Gennaio - Febbraio - Marzo 2007 - Ordine dei Giornalisti
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Trentadue medaglie d’oro il 29 marzo <strong>2007</strong> al Circolo della Stampa<br />
Franco Damerini<br />
Nella redazione di Missiroli<br />
tra rigore e goliardia<br />
di Luca Gualtieri<br />
Uno studio affacciato sui giardini di Milano Due. Da quindici<br />
anni queste stanze sono il regno di Franco Damerini, ex cronista.<br />
Tappezzeria pastello, abat-jour d’epoca, un romanzo di<br />
Alexandre Dumas, una collezione di libri per bambini. “Sto allestendo<br />
una mostra sulle vecchie edizioni di Pinocchio.<br />
Volumi che ho trovato nelle fiere di antiquariato dopo lunghe<br />
ricerche”, spiega Damerini. La conversazione parte da qui,<br />
dalle illustrazioni di Lucignolo e Mangiafuoco, dal profumo di<br />
antico che colpisce il visitatore.<br />
Damerini è in pensione dal 1992. Un addio senza ripensamenti:<br />
“Quando esci da questa professione, non puoi tornare<br />
indietro: è una scelta definitiva”. Oggi è ancora attivissimo, organizza<br />
mostre, scrive su un bimensile di antiquariato, passeggia<br />
per fiere e mercatini, frequenta gli amici, ma ha smesso<br />
di occuparsi di giornalismo. Un’esperienza chiusa, “anche<br />
se è stata una gran bella esperienza”.<br />
Milanese, Franco Damerini viene da una famiglia di giornalisti.<br />
Il nonno aveva lavorato al “Secolo”, storico quotidiano della<br />
sinistra democratica diretto dal premio Nobel per la Pace<br />
Ernesto Teodoro Moneta, mentre il padre aveva scritto per il<br />
“Corriere Lombardo”. Dopo il liceo classico al Carducci, appena<br />
diciottenne, Damerini si lascia contagiare dal “vizio di fa-<br />
miglia” e inizia a collaborare con l’agenzia Reuters. Questa prima<br />
esperienza gli insegna soprattutto a usare gli strumenti del<br />
mestiere, come la macchina per scrivere e la telescrivente.<br />
Intanto studia Giurisprudenza e si laurea.<br />
Tra l’avvocatura e il giornalismo Damerini sceglie senza esitazioni:<br />
continua il percorso intrapreso alla Reuters. Nel 1952<br />
entra a “La Notte” di Nino Nutrizio, fondata proprio quell’anno.<br />
Diventerà professionista nel 1957 al prezzo di una gavetta durissima.<br />
Malgrado gli orari sfibranti, l’assenza di tutele sindacali e le paghe<br />
da fame, Damerini ricorda quel periodo con emozione.<br />
“La Notte fu un giornale rivoluzionario che dava grande spazio<br />
alla cronaca e allo sport. Anche se ci rendeva la vita difficile,<br />
Nutrizio era un genio, un maestro. Ci insegnò che nel giornalismo<br />
quello che davvero conta è la notizia”. E allora via, a<br />
caccia di notizie.<br />
La mattina a Palazzo di giustizia per stenografare i grandi processi<br />
del dopoguerra; il pomeriggio in giro per commissariati<br />
ad annotare ogni furto, ogni rissa. “E se tornavi in redazione<br />
con uno scoop, Nutrizio ti regalava una cravatta o ti concedeva<br />
un aumento”. Di quegli anni Damerini rimpiange soprattutto<br />
“la vibrazione della notizia”, un sentimento che i cronisti di<br />
oggi, a suo avviso, non provano più.<br />
Dopo otto anni nella scuderia di Nutrizio, il giovane passa al<br />
“Corriere d’Informazione”. Damerini entra in via Solferino come<br />
redattore ordinario ma diventerà ben presto caporedattore.<br />
Nella sua cronaca si formeranno alcune delle firme più prestigiose<br />
del giornalismo italiano. Quattro nomi per tutti: Walter<br />
Tobagi, Edoardo Raspelli (“Allora non si occupava di cucina”),<br />
Gian Antonio Stella (“Simpaticissimo”) e Ferruccio de Bortoli<br />
(“Quadrato e inflessibile”). L’atmosfera evoca molto una caserma:<br />
disciplina ferrea e parentesi goliardiche che sdrammatizzavano<br />
la tensione e facevano volare il tempo. Su tutti vegliava<br />
il grande direttore Mario Missiroli, “un altro maestro importantissimo,<br />
la colonna portante del giornale”.<br />
Damerini resta al “Corriere d’informazione” fino al 1979, quando<br />
si lancia nell’avventura dell’“Occhio” di Maurizio Costanzo.<br />
Lo solletica l’idea di un quotidiano nazionalpopolare, ispirato<br />
ai modelli inglesi e allora assente in Italia: “Avevamo in mente<br />
un giornalismo che condensasse toni alti e bassi, senza la seriosità<br />
di molta stampa nostrana. Avrebbe potuto essere una<br />
rivoluzione”. Invece si rivela un flop e Damerini si ritira dall’impresa<br />
dopo qualche mese.<br />
Negli anni Ottanta è al “Corriere della sera”, caporedattore degli<br />
Spettacoli. Un’esperienza del tutto inedita per lui, che dimostra<br />
come il vero giornalista debba sapersi destreggiare in<br />
ogni settore: “Un cronista di nera deve conoscere il rock e la<br />
musica classica: non possono esserci lacune”.<br />
Nel 1992 Franco Damerini raggiunge i limiti della pensione e<br />
abbandona il mondo giornalistico. Da allora ha iniziato una<br />
nuova vita: gli hobby di un tempo sono diventati un lavoro. Un<br />
bilancio Cinquant’anni di fatica ma anche di grandi soddisfazioni.<br />
L’unica ombra che lo inquieta riguarda il futuro della cronaca:<br />
“Non vedo in giro giornali all’altezza della Notte o del Corriere<br />
d’Informazione. I cronisti della mia generazione sono cresciuti<br />
inseguendo il mito di Kirk Douglas in L’asso nella manica.<br />
Andavamo in giro a caccia di notizie, verificavamo le fonti, facevamo<br />
inchieste. Oggi non vedo più questa determinazione”.<br />
Ma di giornalismo ormai parla poco. Capitolo chiuso.<br />
La vita è altrove.<br />
MEDA<br />
D' O<br />
Alfredo Barberis<br />
“Grazie a me i bambini<br />
hanno amato la Pimpa”<br />
di Alessandro Braga<br />
Sentire Alfredo Barberis che racconta la sua carriera è un po’<br />
come fare un viaggio, tra l’onirico e il fantastico, nel mondo della<br />
letteratura, della televisione e del cinema italiano degli ultimi<br />
cinquant’anni, visto con gli occhi di chi, da una redazione giornalistica,<br />
lo ha raccontato e vissuto.<br />
Barberis è stato il primo giornalista di critica televisiva: nel 1952<br />
teneva una rubrica su “La Patria”, si chiamava Teleprima. “Fu lì<br />
che commisi il mio primo sbaglio – racconta divertito – Scrissi<br />
che le trasmissioni a puntate non avrebbero avuto successo,<br />
perché era come invitare una persona a cena e servirle solo<br />
l’antipasto, dicendole di tornare il giorno dopo per il primo”.<br />
Negli anni successivi, tante collaborazioni, come critico cinematografico<br />
e televisivo, e la direzione di alcune riviste letterarie.<br />
Il racconto si trasferisce poi in via Settala a Milano, nella storica<br />
redazione del “Giorno”, dove recensisce trame di film in<br />
quartine perché “quel genio di Giuseppe Trevisani aveva avuto<br />
questa pazza idea. Peccato che poi l’idea non ebbe conseguenze<br />
pratiche sulle pagine del giornale, e il giudizio sui film<br />
in uscita lo facevo dando valutazioni in ‘pallini’”. Un pallino, statevene<br />
a casa; due pallini, fate quello che volete; tre pallini, andate<br />
a vederlo; quattro pallini, che fate ancora a casa È un capolavoro<br />
impedibile. Certo, da viceresponsabile delle pagine cinematografiche,<br />
non poteva sbizzarrirsi in giudizi troppo personali:<br />
“Come quella volta in cui andai a vedere ‘I soliti ignoti’ e<br />
‘Il sorpasso’. Chiamai il mio capo e gli dissi che per me valevano<br />
quattro pallini. La risposta “Dottor Barberis, stia calmo,<br />
tre sono più che sufficienti”. Dopo averli visti però si ricredette<br />
anche lui”.<br />
Nel 1975 diventa direttore responsabile del “Corriere <strong>dei</strong><br />
Piccoli”. Resterà in carica per due anni. Nei primi mesi della<br />
sua direzione il giornale cambia veste grafica e formato, diventa<br />
più colorato e divertente per rispondere meglio alle esigenze<br />
<strong>dei</strong> suoi piccoli lettori.<br />
E appare sulle pagine della rivista un personaggio che entrerà<br />
nel cuore di tutti i bambini italiani: la Pimpa. “Altan mi propose<br />
la sua cagnolina a pois e io accettai subito di pubblicarla, nonostante<br />
una persona molto vicina all’editore mi criticasse, in<br />
quell’occasione, sostenendo che volevo fare un giornale solo<br />
per i figli degli architetti. Singolare, visto che decisi di pubblicare<br />
un personaggio dell’inventore di Cipputi. In ogni caso, se<br />
Altan è a pieno titolo il padre della Pimpa, io posso considerarmi<br />
almeno l’ostetrica”. Alle sue dipendenze, in quel biennio,<br />
alcuni giovani destinati a affermarsi: Ferruccio De Bortoli, ma<br />
anche Tiziano Sclavi, l’inventore di Dylan Dog. “Un ragazzo geniale<br />
che quando si licenziò dal Corriere <strong>dei</strong> Piccoli scrisse la<br />
lettera di dimissioni in rima, raccontando <strong>dei</strong> suoi paurosi viaggi<br />
da Pavia a Milano, disperso nella nebbia dove vagavano gatti<br />
morti e spettri”.<br />
Ambrogio Lucioni<br />
Di questo mestiere rimpiango<br />
ancora il profumo del piombo<br />
di Andrea Schiappapietra<br />
Ambrogio Lucioni ha lo sguardo sereno di chi dalla vita ha<br />
avuto tutto quello che poteva desiderare. Una famiglia, due figli,<br />
adesso a loro volta sposati e sistemati, un lavoro che lo<br />
ha divertito e appassionato.<br />
E che gli ha riservato anche qualche delusione. “Non ho rimpianti”,<br />
afferma deciso. C’è da credergli. Anche se (lo s’intuisce<br />
dalla difficoltà con cui ne parla) l’esperimento fallito del<br />
“Giornale” di Varese rappresenta una ferita ancora aperta.<br />
Nel 1973 alcuni imprenditori locali lanciarono il progetto di un<br />
nuovo quotidiano, con l’obiettivo di creare un’alternativa alla<br />
“Prealpina”. Lucioni, che dal 1953 lavorava nello storico gior-<br />
nale varesino ed era stato anche corrispondente del “Giorno”,<br />
venne chiamato come direttore responsabile. La testata registrata<br />
in tribunale creò qualche problema con Indro<br />
Montanelli, che quasi contemporaneamente aveva lasciato il<br />
“Corriere della Sera” per dare vita al suo “Il Giornale”. Fino a<br />
che gli editori non si misero d’accordo, il più famoso giornalista<br />
italiano dovette inserire la parola “nuovo” per differenziarsi.<br />
“Accettai con entusiasmo l’incarico”, racconta Lucioni. “I primi<br />
mesi furono duri, non era facile imporsi. La redazione era<br />
composta da persone in gamba, riuscimmo a ottenere <strong>dei</strong> risultati<br />
ma ben presto cominciarono i problemi con la proprietà.<br />
Non accettavo ingerenze. Così, dopo circa due anni,<br />
decisi di dimettermi. Fu una decisione che mi provocò tanta<br />
amarezza, pensavo di aver fallito io, di non essere riuscito a<br />
farmi capire. In realtà, con il passare del tempo, di molte cose<br />
ho saputo darmi una spiegazione”. Il momento difficile<br />
durò alcuni mesi, al termine <strong>dei</strong> quali ricevette una nuova proposta<br />
di lavoro: fu Angelo Narducci, direttore di “Avvenire”, a<br />
chiedergli di entrare a far parte del giornale cattolico per occuparsi<br />
degli Esteri. Prima nella sede in via Vittor Pisani, poi<br />
in quella nuova, all’interno del Palazzo della Stampa, in piazza<br />
Cavour.<br />
“Erano anni tormentati – sottolinea – arrivavano chiamate<br />
anonime, i giornalisti erano nel mirino. C’era un po’ di preoccupazione,<br />
cercavamo di farci forza l’un l’altro. In famiglia, poi,<br />
si cercava di non far trapelare nulla, mostrandosi tranquilli,<br />
anche se non era facile”.<br />
Dopo un anno e mezzo, nel 1977, il passaggio a “Famiglia<br />
Cristiana”, dove rimase fino al 31 ottobre del 1991, quando<br />
andò in pensione con il grado di caposervizio. “La figura di riferimento<br />
per tutti noi in quegli anni – spiega – è stata quella<br />
del direttore, don Giuseppe Zilli, un uomo di straordinaria<br />
cultura, prudente ma nello stesso tempo coraggioso, dotato<br />
di un grande fiuto giornalistico. Con lui Famiglia Cristiana ottenne<br />
grandi risultati. Alla fine nessuno mi ha forzato: ho scelto<br />
io di lasciare perché era arrivato il momento giusto, dopo<br />
quarant’anni di lavoro”.<br />
Una vita intera passata in redazione, con una passione particolare<br />
per la tipografia: “Mi sembra di sentire ancora il profumo<br />
del piombo, che t’impregnava i vestiti. Per gli altri era un<br />
odore cattivo, per me aveva un fascino particolare”.<br />
Alfredo Zavanone<br />
Dalle fotografie <strong>dei</strong> paesini<br />
ai siti gastronomici<br />
In sessant’anni di professione Alfredo Zavanone ha sperimentato<br />
ogni mezzo di comunicazione, dalla carta stampata a internet.<br />
Inizia alla fine della Seconda guerra mondiale, quando,<br />
appena ventenne, collabora al “Corriere del Piemonte”, quotidiano<br />
voluto dagli Alleati e dall’Associated Press. La passione<br />
ORDINE 1- 2- 3 <strong>2007</strong><br />
di Marco Guidi<br />
per la fotografia, inoltre, lo porta<br />
a operare dietro la cinepresa e<br />
gli consente di approdare alla “Settimana Incom”.<br />
Negli anni successivi collabora con il “Candido” di Guareschi,<br />
“l’Europeo”, “la Tribuna” e molti altri periodici. L’amore per il cinema<br />
lo fa recitare nel film di Piero Nelli “La pattuglia sperduta”.<br />
Era il 1953.<br />
“Fu un’esperienza indimenticabile”, commenta Zavanone. Nel<br />
1956 cura la fotografia di “Carcoforo ab.103”, documentario su<br />
un piccolo paesino isolato dal mondo firmato dal regista e giornalista<br />
Oliviero Sandria. Un suo scatto di allora vincerà il<br />
“Fotogramma d’oro” al Festival del cinema di Merano. “Penso<br />
di aver meritato il premio per l’originalità del servizio.<br />
Documentare la vita di un paesello piemontese di 103 abitanti,<br />
posto a 1800 metri di altitudine e d’inverno senza collegamenti<br />
né strade è stata un’idea innovativa per gli anni<br />
Cinquanta”, dice con orgoglio.<br />
Con l’avvento della televisione entra a far parte di una troupe<br />
della Rai, facendo da operatore per diversi sketch di<br />
“Carosello”. Zavanone ha collaborato agli spot del dentifricio<br />
Durban, del confetto Falqui e dell’olio Dante.<br />
Si occupa poi di religione, sport, cibo e cronaca musicale in radio.<br />
Da vero polivalente, a fine anni Novanta si appassiona anche<br />
di internet. Tanto che oggi è direttore e collaboratore di diverse<br />
riviste telematiche, fra cui “Informacibo” e “Apodittico”. I<br />
suoi articoli in campo alimentare, in particolare sull’elicicoltura,<br />
gli fanno vincere nel 2006 la prestigiosa “Lumaca d’oro”.<br />
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