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Tutt’altro che una formalità<br />

Angelo Pizzuto<br />

Sotto il profilo della progettualità drammaturgica, dunque del<br />

tradurre in coordinate teatrali “Una pura formalità” di Giuseppe<br />

Tornatore (kammerspiel e discussa scommessa filmica<br />

del 1994,prodotta da Franco Cristaldi), non v’è dubbio che<br />

l’operazione condotta a termine da Glauco Mauri (di scena al Parioli<br />

di Roma,dopo le molte repliche al Biondo di Palermo) sia un<br />

esemplare ‘campione\modello’ di sintesi dialettica, stringente e<br />

stringata, sul filo di quella che Pasolini avrebbe definito la corrispondenza<br />

‘loica’ tra linearità dialettica del confronto a due (sempre<br />

più sottile e implacabile,come nel “Pilade”) e visceralità delle<br />

sue implicazioni materiche, esistenziali, di ‘affronto’ realistico. E<br />

nella più rigorosa osservanza delle unità aristoteliche di luogo, di<br />

spazio e di tempo, spontaneamente ricalcate dalla sceneggiatura<br />

del film. Che ha inizio con la corsa, sotto la pioggia, all’estremità<br />

di un bosco, di un uomo (che scopriremo essere scrittore in disarmo)<br />

‘riparatosi’ (casualità o atto inconscio) all’interno di un remoto<br />

commissariato di polizia, dove un affabile ispettore si ostina<br />

a trattenerlo in stato di fermo. Supponendo, anzi sospettando che<br />

egli sia responsabile di un omicidio avvenuto-quella stessa nottein<br />

una villa nei paraggi della caserma.<br />

Va da sé che l’indagato, riaffiorando dalle nebbie di una totale amnesia,<br />

non può che negare, aspramente, corporalmente (sino alla<br />

colluttazione fisica con alcuni agenti del demandamento) ogni addebito<br />

e responsabilità, ’implorando’ per quel vuoto di memoria<br />

che sembra momentaneamente ridurlo ad un cencio stazzonato di<br />

tremore e perdita di dignità. Non sarà così. Poichè, incalzato a dovere<br />

dall’anziano commissario, un barlume di ricordo e di ‘brivido<br />

colpevole’ (quel suo saper distinguere ‘tra crimine e reato’ che è<br />

una delle chiavi esplicative dell’enigma) inizierà ad agire come<br />

sonda esplorativa ed esplicativa ai fini di una ‘rivelazione’ (o ‘agnizione’)<br />

che non potrà che porre altri interrogativi, altri particolari<br />

secondo i quali ‘non tutto è concluso’.<br />

****<br />

Come qualcuno ricorderà,il film di Tornatore mirava in alto e non<br />

taceva di una certa ambizione mescolante espressionismo ed ipotesi<br />

metafisiche (grazie al magnifico gioco di luci, alla claustralità<br />

del luogo, alla ferrea performance di Gerard Depardiueu, Roman<br />

Polanski e dell’indimenticato Cimarosa nel ruolo del tozzo carceriere),<br />

contro cui insorsero critici del calibro di Goffredo Fofi che<br />

giudicò il tutto “un giallo senza movente,un dramma senza patos,<br />

un thriller senza suspence”, auto aggrovigliatosi nella convulsione<br />

delle sue molte piste narrative, sovrapposte o in concorrenza sino<br />

a perdere il ‘filo del discorso ed in suo stesso ubi consistam’. Nulla<br />

di condivisibile, almeno da parte nostra, poiché il film non dava e<br />

non prometteva (proprio per la sua ambizione) nulla di più e nulla<br />

di meno di quanto mantenuto. Avendo dalla sua parte fonti d’ispirazione<br />

(accennate, mai esibite) del calibro di Woolrich, Durrenmatt,<br />

Du Maurier e soprattutto Franz Kafka, emulsionati in una<br />

vicenda paradigmatica sino alla essenzialità dell’apologo e di un<br />

assunto (‘l’uomo che incontrò se stesso’) cui i risvolti misteriosi,<br />

indagativi, di mera detection non sono che di corredo ad una ‘rivelazione’<br />

analitica (il ‘tradimento’ della persona cui era grato, il<br />

‘raggiro’ che lo rese autore affermato), che molto ricordano la riflessione<br />

del filosofo Adorno, secondo cui la ‘vera sede del potere’<br />

(che per l’uomo è tutto ciò che ha rimosso, che non può o<br />

non vuole ammettere, ricdestare) sta nei tempi e negli anfratti<br />

dove meglio può appartarsi, passare inosservato. Cosa di meglio,<br />

quindi, che un simbolico, scalcinato, poco probabile ufficio<br />

di polizia ai confini della vita e della morte<br />

Nella sua trasposizione scenica, Glauco Mauri, che assume<br />

sulle anziane spalle quasi tutto il peso dello spettacolo (quasi<br />

un Atlante che regge il suo mondo di quinte e cartapesta) rende<br />

“Una pura formalità” qualcosa di opposto, di ben più ‘sostanziale’,<br />

contiguo al teatro di tradizione, di esplicito artigianato (a<br />

costo contenuto) e del più nobile concetto di ‘capocomicato’.<br />

Riscattando e rafforzando (senza fronzoli diversi dalla parola<br />

diretta e inchiodante) la stesura di Tornatore nella sua ‘smarrita’<br />

essenza di apologo morale e perdizione dell’ego. Cui non servono<br />

giudizi divini o assoluzioni della ‘mondana’ giustizia. Essendo<br />

ciascuno di noi, così come lo smemorato scrittore (che<br />

Roberto Sturno, ma perché, recita ‘sopra le righe’), non ammesso<br />

ad alcuna spiegazione, assoluzione o espiazione a divinis;<br />

piuttosto, al pari dello stoico, perseverante Sisifo (giusto<br />

per restare fra archetipi mitologici) costretto a disfare e ricomporre<br />

il suo bandolo di matassa, la sua ammuffita tela di Penelope<br />

sino all’insorgere di altri smarrimenti dell’ego, dell’identità,<br />

della memoria bombardata dal soprassalto di nuovi e vecchi oltraggi.<br />

Dimentico di sé e di altre ‘pure formalità’ (pur sempre cruente,<br />

traumatiche), preposte a restituirlo all’assurdo ‘giogo’ dell’esistere<br />

per testimoniare.<br />

****<br />

“Una pura formalità” di Glauco Mauri, versione teatrale dell’omonimo<br />

film di Giuseppe Tornatore. Oltre a dirigerlo, Mauri interpreta<br />

lo spettacolo insieme a Roberto Sturno, Giuseppe Nitti,<br />

Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore. Le<br />

scene sono di Giuliano Spinelli, i costumi di Irene Monti e le<br />

musiche di Germano Mazzocchetti.<br />

7aprile2014 asud’europa 45

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