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Novembre

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A cura di

Lorenzo Borghini

Il cinema

a casa

Vizio di forma

Il vortice magmatico di Paul Thomas Anderson e Thomas Pynchon

di Lorenzo Borghini

California. Gordita Beach. Inizio

anni Settanta. Doc Sportello, un

investigatore privato a tempo

perso con un debole per le droghe, viene

contattato dalla sua ex fiamma Shasta.

Gli chiede di proteggere Mickey Wolfmann,

il suo nuovo amante, un importante

costruttore miliardario in pericolo

poiché la moglie vuole liberarsi di lui. Doc

accetta. Come dire di no al suo (vecchio)

amore? Sashta gli appare in casa come

un sogno ad occhi aperti e dopo avergli

rifilato l’incarico si dissolve come un sogno

al mattino, scomparendo con i colori

pastosi di fine tramonto quando la notte

è ormai vicina. «Puoi rimanere da me» le

dice Doc. «Non posso, devo andare» risponde

lei sgommando via in macchina

verso chissà dove. Partenze senza arrivi e

arrivi senza partenze, tipica tematica pynchoniana

per definire l’indefinitezza della

vita. Doc si butta a capofitto nelle indagini,

ma si ritrova arrestato per l’omicidio

di una delle guardie del corpo di Mickey

Wolfmann. Ma Wolfmann è sparito come

pure Shasta. Da qui in poi Doc sarà una

vittima degli eventi, un agnello sacrificale

che si oppone fortemente al passaggio

traumatico tra un’epoca e un’altra,

sempre racchiuso in quell’inquadratura

che non lo lascia mai. Doc non accetta

che il suo sogno, e quello di altri, sia

stato trasformato in un incubo dai soldi

e dalle alte sfere. Per questo lotta come

un naufrago in una tempesta, cercando

di rimanere fedele ai suo dettami, al suo

anticonformismo che è la faccia di una

medaglia contrapposta a quella conformista

di Bigfoot, ispettore della Omicidi

che lo perseguita. Doc cerca per tutto

il film di far luce sugli strani intrighi che

si vanno intessendo, un guazzabuglio di

situazioni sconclusionate e personaggi

a ripetizione che lo aggrovigliano in un

vortice magmatico. Magmatico come il

romanzo di Pynchon, un vulcano di adrenalina

e leggerezza, una dolente dichiarazione

d’amore per gli anni Sessanta e

la loro inevitabile fine. Paul Thomas Anderson

riesce a interpretare magistralmente

la materia oscura pynchoniana

trasponendola quasi letteralmente, trasformando

le immagini mentali di ogni

lettore in pura realtà, facendoci toccare

con mano il sogno e i colori ormai sbiaditi

di un’epoca durata troppo poco, ma

anche immergendoci nell’altro sogno di

Doc, quell’amore fugace fatto di partenze

senza arrivi e arrivi senza partenze. Doc

insegue l’amore, o quel barlume di felicità

passata che non gli appartiene più.

Quindi insegue Shasta per tutto il film, insegue

i loro ricordi, insegue quel giorno

di pioggia in cui tutto sembrava andare

bene. Ma Shasta dov’è? Durante la storia

appare tre volte agli occhi di Doc. Occhi

sognanti che la accettano a braccia aperte.

È un’allucinazione, oppure la incontra

davvero? La incontra solo all’inizio, sempre,

o mai? Queste domande non avranno

mai risposta, come non ne hanno i

grandi quesiti della vita. I due s’incontrano

sempre da soli, in casa o in macchina,

per questo tutto assume i toni del sogno,

perché lì ci sono solo loro, due anime figlie

del proprio tempo, che si isolano dal

resto del mondo, perché tutto sta cambiando

e il valzer degli addii è cominciato.

Doc è un uomo libero, un uomo libero

di sognare il proprio sogno.

VIZIO DI FORMA

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