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1 E dire che i paesaggi li amavo di più Le mostre, insieme a ... - Diras

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Maria Cristina Bandera<br />

bolognese – in questo caso quello <strong>di</strong> Roffeno – arso, desertico, dai calanchi violacei, dai campi<br />

arati e punteggiato <strong>di</strong> case <strong>di</strong> pietra, nello stesso modo in cui, in queg<strong>li</strong> stessi anni, combinava le<br />

nature morte nel suo stu<strong>di</strong>o, così da fare intendere come il suo lavoro procedeva pariteticamente. Vi<br />

si ritrovano la stessa materia densa e lavoratissima, i toni cupi e la medesima sequenza <strong>di</strong> pennellate<br />

marcate. Nello stesso anno si prestano a una lettura comparata i due <strong>di</strong>pinti <strong>di</strong> gran<strong>di</strong>, ma non ugua<strong>li</strong><br />

<strong>di</strong>mensioni, provenienti dalla raccolta milanese <strong>di</strong> Carlo Grassi, l’uno (V. 182, cat. 19), e dalla<br />

raccolta romana <strong>di</strong> Pietro Rol<strong>li</strong>no, l’altro (V. 183, cat. 20), poi pervenuto nella collezione della RAI,<br />

in cui una casa, o la sua sintesi, spunta da una macchia <strong>di</strong> alberi <strong>di</strong> contro il dosso <strong>di</strong> una col<strong>li</strong>na.<br />

Sebbene affrontino lo stesso soggetto e siano accomunati dall’essere lontani da qualsiasi formula<br />

descrittiva, variano nell’inquadratura per il <strong>di</strong>verso sottinsù e per la <strong>di</strong>stanza della visione <strong>che</strong> lascia<br />

un <strong>di</strong>fferente spazio per il cielo. Soprattutto si <strong>di</strong>versificano per la sperimentazione sul colore: a<br />

ta<strong>che</strong>s cupe e pastose nel primo caso, <strong>più</strong> sintetico, abbreviato, asciutto e rischiarato nel secondo.<br />

È davvero poca cosa il soggetto nel Paesaggio – secondo il ‘titolo’ del Vita<strong>li</strong>, ma in realtà un<br />

Cortile <strong>di</strong> via Fondazza – risalente all’incirca al 1934, V. 188, cat. 21, dove in una visione<br />

sfuocata, i rami <strong>di</strong> una pianta in fiore, segnati da picco<strong>li</strong> tocchi densi <strong>di</strong> luce, sembrano fondersi nei<br />

trapassi <strong>di</strong> ver<strong>di</strong> nel tono caldo del color mattone <strong>che</strong> suggerisce la partitura geometrica <strong>di</strong> una<br />

facciata <strong>che</strong> fa da piano <strong>di</strong> fondo. Si tratta <strong>di</strong> un <strong>di</strong>pinto <strong>che</strong> nella sua sperimentazione annuncia g<strong>li</strong><br />

esiti fina<strong>li</strong> – in particolare pensiamo, tra le opere in mostra, al Paesaggio, 1962, V. 1287, cat. 60 – e<br />

non stupisce <strong>che</strong>, prima <strong>di</strong> pervenire nella raccolta voluta da Adriano O<strong>li</strong>vetti e da lì alla Telecom, il<br />

suo primo destinatario sia stato Giuseppe Raimon<strong>di</strong>. Ancora alberi in fiore, <strong>più</strong> o meno ravvicinati e<br />

<strong>di</strong>versamente luminosi o carichi <strong>di</strong> colore, <strong>che</strong> a loro volta rispondono a moda<strong>li</strong>tà variate <strong>di</strong> stesura,<br />

sono il tema <strong>di</strong> due Paesaggi – anch’essi due ‘corti<strong>li</strong>’ –, risalenti alla metà deg<strong>li</strong> anni trenta qui<br />

esposti: quel<strong>li</strong> del 1934, V. 189, cat. 22, e del 1936, V. 219, cat. 28. Il primo <strong>di</strong> grande <strong>di</strong>mensioni,<br />

intonato al verde chiaro del prato e alla senape della facciata, scan<strong>di</strong>to da tronchi flessuosi, e il<br />

secondo ‘ritag<strong>li</strong>ato’ quasi in quadrato, visto in controluce e superbo nella materia cromatica<br />

intessuta, com’è evidente an<strong>che</strong> nella firma, <strong>di</strong> bruni e <strong>di</strong> color ciclamino con una maestria <strong>che</strong> non<br />

ha ugua<strong>li</strong>.<br />

Si tratta, complessivamente, <strong>di</strong> opere <strong>che</strong> documentano come an<strong>che</strong> questo momento del lento e<br />

riflessivo cammino <strong>di</strong> Moran<strong>di</strong> sia davvero strepitoso. Il pittore lo percorre con la solerzia <strong>di</strong> un<br />

umanista <strong>che</strong> sembra avere fatto propria l’antica massima latina Festina lente, quell’affrettati<br />

lentamente, adottata da Aldo Manuzio, tanto tenaci sono la laboriosità, la costanza, la ponderazione<br />

del suo ‘lavoro’ pittorico, così <strong>che</strong> non stupiscono la sua caparbietà nel conquistarsi il proprio<br />

spazio <strong>di</strong> quiete e i ricorrenti appel<strong>li</strong> lanciati ai suoi corrispondenti circa la sua necessità <strong>di</strong> avere un<br />

po’ <strong>di</strong> pace e <strong>di</strong> tranquil<strong>li</strong>tà per “poter lavorare”.<br />

An<strong>che</strong> i tre <strong>paesaggi</strong> del 1935 nel rispondere a norme compositive tra <strong>di</strong> loro <strong>di</strong>versificate sono la<br />

riprova <strong>di</strong> un altissimo grado <strong>di</strong> sperimentazione. Se nel primo, all’evidenza un Cortile, V. 196, cat.<br />

23, degno <strong>di</strong> nota per essere inizialmente appartenuto a Roberto Longhi, il terreno e le case, piatte<br />

come fonda<strong>li</strong> <strong>di</strong> scena, riempiono tutta la cornice secondo una <strong>di</strong>stribuzione centra<strong>li</strong>zzata, neg<strong>li</strong> altri<br />

due si nota un posizionamento <strong>più</strong> aperto, costruito con tag<strong>li</strong> <strong>di</strong>agona<strong>li</strong> <strong>che</strong> <strong>di</strong>vengono predominanti<br />

fattori <strong>di</strong> struttura. In particolare in quello della GAM <strong>di</strong> Torino, V. 200, cat. 24, acquistato dal<br />

museo nel 1939 alla III Quadriennale <strong>di</strong> Roma in occasione della prima importante sala<br />

monografica del pittore, i colpi <strong>di</strong> pennello hanno abbandonato qualsiasi pretesa <strong>di</strong> trascrizione della<br />

natura: il <strong>paesaggi</strong>o è meramente un’occasione per una combinazione <strong>di</strong> stesure piatte <strong>di</strong> colore<br />

sincronizzate tra loro, assolute an<strong>che</strong> per la padronanza dei toni e la giustezza della luce. Di questo<br />

<strong>paesaggi</strong>o – o forse ‘da’, dal momento <strong>che</strong> è in ‘controparte’ – Moran<strong>di</strong> trarrà nel 1936<br />

un’acquaforte, V. inc. 129 [fig. ??], in cui i contrasti <strong>di</strong> luce e ombra, tra <strong>di</strong> loro intarsiati<br />

nell’organizzazione della veduta, risultano ancora <strong>più</strong> accentuati. Guardando opere come questa<br />

colpisce la <strong>li</strong>bertà espressiva raggiunta da Moran<strong>di</strong> <strong>che</strong>, a questa data, appare an<strong>che</strong> superiore e<br />

maggiormente sperimentale rispetto a quella delle nature morte.<br />

Una strada so<strong>li</strong>taria, <strong>che</strong> come s’intuisce si snoda a gran<strong>di</strong> curve per concludersi <strong>di</strong> contro a una<br />

macchia marrone all’interno <strong>di</strong> un <strong>paesaggi</strong>o deserto e silenzioso in una prospettiva <strong>che</strong> pare letta<br />

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