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<strong>Azione</strong> Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 ottobre 2012 • N. 43UnsuonodaricordareRitratti Riflettendo sulla figura di Flavio Ambrosetti e sul suo importantecontributo al movimento jazzistico ticinese e svizzeroAlessandro ZanoliA distanza di tempo, spiace molto dinon aver approfittato dell’occasione.Quel pomeriggio del 19 settembre 2006sarebbe stata l’opportunità concretaper incontrare Flavio Ambrosetti e,sullo stimolo fornito dagli «Incontrijazz» organizzati da Aldo Sandmeier,per poter chiacchierare un po’ con lui.Spulciando qua e là gli archivi di stampa,pare che sia stata l’ultima apparizionepubblica di Ambrosetti in veste dijazzista. L’ultima possibilità di incontrareil capostipite del jazz ticinese. E ladefinizione non è un’iperbole.L’ultima sua traccia discografica,(anche qui con beneficio di inventario)è del 2000, in una versione molto toccantedi E la chiamano estate, sul discodel figlio Franco, Grazie Italia. Bel pezzo,soprattutto perché si ascoltano tregenerazioni di musicisti passarsi la pallaper l’assolo: Flavio, Franco e Gianluca.Cose rarissime, le dinastie di jazzistie la loro, per noi ticinesi, è quasiun’istituzione.In realtà ascoltare dischi o registrazionidi Flavio Ambrosetti, oggi, è unpo’ complicato. In questo senso è difficileanche per i giovani appassionatifarsi un’idea chiara della sua personalitàmusicale. Ed è un vero peccato. Oltrea quattro filmati su Youtube, i dischi sitrovano a fatica, magari su Ebay. Suwww.cede.ch vendono ancora un suoalbum, bellissimo, Flavio AmbrosettiAnniversary del 1996, ma in stock nonc’è il disco: se ne possono scaricare solodegli mp3, e nemmeno tutti.Alla Fonoteca nazionale di Lugano,complice la gentilezza degli addettiai lavori, è possibile tentare un breveviaggio nel tempo. Dalle postazioni diascolto si può intraprendere un soddisfacenteitinerario musicale, che iniziaproprio agli albori della carriera diAmbrosetti e da quelle incisioni del1943, Don’t mention it (Smiles), con laFranco e FlavioAmbrosetti inuna foto deglianni ’60.(JazzOrama)moglie Memeta alla batteria e lui al vibrafono(al sassofono c’era MichelEberhardt). La biografia redatta daSandmeier nel suo Album del jazz difamiglia («Bloc Notes», n.46, 2003) è atutt’oggi l’unica fonte storica affidabilee dice che già da studente, a Zurigo,Ambrosetti veniva definito come fabelhafterSolist. In Fonoteca se ne hannole prove. Fuori di qui però è tutt’altracosa. Per i giovani appassionati dioggi sono suoni lontani.È più vivo invece il ricordo che nehanno molti «ragazzi del dopoguerra».Parlando con loro si percepisce quasiun senso di riconoscenza verso «il Flavio».Ambrosetti ha indubbiamentecontribuito a consolidare il loro amoreper il jazz. Quella musica significavanovità, modernità, dinamismo e, soprattutto,forniva la colonna sonora auna nuova prospettiva di vita apertasul mondo, libera dagli schemi provinciali,anticonformista.Cerchiamo di immaginare adesempio, cosa deve essere stato per loroassistere alle sette edizioni del «Festivalinternazionale del jazz di Lugano». Dal1962 al 1969 il meglio del jazz mondialeal Teatro Kursaal, con Bill Evans che giravaper la città e finiva magari a suonarein jam session alla Piccionaia. Con CannonballAdderley, Dexter Gordon, OrnetteColeman (e lo stesso Ambrosettiche nel proprio gruppo aveva accoltoora il figlio) a costruire un ponte musicalein presa diretta con l’altro lato dell’oceano.Molti appassionati ticinesi di oggipossono forse dire di aver vissutoun’analoga sensazione grazie alle primeedizioni di «Estival». Va sottolineato peròche il movimento jazzistico nostranodifficilmente avrebbe avuto il respiro cosmopolitache gli conosciamo senza ilcontributo fornito da Ambrosetti. Senzale sue doti di organizzatore, le sue scelteartistiche e l’ampiezza delle sue reti dicontatti difficilmente il Ticino sarebberimasto branché alla realtà internazionale.E, in conclusione, senza il «Festivaldi Lugano» negli anni ’60 probabilmentenon ci sarebbe mai stato «Estival» neglianni ’70.Il contributo culturale di FlavioAmbrosetti è stato considerevole e unico.Dalle onde della radio, in qualità dianimatore-divulgatore, il «patriarca deljazz» (come lo ha chiamato Gian MarioMaletto dalle colonne del «Sole 24 Ore»)ha alimentato la passione per un generemusicale che è anche una filosofia di vita.In qualità di promotore di iniziativemusicali ha coraggiosamente dedicatotempo (e perché no, anche denaro) auna causa tanto idealista quanto meritevole,perché ha permesso a noi tutti diallargare i nostri orizzonti sul mondo.Se tutto questo è vero, rimane ancoraun ultimo rammarico: i frutti della suapassione di musicista, un esercizio praticatocon dedizione e costanza, sono, comedetto, oggi scarsamente conosciuti.Spiace davvero che le testimonianze dellacapacitàstrumentalediFlavioAmbrosetti,di quel genio originale a cui davavoce il suo sassofono, siano così poco accessibili.Immagine emblematica: nella cantinadella Fonoteca sono conservate numerosebobine di registrazione, le unevicine alle altre, dentro a scaffali grigi.Contengono ore di musica, concerti divarie formazioni del suo gruppo, passatealla radio negli anni ’60 e ’70. Guardandola fila di nastri (coi brividi nellaschiena, anche a causa della climatizzazioneconservativa) viene in mente l’ultimascena di quel film di Spielberg, incui un prezioso oggetto veniva ripostoper sempre, confuso, in mezzo a migliaiadi altri anonimi contenitori, nell’anticameradell’oblio. Un vero peccato.53Cultura e SpettacoliDallas,miracolosvanitoVisti in tivù Debuttodifficile per il sequel,nonostantela cattiveria suscitiqualche rimpiantoAntonella RainoldiVent’anni fa, avevamo lasciato Gei Arsolo e apparentemente sconfitto. Ce loritroviamo ora con lo sguardo smarritonella stanza di una lussuosa clinicadov’è ricoverato. Il sequel di Dallas (Canale5, il martedì alle 21.10) prometteancora intrighi, passioni e cattiveria.Ma Gei Ar (Larry Hagman) è affetto dauna sindrome depressiva, Bobby (PatrickDuffy) ha un tumore maligno, SueEllen (Linda Gray) è il ritratto dell’adulteraalcolizzata. Per cui doveva succedere:sono i giovani ad avere i ruoli di spicco.E la vera guerra oppone John Ross(Josh Henderson), il figlio di Gei Ar eSue Ellen, a Christopher (Jesse Metcalfe),il figlio adottato di Bobby e Pamela.Il primo, degno erede di quella canagliadel padre, è rimasto fermo al petrolio, ilsecondo è pronto a lottare per il trionfodelle energie alternative. I due animanoSouthfork Ranch, e naturalmente sonocondannati dagli sceneggiatori a esseregiovani ma anche vecchi. Ora, negli StatiUniti il nuovo Dallas sarà anche statomolto acclamato da pubblico e critica,ma in Italia il debutto non si è rivelatoper nulla semplice, con poco più di2’300’000 spettatori medi nelle primedue puntate, e uno share dell’8,27%. Bisognadire che martedì scorso con il sequelCanale 5 si è misurato con Raiuno,dove è andata in onda la partita Italia-Danimarca. Come sempre, in tivù è ilL’ingiustiziariparataMusica Cecilia Bartoli ha da poco presentato la sua più recente fatica, Mission,in cui compare anche Diego Fasolis con i BarocchistiTimoteoMorresiUn’operazione di comunicazione calcolatanei minimi particolari, un compositore«riscoperto» e una diva del belcantoin cerca di nuovi traguardi. Si può sintetizzarecosì la nuova avventura discograficadi Cecilia Bartoli, intitolata Missione presentata il mese scorso nella elegantecornice del Neues Schloss Schleissheim,vicino a Monaco. Tra i protagonisti ancheun pezzo di Svizzera italiana: DiegoFasolis e l’ensemble dei Barocchisti.Dopo l’album dedicato all’oratorioromano (Opera proibita, 2005), l’omaggioal bel canto romantico di Maria Malibran(Maria, 2007) e il tributo a Farinelli,Caffarelli e Porporino, castrati napolitani(Sacrificium, 2009), molti sichiedevano quale altra sorpresa CeciliaBartoli avrebbe estratto dal cilindro. SiDa ascoltare, leggere, vedereCDMission, con Cecilia Bartoli (mezzosoprano),Philippe Jaroussky (controtenore),I Barocchisti, Diego Fasolis (direzione);1 CD, Decca.LibroThe Jewels of Paradise, di Donna Leon,Atlantic Monthly Press, 2012, 256 pp.(disp. anche in francese e tedesco).diceva che la cantante romana avessescoperto una perla rara, un compositoresconosciuto, un prete italiano ma vissutoall’estero. Segreto quasi militare: nessunodoveva saperne il nome. All’iniziodi agosto, finalmente, arrivò la rivelazione:si trattava di Agostino Steffani, natonel 1654 e morto nel 1728, musicista baroccoe diplomatico, originario di CastelfrancoVeneto, nunzio della SantaSede presso le corti tedesche. Una carriera,oltretutto, ricca di intrighi degni diun giallo. Una scoperta? Non proprio.Già nel 1905 Alfred Einstein dello Steffanipubblicò i duetti per voce e continuo;anzi firmò un articolo alla gloria diun «vero genio». Hugo Riemann, un altrogigante della musicologia tedesca,sempre in quegli anni, diede alle stampel’opera Alarico e su di lui un volume antologico.Destino di chi arriva troppoConcertiTappa svizzera a Zurigo, Tonhalle, 7dicembre, con la Basler Kammerorchester.TV e DVDMission, di Olivier Simonnet, dal 26novembre; 1 DVD Decca; in diffusionesu Arte il 26 dicembre, alle19.00.La copertina del cd di Cecilia Bartoli.tardi… o (come loro) troppo presto. Unsecolo fa gli interpreti erano attirati datutt’altro repertorio. Solo in tempi a noipiù vicini è stato messo in evidenza ilcontrappunto dolente del suo StabatMater (Leonhardt, DHM), sono stati fissatii melismi degli innumerevoli duetti(La Venexiana, Glossa), è stata sottolineatal’influenza della danza francesenel suo stile orchestrale (Suonatori dellaGioiosa Marca, Divox). Non propriouno sconosciuto, insomma. Ma nessunoaveva preso in considerazione le opereliriche, le sole a rivelare un talento cosìinventivo e «diverso». A ragione si devedunque parlare di un’ingiustizia riparatada Cecilia Bartoli… e di nuovo da unmusicologo, Colin Timms, autore diuna biografia uscita nel 2003: Polymathof the Baroque: Agostino Steffani. («polymath»nel senso di erudito, spirito universale).Quel che impressiona, all’ascolto diMission, è la ricchezza della scrittura, lapadronanza del contrappunto, l’arte baroccadel contrasto. Si pensa a Händel oa Porpora: ma è una musica meno prevedibile.In un’aria di Steffani: non c’èsolo un’idea, possono essercene sei, otto,dieci. All’interprete il compito di ritrovarei caratteri precisi, la coerenza delleparole. Bartoli con la sua vocalità acrobaticaoffre un ventaglio completo dellavarietà di stili di Steffani: dall’ariosomolto espressivo, che deriva dalla generazionedi Monteverdi e poi di Cavalli, aigrandi lamenti («Ove son?… Dal miopetto» o «Deh stancati, o sorte»), alledanze francesi, che Steffani aveva assimilatodurante un soggiorno a Parigi, allearie con la tromba e il coro («Suoni,tuoni, il suolo scuota»). Con Diego Fasolisl’intesa è perfetta; la celebre cantante,in un’intervista ad un mensile francese,l’ha definito «un complice fantastico,che capisce i cantanti». Viene voglia diascoltare per intero opere come Tassiloneo Niobe. Per ora gustiamoci il CD, checomprende anche pregevoli duetti con ilcontrotenore Philippe Jaroussky, una«vecchia» conoscenza di Fasolis. Disponibilipure il libro The Jewels of Paradisedella scrittrice americana di bestsellerDonna Leon, ispirato alla vita misteriosae intrigante di Steffani, e un DVD di OlivierSimonnet che uscirà il 26 novembre.Ci sarebbero infine da rincorrere iconcerti dal vivo: ne sono stati programmati22 nelle principali città europee.Larry Hagman, alias JR (o Gei Ar).calcio il fattore decisivo (10’494’000spettatori, 35,53% di share). Dallas è peròstato superato anche da CriminalMinds su Raidue (2’446’000 spettatori,9,03% di share). Era l’aprile del 1989 esu «Repubblica» Beniamino Placidospiegò le due ragioni per cui il serialamericano trionfava in tutto il mondo:«La prima fa capo a quel benedetto desiderioche motiva la nostra vita assai piùdel bisogno. Ci piace desiderare da lontanoquelle ricchezze, quegli agi, quellapotenza. La seconda ragione è più interessante.Dallas, Dinasty, Capitol raccontanovicende assurde e spropositate,spesso. Ma dentro un quadro a suo modorealistico. L’eterna lotta tra quellegrandi famiglie è una rappresentazionecolorita, ma verosimile, della lotta fragrandi gruppi finanziari. Che si combattono,litigano e divorziano. Non èforse lo spettacolo pubblico-privato alquale ci piaccia o no assistiamo ognigiorno?». Il problema vent’anni doponon è la lotta e nemmeno la cattiveria.La cattiveria, anzi, suscita rimpianto. Ilproblema è che una sfilza di ottime serietelevisive offrono allo spettatore d’epocaqualche valido motivo per non rassegnarsialla pallida idea di un sequel pallidissimo.

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