata, per l’impresa sana che rispetta le condizioni di legalità, sopravvivere è molto difficile. Ecco perché, in particolare al Sud, le realtà virtuose sono poche. Per salvare l’impresa sana, è indispensabile agire contro quelle legate alle organizzazioni mafiose. Intervenendo sull’economia malata, si sanano le imprese pulite e si sana l’economia dell’intero Paese. IL GIUDICE CHE HA MESSO IN GINOCCHIO “I CASALESI” Sessantanove anni, napoletano, in magistratura dal 1975, Franco Roberti è a capo della Procuratore Nazionale Antimafia dal luglio 2013, quando è stato eletto dal Csm, succedendo a Pietro Grasso, che si era dimesso per assumere la presidenza del Senato. Prima di essere designato a guidare la PNA, che dal 2015 ha competenza anche in materia di terrorismo, Roberti guidava la Procura della Repubblica di Salerno. Nel suo cursus honorum, una significativa esperienza alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, dove si è occupato delle più importanti indagini di camorra, tra cui quella contro il potente clan dei Casalesi. 51
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