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Ricordi Canciani 1950-1978 - associazione pionieri e veterani eni

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Arnaldo <strong>Canciani</strong><br />

Memorie e ricordi dal <strong>1950</strong> al <strong>1978</strong><br />

Parte Seconda<br />

Arnaldo <strong>Canciani</strong> in Libia, 1° prova di strato positiva al pozzo R1<br />

Cementatrice Halliburton con due pompe T10 utilizzata dalla Halliburton in Italia nel 1959-60<br />

Pag.0


Premessa<br />

Questa seconda parte delle mie memorie inizia dalla data della mia riassunzione all’Agip di<br />

Crema, nel Dicembre <strong>1950</strong>.<br />

I dipendenti italiani dell’AIPA, controllata dall’Agip, che operavano nel cantiere di Devoli<br />

in Albania, quando rimpatriarono sprovvisti di mezzi di sostentamento, furono costretti ad<br />

accettare un’indennità d’anzianità irrisoria ed il conseguente licenziamento.<br />

L’azienda non riconosceva alcun diritto oltre l’anno 1944, quando, dopo l’Armistizio, la<br />

gestione del Campo di Devoli era passata ad una Società austriaca, e declinava ogni<br />

responsabilità per quanto accaduto in seguito a causa degli eventi bellici. In pratica tutto il<br />

periodo trascorso in regime di lavoro coatto in Albania fino al giorno del rimpatrio, non<br />

v<strong>eni</strong>va considerato a nessun effetto, con una sola eccezione, i contributi previdenziali furono<br />

pagati per tutto il 1945.<br />

Il comportamento delle autorità militari fu ancora più ottuso. Non vollero riconoscerci lo<br />

status di militarizzati, adducendo il pretesto che l’AIPA, controllata dall’Agip, in Albania<br />

era da considerarsi un’azienda privata, non statale.<br />

Con la prospettiva, secondo la loro interpretazione della legge, che avremmo anche dovuto<br />

completare il servizio di leva, interrotto per le necessità contingenti dell’azienda AIPA.<br />

Tutto questo poteva considerarsi un capitolo chiuso, se le conseguenze negative non<br />

avessero inciso anche sulle assunzioni ex novo. L’esperienza acquisita negli anni, e in<br />

rapporto a questa, i livelli di categoria raggiunti, non v<strong>eni</strong>vano riconosciuti. Gli ex AIPA<br />

assunti dall’Agip iniziavano da zero, con la qualifica di operai comuni, indipendentemente<br />

dal loro livello di professionalità ed esperienza acquisiti con l’AIPA in Albania, mentre Il<br />

personale con un rapporto di lavoro ininterrotto con l’AGIP in patria, v<strong>eni</strong>va inquadrato, in<br />

base all’anzianità ed esperienza, nelle posizioni dovute.<br />

Da un punto di vista psicologico e pratico, queste discriminazioni avevano contribuito a<br />

creare un’atmosfera di sfiducia, da parte degli ex dipendenti AIPA, nei riguardi<br />

dell’azienda e nell’ ambiente di lavoro.<br />

La trafila burocratica che regolava le nuove assunzioni all’Agip passava, quasi sempre, dalle<br />

indagini dei carabinieri alle raccomandazioni dei parroci, vescovi e politici. L’azienda<br />

operava in vari modi per rompere il monopolio della GGIL, unico sindacato esistente, che<br />

seguiva le direttive del partito comunista. Nacque in quel periodo la CISL, sindacato<br />

d’ispirazione democristiana, al quale aderirono la maggioranza delle nuove reclute.<br />

In seguito nacque anche una terza corrente sindacale laica, la UIL, che si collocava in una<br />

posizione intermedia rispetto agli altri due sindacati. Io aderii a questo sindacato, perché ne<br />

condividevo in parte le scelte politiche. A mio giudizio, era il più fedele ai principi di<br />

partecipazione degli iscritti.<br />

La convivenza non era certo delle migliori; i comunisti della CGIL, in maggioranza<br />

Emiliani, esercitavano pesanti condizionamenti nei confronti degli altri, ed in modo<br />

particolare su coloro che non condividevano il loro fanatismo politico. Questo<br />

comportamento era forse accentuato dal timore di perdere le posizioni di privilegio<br />

raggiunte nel periodo della guerra di liberazione.<br />

Pag.1


Nel Settore di Crema eravamo in tre prov<strong>eni</strong>enti dall’Albania: ultimo arrivato Ervino<br />

Angeli, motorista. Spesso, parlando tra noi, ci chiedevamo se eravamo caduti dalla padella<br />

nelle braci. Pensai molte volte di cercare un altro posto di lavoro, ma i milioni di<br />

disoccupati, che allora bussavano a tutte le porte, mi dissuasero.<br />

La mia indole ribelle, memore di tante recenti sofferenze, non si rassegnava ad ulteriori<br />

umiliazioni, ed in mancanza di alternative non avevo altra scelta che accettare la sfida.<br />

Da allora la mia vita fu un susseguirsi di battaglie, molte perse, ma rimango convinto<br />

d’averle combattute apertamente e lealmente per un ideale di giustizia e libertà, anche se<br />

non mi lasciava soverchie illusioni la constatazione che il mondo, dai tempi di Dante<br />

Alighieri, non era cambiato molto:<br />

“Tu lascerai ogni cosa diletta, più cara alla mente; e questo o quello strale che l’arco de lo<br />

esilio pria saetta. Tu proverai si come sa di sale il pane altrui, e come è duro calle lo<br />

scendere e il salir per l’altrui scale.”<br />

Questa era la situazione che si era venuta a creare ovunque in Italia nel dopoguerra, più<br />

accentuata nelle aziende statali o parastatali come l’Agip, condizionata dalle pressioni e<br />

ingerenze dei vari partiti che si alternavano al potere. Le direttive emanate da questi,<br />

dovevano essere seguite dagli Amministratori e dirigenti degli enti del parastato, che,<br />

quando nominati da partiti o correnti di essi, dovevano adeguarsi alle loro indicazioni.<br />

I criteri di valutazione nella selezione del personale, talvolta non davano il giusto peso alle<br />

conoscenze, competenze, capacità e alle esperienze professionali che avrebbero dovuto<br />

essere possedute non solo da parte degli operai e impiegati, ma anche da parte di coloro che<br />

v<strong>eni</strong>vano chiamati alla Direzione di queste aziende.<br />

Mattei si era trovato al posto giusto nel momento opportuno, quando il paese aveva<br />

necessità di nuove fonti energetiche per risorgere dalle macerie della guerra. Uno dei suoi<br />

grandi meriti fu quello di capire i problemi del Paese e fare propri i consigli di tanti tecnici<br />

esperti. Il sostegno politico, dovuto al suo passato di partigiano, gli dava la sicurezza, il<br />

coraggio e la spregiudicatezza nell’aggirare la burocrazia ed assumersi rischi e<br />

responsabilità.<br />

Mattei sapeva ottenere l’appoggio di grandi personaggi politici italiani, sapeva gestire e<br />

motivare, anche con l’esempio, i suoi collaboratori, e prendere decisioni, anche impopolari,<br />

che gli consentirono di costruire una grande realtà industriale come l’Eni (Ente Nazionale<br />

Idrocarburi).<br />

L’Agip Mineraria è stata la prima azienda del Gruppo Eni, alla quale io ho dedicato una<br />

parte della mia vita di onesto lavoro, con molti sacrifici e con poche “pacche sulle spalle”.<br />

Sono grato a questa azienda, per avermi assicurato un lavoro sicuro, interessante e con<br />

alcuni risultati gratificanti, accompagnati da frequenti disagi, ma che mi ha comunque<br />

consentito di assicurare alla mia famiglia un discreto tenore di vita.<br />

Pag.2


1 - Il Settore di Crema<br />

Nei primi mesi del 1951, furono ultimate le baracche dormitorio, con camere da quattro<br />

letti, per gli operai, singole per gli impiegati. La mensa, gestita da personale aziendale, per<br />

gli scapoli o per chi non avesse la possibilità di trascorrere in famiglia il fine settimana,<br />

dava la possibilità di consumare i pasti anche la sera.<br />

Alcuni si erano sistemati con le famiglie in città, tra questi anche Angeli con la moglie<br />

albanese, e Qurzel, con tre figli e la consorte che era di nazionalità greca.<br />

1951 <strong>Canciani</strong> a Crema 1951 Crema Porta Umbriano<br />

L’orario settimanale di lavoro era di 48 ore, un’ora al giorno in più di recupero dal lunedì al<br />

venerdì per avere libero il sabato pomeriggio, che io dedicavo al bucato ed alla pulizia<br />

personale. Inoltre mi consentiva di recuperare in parte le ore di sonno, perse durante la<br />

settimana a causa dei “concerti notturni” di Bernardelli e del fischio di accompagnamento di<br />

Maserati. Tenevo di fianco al letto una lunga asta di legno, con la quale li punzecchiavo per<br />

farli smettere di russare.<br />

Questo piccolo centro logistico aveva il vantaggio d’essere attiguo ai capannoni del<br />

cantiere, ma la vita all’interno non era molto diversa da quella dei militari in caserma.<br />

Questa era l’organizzazione tipica dei vari cantieri dell’Agip, sparsi in tutta Italia: Guardie<br />

giurate, tutte ex-carabinieri, sotto il comando del Generale Palumbo, controllavano i cantieri<br />

In officina le macchine utensili erano poche, il minimo indispensabile: tre torni, una<br />

limatrice, alcuni trapani ed una sega meccanica, ed era divisa in due reparti, aggiustatori,<br />

tornitori, fabbri, saldatori. Una ventina di operai, divisi nei vari mestieri di competenza.<br />

L’esperienza che io avevo fatto in Albania, sulla fresatrice e come aggiustatore da banco,<br />

doveva necessariamente essere ampliata con altre esperienze di carpenteria e saldatura,<br />

richieste dal reparto aggiustaggio dove lavoravo. In pratica, dovevo migliorare le mie<br />

capacità per fare fronte alle nuove esigenze di lavoro. Questo significava ricominciare un<br />

nuovo apprendistato, e ciò non fu sempre facile, considerando poi che i due capi officina,<br />

Piva e Balordi, non avevano scritto nel loro vocabolario la parola “comprensione”. I primi<br />

anni furono molto difficili. Ci vollero cinque anni per avere due passaggi di categoria e<br />

Pag.3


arrivare alla qualifica di operaio specializzato. Meta, già raggiunta in Albania nel 1945,<br />

dieci anni prima!<br />

All’epoca, Crema era una piccola e graziosa cittadina, circondata da sei città più grandi<br />

quasi equidistanti. Numerose le industrie, che assicuravano lavoro per tutti, quindi nessuno<br />

emigrava, salvo pochissimi pendolari che si recavano nella vicina Milano. Il costo della vita<br />

era più caro a Crema rispetto alle città limitrofe, per cui l’indennità di contingenza era più<br />

alta di duecento lire.<br />

L’agricoltura era divisa in grandi proprietà, in genere cascine con numerosi bovini<br />

d’allevamento. La durata del rapporto di lavoro per i contadini era limitata ad un anno,<br />

rinnovabile, mentre la piccola proprietà era poco diffusa, assente o quasi la mezzadria.<br />

Nel <strong>1950</strong> era iniziata a Ripalta, paesino distante 4 km. da Crema, la trivellazione di alcuni<br />

pozzi esplorativi per individuare nuovi giacimenti; il personale addetto ai servizi fu<br />

trasferito al Settore di Crema per completare l’organico. Il nuovo capannone fu diviso in<br />

vari reparti: autorimessa per i mezzi aziendali, due magazzini, uno adibito a deposito per<br />

cemento, barite e bentonite, l’altro, su apposite scaffalature, conteneva tutte le parti di<br />

ricambio ed attrezzi per la perforazione ed infine l’officina. La portineria e centralino si<br />

affacciavano sulla trafficata strada provinciale Paullese.<br />

L’incendio del pozzo Bordolano con la squadra spegnimento pozzi di Mc Kinley.<br />

Nel grande piazzale interno, cataste di tubi di vari diametri separavano il capannone<br />

principale dalle altre costruzioni in legno, due adibite ad uffici, mentre nella terza abitava il<br />

Capo Settore Mazzini Garibaldi Pissard. Gli uffici furono trasferiti nel 1952 nella nuova<br />

palazzina costruita a fianco della portineria. Una recinzione divideva il cantiere dai<br />

dormitori, mensa, servizi ecc..<br />

Durante la settimana, stanco del lavoro giornaliero, alla sera non uscivo molto di frequente<br />

Pag.4


Solo il sabato sera andavamo in uno dei tre cinema, se davano qualche film interessante,<br />

oppure facevamo una passeggiata in via Mazzini con tappa obbligata al bar Novecento,<br />

dove tra le assidue frequentatrici si sperava di fare qualche amicizia femminile<br />

Nei primi anni ’50, all’AGIP di Crema il clima non era sempre sereno. In particolare ricordo<br />

che quando v<strong>eni</strong>vano organizzati degli scioperi, per rivendicare migliorie contrattuali, la<br />

percentuale dei crumiri era sempre alta, in particolare nella categoria impiegatizia.<br />

Frequenti erano i casi d’emergenza ai pozzi in perforazione. Quando si verificavano, il<br />

sabato o la dom<strong>eni</strong>ca, la maggioranza del personale sposato, se non era in servizio, era a<br />

casa. Così le guardie giurate chiamavano quelli che abitavano nelle baracche dormitorio, di<br />

notte e nei giorni festivi e di riposo, per caricare sui camion, in fretta e furia, centinaia di<br />

quintali di barite, bentonite e altri prodotti in sacchetti da cinquanta Kg. Gli ex carabinieri<br />

ed autisti assistevano senza dare alcun aiuto. Era un lavoro talmente pesante e stressante che<br />

alle volte, per evitarlo, mi nascondevo sotto il letto. Un rifiuto senza validi motivi poteva<br />

essere interpretato male, con riflessi negativi sul voto nella pagella che annualmente la<br />

direzione ci inviava, con conseguenze anche sui tempi d’attesa nei passaggi di categoria.<br />

Questi comportamenti, con l’aggiunta di improvvisi trasferimenti in altri cantieri, erano la<br />

spada di Damocle che pendeva sul nostro capo. L’Azienda aveva la possibilità di trasferire<br />

d’ufficio il personale in altre sue sedi del centro o meridione d’Italia.<br />

Questi sistemi coercitivi, nulla al confronto di quelli sperimentati in Albania, contribuivano<br />

a renderci remissivi, anche se per me, non era facile accettarli supinamente. In occasione di<br />

uno sciopero, proclamato dai sindacati per adeguare l’indennità di contingenza al costo della<br />

vita, io solo aderii uscendo dal cantiere.<br />

Nel gennaio del 1958, nei vari cantieri dell’Agip, furono indette le elezioni per il rinnovo<br />

annuale dei membri delle Commissioni Interne Sindacali. Allora non aderivo a nessun<br />

sindacato, ma fui eletto come membro indipendente. Il compito di questi organismi era<br />

quello di interv<strong>eni</strong>re in difesa dei lavoratori in eventuali controversie con la Direzione<br />

aziendale: essendo l’AGIP un ente a partecipazione statale, non esisteva un vero padrone.<br />

Non era un compito facile, soprattutto per me che non ero incline a facili compromessi.<br />

Potrei citare diversi episodi, ma mi limito ad uno solo che rispecchia bene l’ambiente di<br />

lavoro<br />

In occasione dell’inaugurazione da parte di Gronchi, Presidente della Repubblica,<br />

dell’Autostrada del Sole a San Donato Milanese, il Capo Settore di Crema emise una<br />

circolare con la quale si avvertiva tutto il personale di presentarsi alle ore quindici del<br />

sabato pomeriggio, in tuta ed elmetto, per andare a rendere omaggio al Capo dello Stato.<br />

All’epoca si lavorava un’ora al giorno in più durante la settimana, da recuperare il sabato,<br />

per avere libero il pomeriggio per raggiungere le famiglie. Mi recai subito negli uffici<br />

competenti a presentare le rimostranze, a nome di tutto il personale, e li avvertii che a mio<br />

avviso si erano dimenticati di aggiungere il “fez” in uso nelle adunate di recente memoria.<br />

All’adunata io non mi presentai e con me fu solidale un solo compagno di lavoro<br />

(Bernardelli)<br />

Tre giorni dopo mi arrivò una lettera dove mi si chiedeva di discolparmi per il mio<br />

comportamento.<br />

Pag.5


A dirigere il sindacato provinciale CISL di allora c’era Maroli, giovane democristiano molto<br />

impegnato, con il quale avevo un rapporto d’amicizia. Mi rivolsi a lui per risolvere il<br />

problema; chiese un colloquio al capo settore Mazzini Garibaldi Pissard e quando Maroli si<br />

presentò nel suo ufficio gli fu rivolta subito una domanda: “Da lei è venuto <strong>Canciani</strong>?”<br />

Il colloquio ebbe un risultato positivo, fu raggiunto un compromesso; l’azienda s’impegnava<br />

a non prendere alcun provvedimento disciplinare nei nostri confronti, ma noi dovevamo<br />

rispondere alla lettera adducendo un pretesto plausibile qualsiasi. Per quanto mi concerne si<br />

creò un precedente che in qualche modo influì sugli avv<strong>eni</strong>menti successivi.<br />

Nel periodo nel quale ricoprivo la carica di Rappresentante Sindacale,ci furono alcuni<br />

episodi belli che ritengo sia giusto ricordare. Il primo, quando fui mandato a Firenze in<br />

rappresentanza degli operai, alla consegna del primo impianto di perforazione Rotary “<br />

Ideco Super 7/11”, costruito dalla Pignone per l’ENI, che avrebbe consentito, nelle ricerche<br />

petrolifere, di aggiungere grandi profondità. Nella grande sala di Palazzo Vecchio ebbe<br />

luogo la cerimonia; Mattei fu il primo a parlare e poi passò la parola al sindaco di Firenze<br />

La Pira. I fiorentini dovrebbero essere grati a questo uomo politico, di grande statura<br />

morale, per quanto è riuscito a fare per la sua città. A conclusione dell’avv<strong>eni</strong>mento, ci fu<br />

un rinfresco all’Hotel Excelsior sul Lungarno, presenti molti dirigenti e rappresentanti della<br />

politica. All’epoca l’azienda metalmeccanica Pignone attraversava un periodo di crisi; le<br />

commesse di lavoro affidatele dall’Eni contribuirono al suo risanamento.<br />

Una seconda occasione si presentò quando, in occasione dell’arrivo di un giro d’Italia, mi<br />

recai a San Remo per l’inaugurazione dell’Autostrada dei Fiori, con tanta folla nella sala<br />

principale del casinò, presenti Enrico Mattei, Bartali ed altri rappresentanti di varie<br />

categorie e delle aziende del Gruppo Eni.<br />

2 - Il Cane a sei zampe<br />

Il Cane a sei zampe era diventato la bandiera dell’Agip, dell’Eni e anche la nostra: tutti ci<br />

identificavamo e riconoscevamo in lui. Un simbolo che per noi è sempre stato un grande<br />

motivo di orgoglio, un riferimento in Italia e all’estero. Al di là dei rapporti di lavoro con<br />

l’azienda e con i colleghi, il Cane ci faceva sentire di appartenere a un Grande Gruppo e di<br />

partecipare alla ricostruzione e allo sviluppo del nostro Paese.<br />

In occasione del Carnevale 1952, una copia del Cane a sei zampe, costruita in lamiera<br />

nell’officina di Crema dall’operaio Bruno Fontana, sfilò in testa ai carri allegorici, nelle vie<br />

della città di Crema, nella prima festa di Carnevale del dopoguerra, accompagnato dalla<br />

canzone “Il walzer del Metano”.<br />

parole di Adelio Bernardi, musica di Pasquini. La sfilata ebbe molto successo per merito<br />

del carro dell’Agip, ma il merito fu attribuito quasi interamente al Capo Settore.<br />

.<br />

Pag.6


3 - Ristrutturazione Agip e conseguenze sulla mia Famiglia<br />

Nel 1958 all’AGIP si stava preparando una ristrutturazione, e come sempre in questi casi a<br />

farne le spese furono le categorie meno abbienti: gli operai. La maggior parte del lavoro che<br />

si eseguiva nelle officine fu affidato a privati, i macchinari trasferiti in due soli complessi<br />

più grandi, Parma e Cortemaggiore. Il personale smistato in altri cantieri o aziende del<br />

gruppo. Molti furono coloro che per non lasciare la casa, ed evitare alla famiglia i disagi di<br />

un trasferimento, furono costretti a dare le dimissioni. Questi cambiamenti avrebbero<br />

condizionato anche il mio lavoro e la mia famiglia.<br />

Mi ero sposato il 24 Novembre 1955 con Rosetta, una ragazza di Crema, e il 4 di Febbraio<br />

del 1957 era nata la nostra prima figlia, battezzata “Laura”, il nome della nave che riportò<br />

in Italia dall’Albania la mia famiglia. La bambina si era gravemente ammalata di eczema<br />

nella primavera del 1957, quando aveva meno di 5 mesi, a seguito dell’epidemia di<br />

“Asiatica” che aveva colpito mia moglie durante il periodo di allattamento.<br />

Per tutto l’anno 1958, nonostante tutte le cure prodigate a Laura, non si riuscì a trovare un<br />

rimedio che potesse migliorare le sue condizioni di salute. L’eczema non le dava tregua: di<br />

notte, per evitare che si grattasse, le fasciavamo le braccia con due tavolette. Le cure<br />

continuarono per tutto l’anno con alterni risultati.<br />

1955 In viaggio di nozze a Venezia Gemona 1958 Rosetta e Laura<br />

. Per Natale mi arrivò un’amara sorpresa: la lettera di trasferimento all’Anic di Ravenna.<br />

Mi appellai all’accordo nazionale che vietava il trasferimento dei membri delle commissioni<br />

interne prima di sei mesi dal termine del loro mandato. Avrei potuto ripresentarmi, con la<br />

certezza di essere rieletto, ma avrei risolto il problema solo temporaneamente. Sposato da<br />

tre anni, con Laura in condizioni di salute cagionevole, non volevo andare allo sbaraglio ed<br />

esporre la famiglia ad inutili disagi.<br />

Come me, tanti altri erano nella stessa situazione. Qualcuno fu costretto a dare le<br />

dimissioni, senza avere in breve la certezza di trovare un altro lavoro.<br />

Pag.7


Vissi tutto l’anno 1959 nell’incertezza, tra l’incudine e il martello, speravo sempre in una<br />

soluzione alternativa. Alla fine del mese di Giugno scadevano i 6 mesi previsti dall’accordo<br />

sindacale, mi ero cullato nell’illusione che l’azienda avesse cambiato il programma, ma<br />

purtroppo si erano prefissati di ridurre, con metodi discutibili, una buona parte del<br />

personale, che secondo loro era da ritenersi in esubero. Fu così che arrivò anche a me la<br />

deprecata lettera di trasferimento, con tutte le conseguenze e moltissimi prevedibili disagi<br />

per la famiglia.<br />

Rassegnare le dimissioni sarebbe stato un atto da irresponsabile e così fui costretto a chinare<br />

la testa.<br />

Di simili riorganizzazioni e ristrutturazioni ne ho viste e subite parecchie. La prima che<br />

ricordo e ha cambiato il corso della mia vita è quella del 1959.<br />

Io non ho elementi per giudicare chi, perché, come sono state fatte le varie ristrutturazioni<br />

e se il fine può trovare una giustificazione alle sofferenze causate a centinaia di dipendenti,<br />

compreso il sottoscritto? Il dr. Eug<strong>eni</strong>o Cefis venne richiamato dalla Snam ai vertici<br />

dell’Eni come vice Presidente poi Presidente dopo la morte di Enrico Mattei dal 1967 al<br />

1971. Aveva notevole esperienza d’imprenditore acquisita nelle aziende di sua proprietà.<br />

L’obiettivo di risanare e ristrutturare le aziende del gruppo Eni è stato perseguito con una<br />

visione imprenditoriale da industriale privato.<br />

Non so se si sia reso conto quanti problemi creava a tante famiglie dei suoi dipendenti.<br />

Forse per lui era sufficiente sapere che l’azienda offriva a tutti un posto di lavoro in<br />

qualche sperduto paese d’Italia in altre società del gruppo ENI.<br />

Pag.8


4 - Trasferimento a Ravenna<br />

Rispetto alla comunicazione che avevo ricevuto sei mesi prima, c’era qualcosa di mutato<br />

nelle modalità di trasferimento. Mentre allora ero destinato allo stabilimento Petrolchimico<br />

dell’ ANIC di Ravenna, con un passaggio da considerarsi definitivo, ora la situazione<br />

sembrava meno chiara: v<strong>eni</strong>vo comandato alla Saipem, società di recente costituzione, a cui<br />

era affidata la manutenzione di tutti gli impianti dell’Anic e che applicava il contratto dei<br />

metalmeccanici, con salari inferiori a quelli dei “petrolieri”.<br />

Quindi non era cambiata la destinazione e neppure lo stipendio, che ritiravo tutti i mesi negli<br />

uffici del Settore Agip di Ravenna. Mi trovavo però in una posizione ambigua, che dava<br />

adito a qualche preoccupazione, ma lasciava anche intravedere uno spiraglio di luce.<br />

Il primo Luglio 1959 raggiunsi Ravenna, la mia nuova sede di lavoro. All’inizio presi<br />

alloggio in un albergo nei pressi della stazione; dopo alcuni giorni trovai una stanza in<br />

affitto vicino al Mausoleo di Teodorico, alla periferia della città, sulla strada parallela al<br />

canale navigabile che collega il porto al mare. Da qui mi era più comodo raggiungere in<br />

autobus il complesso del Petrolchimico, distante circa 4 km.<br />

L’Anic disponeva di una grande mensa per il suo personale, alla quale avevamo libero<br />

accesso.<br />

Alla sera, rientrando a casa, mi fermavo spesso al Distretto dell’Agip, dove avevo talvolta<br />

l’occasione di parlare con il capo del personale Adelio Bernardi, che avevo conosciuto a<br />

Crema.<br />

La mia domanda era sempre la stessa: se poteva intercedere presso la Direzione, pur<br />

sapendo che il mio problema esulava dalle sue competenze.<br />

Nell’officina del settore Agip lavorava anche un mio vecchio amico d’Albania, Antonio<br />

Spagnoletto. Abitava con la famiglia nel palazzo adiacente agli uffici; nei giorni festivi ci<br />

recavamo assieme, poiché Antonio conosceva bene la città di Ravenna, ricca d’arte e bella,<br />

a visitare chiese, monumenti, mosaici.<br />

Purtroppo l’ambiente di lavoro all’Anic si rivelò peggiore di quello di Crema. A comandare<br />

e distribuire il lavoro ai vari dipendenti c’era un geometra, Volpicelli, che mal digeriva il<br />

fatto che noi dipendenti dell’Agip, comandati alla Saipem, avessimo un trattamento<br />

economico superiore al loro. Da capo si trasformava in sbirro, esigendo più di quanto uno<br />

potesse dare, e non considerava certo i nostri disagi e il nostro conseguente stato d’animo.<br />

Più di questo mi preoccupava l’ambiente di lavoro inquinato da gas tossici e polvere; spesso<br />

dovevo ricorrere a brevi periodi di malattia per foruncolosi e disturbi alle vie respiratorie.<br />

Non mi era possibile recarmi di frequente a casa, i tempi erano ristretti. Partivo il sabato<br />

mattina in treno, arrivavo a Crema verso mezzogiorno per ripartire l’indomani al<br />

pomeriggio; poco più di ventiquattro ore da trascorrere in famiglia.<br />

A nulla erano valse varie domande di lavoro indirizzate ad alcune industrie del nord,<br />

corredate di curriculum e raccomandazioni da parte dell’Ing. Trisolio, ex dirigente<br />

dell’AIPA in Albania.<br />

Pag.9


5 - L’incontro con l’avv. Toniato della Direzione Personale dell’ Agip<br />

Non so in che misura possa incidere il destino nella vita di un uomo; ma io, più che<br />

assecondarlo, ho sempre cercato con tenacia e perseveranza, da buon Friulano, di<br />

modificarlo senza mai accettare supinamente la resa incondizionata. Non sempre la<br />

testardaggine è una brutta qualità.<br />

Così, quando in settembre si presentò l’occasione di trascorrere alcuni giorni in famiglia a<br />

causa di una breve malattia, decisi di recarmi a Milano all’ufficio della Direzione del<br />

Personale. Era quasi impossibile allora ottenere un colloquio con il primo dirigente dott.<br />

Cangiano, “quasi mio omonimo”, ma ebbi la grande fortuna di essere ricevuto dal suo vice,<br />

l’avvocato Toniato, veneto, ex ufficiale degli alpini. Aveva conosciuto molti Friulani nella<br />

Julia, che aveva come bacino di reclutamento il Friuli, la mia Patria d’origine. Forse questo<br />

contribuì a fargli prendere in considerazione le mie istanze. Non indugiò in false speranze e<br />

promesse, mi disse, con schiettezza, che la mia posizione di comandato alla Saipem era da<br />

ritenersi motivo di considerazione da parte dell’azienda e che, se si fosse presentata<br />

l’opportunità, avrebbe fatto il possibile per recuperarmi.<br />

Mi spiegò che l’attività dell’Agip in quel periodo si stava estendendo in vari paesi esteri e<br />

che avevano bisogno di personale esperto, disponibile a lavorare all’Estero.<br />

L’avvocato mi fece capire che avrebbe potuto aiutarmi, ma ad una sola condizione: che,<br />

dopo un breve periodo di addestramento presso una compagnia di servizi Americana, avrei<br />

dovuto accettare di prestare la mia opera all’estero.<br />

Al fine di contenere il Budget degli investimenti, l’Agip aveva acquistato dalla Halliburton<br />

unità e attrezzature, indispensabili per gestire ed eseguire, in proprio, le attività di<br />

cementazione nelle varie concessioni all’Estero, dove erano in corso o in programma pozzi<br />

esplorativi. Mancando di tecnici esperti in questa attività, selezionava tra il proprio<br />

personale alcuni elementi idonei da addestrare presso una delle sedi Halliburton dislocate in<br />

Italia.<br />

Chiesi, e mi furono concessi, alcuni giorni di riflessione per consultarmi con la famiglia, ma<br />

alla fine toccava a me decidere in merito. La proposta, al momento, mi aveva lasciato<br />

perplesso e titubante. Memore delle esperienze negative d’Albania, non mi sorrideva molto<br />

l’idea di espatriare, ma soprattutto mi assillava il pensiero di dovere vivere per lunghi<br />

periodi lontano dalla famiglia.<br />

Il percorso della mia vita mi aveva portato ad un nuovo bivio, il destino non mi offriva altre<br />

possibilità di scelta. Non ero riuscito a trovare un lavoro alternativo, la situazione in cui mi<br />

trovavo a Ravenna era precaria, e non potevo prendere in esame la possibilità di trasferire in<br />

quella città la mia famiglia. Licenziarmi significava imboccare un tunnel del quale non si<br />

intravedeva un via d’uscita; mi aggrappai all’unica ancora di salvezza che mi era stata<br />

offerta in quel momento e accettai, con tanta speranza, ma anche con amarezza.<br />

6 - Piacenza: corso per diventare Operatore “ Halliburton”<br />

Il primo ottobre 1959 iniziai il corso di operatore Halliburton presso la loro sede principale<br />

di Piacenza. La Halliburton è una grande Compagnia Statunitense di scala mondiale, che<br />

offre servizi all’Esplorazione e Produzione di Idrocarburi, che per prima aveva studiato e<br />

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costruito attrezzature per particolari interventi nel campo della trivellazione di pozzi<br />

petroliferi.<br />

All’epoca deteneva il monopolio delle operazioni di cementazione dei pozzi e utilizzava<br />

personale di varie nazionalità. I dirigenti e supervisori erano prevalentemente Americani,<br />

con una grande esperienza acquisita nei giacimenti petroliferi degli Stati Uniti.<br />

A comandare le tre sedi Halliburton in Italia, c’era Mister Vincent, “toro seduto”, residente<br />

a Piacenza, responsabile anche delle sedi di Ravenna e di Chieti. Mi presentai a lui, che da<br />

buon “indiano”, più con i gesti che con le parole, mi fece capire che per imparare dovevo<br />

seguire e assistere nel lavoro i suoi tecnici quando v<strong>eni</strong>vano chiamati nei vari cantieri, dove<br />

erano in corso trivellazioni.<br />

Quando iniziai questa nuova esperienza, pensavo che ci fosse un istruttore a seguirci, ma fui<br />

presto costretto a ricredermi: tutto era lasciato alla nostra iniziativa, alla volontà ed alla<br />

capacità di apprendere. Pur avendo vissuto, fin da piccolo, nell’ ambiente petrolifero, avevo<br />

solo esperienza di meccanica in generale. Nulla sapevo su questo tipo di operazioni, né<br />

sull’uso specifico delle varie attrezzature impiegate nelle varie fasi della trivellazione di<br />

pozzi petroliferi.<br />

Devo anche aggiungere che, all’inizio, trovai molta reticenza alle tante mie domande: solo<br />

risposte vaghe da parte di tutto il personale Halliburton, probabilmente anche con il tacito<br />

consenso dei dirigenti della società, che non avevano interesse a trasferire competenze ed<br />

esperienze a terzi, con il rischio di perdere commesse di lavoro da parte della committente<br />

Agip.<br />

Trascorse un paio di settimane, riuscii ad instaurare un rapporto cordiale con la maggior<br />

parte di loro e capire i loro problemi e comportamento. Il lavoro aveva qualche affinità con<br />

quello dei pompieri: in qualsiasi ora della giornata dovevano essere pronti a rispondere alla<br />

chiamata e raggiungere nel più breve tempo possibile il cantiere di perforazione dove era<br />

richiesta la loro opera. Non erano concesse pause od attese, Agip non poteva concedersi il<br />

lusso di tenere l’impianto di perforazione inoperoso, e così le notti in bianco non si<br />

contavano e d’inverno non c’era un tetto dove ripararsi. Chissà perché, certe operazioni si<br />

dovevano fare di sabato e dom<strong>eni</strong>ca, a Pasqua e a Natale. Capitava così anche ai geofisici<br />

Agip che dovevano eseguire le “misure di velocità”.<br />

La palazzina uffici si trovava al numero 152 della via Emilia, al piano terra, con una stanza<br />

adibita a dormitorio per il personale che rientrava tardi, o doveva partire alle ore piccole.<br />

A me conv<strong>eni</strong>va approfittare della loro ospitalità, dovendo adeguarmi al loro ritmo di lavoro<br />

ed ai loro orari. Impegni di lavoro permettendo, trascorrevo a casa in famiglia solo la<br />

dom<strong>eni</strong>ca, nonostante che la distanza non fosse eccessiva, solo 45 km.<br />

Quando eravamo chiamati a fare delle cementazioni, viaggiavamo sul camion attrezzato di<br />

tubi d’acciaio per collegarsi al pozzo, due pompe, una per miscelare il cemento a bassa<br />

pressione l’altra per pompare la malta nel pozzo, con pressioni che potevano arrivare anche<br />

a mille atmosfere, con un compressore che pompando l’aria nel silos spingeva il cemento<br />

nel grosso imbuto e da qui al miscelatore.<br />

La prima pompa era collegata al motore dell’automezzo, la seconda ad un grosso motore<br />

diesel. Complessivamente, il peso della cementatrice era di circa 30 tonnellate. Per altri<br />

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interventi, quali prove di strato, posa di vari attrezzi in pozzo, con foro scoperto o in<br />

colonna, v<strong>eni</strong>va usato un camioncino sul quale si caricava tutta l’attrezzatura occorrente.<br />

Arrivati a destinazione, stanchi del viaggio, iniziava il lavoro, giorno e notte senza soste,<br />

alle volte anche per due o tre giorni consecutivi, salvo imprevisti.<br />

L’uso di questi attrezzi richiedeva molta esperienza e conoscenza delle vari componenti da<br />

parte dell’operatore, considerando le notevoli difficoltà di manovra, che si dovevano<br />

effettuare dal piano sonda, con attrezzi collocati ad una profondità che poteva anche<br />

superare i quattromila metri.<br />

Un mestiere che avrebbe richiesto un lungo periodo di tirocinio, ma per me i tempi erano<br />

brevi: pur cercando con molta volontà di applicarmi ed apprendere, non mi è stato possibile<br />

approfondire tutti i particolari al livello desiderato. Tutte le pubblicazioni, cataloghi, disegni<br />

erano scritti in Inglese, lingua che io non conoscevo.<br />

Cosi trascorsero circa quattro mesi di continui spostamenti da un cantiere all’altro,<br />

attraversando alcune regioni dell’Italia Settentrionale, con brevi soste in vari paesi e città<br />

dove l’attività di esplorazione e ricerca, in quel periodo, era in pieno sviluppo, fino alle foci<br />

del Po’, dove si stava perforando un pozzo stratigrafico per individuare le cause dell’<br />

abbassamento naturale del terreno. Solo brevi soste per i pasti principali interrompevano<br />

questo ritmo frenetico di vita e di lavoro.<br />

Ricordo il ristorante Doro di Ferrara, dove di frequente ci fermavamo, e città come<br />

Mantova, Rovigo, Parma, Busseto, l’hinterland Milanese ed altre che sfilavano sotto il mio<br />

sguardo incuriosito mentre transitavo veloce a bordo della cementatrice. Mi è rimasto il<br />

rammarico, la nostalgia, per non averle potute visitare e conoscerle meglio.<br />

Volgeva al termine il breve periodo di addestramento, avevo cercato di applicarmi al<br />

massimo, ma mi rendevo conto che molte altre cose avrei dovuto imparare, il tempo era<br />

stato tiranno.<br />

Il 28 Febbraio 1960, il giorno fissato per la mia partenza, destinazione Marocco, ero passato<br />

alla direzione dell’Agip di San Donato Milanese per ritirare i biglietti per l’aereo. Mi<br />

dissero che la partenza era rimandata: nella notte c’era stato un forte terremoto e Agadir,<br />

la mia destinazione, era stata distrutta. Nell’attesa che la situazione migliorasse, ritornai a<br />

casa e ripresi temporaneamente il lavoro a Crema; questo mi consentì di trascorrere con la<br />

famiglia un breve periodo di circa quaranta giorni.<br />

1960 Un ala dell’albergo crollata 2005 Veduta di Agadir ricostruita dopo il terremoto<br />

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7 - In Marocco: Casablanca e Agadir<br />

Il 12 Aprile, con un’auto del servizio pubblico, mi recai all’aeroporto della Malpensa<br />

assieme a mia moglie, nostra figlia Laura e mia suocera. Avrei voluto salutarle a casa per<br />

evitare i momenti dolorosi del distacco, ma Rosetta aveva insistito tanto e io avevo<br />

acconsentito. Ci attendeva un lungo periodo di separazione. Il contratto sottoscritto<br />

prevedeva il ritorno dopo otto mesi per gli sposati e dopo un anno per gli scapoli .<br />

Prima di salire la scaletta d’imbarco, le vidi sulla terrazza inviarmi l’ultimo saluto con il<br />

fazzoletto. Sono trascorsi oltre quarant’anni e mi è difficile descrivere lo stato d’animo di<br />

allora, lascio alla riflessione di coloro che mi leggono, immaginarlo.<br />

Era la prima volta che viaggiavo in aereo, un quadrimotore trasformato e adibito al trasporto<br />

passeggeri. Non ero preparato agli scricchioli e vuoti d’ari; non avevo paura, ma un po’ di<br />

timore c’era. Un signore seduto a fianco che mi rassicurava. Ci volle poco più di un’ora per<br />

arrivare a Parigi e da qui, dopo un’attesa d’alcune ore, ripresi il volo con un altro aereo per<br />

arrivare a Casablanca alle 23. Per effetto della differenza di fuso orario si prolungava il<br />

tempo del crepuscolo e il ritardo nell’arrivo della notte. Non dimenticherò mai lo spettacolo<br />

che si presentò ai miei occhi, milioni di luci disegnavano la pianta della città.<br />

Il Dr. Luigi Crippa, già in Marocco da qualche mese, venne a prendermi all’aeroporto e mi<br />

accompagnò all’hotel Metropol. Da qui mi trasferii il 14 di Aprile, due giorni dopo, al<br />

Balmoral, più vicino al centro e comodo per recarsi in ufficio e in alcuni ristoranti, dove i<br />

proprietari erano Italiani e la cucina, pur con nomi francesi, non era molto diversa dalla<br />

nostra.<br />

Nella mattinata del giorno successivo mi presentai agli uffici dell’Agip al 17 di Rue Bullet:<br />

qui ritrovai Bernardi all’Ufficio Personale e l’ing. Cremaschi, che avevo conosciuto a<br />

Crema. L’ing. Pettorossi era il Responsabile della Filiale. Pensavo di v<strong>eni</strong>re trasferito subito<br />

alla Base Operativa di Tan Tan e da qui ad Oum Doul, distante oltre duecento km, verso la<br />

Mauritania, dove era già iniziata, alla fine gennaio, la perforazione di un pozzo con un<br />

impianto Ideco Super 7/11.<br />

La base logistica di Tan Tan La postazione del pozzo di Oum Doul<br />

I lavori procedevano a rilento a causa del terreno roccioso incontrato dallo scalpello e non<br />

erano previste operazioni che rendessero necessaria la mia presenza in deserto. Per questo,<br />

temporaneamente, mi fu richiesto di fermarmi a Casablanca per lavorare con il personale<br />

che stava montando in fiera un nuovo impianto di perforazione arrivato dall’Italia.<br />

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In seguito, questo impianto perforò un secondo pozzo sulla costa a Puerto Cansado, nella<br />

provincia di Tarfaia nel Sud del Marocco, ex possedimento Spagnolo confinante con il Rio<br />

de Oro.<br />

Per accelerare i tempi e rispettare la data fissata per l’inaugurazione della fiera, ci eravamo<br />

divisi in due gruppi di lavoro, uno dalle quattro alle dodici e l’altro nel pomeriggio, sotto il<br />

comando del Capo Sonda Orlandi, “sputafuoco”e Orazio Savina , Capo Perforatore.<br />

Questa circostanza mi permise di rimanere in città, a Casablanca, e mi consentì di<br />

ambientarmi un po’, visitare il centro, i giardini grandissimi con molte palme, il suk,<br />

mercato arabo, con l’artigianato locale.<br />

Montaggio super 7/11 alla Fiera di Casablanca 1960 Giardini pubblici di Casablanca<br />

La città era bella e moderna; durante il periodo coloniale i Francesi avevano fatto molto per<br />

il progresso del paese, ma quando il monarca, Mohamed V riuscì ad ottenere l’indipendenza<br />

negli anni 1958-60, la maggioranza dei francesi ritenne opportuno o dovette rimpatriare.<br />

Anche la Spagna fu costretta a cedere una parte delle sue colonie nel Sud del paese, ad<br />

eccezione di Ifni.<br />

Non ci fu un vero e proprio esodo, ma nella zona residenziale, molte ville erano rimaste<br />

vuote e si potevano avere in affitto a prezzi irrisori; diversi impiegati in contratto, che<br />

lavoravano negli uffici dell’Agip, approfittarono di questa situazione e si fecero raggiungere<br />

dalle famiglie.<br />

Erano trascorse due settimane dal mio arrivo, il 23/4/1960 la torre in Fiera si ergeva verso il<br />

cielo, stava per essere ultimato tutto il montaggio dell’impianto.<br />

La sera di martedì 26 aprile partivo per Agadir con il pullman di linea verso il Sud, dieci ore<br />

di viaggio, con una breve sosta intermedia, per coprire la distanza di 500 km. Alle 7 del<br />

mattino arrivai nella città fantasma, completamente distrutta dal terremoto. Quattordicimila i<br />

morti sepolti in fosse comuni o ancora sotto le macerie. Di giorno la temperatura arrivava<br />

sopra i 30 gradi, il fetore impregnava l’atmosfera e toglieva il respiro.<br />

Avevano perso la vita anche undici dipendenti dell’Agip e loro famigliari, e sarebbero stati<br />

molto più numerosi se il dr. Crippa, quella sera, non avesse convinto molti a cenare in un<br />

ristorante sulla spiaggia.<br />

8 - Il cantiere di Oum Doul<br />

Alle ore 8 ripresi il viaggio, era venuto a prendermi con una Jeep ad Agadir Franco<br />

Marzano, l’operatore Halliburton, che io dovevo sostituire. Arrivammo ad Oum Doul, dove<br />

era in corso la trivellazione del primo pozzo, alle 7 di sera. Undici ore di viaggio infernale<br />

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in un deserto dove non esisteva un sentiero, una pista tracciata, buche a non finire. I continui<br />

sobbalzi mi avevano causato un forte mal di stomaco, neppure un piccolo paesino dove<br />

potersi fermare a fare uno spuntino.<br />

Io non mi sentivo di mangiare qualche scatoletta di tonno ed un tozzo di pane che avevamo<br />

di scorta, speravo solo nel buon senso d’orientamento dell’autista marocchino e nella<br />

resistenza del mezzo che ci trasportava. Arrivai con gli occhi arrossati, coperto di polvere;<br />

feci una doccia, ma con l’acqua calcarea il sapone non serviva e i capelli erano rimasti<br />

diritti come spaghi.<br />

Così si concluse il primo di tanti altri viaggi che avrei dovuto affrontare in futuro in Nord<br />

Africa, con sorprese, rischi, incognite, imprevisti, avventure, pericoli ed anche paura, che<br />

non è un sentimento negativo, perché ci consente di attuare tutte le cautele ed i preparativi<br />

indispensabili per superare le asperità che la vita ci riserva, evitando grossi errori di<br />

valutazione. Ma è comunque necessario avere un carattere forte e molta volontà, non guasta<br />

anche un po’ di fortuna che dall’alto ci guidi.<br />

Tutta l’attrezzatura occorrente per svolgere il nostro lavoro era arrivata in cantiere da un<br />

paio di mesi. L’autista Fochi, di Piacenza, era stato incaricato di trasferire la cementatrice<br />

dal porto di Casablanca al cantiere di perforazione di Oum Doul, distante circa 1.000 km,<br />

metà dei quali in deserto su terreno accidentato. Se si considera che il peso del mezzo era di<br />

18 tonnellate, un bella impresa!.<br />

La cementatrice Halliburton a Oum Doul Gli Operatori cementazione Marzano e <strong>Canciani</strong><br />

Impiegai alcune settimane per me conoscere la cementatrice nelle sue varie componenti,<br />

imparare a guidarla ed utilizzarla al meglio in tutte le operazioni che si dovevano svolgere.<br />

Nel breve periodo di addestramento in Italia, non mi avevano dato la possibilità di usarlo e<br />

guidarlo, da notare poi che variava in alcune sue componenti rispetto alle unità usate in<br />

Italia. Il tempo stringeva e poteva presentarsi in qualsiasi momento la necessità di usarlo.<br />

La mattina del giorno successivo al mio arrivo, con Franco Marzano che mi istruiva,<br />

cominciai a mettere in moto i motori, controllare le pompe e fare circolare l’acqua dall’una<br />

all’altra vasca ognuna della capacità di 10 barili ( litri 159/ barile). Franco Marzano era un<br />

operatore Halliburton con diversi anni d’esperienza, aveva tutto sotto controllo, ma di una<br />

cosa si era lamentato con il capo sonda. Il silos che conteneva il cemento poteva presentare<br />

qualche problema, i tecnici di San Donato Milanese, che avevano curato l’acquisto, non<br />

conoscevano la differenza tra un silos per l’edilizia e quello per una unità di cementazione<br />

Halliburton.<br />

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Il 10 maggio ci fu la cementazione della colonna da 18 pollici. Come previsto, la continuità<br />

del flusso del cemento dal silos al miscelatore non era regolare e questo impedì di preparare<br />

una malta omogenea, dal peso specifico costante, da pompare nel pozzo. L’operazione non<br />

era quindi riuscita molto bene, la miscela di cemento non omogenea alle spalle del tubo<br />

aveva impedito in varie parti di bloccare la colonna alla parete del pozzo. Per impedire il<br />

ripetersi di questi errori, in seguito fu fatta qualche modifica, senza però ottenere buoni<br />

risultati.<br />

Abbandono ora la descrizione dei problemi tecnici e riprendo il racconto del mio<br />

inserimento in questa piccola comunità di uomini che, per necessità o scelte di vita, avevano<br />

accettato di lavorare in una zona desertica, dove per centinaia di Km si notavano solo<br />

cespugli, tracce di terriccio e tanta sabbia; unici abitanti serpenti, sciacalli, gazzelle e<br />

qualche volatile. Il cantiere di perforazione, con la sua torre, il campo con i servizi, era solo<br />

un punto nell’infinito del deserto. La piccola stazione radio era l’unico filo che collegava il<br />

cantiere al mondo civile, i rifornimenti arrivavano con automezzi dell’Azienda o privati.<br />

Saltuariamente un elicottero trasportava tecnici o dirigenti e ripartiva con il personale che<br />

aveva maturato il turno di riposo: in queste occasioni arrivava la posta e potevamo scrivere<br />

alle nostre famiglie.<br />

Monaldi e <strong>Canciani</strong> accanto alla cementatrice Savina, Orazio, Pizzamiglio e <strong>Canciani</strong> in mensa<br />

Il 16 maggio arrivarono in visita da San Donato Milanese tre dirigenti Agip, il dr.<br />

Fattorossi, il dr.. Iaboli e l’ing. Zammatti. Il giorno successivo, con lo stesso elicottero,<br />

rientrò in sede il dr. Crippa, e con lo stesso mezzo partì anche Franco Marzano, al quale<br />

diedi alcune lettere da imbucare in Italia. Queste varianti ed altri piccoli avv<strong>eni</strong>menti<br />

contribuivano a rompere un po’ il ritmo e la monotonia. Il 3 Giugno fui chiamato ed<br />

eseguire, come “Operatore Halliburton”, la mia prima prova di strato, il giorno 8 ne seguì<br />

un’altra, andò tutto bene! Avevo alle spalle una lunga esperienza di lavoro in officina, ma<br />

non essendo cresciuto nell’ambiente della perforazione, era importante, anche per me stesso,<br />

dare una dimostrazione di professionalità.<br />

Difficoltà impreviste avevano rallentato il procedere della trivella, l’avanzamento<br />

giornaliero si misurava in decimetri, tanto era dura la roccia incontrata. Il 17 giugno arrivò<br />

dall’Italia l’ing. Faverzani, che alla direzione di San Donato Milanese ricopriva la carica di<br />

Responsabile delle Operazioni Estere. In una riunione con i tecnici responsabili locali,<br />

venne concordato di adottare altri utensili e tecnologie di perforazione.<br />

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Il giorno 23 Giugno ci fu anche una visita di alcune ore del Presidente dell’Agip e dell’Eni<br />

Enrico Mattei. A mezzogiorno; in mensa, con tutto il personale in una lunga tavolata, era<br />

seduto quasi di fronte a me; nonostante i condizionatori faceva un caldo infernale, la<br />

temperatura esterna superava i 45°C. .Mi è rimasto impresso un particolare: Mattei aveva<br />

inzuppato di sudore il tovagliolo asciugandosi la fronte.<br />

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9 - La Base di Tan Tan<br />

Erano trascorsi oltre due mesi dal mio arrivo in deserto, approfittai di un periodo di relativa<br />

calma nel mio lavoro per chiedere un breve periodo di riposo. Il giorno 29 giugno, con un<br />

automezzo aziendale, mi recai a Tan Tan, tendopoli con poche case e una caserma<br />

presidiata da soldati marocchini. Nelle vicinanze, l’Agip aveva in allestimento un campo<br />

base per tutti i servizi occorrenti ai vari cantieri di perforazione, alle diverse squadre<br />

gravimetriche, ai gruppi sismici, alla quadra piste ed altre che operavano sul territorio.<br />

Dove era possibile, v<strong>eni</strong>vano create delle piste in terra battuta per consentire il decollo e<br />

l’atterraggio dei due aerei aziendali, un Piaggio con 12 posti, un Cessna per tre passeggeri, e<br />

due elicotteri per mantenere i collegamenti con i vari gruppi. I piloti ed il personale tecnico<br />

di questi aeromobili, prov<strong>eni</strong>vano dall’aeronautica militare.<br />

La distanza da Tan Tan a Casablanca era di circa 1.000 km; con il Cessna ci vollero cinque<br />

ore per arrivare a destinazione. Speravo di trascorrere tranquillo almeno una settimana in<br />

questa stupenda città; purtroppo mi fecero rientrare d’urgenza per motivi di lavoro, la sera<br />

del 3 Luglio ero di nuovo ad Oum Dou, neppure il tempo di smaltire la fatica del viaggio.<br />

Inoltre non ero in perfette condizioni di salute. Nelle due notti trascorse in albergo, erano<br />

ricominciate le crisi d’asma che avevo già avuto molto frequenti in Italia negli anni 1958 -<br />

59; mi ripresi presto con il clima secco del deserto.<br />

Il viaggio di ritorno al campo lo feci con Bonatti, un tecnico esperto di turbine di<br />

perforazione, che doveva istruirmi sull’uso di questa tecnologia. Lo consideravo un<br />

supplemento di lavoro pesante ed impegnativo, anche se interessante e utile; nei contratti<br />

stipulati dal personale dell’Agip, quando ci si recava all’estero in cantiere, v<strong>eni</strong>va<br />

evidenziata solo la qualifica di specializzato, intermedio, impiegato, ecc.. senza nessun<br />

riferimento al tipo di lavoro; questo dava la possibilità all’Azienda di utilizzare il<br />

dipendente anche in lavori diversi da quelli che erano le sue mansioni specifiche.<br />

Io, in particolare, ero frequentemente soggetto a questo tipo di richieste, perché il mio<br />

lavoro di Operatore Halliburton non era continuativo: quando non ero impegnato nel mio<br />

lavoro ero a disposizione. In cantiere non era possibile poter stare senza fare niente e poi il<br />

lavoro rendeva più brevi le giornate.<br />

La perforazione a turbina era una tecnica di recente applicazione, si differenziava da quella<br />

“rotary” tradizionale e, di solito ed in certe condizioni, permetteva maggiori velocità di<br />

avanzamento della trivella. Era il fango di perforazione, pompato ad alta pressione in<br />

superficie entro le aste, che faceva ruotare lo scalpello fissato all’estremità della turbina, in<br />

testa alla batteria di perforazione, che rimaneva ferma, mentre con il sistema “rotary” tutta<br />

la colonna di aste e lo scalpello ruotavano.<br />

Con il sistema tradizionale “rotary” il movimento di rotazione allo scalpello viene trasmesso<br />

dalla colonna di aste, alla quale è saldamente avvitato, tramite la tavola “rotary”, che si<br />

trova sul piano sonda. Il fango pompato in superficie serve per lubrificare lo scalpello,<br />

contrastare le pressioni presenti nel foro, sostenerne le pareti e trasportare a giorno i detriti<br />

di perforazione, come con la turbina.<br />

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In teoria, la turbina sembrava dovesse dare ottimi risultati ed ottenere avanzamenti<br />

apprezzabili, ma nel pozzo di Oum Doul, dopo due tentativi, forse a causa del ridotto<br />

spessore e dell’elevata durezza dei differenti strati di roccia attraversati dallo scalpello, ci<br />

“ritrovammo in un paio di pantaloni” ovvero con due fori. Dopo questa deludente<br />

esperienza, il metodo fu temporaneamente abbandonato. Sotto il sole cocente procedemmo<br />

alla revisione, pulizia e manutenzione di questo attrezzo, che assemblato pesava diversi<br />

quintali. Il 15 Luglio Bonatti si recò a Casablanca e dopo alcuni giorni rientrò in Italia.<br />

Finalmente venne anche per me il giorno di godermi un breve periodo di meritato riposo:<br />

erano trascorsi tre mesi di lavoro in deserto e il giorno 20 Luglio partii, alle 4 del mattino,<br />

per Tan Tan, dove alle 14 , presi l’aereo “Piaggio” che alle 16.30 atterrò all’aeroporto di<br />

Casablanca.<br />

Da quando ero arrivato in Marocco non avevo più tagliato i capelli, per cui mi recai subito<br />

da un barbiere, i capelloni allora non erano di moda. Poi di corsa al Washington, hotel che<br />

offriva qualche conforto in più rispetto al Balmoral ed era più pulito. Una doccia, il tempo<br />

di togliermi gli abiti da deserto e rendermi presentabile e poi appuntamento al ristorante<br />

“Marcel Shardan”, nome del famoso pugile marocchino deceduto in un incidente aereo. Era<br />

frequentato dalla maggior parte del personale dell’Agip, la cucina era buona, il padrone un<br />

Bolognese.<br />

Dopo cena, per concludere la serata ci recammo in compagnia in un locale notturno il “Don<br />

Chisciotte”. La vita notturna della città era intensa, ma non scevra di qualche pericolo, le<br />

“entreneuses” erano pronte a spennare i polli. Io mi ero lasciato convincere dagli amici che<br />

conoscevano la città e li avevo seguiti, un po’ per curiosità ed anche perchè sentivo la<br />

necessità di distrarmi, il ricordo della famiglia e la nostalgia e mi assillavano. Alcuni<br />

numeri di varietà, qualche ballo, un’orchestrina che suonava molto bene, anche brani a<br />

richiesta, non ricordo quante coppe di “champagne” ho bevuto. Alle 4 del mattino rientrai in<br />

albergo e quando mi svegliai al pomeriggio, controllando il portafoglio mi accorsi che<br />

avevo speso una cifra che avrebbe dovuto servirmi per vivere una settimana. Era stata una<br />

notte brava! Ma almeno una volta nella vita una simile esperienza un uomo la deve fare. Mi<br />

consolai, pensando che alcuni miei amici “scapoli” si erano fatti anticipare dall’azienda due<br />

mensilità di stipendio.<br />

Trascorsi gli otto giorni a scoprire e visitare i luoghi più belli della città. Dalle terrazze<br />

panoramiche dei due più grandi alberghi, si poteva ammirare il movimento del porto<br />

sottostante ed alcuni quartieri limitrofi. In uno dei due alberghi, il Mansur, al pomeriggio si<br />

poteva gustare il tè alla menta ed ascoltare un po’ di musica.<br />

Lungo la vicina costa frastagliata di scogli, molti i ristoranti di lusso e tutti con piscina, dato<br />

che la spiaggia era quasi inesistente. Tante cose belle, ma con la compagnia della solitudine<br />

non si riesce a goderle<br />

Una sera al ristorante incontrai un corregionale Elio Bertosso, da Spilimbergo, che m’invitò<br />

ad accompagnarlo in alcuni brevi viaggi che doveva fare per motivi di lavoro. La prima<br />

meta San Luigi, moderna cittadina costruita ed abitata quasi esclusivamente da Francesi che<br />

lavoravano nella vicina miniera di fosfati. Un’altra cittadina che mi è rimasta impressa nella<br />

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memoria, Marrakech, in prossimità della catena montagnosa dell’Atlas, dove d’inverno si<br />

può anche sciare. Una strada rettilinea di 250 km la collega a Casablanca.<br />

Erano passati veloci gli otto giorni trascorsi a Casablanca, alle ore 9 del 29 Luglio ero di<br />

nuovo su un aereo che mi riportava a Tan Tan, e da lì ripresi il viaggio con un automezzo<br />

aziendale per arrivare ad Oum Doul alle 9 di sera.<br />

Era ripresa così la mia vita di nomade con tante avventure, molti disagi, ma che, sotto molti<br />

aspetti, non mancava di un certo fascino, anche se vedere per giorni, notti e mesi sempre gli<br />

stessi visi ed avere continui rapporti con le stesse persone, con alcune delle quali il dialogo<br />

alle volte non era facile, non era molto consono al mio carattere impulsivo ed irrequieto.<br />

Alcuni amici mi dicevano, che non avrebbero mai accettato di vivere con questo ritmo.<br />

Inconsciamente sono sempre stato attratto dal rischio, dalla curiosità di conoscere cosa mi<br />

avrebbe riservato il domani.<br />

Oggi, l’età mi costringe a condurre una vita sedentaria e quando il mio pensiero, mentre<br />

scrivo questi ricordi, ripercorre con la memoria, paesi, deserti, viaggi, sento una grande<br />

nostalgia.<br />

10 - Vita di Cantiere<br />

Cercherò per quanto mi e possibile, di limitarmi agli avv<strong>eni</strong>menti che possano rendere più<br />

piacevole e scorrevole la narrativa senza scostarmi troppo dagli intenti che mi hanno portato<br />

a scrivere questo diario.<br />

Trascorsi il mese d’Agosto ad Oum Doul il caldo superava tutti i giorni i 45 gradi, dormivo<br />

in un container composto da quattro camerette a due letti; io dividevo la mia con il fanghista<br />

Lino. Corvi<br />

Il condizionatore rimaneva acceso giorno e notte, ma la temperatura non scendeva mai sotto<br />

i 35 gradi, si bevevano in media dai 10 ai 12 litri d’acqua al giorno, a pranzo e cena, sul<br />

tavolo le pastiglie di sale per reintegrare le perdite.<br />

L’aereo Cesna in Marocco L’aereo Piaggio in Marocco<br />

Per chi, come me, non era soggetto ai turni di lavoro, l’intervallo di mezzogiorno era di<br />

quattro ore salvo emergenze. Il turno peggiore per i perforatori era quello dalle dodici alle<br />

otto di sera, quando il calore naturale si sommava con quello dei motori e a tutte le<br />

componenti in ferro surriscaldato dell’impianto. Il dott. Crippa, che a causa del caldo<br />

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soffriva d’insonnia, ci svegliava spesso di notte verso le due per mangiare un piatto di pasta<br />

all’aglio e olio.<br />

Il DC3 che effettuava il trasporto del personale da Casablanca ai vari campi, aveva, salvo<br />

imprevisti, cadenza settimanale; nel breve tempo di sosta di due o tre ore, dovevamo<br />

rispondere alle lettere dalla famiglia e consegnare la risposta in tempo utile alla partenza<br />

dell’aereo.<br />

Il primo Settembre ricevetti l’ordine di trasferirmi con la cementatrice e tutta l’attrezzatura<br />

alla base logistica di Tan Tan. Chiusa la fiera di Casablanca, l’impianto era stato smontato e<br />

trasportato nella zona dove era stato ubicato il nuovo pozzo da perforare, “Puerto Cansado”.<br />

Rispetto alla Base di Tan Tan i due pozzi si trovavano in direzioni diverse, ma la distanza in<br />

km era quasi uguale; questo mi consentiva, partendo dalla base per eventuali interventi, di<br />

ridurre i tempi di viaggio.<br />

All’interno del campo base recintato, trovavano posto, sulla destra rispetto all’ingresso,<br />

varie costruzioni di legno con gli uffici, cucina, mensa e dormitori; di fronte, divisi da un<br />

grande spazio aperto, alcuni capannoni adibiti a magazzini, officina ecc. Sul retro un grande<br />

hangar dove trovavano riparo i due automezzi che servivano per i miei interventi, la<br />

cementatrice e il “leoncino”, che serviva al trasporto dell’attrezzatura per le prove di strato.<br />

Mi avevano assegnato un autista marocchino che mi faceva da guida quando v<strong>eni</strong>vamo<br />

chiamati ad interv<strong>eni</strong>re con la sola cementatrice, oppure guidava il “leoncino” se era<br />

necessario il trasporto di attrezzatura per altri interventi. Così nacque il centro interventi<br />

Halliburton dell’Agip in Marocco, realizzato, organizzato, e gestito da me. Con le mie<br />

mansioni di responsabile del reparto “Halliburton”, ero autorizzato a firmare buoni di<br />

richiesta per materiali vari, controllare le parti di ricambio in magazzino, richiederne di<br />

nuove direttamente in Italia o negli Stati Uniti.<br />

Questi aspetti amministrativi del mio lavoro erano nuovi per me. Ci volle un po’ di tempo,<br />

ma con la volontà e la costanza che mi hanno sempre caratterizzato, anche se in condizioni<br />

peculiari, sono riuscito ad organizzarmi al meglio.<br />

L’esperienza acquisita in officina mi fu molto utile per costruire alcuni attrezzi<br />

indispensabili allo smontaggio e al riassetto delle varie componenti dell’attrezzatura di<br />

cementazione, apportando anche modifiche al camioncino per il trasporto. In un vano, sul<br />

lato destro in basso della cementatrice, costruii e inserii un armadietto in ferro, che<br />

utilizzavo per avere sempre una scorta di viveri ed acqua, utile nei lunghi viaggi per fare<br />

fronte ad imprevisti. Al centro del cruscotto spiccava scritto a grossi caratteri, in nero sul<br />

rosso colore del camion, il nome di mia figlia “Laura”..<br />

Mi venne concesso un secondo periodo di riposo a metà Settembre; erano giorni considerati<br />

di recupero in loco perché si lavorava anche nei giorni festivi. Colsi l’occasione per fare da<br />

Casablanca una telefonata a Rosetta; anche se con molto ritardo, ricevevo sempre sue<br />

notizie, ma era la prima volta, dopo cinque mesi, che parlavo con lei al telefono. All’epoca<br />

non c’era una linea diretta e per riuscire ad avere la comunicazione bisognava passare<br />

attraverso un ponte radio. Purtroppo i cellulari satellitari non erano ancora stati inventati.<br />

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Era arrivato in questo periodo dall’Italia Monaldi, per fare un inventario nei vari magazzini.<br />

Avevamo vissuto entrambi il brutto periodo a Devoli in Albania, e mi aveva fatto piacere<br />

incontrarlo di nuovo.<br />

Con Monadi e Sibilia, impiegati addetti ai magazzini, partimmo dalla base il 5 Ottobre per<br />

Oum Doul, ma a pochi chilometri dal cantiere c’insabbiammo e fummo costretti a<br />

proseguire a pedi per alcuni km. Una settimana dopo rientravo a Tan Tan.<br />

Il 17 Ottobre alle 5 del mattino ero di nuovo in viaggio con la cementatrice, per Puerto<br />

Cansado (Porto Stanco), distante dalla base 240 Km. Arrivai alle 10 di sera. Dal tempo<br />

impiegato a percorrere questa distanza, 17 ore, si può intuire quali e quante fossero le<br />

difficoltà da superare.<br />

11 - La banda Gregoretti<br />

A circa metà strada, mi ero fermato un’ora per fare una sosta e per conoscere Gregoretti, un<br />

anziano triestino che comandava la “squadra piste”, uomo simpatico ed originale. Viveva<br />

per mesi, isolato in un piccolo campo composto da cinque tende, con un gippone da<br />

trasporto, dozzina di operai indig<strong>eni</strong> e un Italiano residente in Marocco..<br />

Tutte le mattine all’inizio della giornata lavorativa li voleva in fila per due davanti alla sua<br />

tenda, con “ Schaufeln (pale) e Picken (picconi)” in spalla e li arringava in tedesco; alla fine<br />

del discorso, si rivolgeva all’Italiano, che parlava il marocchino. “ Caruso : traduxi !”<br />

Questa singolare e interessante squadra o banda di “disperati”, nel deserto del Marocco ha<br />

costruito piste ed aperto valichi nei punti difficili, facendo miracoli per consentire il<br />

passaggio agli automezzi che dovevano assicurare servizi e rifornimenti ai vari cantieri.<br />

12 - Dal cantiere di Puerto Cansado a Tan Tan e a Oum Doul<br />

Per raggiungere il campo di Puerto Cansado bisognava superare una zona sabbiosa con<br />

molte dune.<br />

L’impianto in perforazione si trovava a circa 3 km dal campo, in prossimità della costa.<br />

Per raggiungerlo bisognava scendere da un costone superando un dislivello di circa 300<br />

metri, su una pista scavata nella roccia, con strette curve a gomito che per essere superarte<br />

richiedevano una manovra in retromarcia. Nella deprecabile eventualità di un guasto o di<br />

una manovra sbagliata, si rischiava di fare un volo nel precipizio.<br />

1960 Montaggio impianto a Puerto Cansado (Orlandi) Cena di Natale 1960 a Puerto Cansado<br />

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In fondo alla discesa, per un tratto di circa 2 km la pista continuava su un terreno molle<br />

simile ad una spugna, una “sebka” o palude secca di acqua marina; la pista era stata battuta<br />

e percorsa più volte da mezzi pesanti ma se si usciva dalla carreggiata tracciata si<br />

sprofondava. Nel cantiere in allestimento a Puerto Cansado era stato necessario adottare<br />

particolari accorgimenti di sicurezza onde evitare, durante la perforazione del pozzo,<br />

infiltrazioni di acqua marina nel foro. Un basamento di planche di legno, di circa mezzo<br />

metro di spessore, sosteneva l’impianto di perforazione, con la torre alta 32 metri.<br />

Il 22 Ottobre iniziò il tubaggio della colonna da 18 pollici, alle 3 del mattino avevo finito la<br />

cementazione. Mi avevano comunicato via radio che era arrivato dall’Italia Franco Marzano<br />

a darmi il cambio, era prossima la scadenza di otto mesi previsti dal contratto per poter<br />

usufruire di un periodo di ferie da trascorrere in patria con la famiglia. Approfittai<br />

dell’amico Franco Casalini che mi offrì un passaggio e rientrai alla base di Tan Tan con la<br />

sua gru. Partimmo il giorno dopo alle 15 ed arrivammo alla base a notte inoltrata. Il giorno<br />

successivo, 29 Ottobre, con un mezzo aziendale, “un gippone”, ero di nuovo in viaggio con<br />

Franco, diretti a Puerto Cansado.<br />

Nonostante ci fossero alcuni punti precisi di riferimento per non uscire dalla pista, verso<br />

sera ci accorgemmo che eravamo fuori strada, smarriti. Vagammo per oltre 2 ore in mezzo<br />

alle dune seguendo delle tracce di ruote, prima di accorgerci che stavamo seguendo<br />

l’esempio del cane che si morde la coda. Le tracce erano le nostre, giravamo sempre<br />

intorno alla stessa duna. Alla fine arrivammo a destinazione.<br />

Ripresa la perforazione del pozzo dopo il tubaggio della prima colonna, si verificarono<br />

subito dei problemi a causa delle infiltrazioni d’acqua che diluivano il fango, diminuendo il<br />

suo peso specifico e la conseguente caduta della pressione idrostatica in pozzo e aumento<br />

dell’invasione di acqua..<br />

Per eliminare queste perdite di peso specifico del fango fu necessario pompare nel pozzo<br />

110 quintali di cemento per sigillare il foro con un tappo. Tappo che, appena consolidato, fu<br />

perforato. Questa cementazione fu eseguita il mattino del 1° Novembre. Alle 2 del<br />

pomeriggio, Franco e io eravamo di nuovo in viaggio, arrivammo a Tan Tan alle 2 di notte e<br />

da qui, alle 10 del mattino riprendemmo il viaggio per Oum Doul. Nell’arco di tempo di una<br />

decina di giorni avevo percorso alla guida oltre 1.000 km. in deserto. Una media di 12 ore di<br />

guida per ogni viaggio, in aggiunta a tutte le ore lavorate in cantiere. Con queste ultime<br />

precisazioni, non so se sono riuscito a rendere l’idea di quanto fosse impegnativo e<br />

stressante il lavoro dell’operatore Halliburton.<br />

Il giorno 3 Novembre, con 270 quintali di cemento fu eseguita la cementazione della<br />

colonna da<br />

9 5/8” nel pozzo di Oum Doul. Concluso questo intervento, al pomeriggio del giorno<br />

successivo rientravo a Tan Tan.<br />

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13 - Primo periodo di ferie di contratto in Italia<br />

Il giorno 5 Novembre, con l’aereo Piaggio, partivo per Casablanca e da qui a mezzanotte<br />

riprendevo il viaggio per Parigi; quattro interminabili ore di attesa in aeroporto che trascorsi<br />

con Corvi e l’ing. Cremaschi. Alle dieci del mattino atterravo all’aeroporto di Milano<br />

Linate, mi feci portare da un taxi alla stazione dei pullman ed arrivai finalmente a casa verso<br />

le 13. Non mi era stato possibile avvertire Rosetta del mio arrivo - la mancanza di mezzi di<br />

telecomunicazione!<br />

Quella che per lei doveva essere una sorpresa, lo fu per me: non era a casa. La raggiunsi a<br />

Castelleone, dove si era recata per la cerimonia dei defunti, che qui si celebra la dom<strong>eni</strong>ca<br />

successiva al 2 Novembre.<br />

La incontrai con la bambina sul viale che porta al cimitero, la gioia di rivederle fu immensa,<br />

presi in braccio Laura e compresi che non rammentava più le mie sembianze: ci vollero tre<br />

giorni, prima che si riprendesse dall’emozione. Queste due settimane vissute in famiglia,<br />

passarono così veloci che non è rimasta traccia nella mia mente. A causa del clima<br />

autunnale, non avevo intrapreso alcun viaggio, trascorrevo le giornate nell’intimità della<br />

casa. Il giorno 17 alle ore 12 ripartivo da Milano per il Marocco. Era stata inaugurata di<br />

recente una nuova linea aerea diretta, Milano, Nizza, Marsiglia, Casablanca, con un aereo<br />

molto confortevole di recente costruzione, il “Caravelle”. A causa dei tempi d’attesa<br />

piuttosto lunghi nei vari scali e per la differenza di un’ora del fuso orario, arrivai<br />

all’aeroporto Mohamed V di Casablanca alle 11 di sera.<br />

Mi fermai un giorno in città e ripartii per Tan Tan sabato mattina, 19 Novembre, con l’aereo<br />

aziendale Piaggio. Era un piccolo, ma veloce turbo elica, 11 posti più pilota e motorista.<br />

Il mio sostituto Franco Marzano ripartì nel pomeriggio con lo stesso aereo.<br />

.<br />

14 - Disavventure nei trasferimenti in deserto<br />

Fino alla fine del mese rimasi alla base di Tan Tan per rimettere a posto l’attrezzatura e per<br />

qualche giorno lavorai in officina. La mattina del 30 Novembre, alle 5 del mattino, partìì da<br />

Tan Tan con la cementatrice. La lampadina spia del freno a mano non funzionava ed ancora<br />

mezzo addormentato non mi ero accorto che era bloccato. Avevo percorso poco più di un<br />

Km; dopo una salita la pista attraversava una tendopoli, alcuni arabi mi fecero dei gesti per<br />

fermarmi.<br />

Sceso dal camion, vidi fumo e fuoco tra le due ruote posteriori del camion, lo sfregamento<br />

del ferodo sul tamburo del freno aveva causato un incendio, avevo paura che si propagasse<br />

ai serbatoi del gasolio. Ero sprovvisto di estintore e fui costretto ad utilizzare la scorta di<br />

bottiglie d’acqua minerale per spegnerlo. Ripresi il viaggio ed arrivai a Puerto Cansado alle<br />

15 del pomeriggio.<br />

La cementatrice aveva il tubo di scappamento nella parte anteriore, sporgente per circa un<br />

metro dal cofano motore, tipico dei camion International. La distanza dello scarico dal<br />

posto di guida era poco più di un metro; il rumore assordante che provocava mi penetrava<br />

nel cervello e dopo dodici ore di guida continuava a rintronare, tanto che la notte non<br />

riuscivo ad addormentarmi malgrado la stanchezza.<br />

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La discesa della colonna da 13” nel pozzo si bloccò a settecento metri, e a questa profondità<br />

fu cementata con settecento quintali di cemento. Alle quattro del mattino avevo finito, ed a<br />

mezzogiorno ripartivo per ritornare alla base, ma fui costretto a rientrare al cantiere di<br />

Puerto Cansado dopo 4 ore perché la pista, ad un passaggio obbligato, era interrotta. Il<br />

mattino del 5 Dicembre ripresi il viaggio diretto a Tan Tan.<br />

In quel periodo la iella mi perseguitava: avevo percorso un terzo del cammino, quando<br />

m’insabbiai con tutta la parte anteriore del camion. Per rimediare a queste frequenti<br />

disavventure, avevo sempre appese sui fianchi della cementatrice due “tapparelle”<br />

rettangolari d’acciaio larghe 40 cm,. lunghe 4 metri, con bordature sporgenti per fare presa<br />

sulle gomme. Dopo aver scavato le buche davanti alle ruote anteriori, infilai l’estremità<br />

delle due tapparelle sotto le ruote. Risalito alla guida, lentamente riuscii a uscire dalla buca,<br />

ma quando una delle ruote raggiunse l’altra estremità della piastra metallica, questa si<br />

sollevò come un ariete sul lato posteriore e mi tranciò il tubo che portava il gasolio non<br />

consumato dal motore al serbatoio.<br />

Per fortuna, la macchina aveva due serbatoi, chiudendo i rubinetti potevo escludere quello<br />

guasto, ma la quantità di gasolio dell’altro serbatoio, considerando la distanza da percorrere,<br />

non era sufficiente per raggiungere la base e così fui costretto a ritornare di nuovo a Puerto<br />

Cansado.<br />

Quando arrivai, il capo sonda Orlandi mi comunicò che era arrivato via radio l’ordine di<br />

lasciare la cementatrice e rientrare con il primo mezzo disponibile. Lo stesso giorno, 5<br />

Dicembre, nel pomeriggio, con un’ora e mezza di volo con l’elicottero aziendale, rientravo<br />

alla base di Tan Tan, dove mi informarono che dovevo ripartire il giorno successivo per<br />

effettuare una prova di strato nel pozzo di Oum Doul, che aveva raggiunto l’obiettivo<br />

minerario a 3400m di profondità, con una pressione a fondo pozzo di oltre 340 atmosfere.<br />

Per chi fosse interessato a conoscere la tecnica e le attrezzature impiegate in una prova di<br />

strato, ho inserito un ANNEX1 in coda al mio racconto.<br />

Dopo aver verificato che tutte le attrezzature e relativi ricambi d’emergenza fossero a posto,<br />

io ed Ibrahim le caricammo sul Leoncino e partimmo per Oum Doul.<br />

Purtroppo la prima prova e le successive furono negative ed il pozzo, dichiarato sterile, fu<br />

chiuso alla fine con vari tappi di cemento.**<br />

Il giorno 8 Dicembre, finita la prova di Oum Doul rientravo a Tan Tan con il Leoncino<br />

assieme ad Ibrahim. Il tempo di riordinare l’attrezzatura e la mattina del 10 Dicembre<br />

ripartivamo di nuovo per Puerto Cansado con il Leoncino per un’altra prova di strato.. La<br />

sera stessa del mio arrivo ebbe inizio una prova, che terminò con esito negativo alle 5 del<br />

mattino. Ci fu un’altra prova una settimana dopo, ma fu interrotta e poi annullata poichè<br />

l’attrezzatura non passava nel foro scoperto.<br />

Complessivamente, nel mese di dicembre trascorsi circa venti giorni a Puerto Cansado. In<br />

questo periodo, quando non ero impegnato nel mio lavoro, andavo con una squadra di<br />

operai marocchini a controllare la pista nei passaggi più difficili per facilitare il transito agli<br />

automezzi che trasportavano rifornimenti.<br />

Il 29 Dicembre rientravo alla base con il dr. Guarnieri. Mancavano due giorni alla fine del<br />

1960, un anno movimentato. La sera dell’ultimo dell’Anno la trascorsi nella sala radio, in<br />

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compagnia del gruppo d’Italiani che lavoravano nel centro logistico. Ci furono i consueti<br />

scambi d’auguri con gli altri gruppi che operavano nel sud Marocco; da uno dei gruppi<br />

sismici udimmo una voce che cantava una canzone allora in voga, “arrivederci, dammi la mano e<br />

sorridimi, per una volta ancora, senza piangere”. Forse la cantava Gildo Da Rold dalla radio del<br />

gruppo sismico. Il pensiero corse istintivamente con nostalgia alla famiglia, con un breve bilancio<br />

mentale dei nove mesi trascorsi, ed a quanti ancora dovevo trascorrere in lontananza prima di<br />

arrivare alla fine del contratto. A mezzanotte il consueto brindisi ed alcuni razzi improvvisati per<br />

salutare il nuovo anno. Domani sarebbe stato un altro giorno lavorativo come tanti altri; era nato<br />

l’anno 1961.<br />

Il primo giorno dell’anno ci fu concessa metà giornata di festa e ne approfittammo per<br />

trascorrere il pomeriggio al mare, che non era molto distane dalla base. Il clima era quasi<br />

primaverile, di giorno arrivava sui 25 gradi, alcuni fecero anche il bagno, io mi ero portato<br />

la canna da pesca. Queste poche ore trascorse in compagnia, furono un diversivo che<br />

contribuì a rendere più serena la giornata.<br />

Il 5 di Gennaio ero di nuovo sulla pista diretto a Puerto Cansado. Partito verso sera, arrivai<br />

alle 4 del mattino: si era presentata l’urgenza di effettuare un’altra prova di strato, ed ero<br />

stato costretto a viaggiare di notte, cosa che normalmente evitavo di fare, perché il rischio di<br />

perdersi era molto alto.<br />

Il giorno 7 alle dieci di sera ero di nuovo a Tan Tan e ripartivo il mattino del giorno<br />

successivo per Oum Doul a fare un’ultima prova di strato a 3600 m, risultata anche questa<br />

negativa.<br />

**Mi rendo conto che tutte queste spiegazioni tecniche nel campo delle ricerche petrolifere,<br />

raccolte in un allegato al mio racconto, non sono di facile comprensione da parte di un<br />

profano, ma non posso esimermi dal farle, perché sono strettamente collegate al lavoro che<br />

ho svolto in vari paesi all’estero dal 1960 al 1970. Questa parentesi descrittiva delle mie<br />

mansioni, mi consentirà di attenermi agli episodi più importanti che mi sono accaduti in<br />

quel periodo della mia vita, evitando per quanto possibile di ritornare sugli stessi<br />

argomenti e rendere più scorrevole ed attraente la lettura.<br />

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15 - Sconfinamento in territorio Spagnolo.<br />

Il 10 Gennaio rientravo alla base con il Leoncino da Puerto Cansado, pochi giorni per<br />

riordinare tutta l’attrezzatura e finalmente il 15, con l’aereo Piaggio partivo per Casablanca<br />

per un periodo di riposo che avrebbe dovuto durare come minimo una settimana, ma dopo<br />

tre giorni fui costretto a rientrare con il Cessna alla base e da qui proseguire con la<br />

cementatrice per Puerto Cansado.<br />

Arrivai non molto distante dalla sonda che era già buio, entrato nella zona di dune, dopo<br />

aver girato per alcune ore, ad un certo punto mi resi conto di aver smarrito la strada: mi<br />

fermai, seduto al posto di guida per riposarmi, e proseguire la ricerca il giorno dopo alla<br />

luce del sole.<br />

Continuai a macinare km per tutta la giornata, girovagando senza una meta precisa, nessuna<br />

traccia, sempre lo stesso panorama in un infinito deserto punteggiato di rari cespugli, ed<br />

arrivò di nuovo la sera e, con il buio, si accentuarono la stanchezza e lo sconforto, conscio<br />

di essermi perso. Mi fermai di nuovo sperando che l’indomani avrebbero mandato un aereo<br />

a cercarmi.<br />

Mangiai qualcosa che avevo nella scorta di viveri, e prima di cercare un angolo dove<br />

rannicchiarmi per potere dormire qualche ora pensai di salire sul punto più alto della<br />

cementatrice, per avere una maggiore visuale, e da qui, nel buio della notte, scorsi in<br />

lontananza una luce, che pensai fosse l’illuminazione dell’impianto. Proseguii pertanto il<br />

viaggio in direzione di questo punto di orientamento, ma quando arrivai in prossimità del<br />

bagliore mi accorsi che era un campo di nomadi che avevano acceso un gran fuoco.<br />

Cercai di spiegare la mia situazione ad uno di loro, che mi rispose in Spagnolo: ”Hombre<br />

aqui sta la Spagna !”, avevo sconfinato in Rio de Oro. Il Rio de Oro, oggi Sahara<br />

occidentale, all’epoca era ancora uno dei protettorati spagnoli, con una guarnigione militare<br />

a El Aiun.<br />

Il territorio era controllato da gente locale arruolata nella Legione Straniera, comandata da<br />

ufficiali spagnoli. Se fossi caduto nelle loro mani, nella migliore delle ipotesi mi avrebbero<br />

requisito la cementatrice e portato alle isole Canarie al loro quartiere generale. Era già<br />

successo, tra gli altri, anche al Capo Sonda Orlandi ed ad alcuno dei suoi perforatori.<br />

Seduto accanto al fuoco con questo gruppo di nomadi mentre sorseggiavo il tè che mi era<br />

stato offerto, versandolo nella tazza con il loro particolare rito, riflettevo su come avrei<br />

potuto uscire da questa situazione, non era facile dialogare con loro, uno solo parlava<br />

qualche parola di Spagnolo, ma alla fine riuscii a capire che voleva andare in Marocco e che<br />

se ero disposto a portarlo mi avrebbe fatto da guida. Diffidavo di loro, ma non avevo altra<br />

scelta, per cui accettai l’offerta.<br />

All’alba, ripresi il viaggio con questo nomade seduto a fianco, vestito con un lenzuolo<br />

bianco ed un turbante nero, aveva il corpo cosparso d’olio, che per loro forse era un<br />

profumo, ma emanava un odore nauseabondo. La cosa importante è che quest’uomo, che<br />

non conoscevo e non avrei mai più rivisto, mi ricondusse sulla via da seguire. Erano<br />

trascorsi tre giorni dalla partenza e quando arrivai a Puerto Cansado l’ing. Viti mi disse:<br />

“Cominciavo a preoccuparmi!” , al che gli risposi: “Un po’ tardi, non le sembra?”.<br />

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Non si può dire che l’Agip in Marocco avesse lesinato in mezzi, ce n’era anche di superflui<br />

e inutili, risultato di scelte fatte da personale talvolta incompetente e senza esperienze di<br />

operazioni in zone desertiche. Con una minima spesa sarebbe stato possibile installare su<br />

alcuni automezzi una radio ricetrasmittente, che avrebbe consentito al personale destinato a<br />

continui spostamenti, d’avere frequenti contatti con la base, evitando così perdite di tempo<br />

ed evitando inutili rischi al personale. Questo era un sistema già in dotazione nei Gruppi di<br />

prospezione sismica, anche se non sempre funzionava in modo soddisfacente. Purtroppo,<br />

spesso gli ordini arrivavano da dirigenti seduti alla scrivania che non correvano il rischio di<br />

pericolosi imprevisti e senza l’esperienza per valutarli. Quanto sarebbe costato rimpiazzare<br />

una cementatrice sequestrata?<br />

Mi era già capitato di trovarmi in difficoltà con la cementatrice in uno degli spostamenti tra<br />

la base ed un pozzo. Partito dalla base nelle prime ore del pomeriggio, il vento forte, che<br />

soffiava nella mia stessa direzione di marcia, spingeva di fronte all’automezzo la sabbia e la<br />

polvere sollevate dalle ruote, riducendo la visibilità. Inoltre i raggi del sole avevano<br />

scaldato il cruscotto ed il volante al punto che per guidare dovevo usare i guanti; arrivato a<br />

circa metà del percorso, improvvisamente le ruote anteriori sprofondarono, anche se non<br />

avevo notato nessuna buca ne particolari diversità nel terreno. Ero incappato in uno dei<br />

frequenti spiazzi di deserto che gli arabi chiamano “fesc fesc”, un’insidia difficile da<br />

individuare. In pratica sono grandi buche piene di polvere di sabbia molto fine, simile al<br />

borotalco.<br />

Il motore si era fermato, il motorino d’avviamento, che era alloggiato sotto il motore, si era<br />

riempito di sabbia e si era bloccato. Feci alcuni tentativi per rimetterlo in moto, senza<br />

riuscirci. Non potevo fare altro che attendere il passaggio di qualche altro automezzo, ma<br />

non erano frequenti, l’attesa poteva protrarsi a lungo ed a rendere la situazione più precaria<br />

contribuiva la circostanza che mi ero fermato in una vasta zona dove il terreno consentiva di<br />

uscire dalla normale pista e percorrerne una nuova non frequentata.<br />

Mi sono chiesto più volte con gli occhi rivolti al cielo chi fosse il mio angelo custode:<br />

dialogavo a voce alta come Fernandel (don Camillo) nei suoi film. Solo, nel grande silenzio<br />

di quello sconfinato deserto, udivo una voce che saliva dal mio inconscio e mi diceva:” ti<br />

illudi di essere il padrone di tutto ciò che ti circonda, fino a dove il tuo sguardo riesce a<br />

vedere in questa immensità, ma non sei nulla”. Ripensandoci oggi, mi accorgo di avere<br />

incontrato allora ciò che una moltitudine di gente cerca per tutta una vita, forse Dio era<br />

fuggito dalle città, dalle chiese, dagli esseri umani per rifugiarsi nel deserto del Sahara dove<br />

si ode solo il sussurro del vento che sembra una preghiera.<br />

Salito sul ponte di comando della mia nave, ”la cementatrice”, da dove il mio sguardo<br />

poteva spaziare fino all’orizzonte, attendevo e speravo in un piccolo miracolo, che si avverò<br />

dopo alcune ore, vidi in lontananza una nuvola di polvere ed udii un rumore che lentamente<br />

si avvicinava. Riconobbi il camion azzurro della Schlumberger, che percorreva una pista<br />

parallela alla mia, ma distante due o tre km. Nel polverone che sollevava, poteva anche non<br />

accorgersi della mia presenza, così pensai di fare dei segnali con uno degli specchi laterali<br />

retrovisori: quando mi accorsi che si dirigeva verso di me, tirai un sospiro di sollievo. Con il<br />

verricello riuscì a togliermi dalla buca e per rimettere in moto il motore fui costretto a farmi<br />

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trainare per alcune decine di metri. Proseguimmo il viaggio assieme, anche loro erano diretti<br />

al pozzo di Puerto Cansado per fare una serie di carotaggi elettrici, che servono ad<br />

individuare la natura dei vari strati di sedimenti attraversati dal pozzo, il loro spessore, la<br />

loro consistenza e l’eventuale presenza di idrocarburi, primo obiettivo di un pozzo<br />

esplorativo.<br />

Giunti nel tratto di pista che scendeva dal costone roccioso con strette curve ad angolo<br />

acuto, fui costretto a fare una retromarcia di un paio di metri per riprendere la curva, ma il<br />

motore perse brio e si fermò, e con esso anche il compressore che azionava i vari comandi,<br />

motorino di avviamento, frizione e fr<strong>eni</strong> compresi. La situazione creatasi non era facile da<br />

superare: Ibrahim, con la scusa di un bisogno urgente, scese dal camion, io, che nei<br />

momenti difficili sono sempre riuscito a mantenere la calma, ingranai una marcia ridotta e<br />

lentamente mollai il freno, il motore riprese a funzionare ed arrivai senza alcun danno a<br />

destinazione.<br />

Una mattina alle 5, dal campo di Puerto Cansado dovevo scendere al pozzo per fare una<br />

prova di strato, con l’attrezzatura già caricata sul Leoncino. Andai a svegliare Ibrahim, che<br />

si rifiutò di alzarsi: un aiuto mi avrebbe fatto comodo, i vari elementi da montare erano<br />

molto pesanti.<br />

Arrabbiato per questo incomprensibile rifiuto, salii sul camioncino, discesi dal costone ed<br />

iniziai il percorso sulla pista battuta del lago salato; c’era ancora buio e la visibilità non era<br />

buona.<br />

Ero ancora in preda all’ira e forse non ancora completamente sveglio, mancava circa 1 km.<br />

per arrivare alla sonda, quando improvvisamente vidi roteare i fari, l’odore acre dell’acido<br />

cloridrico delle batterie mi era salito alle narici. Trascorse quasi un minuto prima che<br />

potessi rendermi conto della situazione; uscito con le ruote di sinistra dalla pista, il<br />

camioncino era sprofondato e si era adagiato sul fianco; cercai di uscire in fretta dalla<br />

portiera che non era più laterale, ma sopra la mia testa.<br />

Raggiunta a piedi la sonda, il capo sonda Monfredini che sostituiva Orlandi, mi disse che<br />

era curioso di conoscere il brevetto per capottare in quel modo. Più tardi la gru andò a<br />

recuperare il Leoncino e lo portò alla sonda, ma fui costretto a smontare la testata, dato che<br />

l’olio aveva invaso il motore.<br />

Ripresi a viaggiare alcuni giorni dopo per ritornare alla base con la cementatrice, risalendo<br />

la stretta pista ricavata nella roccia del dirupo, sempre nella stessa maledetta curva stretta,<br />

dove non si poteva evitare di fare una manovra in retromarcia per rimettersi sulla<br />

carreggiata; a causa di un gradino il camion venne a trovarsi con il peso sbilanciato sulla<br />

ruota posteriore destra e si ruppe il semiasse. Bloccai il mezzo con entrambi i fr<strong>eni</strong> e<br />

ordinai ad Ibrahim di scendere e mettere delle grosse pietre sotto le ruote, lasciai lentamente<br />

il freno a pedale; accertatomi che il camion non era retrocesso dalla sua posizione precaria,<br />

per un’ulteriore maggiore sicurezza, lasciai inserita una marcia ridotta ed il freno a mano<br />

bloccato. Non potevo lasciare a lungo la cementatrice in quella situazione di pericolo, ed era<br />

inoltre urgente liberare la strada ad eventuali altri veicoli<br />

Ritornai al campo a piedi, recuperati alcuni attrezzi, mi recai con Dallara, il meccanico della<br />

sonda, a smontare la ruota. In quelle particolare condizioni il lavoro presentava qualche<br />

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pericolo e non fu certo facile eseguirlo. Non avendo un ricambio dell’asse tranciato, fu<br />

necessario saldare i due pezzi. Con questa temporanea riparazione, mi fu possibile, il giorno<br />

dopo, affrontare il viaggio per ritornare a Tan Tan.<br />

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16 - 1961, il nuovo pozzo di Fumel Hassan.<br />

Alla fine di Marzo del 1961 si era conclusa la perforazione nel pozzo di Oum Doul, che<br />

dopo oltre un anno di lavoro era risultato sterile. L’impianto era in smontaggio in attesa di<br />

essere trasferito in un’altra località. Il mio lavoro per un periodo di circa due mesi si svolse<br />

a periodi alterni tra Puerto Cansado e alla base di Tan Tan. Avevo raccolto e sistemato tutta<br />

l’attrezzatura vicino all’impianto di Puerto Cansado, pronto ad eventuali urgenze, per<br />

evitare inutili traslochi con il Leoncino. In questo modo mi era possibile trascorrere brevi<br />

periodi alla base.<br />

Un giorno partii alle undici con una Jeep, dovevo fare una prova di strato; sul sedile accanto<br />

a me sedeva il Capo Perforatore Mario Martelli, detto “Dindula”.<br />

Alla guida del veicolo mi ero messo io che conoscevo bene la pista. Eravamo in viaggio da<br />

circa tre ore, a bassa velocità sobbalzando sul terreno accidentato, quando mi si presentò<br />

davanti un tratto pianeggiante; inserita la terza marcia accelerai. Dopo un centinaio di<br />

metri, all’improvviso una buca; “Dindula”, che in quel momento si era rilassato con le mani<br />

in grembo, fu proiettato in avanti e andò a sbattere la testa contro il longarone del lunotto.<br />

All’epoca non esistevano le cinture di sicurezza, oppure non erano state insalate su nessuno<br />

dei mezzi aziendali.<br />

Scese dalla macchina dolorante con le mani sulla fronte. La maggior parte delle bottiglie<br />

d’acqua minerale di scorta si erano rotte, con quella rimasta provai a fargli degli impacchi,<br />

ma non servì a nulla, non avevo mai visto un bernoccolo di quelle dimensioni, crescere cosi<br />

rapidamente.<br />

Onde evitare eventuali complicazioni, fui costretto a riportare Dindula alla base; il mattino<br />

dopo ripartii per Puerto Cansado con l’aereo Cessna. Il pilota mi aveva affidato il pacco<br />

della posta che avrei dovuto lanciare dal finestrino, ad un suo cenno, sorvolando il campo<br />

del Gruppo sismico. Qualcosa non andò per il verso giusto, fare il bombardiere non era<br />

forse il mio mestiere: il pacco cadde sul vespasiano costruito in tavole di legno e lo<br />

disintegrò, per fortuna, dentro non c’era nessuno a fare i suoi bisogni<br />

Furono diverse le operazioni che dovetti eseguire in quel periodo nel pozzo di Puerto<br />

Cansado. Nonostante le centinaia di quintali di barite, bentonite e cemento, l’acqua degli<br />

strati profondi che entrava nel foro diluiva il fango e il pozzo andava in eruzione eruttando<br />

acqua calda e vapore a temperature elevate, con una pressione che superava le 300<br />

atmosfere. Se la natura avesse avuto il sopravvento i danni sarebbero stati incalcolabili!<br />

Mi sembra di ricordare che fosse il mese d’Aprile del 1961 quando l’impianto di Oum Doul<br />

fu trasferito in un’altra zona, chiamata Fumel Hassan, per perforare un nuovo pozzo. Mi è<br />

rimasto un vago ricordo di quel luogo, tuttavia ricordo una cosa che mi preoccupava: la<br />

distanza dalla base era di 400 km. Quando mi recai la prima volta a fare la cementazione<br />

della prima colonna, partii da Tan Tan al mattino molto presto, seguendo nel primo tratto la<br />

pista molto stretta che costeggiava la montagna, tanto che a malapena riuscivo a passare.<br />

Lascio a voi immaginare quello che mi successe quando incrociai un camion che viaggiava<br />

in senso contrario. In uno slargo della strada, mi accostai per lasciarlo passare, ma non potei<br />

evitare lo sfregamento dei due mezzi che causò la rottura di alcuni bulloni alle vasche della<br />

cementatrice. A tarda sera arrivai a Goulimine il paese dei Tuareg, “gli uomini blu”. Passai<br />

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la notte nel Caravanserraglio, la sola costruzione in muratura, con alcune camere arredate<br />

con il solo letto, ma non mancavano gli scarafaggi. Ibrahim passò la notte sul camion.<br />

Al mattino lo vidi che discuteva con un gruppo di questi nomadi, avvolti in turbanti azzurri,<br />

che volevano razziarmi la scorta di viveri. Non mi lasciai intimorire, rifiutai di consegnarla<br />

e, salito sul camion, ripresi il viaggio e mi allontanai in fretta, avevo ancora molta strada da<br />

percorrere per raggiungere la meta. Il nuovo pozzo che stavano perforando era ubicato<br />

vicino al confine con l’Algeria, nei pressi di Timidoum, da qui partiva la pista imperiale<br />

che, attraversando tutto il deserto algerino, arrivava fino al Mediterraneo. Non ricordo sotto<br />

quale Console e chi fosse l’imperatore romano che ordinò di costruire questa pista, non so<br />

neppure se corrisponda a verità che ci siano voluti 12 anni di duro lavoro per realizzare<br />

quest’opera.<br />

Diversi km prima di arrivare alla sonda, la pista entrava in un deserto sabbioso e proseguiva<br />

attraversando l’oasi di Fumel Hassan, una tendopoli, un piccolo laghetto con molte palme,<br />

dove ricordo di aver raccolto un ramo pieno di datteri. Erano trascorsi più di quattro mesi<br />

dall’ultimo periodo di ferie trascorso in Italia e sentivo la necessità di riposare qualche<br />

giorno.<br />

Terminata l’operazione al pozzo, ritornai alla base ed ottenì il permesso dell’ing. Cremaschi<br />

di rientrare,con il primo aereo disponibile a Casablanca. Seduto alla mia destra c’era il<br />

medico dr. Tozzi, davanti il pilota Rossi ed il Capo Base Malpezzi; eravamo in volo da circa<br />

due ore quando ci accorgemmo che l’ala destra era bagnata di carburante che si disperdeva<br />

nell’aria.<br />

Il pilota controllava lo strumento indicatore del livello del carburante, la lancetta scendeva<br />

rapidamente: si stavano svuotando i serbatoi. Il rifornimento del Cessna lo aveva fatto il<br />

motorista, Maresciallo Mandara, che si era dimenticato di mettere il tappo al serbatoio; il<br />

carburante v<strong>eni</strong>va risucchiato dalla corrente d’aria provocata dalla velocità dell’aereo.<br />

Il dr.. Tozzi, ad alta voce con ironia, commentava: “Se ci sono ancora dieci litri di benzina,<br />

velocità 200 km/ora, moltiplicando il consumo per km rimane carburante per altri quindici<br />

minuti di volo e poi siamo terra.” Era una persona simpatica ed un bravo medico, una<br />

garanzia per la salute di tutto il personale. Non gli fu rinnovato il contratto, andò in Uganda,<br />

dove morì nel 1964.<br />

La fortuna ci fu amica: eravamo giunti in prossimità dell’aeroporto di Agadir dove<br />

atterrammo, erano rimasti nel serbatoio 17 litri di benzina. Malpezzi scese dall’aereo bianco<br />

in volto come un lenzuolo, non si reggeva in piedi dalla paura, non era più di benzina<br />

l’odore che si sentiva.<br />

Il dottore, ammiccando, sorrideva. Devo dire che la scena, ripensandoci, ci aveva divertito<br />

molto.<br />

Se non ci fossimo accorti in tempo dell’inconv<strong>eni</strong>ente non saremmo riusciti a superare la<br />

catena dell’Atlas che si erge a pochi km. dalla città. Un errore che avrebbe potuto causare<br />

una tragedia..<br />

Dopo alcuni giorni trascorsi a Casablanca, arrivò il giorno del viaggio di ritorno, assieme a<br />

me s’imbarcò sull’aereo Piaggio una squadra sismica quasi al completo; undici persone, più<br />

il pilota e il motorista. Su questo tipo d’aereo, bimotore turboelica, i passeggeri sedevano<br />

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uno a fianco all’altro, su due file di sedili fissati ai lati della carlinga. Da Casablanca a Tan<br />

Tan la distanza era di circa 1.000 km. Era prevista una sosta tecnica ad Agadir, dove<br />

l’attesa fu di circa un’ora; il cielo era nuvoloso, ma nulla lasciava presagire la bufera che<br />

avremmo incontrato mezz’ora dopo aver ripreso il volo.<br />

La tempesta aveva sollevato nuvole di sabbia, la visibilità era ridotta al minimo, l’aereo<br />

sembrava che volasse sulle onde di un mare in burrasca e qui iniziò una scena tragicomica:<br />

cominciò uno a vomitare in un secchio di plastica, poi notai questo secchio passare da uno<br />

all’altro, di fronte a questo spettacolo non riuscirono a trattenere i conati di vomito, per<br />

simpatia, neppure quelli che erano immuni da questi disturbi. Questa spiacevole situazione<br />

terminò solo quando il pilota si convinse che non era prudente proseguire, la perturbazione<br />

aveva investito anche la zona dove eravamo diretti, per cui invertì la rotta e tornammo ad<br />

Agadir.<br />

17 - Rinnovo Contrattuale e 2° rientro in Italia per ferie<br />

Nel mese di giugno del 1962 arrivò da Milano un impiegato dell’ufficio personale, con<br />

l’incarico di riesaminare tutti i contratti stipulati dai dipendenti AGIP; volevano rinnovarli<br />

per altri due anni ed eliminare alcune clausole che, a mio avviso, risultavano troppo<br />

vantaggiose per i lavoratori.<br />

Io all’inizio rifiutai, ma in seguito, dopo molte pressioni ed insistenze, accettai di rinnovarlo<br />

per un solo anno, in questo modo avrei prorogato il termine dell’impegno di soli tre mesi<br />

rispetto alla scadenza normale marzo 1963. Erano trascorsi sedici mesi dal mio arrivo in<br />

Marocco, ed i primi di luglio avevo raggiunto il termine per usufruire del secondo periodo<br />

di ferie in Italia.<br />

Assieme a me rientrava in Italia per ferie anche Mario Citro, responsabile del magazzino a<br />

Tan Tan.<br />

A causa di uno sciopero, il viaggio in aereo si interruppe a Marsiglia, per cui la sera<br />

ripartimmo dalla stazione di “Marseille Marignan” con il treno “Transeuropexpress”.<br />

Fu la prima ed ultima volta che mi si presentò l’occasione di cenare al vagone ristorante, dal<br />

finestrino godemmo lo spettacolo notturno della Costa Azzurra e poi la Riviera Ligure,<br />

l’arrivo a Milano era previsto per le 24. Non ricordo molto di questo breve periodo trascorso<br />

con la famiglia, un particolare solo mi è rimasto impresso nella memoria, il viaggio di<br />

ritorno.<br />

Mi avevano accompagnato all’aeroporto della Malpensa mia moglie e l’amico Bernardelli.<br />

Il tempo era incerto, in cielo nuvole che lasciavano prevedere un temporale. Pochi minuti<br />

dopo il decollo il Caravelle iniziò ad avere dei sobbalzi, eravamo al centro di una<br />

perturbazione, l’aereo sembrava precipitare in vuoti d’aria paurosi e poi all’improvviso<br />

spinto dall’aria risaliva, vari oggetti usciti dai ripostigli volavano all’interno della carlinga.<br />

Avevamo allacciata la cintura di sicurezza, ma per sicurezza fummo costretti ad abbracciare<br />

il sedile anteriore. Riapparvero le hostess, forse era trascorso solo un quarto d’ora, ma a noi<br />

era sembrata un’eternità. Atterrammo all’aeroporto di Marsiglia in condizioni non buone,<br />

ma eravamo vivi. Nella prima lettera che mi scrisse, Rosetta mi chiese notizie in merito,<br />

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anche loro seguendo l’aereo con lo sguardo, si erano accorti che era successo qualcosa di<br />

inconsueto.<br />

Da Casablanca ripartii due giorni dopo con un aereo di linea fino ad Agadir e da qui<br />

prosegui, con un automezzo aziendale, per Tan Tan. Durante la mia permanenza in Italia si<br />

erano verificate incursioni della Legione Straniera spagnola nelle zone desertiche del Sud<br />

Marocco. Due dei nostri gruppi sismici, avevano subito delle razzie, ma al personale non<br />

erano stati fatti dei maltrattamenti.<br />

Era arrivata una compagnia di soldati marocchini per proteggere i campi isolati ed i camion<br />

dei rifornimenti. A ferragosto dovevo partire con la cementatrice per Puerto Cansado e mi<br />

obbligarono a far salire sul mezzo un soldato di scorta: se malauguratamente avessimo<br />

incontrato i legionari spagnoli, mi sarei trovato in una situazione difficile. Prima di partire<br />

avevo avuto con l’ing. Cremaschi una discussione molto animata, avevo rifiutato la scorta e<br />

mi aveva minacciato di farmi rimpatriare. Io gli risposi che mi avrebbe fatto un grande<br />

piacere.<br />

Mio malgrado fui costretto ad obbedire, ma dopo un paio d’ore di viaggio mi si presentò<br />

l’occasione per risolvere il problema a modo mio; avevo incontrato un gruppo di soldati, mi<br />

fermai e la mia guardia si unì a loro a bere il tè, approfittai della situazione e scappai senza<br />

salutarlo.<br />

Circa a metà percorso, verso sera incontrai una pattuglia che mi fermò e non mi lasciò<br />

proseguire, nel frattempo mi aveva raggiunto il gruppo di militari che avevo incontrato ed<br />

anche la guardia che avevo seminato e che non aveva apprezzato il mio comportamento.<br />

Mi convinsi che non era prudente tentare un altro sganciamento e mi rassegnai a trascorrere<br />

la notte con loro. Mi ero rannicchiato sul sedile per cercare di dormire qualche ora, quando<br />

all’improvviso nel cuore della notte udii muoversi agitati i soldati, si udiva in lontananza il<br />

rumore di un automezzo, scesi e vidi una Jeep con alcuni militari, partire veloce a fari<br />

spenti, io mi ero messo al riparo sotto il camion, quando la pattuglia fu in prossimità del<br />

mezzo che si avvicinava, accesero all’improvviso i fari, per fortuna si trattava di un camion<br />

che portava i rifornimenti alla nostra sonda. Il mattino dopo proseguimmo il viaggio<br />

assieme verso Puerto Cansado.<br />

Quello appena narrato era il mio ultimo viaggio a Puerto Cansado. Il pozzo aveva raggiunto<br />

la profondità di 4000m. Non erano state trovate tracce di idrocarburi, bisognava procedere<br />

alla chiusura mineraria del pozzo con vari tappi di cemento per metterlo in sicurezza. La<br />

perforazione di questo pozzo era durata più di un anno e si erano dovuti risolvere molti<br />

problemi tecnici e difficoltà ambientali.<br />

La pioggia in quella zona desertica del Marocco non era frequente, ma rammento che una<br />

volta, nella primavera del 1961 in prossimità della costa, ci fu un diluvio che investì anche<br />

la zona di Puerto Cansado. Il lago salato si riempì di 30 cm. d’acqua, non era facile<br />

percorrere il tratto di tre km dal campo alla sonda, io ed il Capo Impianto Orlandi, bagnati<br />

come pulcini, sotto una pioggia torrenziale abbiamo dovuto inventare una segnaletica<br />

infilando delle bottiglie in paletti di ferro ai due lati del tratto di pista battuta per consentire<br />

ai mezzi leggeri di raggiungere l’impianto. Per una giornata intera con la jeep percorremmo<br />

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la zona circostante alla ricerca di un percorso alternativo provvisorio: i turni di lavoro del<br />

personale al pozzo non si potevano sospendere.<br />

Questo era uno dei tanti imprevisti che contribuivano a fare apprezzare e rendere più<br />

gradevoli i rari e brevi spazi e momenti distensivi che ci erano concessi. Ricordo i<br />

pomeriggi trascorsi a pescare sulla vicina scogliera. Avevamo costruito una zattera con<br />

quattro fusti legati ad alcune tavole, gli amici dei gruppi sismici ci avevano procurato delle<br />

cartucce di dinamite da cento a duecento grammi, che avevano in dotazione per il loro<br />

lavoro. Preparato il detonatore con l’innesco, le lanciavamo in mare e le facevamo scoppiare<br />

collegandole ad una batteria. Dopo l’esplosione sull’acqua galleggiavano innumerevoli i<br />

pesci, non so quantificare il numero, ma noi riuscivamo a recuperarne solo una minima<br />

parte, al resto pensavano le centinaia di f<strong>eni</strong>cotteri rosa che oscuravano il cielo ed anche i<br />

pescecani ne approfittavano. Una scena indimenticabile che non mi fu possibile fotografare<br />

e che avrei desiderato tanto poter riprendere con una cinepresa.<br />

L’impianto che aveva perforato il pozzo di Puerto Cansado venne trasferito a El Amra,<br />

finalmente finiva l’incubo di quel pericoloso dirupo, con l’ulteriore vantaggio che la<br />

distanza dalla base al nuovo cantiere si era ridotta di circa la metà, un centinaio di km.<br />

Diverse le operazioni eseguite anche in questo pozzo, i frequenti viaggi erano meno<br />

stressanti, la pista, più agevole, seguiva per un tratto la scogliera alta decine di metri a picco<br />

sul mare, un panorama stupendo che è difficile dimenticare. Purtroppo anche il quarto pozzo<br />

perforato dall’Agip in Marocco si concluse a fine ottobre del 1961, senza avere trovato<br />

alcuna traccia d’idrocarburi.<br />

Anni di lavoro e di sacrifici, miliardi spesi inutilmente, molte le speranze deluse. Il petrolio<br />

sarebbe stata una risorsa che, avrebbe certamente contribuito ad incrementare lo sviluppo di<br />

questo paese.<br />

Nuove prospettive si aprivano in altri paesi. Stavano per concludersi i due anni d’avventura<br />

in Marocco.<br />

Verso la fine d’ottobre partivo con tutta l’attrezzatura e la cementatrice da Tan Tan, per<br />

l’ultimo viaggio di 1.000 km passando da Agadir, Mogador ed altri paesi della costa<br />

atlantica fino a Casablanca, dove tutta l’attrezzatura doveva essere imbarcata per proseguire<br />

il viaggio, via mare, verso la Libia.<br />

Si erano rese necessarie alcune riparazioni alla cementatrice, una sabbiatura e verniciatura<br />

delle vasche che fu eseguita in un’officina specializzata, proprietà di un Italiano. Per una<br />

settimana, seguii personalmente i lavori fino alla conclusione, dopo finalmente di nuovo in<br />

Italia.<br />

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18 - Cortemaggiore e il nuovo contratto in Libia.<br />

Trascorso un breve periodo di ferie, fui ripreso temporaneamente in servizio a<br />

Cortemaggiore il 23 Novembre 1962. Avrei voluto ritornare a visitare il Marocco da turista,<br />

ma è un desiderio che riuscii a realizzare solamente nel 2005.<br />

Il breve periodo di ferie terminò il 23 Novembre e poi altri venti giorni di lavoro a<br />

Cortemaggiore, per un periodo d’aggiornamento su nuove tecniche inerenti le attrezzature<br />

usate in perforazione.<br />

Tutte le sere ritornavo a casa in famiglia, complessivamente posso dire di avere trascorso<br />

circa quaranta giorni in Italia; purtroppo passati velocemente e poi di nuovo le valige in<br />

mano. Il 12 Dicembre 1962 mia moglie Rosetta e Laura mi accompagnarono all’aeroporto<br />

di Linate. La partenza per Tripoli era prevista per le prime ore del pomeriggio, ma il tempo<br />

era brutto, cadeva qualche fiocco di neve, poi la nevicata aumentò d’intensità; seduti in sala<br />

d’attesa guardavamo il quadro dove apparivano gli annunci dei voli, il mio era già stato<br />

rimandato due volte, alla fine fu annullato; un giorno in più da trascorrere in famiglia, fui<br />

felice di ritornare a casa.<br />

Due giorni dopo la mattina del 14 Dicembre presi il treno per Roma e nel tardo pomeriggio<br />

ripartivo in aereo per Tripoli, da dove dovevo proseguire per Bengasi. Arrivai a Tripoli<br />

verso le 9 di sera, anche qui un’ora di differenza di fuso orario, le formalità di controllo<br />

passaporti e doganali furono molto meticolose, la polizia di frontiera era molto diffidente<br />

verso gli Italiani e dall’espressione delle loro facce era impossibile non notare astio. Alla<br />

partenza ci avevano avvertito che non si potevano portare riviste, giornali, libri ed alcuni<br />

generi alimentari. Certamente, l’impressione che ho avuto in questo primo incontro con i<br />

Libici non fu di mio gradimento.<br />

Il periodo coloniale dell’Italia pesava ancora come un macigno, soprattutto sulle giovani<br />

generazioni, mentre con i vecchi, che parlavano la nostra lingua, c’era qualche possibilità<br />

d’intesa.<br />

Anche l’Eni aveva dovuto superare molte difficoltà per ottenere alcune concessioni di<br />

esplorazione; il deserto Libico dopo la guerra era diventato un monopolio delle compagnie<br />

petrolifere Anglo- Americane, Francesi e Belghe. Alla fine, la politica del presidente Mattei,<br />

perito tragicamente nell’incidente aereo di Bascapè il 27 Ottobre 1962, era riuscita ad aprire<br />

una breccia, ma inizialmente fummo costretti ad accettare concessioni rilasciate, perché<br />

considerate sterili o comunque antieconomiche, dalle altre compagnie Anglo-Americane,<br />

che si erano accaparrate le aree migliori, dove il petrolio si trovava a soli duemila metri di<br />

profondità.<br />

Dal 1911 per oltre venti anni abbiamo posseduto un’immensa ricchezza; le prime ricerche<br />

di giacimenti petroliferi erano state fatte da noi Italiani nel 1938, ma allora le tecniche<br />

erano inadeguate, poi subentrò la guerra e s’interruppe tutto. L’Agip, essendo azienda di<br />

Stato, non poteva operare direttamente, così fu necessario creare una nuova Società Italo<br />

Libica, la CORI (Compagnia Ricerche Idrocarburi), che assumeva a proprio carico tutte le<br />

spese di ricerca e divideva al cinquanta per cento le riserve eventualmente scoperte.. Mattei<br />

era riuscito a rompere il monopolio delle Sette Sorelle e forse questa fu la causa della sua<br />

morte.<br />

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1934 Sonda a percussione usata dall’Agip Concessione E1 Tronco di palma fossilizzato<br />

La CORI aveva a Tripoli gli uffici di rappresentanza ed a Bengasi la Base Operativa, che si<br />

trovava alla periferia della città, in una zona chiamata Fojat. Nella Base erano concentrati i<br />

vari servizi, magazzini officina, autorimesse e altro. L’ing. Pepe comandava questo Base<br />

Logistica coadiuvato dall’ing. Aurelio De Martin, dall’ ing. Crico e dal dr.. Crippa<br />

responsabili delle attività di loro competenza.<br />

Purtroppo, qui non c’erano gli alloggi per il personale e neppure una mensa. Il personale in<br />

transito per i cantieri in deserto o che doveva fermarsi in città per brevi periodi, era<br />

costretto a dormire in albergo e per mangiare non c’era scelta, un solo ristorante gestito da<br />

una Italiana di Cremona. La vita era molto cara e non era facile mantenersi entro i margini<br />

della “living allowance”, la diaria che ci v<strong>eni</strong>va corrisposta come rimborso spese. Erano da<br />

considerarsi più fortunati coloro che, avendo la loro sede di lavoro a Bengasi, avevano avuto<br />

la possibilità di farsi raggiungere dalla famiglia.<br />

La città non offriva nulla di particolare, aveva però un lungomare stupendo ma non poteva<br />

certo reggere il paragone con Casablanca, inoltre non era prudente girare da soli la sera. Era<br />

già capitato ad alcuni Italiani di fare incontri poco piacevoli. Prima di raggiungere la mia<br />

destinazione finale in deserto, trascorsi un paio di settimane nella Base CORI a Bengasi per<br />

riordinare tutta l’attrezzatura, imbarcata e trasferita via mare dal Marocco. Qui ritrovai<br />

anche il mio cavallo di battagli in deserto: la cementatrice.<br />

19 - Cantiere E 1<br />

All’ing. Pepe avevo chiesto che alla cementatrice fossero montate delle gomme a bassa<br />

pressione, indispensabili per viaggiare sulla sabbia in deserto, ma mi rispose che non era<br />

necessario perché la cementatrice, una volta giunta a destinazione, non avrebbe dovuto<br />

spostarsi dalla sonda.<br />

Così i primi di gennaio del 1963 partivo da Bengasi, costretto ad affrontare un viaggio con<br />

le gomme originali “artiglio” adatte solo per il terreno duro del primo tratto di strada.<br />

Giunto nella zona più insidiosa del Wuedi Ali, come era prevedibile, sprofondai nella<br />

sabbia più volte; dovetti ricorrere più volte alle “tapparelle” d’acciaio ed all’aiuto del<br />

camion che viaggiava con me, che mi trainò per brevi tratti. La temperatura di giorno si<br />

aggirava sui 25 gradi, con un’escursione termica di oltre 20 gradi; le due notti le passai in<br />

un furgone cabinato che trasportava viveri ed alcune coperte per proteggermi dal freddo<br />

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pungente della notte. Finalmente il terzo giorno scorgemmo in lontananza la torre<br />

dell’impianto che doveva perforare il pozzo “E 1” in prossimità del confine Egiziano, a Sud<br />

di Giarabub.<br />

Il campo per gli espatriati, simile ad altri con baracche dormitori, la mensa e servizi vari, era<br />

sistemato a poca distanza dall’impianto di perforazione, quello degli operai locali libici un<br />

po’ più lontano, in una piccola tendopoli. Tutto intorno una immensa distesa di sabbia; nelle<br />

vicinanze una grande foresta pietrificata che il ghibli, il vento del sud, spostando la sabbia<br />

aveva in parte fatto riaffiorare. Avevamo raccolti e portati in Italia molti di questi fossili,<br />

che erano la testimonianza di una vegetazione rigogliosa in tempi remoti.<br />

Tutte le compagnie petrolifere che operavano in Libia, si servivano della compagnia belga<br />

Sabena, che con i suoi DC3 assicurava i rifornimenti di viveri deperibili e ricambi urgenti ai<br />

campi in deserto ed al trasferimento del personale, che per noi avv<strong>eni</strong>va il martedì, con<br />

cadenza settimanale.<br />

I trasporti pesanti v<strong>eni</strong>vano effettuati da camion privati noleggiati all’occorrenza. La nostra<br />

posta arrivava dall’Italia negli uffici della CORI e da qui smistata con l’aereo ai vari campi,<br />

con un ritardo di circa due settimane.<br />

Avevo ricevuto notizie da Rosetta a Bengasi, prima di partire per il deserto; con la seconda<br />

lettera mi giunse una notizia che non aspettavo! Galeotta era stata la neve caduta il 12<br />

gennaio, aveva impedito all’aereo di partire, obbligando la cicogna a cercare un altro nido.<br />

La nascita era prevista per il mese d’agosto, stando ai calcoli fatti da Rosetta. Mancavano<br />

poco più di cinque mesi al termine del contratto che avevo prolungato rinnovandolo per un<br />

anno in Marocco; nell’attesa, il pensiero che nel periodo dell’evento sarei stato a casa mi<br />

rendeva più sereno.<br />

Non vi erano stati imprevisti o particolari difficoltà nella perforazione del pozzo E1 di<br />

Giarabub, si concluse in pochi mesi, ma le prove diedero esito negativo e l’impianto fu<br />

trasferito nella Concessione 82, rilasciata dalla GULF, dove la CORI nei pozzi B1 e B2<br />

aveva trovato il petrolio.<br />

20 - La Concessione 82<br />

Il personale dell’impianto E 1 fu diviso in due gruppi. Io partii con la cementatrice, con il<br />

primo gruppo, un’autocolonna composta da tre camion e un gippone; eravamo in otto<br />

Italiani ed alcuni libici. Durante il viaggio cominciò a soffiare il vento dal Sud, “il ghibli”,<br />

che ci creò dei problemi, ma comunque riuscimmo ad arrivare alla nuova postazione nella<br />

Concessione 82. Il secondo gruppo, più numeroso, doveva raggiungerci con il resto del<br />

materiale due giorni dopo, ma a causa della forte bufera di vento e sabbia fu costretto ad<br />

attendere e passarono otto giorni prima che potesse raggiungerci.<br />

Il cuoco era rimasto con loro; noi avevamo una scorta di viveri e qualche pentola e così con<br />

quel poco che offriva la dispensa iniziò la mia carriera di cuoco. Preparare da mangiare per<br />

otto persone non fu cosa facile, ma riuscii a cavarmela discretamente, visto che non<br />

provocai a nessun commensale dolori addominali. Il panorama di questi luoghi desolati era<br />

costituito solo da dune grandi come colline, solo e sempre sabbia, neppure un piccolo<br />

cespuglio. Le quattro baracche dormitorio vennero sistemate su due lati di un rettangolo, le<br />

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due estremità appoggiavano su dei pannelli di legno, sollevate da terra di circa trenta cm, sul<br />

terzo lato docce e servizi, sul quarto la mensa, comunicante con la cucina, ed un container<br />

frigo per conservare le derrate alimentari.<br />

Perforatrice da sismica per pozzo acqua Il volo settimanale del DC3<br />

Può sembrare incredibile, ma in quasi tutto il Deserto Libico l’acqua si trova in abbondanza<br />

a 30 - 40 metri di profondità. Prima dell’inizio dei lavori, con una perforatrice, prestata da<br />

un Gruppo sismico, fu scavato il pozzo d’acqua; una tubazione lo collegava al<br />

potabilizzatore per i consumi del campo, un’altra condotta andava direttamente alla sonda,<br />

dove ne occorreva una quantità rilevante per miscelare il fango di perforazione e per altri<br />

lavori e necessità dell’impianto di perforazione, che era collegato al campo, distante circa<br />

cento metri. con delle pedane in legno. Era successo varie volte, che nel rettangolo del<br />

campo, in una notte di ghibli si formassero dei mucchi di sabbia alti due metri, tanto da non<br />

riuscire ad aprire le porte delle camerette, oppure di trovarsi con la baracca inclinata su un<br />

fianco. Per evitare che il vento scavasse la sabbia sotto le baracche, era necessario bagnarla<br />

più volte al giorno.<br />

Rispetto alla vita che avevo condotto in Marocco, c’era il vantaggio di non doversi spostare<br />

da un pozzo all’altro, ma dopo settimane e mesi la convivenza diventava opprimente e<br />

difficile.<br />

Il rumore dei grossi motori GM della sonda era la musica che scandiva tutte le nostre<br />

giornate.<br />

Alla sera, seduti in gruppo fuori ad ascoltare racconti centellinando un whisky, alle volte<br />

una partita a carte e poi chiusi nella cameretta, con un letto a castello in compagnia di un<br />

estraneo, a leggere un libro fino al sopraggiungere del sonno, con la speranza di ricevere una<br />

lettera da casa con la posta settimanale. E domani, una croce in più sul calendario per<br />

annullare una data, un giorno in meno da attendere per arrivare al traguardo, il giorno della<br />

partenza; avevo trascorso cinque mesi in deserto, il contratto di lavoro volgeva al termine,<br />

sommando alle ferie le giornate di recupero mi fu possibile anticipare di un paio di<br />

settimane il tanto atteso ritorno a casa.<br />

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21 - Ritorno al Settore di Crema.<br />

A metà maggio 1963 partivo da Tripoli per l’Italia con un aereo diretto a Londra, con scalo<br />

intermedio a Catania, dove con un volo dell’Alitalia proseguii il viaggio per Milano, ma la<br />

valigia non venne trasbordata, continuò il viaggio per l’Inghilterra e mi fu restituita dopo un<br />

mese.<br />

Potevo considerarmi fortunato, perché avevo ripreso il lavoro al Settore di Crema, tutte le<br />

sere rientravo a casa. Laura aveva da poco compiuto i sei anni; avevo sentito molto la sua<br />

mancanza ed anche quella di mia moglie nei lunghi periodi trascorsi all’estero. Tutto il<br />

tempo non impegnato nel lavoro lo trascorrevo dedicandomi alla famiglia, pensavo che la<br />

differenza di sei anni di età tra Laura e la sorellina, o fratellino che aspettavamo, potessero<br />

creare qualche problema nel periodo della loro adolescenza, ma soprattutto mi auguravo che<br />

non dovessero ripetersi tutti gli inconv<strong>eni</strong>enti che Laura aveva dovuto subire nei suoi primi<br />

anni di vita.<br />

La sera del sabato 17 agosto, ci trovavamo per un periodo di vacanza al mare, e nulla<br />

lasciava presagire l’approssimarsi dell’evento. Mi svegliò all’una Rosetta, erano iniziate le<br />

doglie, chiamai un’auto del servizio pubblico e l’accompagnai all’ospedale. Memori della<br />

lunga attesa del parto precedente, non pensavamo che tutto si risolvesse in così breve tempo.<br />

Non era trascorsa neppure mezz’ora dal ricovero, quando uscì dalla sala parto un’infermiera<br />

per annunciarmi che era nata una bambina e pesava 4,100 kg; erano le 2.45 della notte del<br />

18 Agosto 1963. Se avessimo ritardato il ricovero solo di pochi minuti avremmo corso il<br />

rischio di farla v<strong>eni</strong>re al mondo sul taxi. .<br />

All’epoca l’attività del Settore Agip di Crema era concentrata esclusivamente sulla<br />

produzione di gas metano nei vari pozzi del circondario. Alternavo il mio lavoro d’officina<br />

con frequenti trasferte per eseguire operazioni di pompaggio, o tappi di cemento con una<br />

cementatrice che io stesso avevo assemblato sopra un rimorchio; non era paragonabile a<br />

quelle dell’Halliburton, ma era in grado di eseguire alcune operazioni, evitando di ricorrere<br />

alla Compagnia di servizio statunitense<br />

Parecchie volte fui chiamato ad effettuare operazioni nei pozzi del Ravennate e sulla<br />

piattaforma Paguro, che in quel periodo stava procedendo ad una perforazione nel Mare<br />

Adriatico.<br />

la mia posizione in seno all’azienda era sempre considerata provvisoria, non ero riuscito a<br />

rientrare in organico. Nel novembre del 1963 mi chiamarono in Direzione a Milano e<br />

cercarono di convincermi a firmare un nuovo contratto estero, ma io non accettai, non ero<br />

intenzionato a lasciare di nuovo la famiglia ed inoltre non ero in perfette condizioni di<br />

salute. Mi mandarono a eseguire degli esami di controllo negli ambulatori aziendali di San<br />

Donato e mi fu riscontrata un’ulcera duodenale: temporaneamente non idoneo per lavorare<br />

all’estero,<br />

Venni richiamato nel marzo del 1964 ad un’ulteriore visita di controllo, ma pur non essendo<br />

migliorate le mie condizioni di salute; mio malgrado fui costretto ad acconsentire ad andare<br />

in missione all’estero per un breve periodo.<br />

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22 - Tunisia, breve missione a El Borma<br />

Gli Operatori Halliburton dipendenti Agip erano solamente in cinque, insufficienti per fare<br />

fronte alle numerose esigenze operative in vari paesi all’Estero. L’Eni aveva ottenuto in<br />

quel periodo una nuova concessione di ricerche petrolifere in Tunisia, nel Sud del paese, in<br />

una zona chiamata El Borma: Da pochi mesi, un impianto Ideco Super 7/11 aveva iniziato la<br />

trivellazione di un pozzo esplorativo. Il 1° Aprile 1964 passai di nuovo in forza al Servizio<br />

Perforazione; partii il giorno stesso per la Tunisia, una breve missione di un mese per dare il<br />

cambio all’operatore Begani che rientrava in Italia per un breve periodo di ferie.<br />

Il viaggio in aereo da Milano era di circa tre ore, poco più di un’ora da Roma a Tunisi. Da<br />

qui proseguii dopo due giorni il viaggio per El Borma, con un aereo DC3 che atterrò su una<br />

improvvisata pista di atterraggio vicina al cantiere. Il nome di “El Borma”, che in arabo è la<br />

pentola, era a mio parere molto appropriato: un misto di affioramento roccioso e sabbia,<br />

circondato da una corona di dune, che verso Sud Est facevano parte del Sahara. All’interno<br />

di questa pentola, vicino all’impianto, il campo organizzato con il sistema già collaudato in<br />

altri cantieri dell’Agip.<br />

Per quanto concerne il mio lavoro, la cementatrice era un’unità Halliburton fissa, sistemata<br />

a terra vicino all’impianto.<br />

Il pozzo El Borma 1 ripreso da due diverse prospettive, lato affioramento e lato dune di sabbia.<br />

Il passatempo preferito al campo: assistere alla lotta fino alla morte tra uno scorpione e una<br />

vipera cornuta dentro un cerchio di fuoco. Al mattino seguivamo le tracce di questi serpenti<br />

velenosi e ne catturavamo parecchi, li conservavamo in un fusto per poi inviarli all’Istituto<br />

Sieroterapico di Tunisi, dove utilizzavano il loro veleno per ricavarne un siero antivipera.<br />

Spesso passavo un po’ di tempo a seguire il lavoro stressante del personale di sonda; una<br />

mattina stavano facendo manovra di estrazione delle aste, mentre la grossa chiave di<br />

manovra tratteneva l’asta inferiore incuneata alla tavola rotante, la chiave superiore era<br />

stretta al giunto dell’asta in superficie; un cavo d’acciaio, collegato ad un verricello, metteva<br />

in forte tensione il giunto fino allo strappo che determinava lo svitamento. Quel<br />

malaugurato giorno la fune d’acciaio si spezzò all’improvviso e la grossa chiave, roteando<br />

come una clava, colpi a morte i tre operai tunisini intenti al loro lavoro. Fu una disgrazia<br />

raccapricciante, la cui dimensione venne aggravata dal fatto che le città erano lontane e<br />

mancavano le possibilità di interv<strong>eni</strong>re. Quando questi incidenti succedevano in deserto,<br />

quasi sempre si concludevano in tragedia.<br />

Essendo io, in quei momenti, esonerato da turni e quindi disponibile, mi toccò la triste<br />

incombenza di costruire tre casse da morto, con tavole ricavate da casse di imballaggio.<br />

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Queste vittime non verranno mai a sapere che con il loro lavoro e sacrificio hanno<br />

contribuito ad aprire nuovi orizzonti all’economia del loro paese.<br />

La prova di strato che feci alcuni giorni dopo fu positiva: era stato scoperto un nuovo<br />

giacimento di petrolio, il più importante della Tunisia. Verso la fine di aprile rientrò dalle<br />

ferie l’operatore Begani e, con lo stesso aereo, partii per Tunisi, felice di poter ritornare a<br />

casa in Italia. Ma, a Tunisi mi attendeva una sgradita sorpresa, era arrivato l’ordine dalla<br />

Direzione di San Donato Milanese di recarmi subito in Libia.<br />

23 - In Libia per trasferire la cementatrice da Bengasi a El Borma<br />

A Tunisi attesi due giorni l’aereo che mi portò a Tripoli e poi a Bengasi; negli uffici della<br />

CORI mi fu chiarito il motivo del mio dirottamento. La scoperta del nuovo giacimento di El<br />

Borma in Tunisia, apriva nuove prospettive ed esigenze di lavoro; l’Agip mandò subito un<br />

altro impianto ed in seguito ne arrivarono altri due. Era stato deciso che fossi io a trasferire<br />

la mia cementatrice, il mio cavallo di battaglia in Marocco, dalla Libia a El Borma. Non<br />

potevo dire di no!<br />

Era rimasta nella Concessione 82 nel Deserto Libico e serviva un impianto solo perché non<br />

erano state montate le gomme a bassa pressione che avrebbero consentito di viaggiare sulla<br />

sabbia. Per potere superare il lungo tragitto di deserto sabbioso si rese necessario e<br />

conv<strong>eni</strong>ente il trasporto dell’unità con un mezzo articolato.<br />

Nell’attesa che la cementatrice arrivasse a Bengasi, trascorsi un paio di settimane al Foiat a<br />

preparare tutte le parti di ricambio giacenti in magazzino e l’attrezzatura che dovevo<br />

trasferire in Tunisia. Arrivò verso la fine di maggio, e ci volle ancora qualche giorno per<br />

verificare che non ci fossero problemi al motore od altri inconv<strong>eni</strong>enti, e che arrivassero<br />

altri due camion che trasportavano altro materiale. Il camion più grande, un “Tornicroft”<br />

inglese”, era guidato da un’autista Piacentino.<br />

Il Tornicroft La cementatrice in sosta all’Arco di Filene<br />

Alla partenza, il 6 Giugno 1964, l’ing. Pepe, che era venuto a salutarci, espresse qualche<br />

timore nei miei riguardi. Il dr. Crippa, stringendomi la mano, mi disse: “Vai Friulano: sono<br />

sicuro che ce la farai!”. Era incominciato il viaggio in camion più lungo della mia vita, circa<br />

2000 Km. Partii incolonnato con gli altri automezzi in direzione di Agedabia, ma dopo aver<br />

percorso una trentina di km non riuscivo più a cambiare le marce, la frizione slittava. Mi<br />

fermai ed attesi l’ultimo mezzo leggero della colonna, un gippone, che fece ritorno a<br />

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Bengasi e ritornò con il meccanico Mario Rotili, che riuscì in breve tempo a riparare il<br />

guasto.<br />

Ripresi il viaggio e raggiunsi gli altri automezzi che si erano fermati ad attendermi ad<br />

Agedabia, proseguendo il viaggio, di nuovo in colonna, verso Sirte, dove arrivammo a tarda<br />

sera. Trascorsi la notte in compagnia di molti scarafaggi, in una casa che, prima della<br />

guerra, forse era chiamata “albergo”. Il mattino successivo proseguimmo il viaggio sulla<br />

stretta strada costruita dagli Italiani, chiamata Sirtica. In quel periodo il sole scottava<br />

parecchio, la temperatura superava i 35 gradi, l’acqua minerale non era bevibile, per cui<br />

avevo appeso al finestrino, esposta alla corrente d’aria, la “ghirba“, recipiente fatto con la<br />

pelle di capra, molto in uso tra i nomadi, che serve per mantenere fresca l’acqua anche in<br />

deserto. La strada a tratti passava vicinissima al mare ed avevamo programmato una breve<br />

sosta a Ben Giauat dove arrivammo verso le 10 di mattina.<br />

C’era una sola casa con una stanza adibita ad osteria, all’esterno la pompa per il<br />

rifornimento agli automezzi. Mi tolsi pantaloncini e camiciola e mi tuffai in mare, distante<br />

poche decine di metri.<br />

Dopo essermi rinfrescato e tolto la polvere di dosso, assieme al Piacentino entrammo in<br />

quella bettola a bere una bibita; mentre eravamo seduti ad un tavolino entrò nel locale un<br />

Italiano, si presentò con una inconfondibile pronuncia toscana. Si trovava in Libia da diversi<br />

anni.<br />

V<strong>eni</strong>va con il suo camion da una concessione petrolifera americana ed era diretto a Tripoli,<br />

conosceva molto bene il tragitto e si offrì di unirsi a noi e farci da guida. Le strane<br />

coincidenze della vita! Stavamo chiedendo al Toscano, dove potevamo fermarci per il<br />

pranzo, quando la mia attenzione si concentrò su una fanciulla, apparsa all’improvviso,<br />

bella, slanciata, occhi e capelli neri, non credevo ai miei occhi, una visione irreale; non<br />

capivo come potesse trovarsi in quel luogo, una donna giovane sola.<br />

II nostro nuovo amico la conosceva, era al servizio del Libico, padrone del locale, e di<br />

qualche altro eventuale cliente, era Italiana la chiamavano “Maria dieci piastre”. Uscii dalla<br />

bettola e ripresi il viaggio portando impressa nella mia mente l’espressione smarrita del suo<br />

sguardo. Il Toscano partì per primo con il suo camion per indicarci la strada, e noi ci<br />

accodammo in colonna.<br />

Ci fu una prima breve sosta nel punto dove l’arco di “Filene” segnava il confine tra la<br />

Cirenaica e la Tripolitania, costruito per ricordare il luogo dove s’incontrarono i due fratelli<br />

che crearono le basi per l’unione dei due popoli. Così narra la leggenda. E qui la nostra<br />

guida c’indicò la strada da seguire per raggiungere la nuova meta: Tamanina, paese agricolo<br />

creato dagli emigranti italiani e battezzato ”villaggio Garibaldi”.<br />

Era il mezzogiorno di dom<strong>eni</strong>ca quando entrammo in questo villaggio con i nostri camion<br />

rombanti a turbare la quiete festiva. Proseguimmo per un breve tratto a piedi fino ad una<br />

piccola piazza.<br />

Dalla Chiesa antistante si udivano i rintocchi delle campane, la gente che aveva assistito alla<br />

Messa usciva e si fermava in piccoli gruppi sul sagrato; parlavano in vari dialetti italiani.<br />

Tutti indossavano l’abito della dom<strong>eni</strong>ca; io con la mia camiciola sdrucita e pantaloncini mi<br />

sentivo un po’a disagio, ma ho vissuto questo brevissimo spazio di tempo con la sensazione<br />

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di trovarmi in Italia. Questi emigranti, che con il loro duro lavoro e con grandi sacrifici<br />

avevano trasformato in giardini delle terre sabbiose, sono stati costretti, in seguito, ad<br />

abbandonare tutto. I Libici non hanno saputo continuare la loro opera ed ora il deserto si è di<br />

nuovo impossessato di queste oasi.<br />

Dopo aver pranzato al circolo Garibaldi con dei cibi cucinati all’Italiana, con un po’ di<br />

nostalgia nel cuore, proseguimmo il viaggio verso Misurata.<br />

<strong>Canciani</strong> davanti al monumento al Lavoro Italiano nel villaggio Garibaldi<br />

Poco prima di entrare in città, mi fermò la polizia, contestandomi un’infrazione per non<br />

avere concesso il sorpasso ad un’auto che, a causa della carreggiata stretta, aveva dovuto<br />

seguirmi per diversi km. Confesso che ho avuto un po’ di paura, ogni pretesto era buono per<br />

creare dei problemi agli Italiani. Non mi fu facile convincerli della mia buona fede. La<br />

nuvola di polvere sollevata dal mio mezzo, mi aveva impedito di vedere l’auto nello<br />

specchietto retrovisore, e di udire il suo clacson a causa del rumore del motore. Il poliziotto<br />

Libico era molto scuro di carnagione, masticava un po’ di Francese, comprese le mie ragioni<br />

e mi lasciò proseguire.<br />

Arrivammo ad Homs a sera tardi; il Toscano ci accompagnò in un albergo gestito da tre<br />

sorelle venete e proseguì il viaggio da solo. Mancavano cento Km. per arrivare a Tripoli e<br />

preferiva trascorrere la notte a casa. Salutandoci, ci fece promettere che saremmo andati<br />

l’indomani a pranzo a casa sua.<br />

Partimmo presto il mattino successivo per arrivare a Tripoli verso le 10 del mattino.<br />

Puntuale, il Toscano venne a prenderci in albergo; durante il pranzo, che fu delizioso, ci<br />

raccontò alcune delle sue disavventure. Aveva fatto trasporti con un camion di sua proprietà<br />

per alcune compagnie petrolifere, ma in seguito ad un incidente grave aveva avuto seri<br />

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problemi con le Autorità libiche, che gli sequestrarono il mezzo, e per vivere era costretto a<br />

lavori saltuari come autista.<br />

<strong>Canciani</strong> davanti alla Chiesa del villaggio Garibaldi <strong>Canciani</strong> sul lungomare di Tripoli<br />

La sua conoscenza di tutto il territorio libico ci era stata di grande aiuto durante il viaggio,<br />

volevamo in qualche modo contraccambiare la sua cortesia e lo invitammo a pranzo,<br />

assieme alla sua signora, il giorno dopo, in un ristorante italiano sotto i portici del<br />

lungomare di Tripoli.<br />

Tutta la mattinata del giorno seguente, la trascorsi alla base della Halliburton a prelevare del<br />

materiale e dei ricambi da portare in Tunisia. Rividi i miei amici a pranzo e il pomeriggio lo<br />

dedicammo ad una passeggiata sul lungomare, il porto, la fortezza Turca, la moschea e ad<br />

altro.<br />

Volgeva al termine questa breve amichevole parentesi, l’indomani dovevamo riprendere il<br />

viaggio, salutando il Toscano lo ringraziammo calorosamente per le sue cortesie. Le<br />

vicissitudini della vita ed il destino non mi consentirono di rivederlo, ma lo ricordo per la<br />

sua gentilezza d’animo.<br />

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24 - In Tunisia a El Borma.<br />

Dopo i due giorni di sosta a Tripoli, riprendemmo il viaggio diretti al confine, attraversando<br />

la cittadina di Sabrata, che avrebbe meritato una visita accurata per le molte testimonianze<br />

dell’impero Romano. Giungemmo a Zuara, l’ultimo paese in territorio libico, ed entrammo<br />

nell’unico piccolo ristorante del paese; ad un tavolo vicino al nostro pranzava una donna in<br />

camice bianco, un’infermiera italiana, da sola. Ritornando con il pensiero a quel giorno, mi<br />

sento ancora in bocca il bruciore causato dal peperoncino usato per condire la pastasciutta.<br />

C’inoltrammo per alcuni km. in territorio tunisino prima di arrivare al primo paese di<br />

confine, Ben Gardane. Alla dogana si presentò un impiegato piacentino, Braghi, mandato<br />

dalla direzione della SITEP di Tunisi, con l’ordine perentorio che avrei dovuto proseguire il<br />

viaggio da solo con la cementatrice. Alla mia richiesta di spiegazioni. m’insospettì la sua<br />

reticenza, ed insistetti per sapere il motivo; al suo diniego mi rifiutai di partire e, dopo<br />

un’animata discussione, venne fuori la verità!<br />

Al campo di El Borma era scoppiata un’epidemia, solo a me era concesso l’onore<br />

dell’eventuale rischio di essere contagiato. Alle sue minacce, risposi con una parola che non<br />

trascrivo, per non sentirne l’odore uscire dal computer.<br />

Alla fine chiesi di parlare al telefono con gli uffici di Tunisi, che in parte mi<br />

tranquillizzarono: dalle ultime notizie radio dei sanitari inviati al campo, la situazione non<br />

sembrava più così grave, le deformazioni al viso riscontrate a diverse persone potevano<br />

essere attribuite ad un’intossicazione alimentare.<br />

Proseguimmo il viaggio su strada asfaltata fino alla cittadina di Med<strong>eni</strong>ne, continuando poi<br />

diretti al Sud verso l’interno della Tunisia. La pista da seguire inizialmente era su un<br />

affioramento roccioso, una zona accidentata con basse montagne di terra rossa tagliate dal<br />

vento, formate da vari strati di colori diversi. La giornata era stata faticosa e piena<br />

d’imprevisti, il caldo si faceva sentire, ci fermammo la sera all’imbrunire. La cena, un<br />

panino con una bottiglia di latte acquistato alla partenza da Ben Gardane. Tentai di<br />

scambiare qualche impressione sugli avv<strong>eni</strong>menti della giornata con il Piacentino, autista<br />

del “Tornicrof ” e mio compagno di viaggio, ma era una persona molto riservata, le parole<br />

gli uscivano dalla bocca con il contagocce; con gli arabi dialogare era difficile. Alla fine mi<br />

sdraiai sul sedile del camion, cercando di riposare un po’ per affrontare l’indomani una<br />

nuova giornata di viaggio.<br />

Remada era il prossimo punto di riferimento prima di inoltraci nella zona più insidiosa;<br />

alcuni km di deserto di sabbia e dune che circondavano El Borma. Il camion del Piacentino,<br />

che era corredato di un treno di gomme a bassa pressione adatte per viaggiare sulla sabbia,<br />

avanzava senza incontrare problemi e non si curava molto del fatto che io potessi trovarmi<br />

in difficoltà, forse voleva tagliare per primo il traguardo. Con le gomme artiglio della<br />

cementatrice io procedevo a singhiozzo ed ero rimasto indietro, uscivo da una buca e dopo<br />

pochi metri sprofondavo di nuovo. La responsabilità alla base di questi inconv<strong>eni</strong>enti era da<br />

attribuirsi alla miopia di un dirigente, che, con l’intento di far risparmiare qualche lira<br />

all’azienda, non considerava difficoltà, rischi, contrattempi e sacrifici del personale.<br />

Dopo alcune ore di tentativi inutili, ricorsi ad un espediente, che avevo visto adottare spesso<br />

nei Gruppi sismici in caso di terr<strong>eni</strong> particolarmente insidiosi: sgonfiai quasi tutta la<br />

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pressione nelle gomme. Correvo il rischio che i cerchioni le riducessero a brandelli, ma non<br />

avevo alternative; proseguii lentamente a marce ridotte e finalmente, superate le dune, vidi<br />

spuntare la torre dell’impianto.<br />

Cementatrice insabbiata sulla pista di El Borma Panorama di El Borma (Pasquetto)<br />

Giunto al campo, si avvicinò a salutarmi e congratularsi per la mia impresa il capo sonda<br />

Monfredini, che avevo conosciuto in Marocco. Il medico che l’accompagnava mi fece una<br />

iniezione nella schiena. Era il 13 giugno del 1964 giorno di S. Antonio, il Santo Patrono del<br />

mio paese, Gemona del Friuli. Il viaggio era durato otto giorni. Il periodo di missione in<br />

Tunisia, che dal 1° di Aprile doveva durare meno di un mese, si concluse alla fine del mese<br />

di Giugno.<br />

Una ventina di giorni tra ferie e recuperi da trascorrere con la famiglia, il tempo di preparare<br />

di nuovo le valige e ripartire il 20 Luglio 1964 per ritornare in contratto in Tunisia. Il<br />

lavoro che avevo ripreso in Italia con il servizio perforazione, mi avrebbe comunque<br />

obbligato a continui spostamenti e conseguenti disagi lontano dalla famiglia. In quel modo<br />

l’azienda mi aveva messo in una situazione tale da indurmi a ritenere più conv<strong>eni</strong>ente<br />

accettare un nuovo contratto di lavoro all’estero della durata d’un anno con la SITEP nel<br />

campo di El Borma.<br />

Non era facile reperire personale specializzato da inviare all’estero, l’azienda, o chi per essa,<br />

speculava al risparmio sulla pelle dei lavoratori. Nel mio caso, anziché essere avvantaggiato<br />

dalle esperienze acquisite in varie attività e lavori, diventava un motivo per sfruttare la mia<br />

versatilità, senza che me ne derivasse alcun beneficio economico o normativo rispetto al<br />

trattamento riservato ad altri.<br />

Mi ritrovai di nuovo a El Borma, con tre mansioni diverse, a fare il Jolly, così erano definite<br />

le mie mansioni: addetto al controllo dell’attrezzatura di sonda, sostituire il capo officina<br />

nel periodo di ferie, coadiuvare e sostituire l’operatore Halliburton in caso di necessità.<br />

Una situazione ibrida non confacente al mio carattere. Con il capo officina A. Spagnoletto,<br />

con il quale avevo vissuto gli anni duri d’Albania, ci fu un amichevole e ottimo rapporto di<br />

collaborazione. Non posso dire la stessa cosa di Begani, l’operatore Halliburton, più<br />

propenso a mietere gli allori conquistati con i sacrifici degli altri che a cercare di<br />

guadagnarseli con il suo lavoro. La mansione di controllo dell’attrezzatura era un lavoro<br />

molto pesante, da svolgere sotto il sole cocente con il solo aiuto di uno o due manovali<br />

tunisini. Questa era la situazione obiettiva in cui mi ero trovato a svolgere il mio lavoro.<br />

Non mancavano certamente i lati positivi, soprattutto in prospettiva. Il cantiere era in fase di<br />

crescita; erano arrivati altri due impianti di perforazione, uno di questi francese, per<br />

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delimitare l’estensione del giacimento. Arrivarono anche diversi amici, con i quali avevo<br />

lavorato in Marocco ed in Libia, tra questi il dr. Crippa, l’ing. De Martin ed altri: c’erano<br />

tutte le premesse per un miglioramento radicale del clima e dell’ambiente di lavoro al<br />

termine della riorganizzazione del cantiere. In breve tempo, tutto il personale, pur lontano<br />

dalla famiglia, avrebbe potuto trascorrere una vita con meno disagi.<br />

Tre anni più tardi l’amico Giovanni Pasquetto, reduce da El Borma, mi raccontò che dopo<br />

aver perforato 27 pozzi, sulla nuova pista dell’aeroporto atterravano i Jet, il minareto di una<br />

moschea si ergeva verso il cielo, la mensa era diventata un ristorante, campi da tennis e<br />

piscina ed altre am<strong>eni</strong>tà e iniziative per il tempo libero.<br />

Il ritrovamento del petrolio a El Borma fece la fortuna dell’Agip e della Tunisia, fu uno dei<br />

più vantaggiosi contratti stipulato tra L’Eni e la nuova società SITEP. Di tutti questi<br />

benefici, ai quali penso di aver dato il mio piccolo contributo, non mi è rimasto altro che il<br />

ricordo e la speranza di rivedere un giorno la città di Tunisi.<br />

Rammento il piccolo ristorante dove andavo a pranzare: “La petit cote” (piccola costa), e l’<br />

“Arc de France” , vicino al mercato artigianale, il suk, il casinò sulla collina, splendida<br />

costruzione in stile arabo, Cartagine, con reperti e vestigia Romani.<br />

25 - Nuovo Contratto in Libia, nella Concessione 82<br />

Rientrato in Italia per un periodo di ferie, alla fine del 1964 non feci ritorno in Tunisia. Il 16<br />

gennaio 1965, per la terza volta, ritornavo in Libia. Era stata individuata una nuova struttura<br />

nella Concessione 82, denominata “Zona R”. Francamente ora non saprei indicarla su una<br />

normale cartina topografica, era sicuramente molto lontana dai primi due pozzi perforati, B1<br />

e B2.<br />

La nuova zona da esplorare si trovava al centro di una catena di dune tanto alte da sembrare<br />

montagne. Avevamo battezzato la più grande “la duna del morto” ,perché vi erano stati<br />

ritrovati i resti di un uomo e di un cammello. Avevano avuto la sventura di perdersi in<br />

quello sterminato deserto, andando incontro ad una morte orrenda..<br />

Alla direzione della CORI a Bengasi a sostituire l’Ing. Pepe era venuto l’ing. Donna, mentre<br />

l’ing. Cremaschi aveva sostituito Aurelio De Martin. Orlandi, già Capo Sonda in Marocco,<br />

era il Capo Cantiere.<br />

Io, sempre con le mie solite mansioni di Operatore Halliburton, alternavo lunghi periodi in<br />

deserto a brevi soggiorni a Bengasi alla base del Foiat. In queste occasioni avevo trovato<br />

ospitalità, in pensione, in casa di due coniugi bolognesi, i sig. Ventura, il marito assunto<br />

dalla CORI. Erano residenti in Libia da oltre venti anni. Due persone disponibili e gentili,<br />

ricordo i piatti prelibati che preparava la signora, che era un’ottima cuoca. Una soluzione<br />

che consentiva a loro di realizzare un piccolo guadagno, a me un risparmio notevole rispetto<br />

ai prezzi che avrei dovuto pagare negli alberghi e ristoranti di Bengasi. Purtroppo la cosa<br />

non durò molto, perché a loro conv<strong>eni</strong>va avere un inquilino fisso e non saltuario come me.<br />

Fui costretto a trovare una soluzione di compromesso: mi accordai con due colleghi di<br />

lavoro, Rodolfo Dusi ed un motorista di Parma, ed affittammo un appartamento, dividendo<br />

la spesa. Ci arrangiavamo a turno a prepararci qualcosa da mangiare, l’intervallo di 3 ore<br />

pomeridiane ci consentiva di fare la spesa e preparare il pranzo.<br />

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La bravura e capacità tecniche dell’ing. Donna erano pari alla sua “oculatezza” nello<br />

spendere i soldi dell’Azienda, tanto da meritarsi il nomignolo scozzese di “Mac Donnail”.<br />

Il personale di sonda, diviso in quattro squadre, godeva del privilegio, non previsto dal<br />

contratto, di rientrare in Italia ogni due mesi e mezzo per 20 giorni, accumulando ferie e<br />

festività non godute. Per quanto mi concerne, non sono mai stato in grado di godere di<br />

questo beneficio. Richiedere un sostituto alla Halliburton avrebbe inciso troppo sul budget<br />

dell’azienda, non posso non ricordare, con una punta di risentimento, che il periodo più<br />

breve trascorso in deserto fu di quattro mesi. Quando il mio equilibrio mentale sembrava<br />

vacillare, unico diversivo era il permesso di trascorrere alcuni giorni a Bengasi. Qualche<br />

invito a pranzo in casa d’amici che avevano la famiglia, Bernardi, Rotili; alla sera, un’ora di<br />

svago al Ber<strong>eni</strong>ce, il casinò sul bellissimo lungomare. Con Tirloni e la sua famiglia, il venerdì,<br />

giorno festivo per i mussulmani ed anche per noi, andavamo a pescare nella zona di Tocra, nota per<br />

le tombe Romane.<br />

Fu in una di queste brevi soste a Bengasi, non ricordo la data, che ci fu una forte scossa di<br />

terremoto con epicentro a Barce, sull’Altopiano del Gebel. Dopo alcuni giorni, Tirloni ed io<br />

ci recammo a visitare questa cittadina, dove i danni erano stati ingenti. La chiesa cattolica<br />

quasi completamente distrutta. Rammento l’ultimo frate francescano italiano rimasto,<br />

rannicchiato in un angolo tra le macerie, le scarpe senza lacci, il saio consunto, il viso<br />

impolverato, le lacrime gli rigavano il volto.<br />

Solo custode della fede cattolica in quel desolato paese, s’interrogava come neppure Dio<br />

fosse in grado di domare le forze della natura. Non so se i Libici siano riusciti a ricostruire il<br />

paese di Barce e ridargli la bellezza che aveva raggiunto grazie al lavoro degli emigrati<br />

Italiani. La fascia costiera, che si estende per alcuni km verso l’altopiano del Gebel. inizia<br />

dopo Bengasi e prosegue oltre Tobruk, una delle zone più verdi e lussureggianti della Libia.<br />

Nel febbraio del 1965 iniziò la perforazione del pozzo R 1. Non mi soffermo sui tanti<br />

particolari tecnici, ma ricordo invece un episodio che mi è rimasto impresso nella mente. È<br />

un caso umano sul quale voglio soffermarmi per ricordare la tragedia legata a questo pozzo,<br />

la malasorte che scelse la sua vittima tra questi operai soggetti ad un pesante lavoro, in turni<br />

continuati e con temperature elevate. Il capo perforatore Lucchi aveva finito alle ore 20 il<br />

suo turno di lavoro. La discesa nel pozzo della colonna da 9-5/8” ad una profondità di oltre<br />

3.000 m era iniziata al mattino. Si era verificato a volte, che si bloccasse a causa di frane nel<br />

foro, ma in questa circostanza tutto andò liscio. Alle 10 di sera era terminata anche la<br />

cementazione, l’ultimo tubo era rimasto circa tre metri sopra il piano sonda: Come era<br />

prassi, avvitai una saracinesca chiusa in testa all’ultimo tubo, a sua volta collegata ad un<br />

tubo flessibile di scarico da 2 pollici.<br />

Il capo squadra che doveva montare con il turno delle 4 del mattino, a causa di<br />

un’indisposizione, fu sostituito da Lucchi, costretto ad anticipare di un turno la sua ripresa<br />

del lavoro. Verso le 5 del mattino, salito su una scaletta, aprì la saracinesca per scaricare la<br />

pressione che si era accumulata all’interno dei tubi a causa del surriscaldamento del<br />

cemento. Probabilmente il povero Lucchi si era scordato di far collegare il tubo flessibile al<br />

tubo di scarico, per cui l’improvviso flusso d’aria ad alta pressione fece roteare il tubo<br />

flessibile, che lo colpì con violenza alla testa.<br />

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Accorse subito il Capo Cantiere Orlandi, il ferito fu portato in una baracca, dove una piccola<br />

stanza era adibita ad infermeria; oltre agli impacchi freddi alla testa, si cercò qualcuno che<br />

fosse capace di fare un’iniezione per bloccare l’emorragia, ma nessuno dei presenti era in<br />

grado di interv<strong>eni</strong>re.<br />

Di fronte a questa tragedia ci guardavamo smarriti. Tentammo più volte di metterci in<br />

collegamento radio con la direzione di Bengasi, ma gli uffici aprivano alle 9 del mattino.<br />

Quattro ore che gli furono fatali! Arrivò l’aereo, poco prima delle 13, e quando lo<br />

caricammo era ancora vivo; spirò alle 14,30, mentre il DC3 era in fase di atterraggio<br />

all’aeroporto di Bengasi.<br />

Mi raccontò poi Ventura, l’autista della CORI, che la salma rimase per otto giorni in un<br />

magazzino. Il medico che fu chiamato per preparare il corpo all’ultimo viaggio, pur essendo<br />

sconvolto, disse che non aveva mai visto un uomo tanto robusto e sano. Prima di procedere<br />

alla chiusura della cassa, pregò l’amico Ventura di recitare una preghiera.<br />

Sul periodico NIA, Notiziario Interno Agip, distribuito a tutto il personale in servizio e<br />

pensionati con l’intento di tenerli aggiornati sui progressi e le conquiste, in Italia e<br />

all’Estero del Gruppo Agip, alcuni articoli trattano specificatamente le capacità ed i meriti<br />

di dirigenti, geologi, tecnici, ecc…<br />

Non voglio assolutamente mettere in dubbio le loro capacità professionali; ma mi rende<br />

perplesso il fatto che tra le migliaia di dipendenti e le centinaia di coloro che per anni hanno<br />

prestato la loro opera all’Estero, non ho mai letto il nome di un operaio che avesse meritato<br />

di essere ricordato.<br />

Scusate la mia ingenua meraviglia, ma non posso non ricordare un altro episodio; una foto<br />

di gruppo pubblicata su NIA n° 130, dove la didascalia fa il solo nome del Geologo del<br />

Sottosuolo, gli altri tre erano marziani? Quello che mi rammarica di più è che la memoria<br />

col tempo si dissolva e non vengano più ricordati coloro che sono morti sul lavoro in Italia e<br />

lontano, in vari paesi, Albania, Marocco, Libia, Biafra, Tunisia, Egitto.<br />

Il capo perforatore ed amico Lucchi era solamente un onesto lavoratore, un gigante buono,<br />

disponibile e altruista, con il merito di essere venuto a lavorare in Libia per assicurare ai<br />

suoi quattro figli un avv<strong>eni</strong>re migliore. A loro dedico questa breve poesia:<br />

“Quando verrai a cercare la mia croce in camposanto, in un cantuccio la ritroverai.<br />

E molti fiori le saranno nati accanto. Cogli allora per i tuoi biondi capelli,<br />

i fiori nati dal mio cuore sono quelli, i canti che pensai ma che non scrissi,<br />

le parole d’amore che non vi dissi.”<br />

26 - C’è petrolio nel pozzo R1.<br />

La profondità del pozzo R 1 aveva superato i 4000 m, ma le varie prove di strato eseguite<br />

fino ad allora erano risultate sterili. In base ai dati della sismica, che davano un’indicazione<br />

abbastanza precisa, avremmo dovuto incontrare lo strato mineralizzato non oltre i 4200m.<br />

Ma i campioni di roccia che risalivano con la circolazione del fango non segnalavano alcuna<br />

variazione dei terr<strong>eni</strong> attraversati dallo scalpello. Eravamo in attesa di ordini dalla<br />

Direzione di San Donato Milanese, che tardarono ad arrivare a causa di alcune festività. Fu<br />

così che nell’attesa, per non lasciare inoperoso il personale e per evitare eventuali frane nei<br />

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mille metri di foro scoperto, che il capo sonda Orlandi, d’accordo con l’ing. Donna, decise<br />

di proseguire la perforazione.<br />

I geologi di cantiere controllavano al microscopio, ad intervalli di un metro, i campioni dei<br />

frammenti di sedimenti (cutting) trasportati in superficie dal fango di perforazione e raccolti<br />

al vibrovaglio, per verificare eventuali variazioni nella composizione degli strati geologici<br />

perforati dallo scalpello o la presenza di idrocarburi: cercavamo le arenarie. Mancava il<br />

“cuttista” libico che aveva il compito di recuperare i campioni dal vibrovaglio e portarli ad<br />

analizzare nella baracca dei geologi. Io mi offrii di sostituirlo e per innumerevoli volte feci<br />

la spola dalla baracca dei geologi al piano sonda, alla fine zoppicavo a causa di una piaga<br />

che mi era venuta al tallone del piede destro.<br />

Il Caposonda Orlandi al pozzo R1 Il geologo Santalmasi dopo l’esame del petrolio<br />

Di notte, verso le 11, mentre v<strong>eni</strong>va analizzato l’ennesimo campione, al microscopio<br />

apparvero i primi granelli di sabbia che aumentavano in percentuale ad ogni metro che la<br />

trivella procedeva in profondità, a 4146 metri avevamo raggiunto il tanto atteso strato<br />

d’arenaria. Era l’ 11 Giugno 1965.<br />

L’Agip aveva scoperto il suo primo giacimento di petrolio in Libia, poi chiamato Rimal.<br />

Appena informato della novità, mi chiamò, col ponte radio da Bengasi, l’ing. Donna e mi<br />

ordinò di preparare l’attrezzatura per fare una prova di strato in foro scoperto alla profondità<br />

di oltre 4100m.<br />

Ci fu un imprevisto, che non causò gravi problemi: il petrolio misto a gas entrato nelle aste,<br />

causò una sovrapressione che non permise l’apertura della valvola di circolazione inversa<br />

della batteria di prova. La pressione del gas accumulato nelle aste, spingeva fuori dal pozzo<br />

il petrolio, che imbrattò tutto l’impianto e il terreno circostante per varie decine di metri<br />

intorno alla sonda.<br />

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<strong>Canciani</strong> con l’attrezzatura di superficie <strong>Canciani</strong>, Falsetti e Savina sul piano sonda R1<br />

In questa circostanza, per ricordare l’evento, furono fatte delle foto di gruppo, in una di<br />

queste, scattata sul piano sonda del pozzo R1 e pubblicata sulla rivista NIA dell’AGIP nel<br />

dicembre 1998, assieme al Sottosuolista Santalmasi, in missione, appaiono due motoristi e a<br />

destra, rannicchiato, con il bianco copricapo arabo, c’è il sottoscritto “Operatore<br />

Halliburton” Arnaldo <strong>Canciani</strong>. Se mi è concesso un piccolo commento, senza volere<br />

peccare di presunzione, penso che quel po’ di merito che deve essere riconosciuto al<br />

personale della CORI , vada distribuito in ordine gerarchico all’ing. Mario Donna, al Capo<br />

Sonda Tommaso Orlandi, ai geologi e al personale presente in cantiere.<br />

Furono perforati altri due pozzi nella zona R, che risultarono sterili, ma la scoperta del<br />

pozzo R 1 indusse l’Agip ad acquisire la vicina Concessione ex 80 rilasciata dalla BP,<br />

chiamata poi “Concessione 100”, dove venne scoperto il grande giacimento di Bu Attifel.<br />

Rimal produce ancora oggi 25.000 barili al giorno contro i 140.000 della 100. Il petrolio<br />

anche qui fu trovato oltre i 4000 metri. I pozzi di ricerca fatti dalla compagnia inglese BP<br />

non superavano la profondità di 2500m: L’esplorazione, oltre questa profondità, era allora<br />

considerata dalla BP economicamente non vantaggiosa. Ultimate le ricerche nella zona R,<br />

tutta l’attività si concentrò nella nuova Concessione 100; arrivarono altri impianti e tra<br />

questi uno Francese. Quando al termine del contratto lasciai la Libia si stava perforando il<br />

5° pozzo: UD 1.<br />

Felice di ritornare a casa ero salito sul DC3 che era in attesa di completare il carico per<br />

decollare, quando veloce arrivò una Jeep a prelevarmi: ultimo risparmio dell’Ing. Donna<br />

sulla mia pelle.<br />

Fui costretto a rimandare la partenza di una decina di giorni per fare un’ altra prova di<br />

strato.<br />

Il contratto di lavoro in Libia con la CORI si era concluso il 20 Settembre 1966; trascorsi un<br />

breve periodo di ferie a Borca di Cadore con la famiglia per ritemprarmi il fisico e lo<br />

spirito.<br />

Anche l’ing. Donna in quel periodo era ospite di questo villaggio costruito dall’Eni per i<br />

suoi dipendenti, lo incontrai un paio di volte e cercò di convincermi a ritornare in Libia, ma<br />

io rifiutai!<br />

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Lo rividi un’ultima volta molti anni dopo, in occasione di un pranzo natalizio, e mi disse che<br />

mi trovava molto bene. Gi risposi che il merito era tutto suo, per la lunga cura di deserto che<br />

mi aveva fatto fare in Libia.<br />

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27 - Missione in Iran sul Gatto Selvatico<br />

Chiusa la parentesi del brevissimo soggiorno in montagna, fui ripreso in forza dall’Agip e<br />

inviato in missione in Iran, nel Golfo Persico, sulla piattaforma Gatto Selvatico, che stava<br />

perforando un pozzo in prossimità della costa vicino al terminale dove v<strong>eni</strong>vano rifornite le<br />

grandi petroliere.<br />

Partii il 20 Settembre 1966 con un aereo dell’Alitalia dall’aeroporto della Malpensa fino a<br />

Roma, da qui proseguii il viaggio con la JAL, linea aerea giapponese; 2 ore di sosta al Cairo<br />

in Egitto e da qui fino a Teheran, 5 ore di viaggio trascorse veloci conversando con in varie<br />

lingue su vari argomenti con un gruppo di medici che si recavano ad un simposio di<br />

medicina a Bangkok.<br />

Prima della partenza per Teheran, la capitale iraniana, incontrai all’aeroporto l’ing.<br />

Faverzani, Direttore delle Attività Estero dell’Agip; all’imbarco di Roma aveva insistito<br />

molto per cedermi il suo posto in prima classe. Venni a sapere poi che si sentiva più<br />

tranquillo viaggiando in coda all’aereo. Ci recammo assieme in taxi nello stesso albergo.<br />

Era una persona gentile, ma molto riservata.<br />

Approfittai dei due giorni d‘attesa dell’aereo per Abadan per visitare Teheran, che si trova a<br />

1.000 metri d’altitudine, circondata da alte montagne, clima secco, strade parallele e<br />

squadrate come a Torino, donne more, belle , longilinee. Paese allora tranquillo, governato<br />

dallo Shah. Ci vollero circa tre ore con un volo di linea iraniano per arrivare ad Abadan, ,<br />

città sul golfo Persico, il fiume Karum la divide da Khoramshar; un lungo ponte sul fiume,<br />

molto trafficato serve al collegamento via terra delle due cittadine. Il cantiere che<br />

comprendeva gli uffici, magazzini e servizi vari si trovava a Khoramshar, e così pure la villa<br />

con giardino e piscina “guest house”, casa degli ospiti, con alcune camere, servizi e mensa<br />

che serviva ai dipendenti senza famiglia ed al personale in transito, “arrivi e partenze”. La<br />

maggior parte del personale amministrativo si era fatto raggiungere dai famigliari ed abitava<br />

in case private.<br />

Piattaforma di produzione nel Golfo Persico La “gabbia” per il trasferimento a bordo<br />

Trascorsi la notte in questo motel aziendale, ed il mattino successivo con l’elicottero<br />

raggiunsi la piattaforma. Il Gatto Selvatico posava le sue tre grandi zampe triangolari su un<br />

fondale marino di oltre 50 metri di profondità. In alto l’eliporto, dal quale si scendeva con<br />

una ripida scaletta agli uffici e agli alloggi del personale italiano da una parte, sul lato<br />

opposto della piattaforma triangolare erano sistemati gli Iraniani. Sul terzo lato del triangolo<br />

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era fissata la sottostruttura dell’impianto, dalla quale si ergeva la torre di perforazione.<br />

Sotto, nella stiva di questa specie di nave, si trovava il cuore pulsante di tutta la struttura,<br />

sala motori pompe, cementatrice, silos per il cemento, gruppi elettrog<strong>eni</strong>, ecc.<br />

Una gru con una lunga antenna, serviva a recuperare i rifornimenti di materiale dalla nave<br />

appoggio e per fare salire o scendere il personale che arrivava con il motoscafo d’alto mare.<br />

Il capo sonda era Fumagalli, che avevo conosciuto sul Paguro quando perforava nel Mare<br />

Adriatico di fronte a Ravenna. Condividevo la cabina con l’esperto marinaio toscano, che<br />

aveva navigato per molti anni su grosse navi da pesca. Il caldo era opprimente, il tasso<br />

d’umidità 80—90%. In sala macchine il personale lavorava con i soli pantaloncini. Per<br />

fortuna, l’aria condizionata arrivava in tutti gli alloggi. Il mio passatempo preferito era la<br />

pesca, alla quale dedicavo le ore libere pomeridiane e la sera fino a tardi. Il bagno in mare lo<br />

facevamo dentro una grande vasca di lamiera, che calavamo in mare con la gru per evitare<br />

di essere preda dei numerosi pescecani. Questa prima missione in Iran durò due mesi e si<br />

concluse il 20 novembre 1966.<br />

28 - Trasferito alla Snam e poi alla Saipem<br />

Il giorno successivo al mio rientro dall’Iran, il 21 Novembre 1966, subii la stessa sorte<br />

toccata a tutto il personale dipendente dal Servizio Perforazione, fui trasferito alla Snam di<br />

Cortemaggiore. I soliti passaggi da una società ad un’altra del gruppo Eni per speculare<br />

sulla diversità di trattamento economico stabilito dai rispettivi contratti di lavoro. Questo<br />

cambio di azienda non durò a lungo, il primo Ottobre del 1969 ci fu un ulteriore<br />

trasferimento ad un’altra società: la Saipem, allora una azienda del gruppo Eni con alcune<br />

centinaia di dipendenti, ai quali si applicava il contratto dei metalmeccanici e cosi tutto il<br />

personale del Servizio Perforazione, prima dipendente dell’Agip e poi della Snam, fu<br />

incorporato dalla Saipem. Il gioco era fatto!<br />

A parità di categoria, la diversità di stipendio era conteggiata come assegno “ad personam”,<br />

che poteva essere assorbito solo con aumenti salariali o eventuali passaggi di categoria.<br />

Cosi, di punto in bianco, fui declassato di una categoria, da Intermedio di 1° grado a<br />

Operaio Specializzato, continuando a fare il mio lavoro di Operatore Halliburton. Non so<br />

chi sia stato il g<strong>eni</strong>o artefice di questa truffa, fatta sulla pelle dei lavoratori, e non mi è dato<br />

neppure sapere se l’Agip riuscì a pareggiare i bilanci con queste sue speculazioni, ma una<br />

cosa è certa: scrutando a fondo il rovescio della medaglia, il mio giudizio nei confronti di<br />

molti grandi Dirigenti, di Cefis e forse anche di Mattei, non può che essere critico.<br />

Il fatto di essere costretti in continuazione a cambiare i diretti superiori crea già<br />

comprensibili problemi; quando poi un operaio, dopo anni di lavoro e sacrifici, ha raggiunto<br />

la meta prefissata, diventa intollerabile dovere ricominciare tutto da capo come se la data di<br />

assunzione risalisse al giorno precedente. Personalmente mal sopportavo la situazione che si<br />

era venuta a creare, ma continuavo comunque, anche se con animo depresso, a fare il mio<br />

lavoro con lo stesso impegno e attenzione. I continui spostamenti da Ravenna a Vasto, sulla<br />

piattaforma Perro Negro in mare, non mi lasciavano molto tempo per recriminare.<br />

Nella primavera del 1967 ero in viaggio diretto a S<strong>eni</strong>gallia, dove dovevo eseguire una<br />

cementazione a mare. A Pesaro decisi di fermarmi e prendere il treno successivo, telefonai<br />

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al dr.. Mandolini, che mi raggiunse subito alla stazione per abbracciarmi. Un’ora di tempo<br />

per rievocare le comuni sofferenze in Albania, non lo avevo più visto dal giorno di Pasqua<br />

del 1949; questa fu l’ultima volta che ebbi l’occasione d’incontrarlo; morì nel Giugno del<br />

1974.<br />

Arrivai a S<strong>eni</strong>gallia a tarda sera, trascorsi la notte in un albergo ed il mattino seguente<br />

raggiunsi la piattaforma con un motoscafo. Da bordo con la gru ci calarono la gabbia, le<br />

onde spostavano in continuazione l’imbarcazione e non era facile afferrare al volo le corde<br />

della gabbia, per due volte mancai la presa e se non mi avesse afferrato il comandante, sarei<br />

caduto in mare.<br />

Eseguita l’operazione di cementazione della colonna, chiesi al capo sonda Brunato se<br />

potevo rimandare la partenza di due o tre giorni per evitare di dovere affrontare un altro<br />

viaggio di andata e ritorno in treno a distanza di poche ore, considerando che era previsto a<br />

breve un altro mio intervento. All’arroganza della sua risposta, la mia reazione fu adeguata,<br />

la diplomazia non è mai stato il mio forte! Dopo alcuni giorni arrivò una lettera dalla<br />

Direzione di San Donato Milanese dove mi si comunicava che, in base al rapporto fatto da<br />

Brunato, era stato preso a mio carico un provvedimento disciplinare: “tre giorni di<br />

sospensione”. Alla prima lettera ne seguirono altre due, perché io mi ero rifiutato di partire<br />

di nuovo per S<strong>eni</strong>gallia.<br />

Dopo decenni d’onesto lavoro, il boccone fu certamente amaro da digerire, il mio<br />

atteggiamento poteva avere anche delle conseguenze più gravi, ma io non ero intenzionato<br />

a modificare la mia posizione. L’ing. Copertini, vista la mia incompatibilità di carattere con<br />

il capo sonda che comandava l’impianto di S<strong>eni</strong>gallia, decise di sostituirmi con l’operatore<br />

Boccalini, ex dipendente Halliburton.<br />

Trascorsi molti mesi a disposizione a Cortemaggiore nel piccolo laboratorio dove Ferrari<br />

riparava e tarava tutti gli strumenti. Cercavo di rendermi utile aiutandolo, nessuno mi<br />

chiamava o mi dava qualche ordine di lavoro, vivevo con l’impressione che i miei superiori<br />

mi avessero abbandonato, dimenticato. Certamente mi trovavo in una situazione umiliante<br />

per uno come me abituato a lavorare seriamente e a non stare senza fare niente.<br />

29 - Ultime missioni in Libia e Iran<br />

Ci fu una parentesi nell’Ottobre del 1967, quando mi recai in Libia per una breve missione<br />

di quaranta giorni a sostituire l’operatore che era rientrato in Italia per un periodo di ferie.<br />

Rientrato in sede, un altro lungo periodo di giornate monotone e scialbe in attesa che<br />

qualcosa cambiasse, quando si presentò l’ opportunità per la mia ultima missione all’estero<br />

di circa tre mesi, ancora in Iran sul Gatto selvatico.<br />

Alcuni avv<strong>eni</strong>menti accaduti su questa piattaforma penso siano meritevoli di essere narrati.<br />

Ero partito il 9 Aprile 1968 da Milano con un volo diretto a Teheran, da qui con un aereo<br />

Iraniano per Abadan; con l’elicottero, che settimanalmente effettuava il cambio del<br />

personale, raggiunsi la piattaforma “Gatto Selvatico”. Non ricordo se fu lo stesso mese o il<br />

successivo, quando l’elicottero, mentre era in volo senza passeggeri verso l’impianto, a<br />

causa di un’avaria dovette fare un ammaraggio di fortuna, ma le due camere d’aria laterali<br />

gli permisero di rimanere a galla. Il pilota, dopo aver lanciato più volte l’SOS, si sedette a<br />

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cavalcioni sulla coda. Fu raggiunto da un barcone e trainato in prossimità della piattaforma,<br />

la gru che avevamo a bordo sollevò l’elicottero posandolo su una grossa barca da trasporto,<br />

così terminò l’avventura a lieto fine di quel pilota. A me è rimasto il rammarico di non avere<br />

potuto immortalare la scena con una foto.<br />

Il mese di Maggio ci fu il passaggio di numerose anguille. Nelle ore pomeridiane di pausa,<br />

scendevo la scaletta a chiocciola fissata all’interno della struttura di una gamba del Gatto,<br />

vicinissimo alla superficie del mare, lanciavo i miei quattro ami, abboccavano subito ma<br />

bisognava essere lesti a recuperare il pescato per evitare che diventasse preda degli squali.<br />

La scorta di pesce nel congelatore abbondava, tanto da portarne in dono una decina di chili<br />

ai marinai della petroliera Agip Ravenna da 50.000 tonnellate, ancorata al terminale distante<br />

da noi circa 4 km. Calata in mare la scialuppa, l’esperto marittimo m’invitò a seguirlo,<br />

giunti sotto bordo della nave un marinaio ci gettò la” grisindella”, una scaletta di corda per<br />

salire a bordo, un’esperienza che non mi sentirei di ripetere: la nave vista da sotto<br />

impressionava, mi sembrò di dare la scalata ad un palazzo di dieci piani.<br />

Il Gatto Selvatico in postazione nel Golfo Persico<br />

Il periodo di missione sul Gatto Selvatico durò circa tre mesi, il 20 giugno ci fu il tubaggio<br />

della colonna e la cementazione della stessa, operazione molto laboriosa e pericolosa,<br />

caddero in mare due operai Iraniani che annegarono. Furono ripescati integri due giorni<br />

dopo dai palombari, i rumori della sonda avevano tenuto lontano i pescecani.<br />

Lasciai la piattaforma con lo stesso elicottero che riportava a terra le due salme; una bufera<br />

di sabbia imperversava, la visibilità era nulla, guardavo il pilota, il suo volto non tradiva<br />

alcuna emozione, mi chiedevo se solo con l’ausilio degli strumenti sarebbe riuscito a<br />

riportarmi a terra. Non immaginate con quanto sollievo, dopo circa un’ora di volo,<br />

atterrammo all’aeroporto di Abadan. Il 29 giugno, da Teheran m’imbarcai su un aereo<br />

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diretto a Milano, con due soste intermedie di alcune ore a Beirut e ad Atene, città che<br />

avrebbero meritato una visita prolungata.<br />

L’aereo ripartì dalla Grecia sorvolando a bassa quota alcune isole, visto dall’alto un<br />

panorama indimenticabile. Quello fu il mio ultimo viaggio all’estero per lavoro. Nel 1969<br />

mi chiamarono per offrirmi di ritornare in Libia, ma non accettai per la mutata situazione<br />

politica. Era caduta la monarchia di Re Idris e il colonnello Gheddafi aveva conquistato il<br />

potere. Per gli emigrati Italiani si era venuta a creare una situazione molto difficile. La<br />

maggior parte dei coloni che avevano resistito ed erano rimasti fino ad allora furono<br />

obbligati ad abbandonare terra, casa, anni di lavoro e sacrifici, per ricominciare in patria<br />

una nuova vita.<br />

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30 - Confinato a Cortemaggiore<br />

Ripresi servizio a Cortemaggiore dopo il mio ultimo viaggio in Iran. La mia precaria<br />

situazione lavorativa si protrasse ancora per alcuni mesi, erano falliti tutti i tentativi per<br />

ottenere un trasferimento al Settore Agip di Crema, ed era da considerarsi ormai definitivo,<br />

dal primo ottobre 1969, il mio trasferimento alla Saipem. Non sapevo cosa fare per uscire<br />

dalla situazione di stallo in cui mi trovavo, dovevo cercare altre soluzioni.<br />

L’occasione si presentò nel Gennaio del 1970 quando mio cognato Camoni, avendo<br />

raggiunta l’età pensionabile, rese vacante il posto di fresatore che occupava nel reparto<br />

tornitori nell’officina di Cortemaggiore, passata alla Saipem. Grazie alla mia esperienza<br />

pratica alla fresa, acquisita nel decennio di lavoro a Devoli in Albania, ottenni il passaggio<br />

ad operaio specializzato Fresatore.<br />

Dopo oltre venti anni avevo ripreso il mio vecchio mestiere: ”impara l’arte e mettila da<br />

parte” mi ripeteva spesso mio padre. E anche questa volta il proverbio gli aveva dato<br />

ragione. Avevo raggiunto il mio scopo, svolgevo un lavoro che richiedeva molta esperienza<br />

pratica, intelligenza, iniziativa, creatività, in compenso non mancava saltuariamente qualche<br />

meritata soddisfazione morale. Il capo reparto era Bonatti, con Lavazzini ed altri colleghi<br />

con i quali avevo fatto la gavetta all’AIPA in Albania. Rimaneva irrisolto il problema più<br />

grave che mi causava molteplici difficoltà e disagi: la lontananza da casa.<br />

Alle normali 8 ore di lavoro dovevo aggiungere altre 2 ore di viaggio tra andata e ritorno:<br />

120 km al giorno. Mi alzavo al mattino prima delle 6 per arrivare in tempo alle 8, alla sera,<br />

nei mesi invernali, quando regnava sovrana la nebbia, alle volte impiegavo più di 2 ore per<br />

percorrere 60 km.<br />

Spesso ero costretto in questi periodi, per non incorrere in gravi incidenti, a fermarmi a<br />

Cortemaggiore; passavo la notte nei dormitori allestiti dai frati Cappuccini per v<strong>eni</strong>re<br />

incontro al personale più disagiato delle aziende del Gruppo Eni. Il piccolo paese agricolo,<br />

diventato famoso dopo il ritrovamento del petrolio, non era servito dalla ferrovia; con i<br />

mezzi pubblici di comunicazione non era possibile rispettare gli orari di lavoro.<br />

Ero costretto a viaggiare con la mia auto ed i costi della macchina incidevano sul bilancio<br />

famigliare, in aggiunta, ricordo i numerosi incidenti stradali accorsimi in quel periodo,<br />

fortunatamente senza gravi conseguenze. A Cortemaggiore non esistevano scuole superiori,<br />

spostare la famiglia significava costringere le figlie a proseguire gli studi in una delle città<br />

più vicine, Piacenza o Cremona.<br />

Costretto, mio malgrado, ad accettare un compromesso per risolvere la mia situazione<br />

lavorativa, i miei problemi potevano considerarsi risolti solo in parte. Abituato a lavorare<br />

all’estero con mansioni di responsabilità, a essere autonomo e indipendente, la nuova<br />

situazione non poteva soddisfare né le mie aspettative, né il mio carattere. Rientrare nel<br />

gregge ed essere considerato un numero, diventava ogni giorno più pesante per me e inoltre<br />

la lontananza da casa mi causava innumerevoli disagi. Avevo rifiutato i contratti all’estero<br />

in seguito al declassamento conseguente al passaggio alla Saipem, ero convinto delle giuste<br />

e buone ragioni della mia decisione, ma non era concesso a nessun dipendente delle società<br />

del Gruppo Eni, pur con giusta causa, sollevare questioni di principio illudendosi di evitare<br />

eventuali conseguenze.<br />

Pag.59


La mia condotta sul lavoro, nonostante la mia schiettezza, fu sempre irreprensibile, non<br />

avevo fornito ai miei superiori nessun motivo per giustificare gravi provvedimenti<br />

disciplinari, ma gli anni che ho trascorso a Cortemaggiore dal 1968 al 1974 sono stati<br />

certamente tra i più brutti della mia vita. A nulla erano valsi i numerosi tentativi per ottenere<br />

un trasferimento al Settore Agip di Crema. L’amico Pasquetto, che giornalmente si recava a<br />

lavorare negli uffici di San Donato Milanese aveva fatto presente il mio problema a Fusco,<br />

al dr. Realini, all’ing. De Martin e ad altri, che avevo conosciuto all’estero, per sollecitare<br />

un loro intervento. Tutte le mie iniziative si arrestavano di fronte a un muro di gomma,<br />

sembrava impossibile chiedere e ottenere un trasferimento da una società all’altra del<br />

gruppo Eni, ormai mi ero rassegnato all’idea di cercare un lavoro presso altre aziende.<br />

L’ing. Trisolio, dirigente dell’AIPA in Albania, che mi conosceva sin da ragazzo, mi aveva<br />

raccomandato ad alcune aziende del Milanese. Pensavo anche di aprire qualche piccola<br />

attività commerciale, pur non avendo alcuna esperienza specifica in questo settore.<br />

All’epoca a Crema stavano costruendo in periferia il nuovo ospedale; l’edicolante della zona<br />

di Crema nuova mi aveva suggerito di inoltrare una domanda alla Federazione Editori di<br />

Milano per avere l’autorizzazione ad aprire una nuova rivendita di giornali e riviste nelle<br />

adiacenze del nuovo nosocomio, distante circa 500 metri da via C. Urbino, dove io abitavo.<br />

Ero in attesa che uno raggio di luce entrasse da una delle tante finestre che tentavo di aprire,<br />

ma quando ormai avevo perso ogni speranza, imprevisto accadde il miracolo!<br />

Nella primavera del 1974 si erano verificati dei mutamenti ai vertici dell’AGIP, l’ing.<br />

Giuseppe Badolato aveva assunto la carica di Vice Direttore della Società; aveva diretto in<br />

precedenza per alcuni anni i cantieri della Saipem in Patagonia, poi era passato al nucleare.<br />

Già nel 1960, su suggerimento di Chituzzi, mi aveva richiesto per lavorare alle sue<br />

dipendenze, ma in seguito la Direzione aveva deciso di mandarmi in Marocco, di<br />

conseguenza era venuta a mancare la possibilità di conoscerlo.<br />

Tramite il dr. Crippa, rientrato dall’estero nella Direzione Agip a San Donato Milanese, mi<br />

fu possibile ottenere un appuntamento con lui. Calabrese di nascita, serio e affabile, esigeva<br />

molto da tutti i suoi collaboratori, ma, compatibilmente con le esigenze di lavoro, era molto<br />

sensibile ai loro problemi personali. Dopo avere ascoltato le mie istanze, mi chiese<br />

informazioni sulle mie esperienze e capacità professionali, fece due telefonate e mi disse di<br />

attendere una risposta entro pochi giorni. Dopo un paio di giorni mi telefonò per informarmi<br />

che nel Settore di Crema cercavano personale esperto per allestire una squadra “wire - line “<br />

per interventi nei pozzi in produzione. Con qualche variante nell’attrezzatura e nel modo di<br />

operare, si trattava di un lavoro che aveva delle affinità con quello che avevo svolto come<br />

Operatore Halliburton in Italia e all’estero.<br />

Tre giorni dopo il colloquio avuto con l’Ing. Badolato, il 27 Luglio a San Donato Milanese,<br />

fui chiamato in ufficio alla Saipem di Cortemaggiore. Mi comunicarono che dal 1° Agosto<br />

1974 dovevo presentarmi all’ Ufficio Personale del Settore Agip di Crema. Avevo ottenuto<br />

il trasferimento! Erano trascorsi quindici anni da quando per la prima volta ero stato<br />

trasferito a Ravenna nel Luglio del 1959. Finalmente quello che fino al giorno prima mi<br />

sembrava un sogno irrealizzabile diventava realtà: ero di nuovo a casa! Dalle finestre di casa<br />

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mia si potevano vedere distintamente gli uffici ed i capannoni del Settore Agip di Crema,<br />

distante poche centinaia di metri dalla mia abitazione.<br />

Per quanto concerne il mio lavoro, mi fu offerta la possibilità di scegliere tra due<br />

opportunità; entrare nella squadra di interventi “wire- line”, oppure occupare il posto in<br />

organico in officina come tornitore, mestiere che io avevo praticato saltuariamente; optai per<br />

il secondo lavoro perché mi sentivo più sicuro di poterlo fare bene, con meno difficoltà di<br />

quello di Operatore Wire-line.<br />

In officina ritrovai molti colleghi di lavoro e tra questi Bernardelli, provetto tornitore che mi<br />

fu d’aiuto in molte occasioni. Il trattamento economico non era cambiato, godevo di un<br />

assegno “ad personam” che compensava la diversità di categoria “più bassa”. Il capo<br />

officina, purtroppo, era sempre lo stesso e non aveva cambiato metodi, ed io non ero guarito<br />

dalla mia allergia verso i comandanti dispotici, ma una cosa sola era importante per me,:<br />

avere risolto i problemi più gravi.<br />

Alcuni anni dopo ebbi l’opportunità di incontrare e di ringraziare ancora l’Ing. Giuseppe<br />

Badolato**, per il suo aiuto che mi consentì anche di affrontare con meno difficoltà la<br />

grave malattia di mio padre.<br />

**L’ing. Badolato, quando era in pensione v<strong>eni</strong>va spesso da San Donato Milanese a<br />

Crema (70 km andata e ritorno) in bicicletta e passava ad acquistare il giornale nella mia<br />

edicola.<br />

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31 - Il mio impegno nel Sociale e tristi vicende di famiglia<br />

Ero entrato nel Consiglio d’Amministrazione degli Istituti di Ricovero di Crema nel<br />

Gennaio del 1973, a sostituire un membro dimissionario. Il mio nome era stato segnalato da<br />

Tersilio Provezza, Segretario di un partito laico. Inizialmente non ero intenzionato ad<br />

accettare questo incarico, perchè non ero certo di essere in grado di poterlo svolgere con la<br />

qualità richiesta, ma dopo un’assenza di alcuni giorni da Crema, al mio ritorno trovai la<br />

comunicazione di nomina inviatami dalla Provincia di Cremona. Ebbi un colloquio con il<br />

presidente Marziano, che mi convinse ad accettare l’incarico e dare il mio modesto<br />

contributo. Così feci il mio ingresso dalla porta di servizio in un Ente Pubblico, che<br />

raggruppava altri piccoli enti, ed aveva a Crema, in via Matteotti, la sede nelle strutture del<br />

vecchio ospedale. Qui era stato creato il Ricovero e il Reparto Geriatrico da quando si era<br />

iniziata l’attività del nuovo complesso ospedaliero in via Macallè.<br />

Superate le difficoltà iniziali dovute ad inesperienza, nei cinque anni della mia permanenza<br />

in questo ente ho cercato di dare i migliori contributi possibili, con impegno costante, con il<br />

continuo interessamento con il fine di v<strong>eni</strong>re incontro alle reali esigenze dei degenti per<br />

alleviare le loro sofferenze; incurante delle diverse ideologie ed interessi dei vari partiti<br />

politici. Da questa esperienza, ho avuto più di quanto io abbia potuto dato a loro; al termine<br />

del mio mandato, nel 1976, ho avuto la soddisfazione di vedere riconosciuto il mio<br />

impegno e di essermi guadagnato la stima ed il rispetto di tutti i dipendenti. Fu il Consiglio<br />

d’Amministrazione del quale io facevo parte ad iniziare la ristrutturazione del vecchio<br />

ospedale, diventato poi Istituti di Ricovero per Anziani.<br />

Dal lungo corridoio che iniziava all’ingresso del piano rialzato, si irradiavano lateralmente<br />

grandi camere, dove erano sistemati su due file venti o trenta letti per ogni stanza. Non era<br />

un bello spettacolo vedere tanti poveri vecchi sofferenti ammucchiati, dove il dolore di uno<br />

si confondeva con quello di tutti gli altri. Erano solo tre le stanze a due letti: in una di queste<br />

stanze, con finestre alte che davano in via Tersine, aveva trovato posto mio padre, assieme<br />

ad un certo Maccarinelli.<br />

Il 6 Novembre 1975 mi telefonarono a casa per comunicarmi che mio padre era spirato nel<br />

sonno alle dieci di sera; lo avevo lasciato alle 8 di sera, sembrava che si fosse addormentato<br />

sotto l’effetto di un sedativo.<br />

32 - 6 Maggio 1976: Gemona del Friuli distrutta dal terremoto<br />

Il 6 Maggio del 1976, poco dopo le 9 di sera, notammo a Crema che i lampadari<br />

oscillavano e che l’appartamento al terzo piano si muoveva. Seguirono alla televisione<br />

notizie e commenti di carattere generale sul terremoto, senza che v<strong>eni</strong>sse indicata l’area<br />

colpita dal sisma. Andai a dormire: mai avrei pensato che avesse colpito il Friuli. Dopo le<br />

undici mia moglie e m’informò che la televisione aveva annunciato che la scossa tellurica<br />

del nono grado Mercalli aveva colpito il Friuli sopra Udine.<br />

Feci una telefonata a mio cugino Enea a Milano per sentire se avesse notizie e mi disse che<br />

era riuscito a parlare con un parente di Maiano, il paese aveva subito ingenti danni.<br />

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Partii presto la mattina del giorno 7 Maggio, dopo Udine incontrai qualche difficoltà a<br />

superare i posti di blocco, una macchina dell’Agip, che si recava a fare accertamenti, mi<br />

facilitò il passaggio.<br />

Alle 11 arrivai a Gemona, non era facile passare con la macchina tra le macerie.<br />

Via Sottocolle a Gemona L’unico muro non crollato di casa <strong>Canciani</strong><br />

Raggiunsi la casa dei miei a piedi, a stento riuscii a passare nel vicolo Sottocolle, invaso<br />

dalle macerie, nel cortile il muro interno non era crollato, dalla scala semidistrutta riuscii a<br />

raggiungere il primo piano, chiamai forte più volte, ma la mia voce si disperse in un silenzio<br />

di tomba. Le vecchie mura perimetrali della casa, di circa un metro di spessore, si erano<br />

sgretolate uccidendo un ragazzo di 17 anni che passava sulla strada.<br />

Quelli che avevano avuto la fortuna di salvarsi erano fuggiti; chiesi notizie di mia madre a<br />

uno dei rari passanti che conoscevo, alcune persone che abitavano nello stesso cortile gli<br />

avevano riferito che era stata estratta dalle macerie e portata in un campo dove<br />

raggruppavano i feriti, che poi v<strong>eni</strong>vano smistati dalle auto ambulanze nei vari ospedali<br />

della Regione. Nel tardo pomeriggio, ritornai in Piovega, una frazione di Gemona, dove<br />

avevo lasciato la macchina nel cortile del mio amico Collini Antonio, tra le macerie della<br />

sua casa vidi un telefono, provai a telefonare a mia moglie per darle notizie, capivo che la<br />

mia voce arrivava ma le sue risposte erano incomprensibili.<br />

Il mattino dopo salii a Porta Udine, l’ingresso era ostruito dalle macerie, nel Duomo<br />

sovrastante era crollata una parete e la torre campanaria. Incontrai alcune persone venute da<br />

Genova per i primi soccorsi. Il silenzio impressionante era rotto solo dal latrare di qualche<br />

cane ed il muggito di una mucca abbandonata in qualche stalla. Sui bordi della strada che<br />

percorsi per recarmi al cimitero vidi alcuni morti irriconoscibili coperti di polvere.<br />

Negli ultimi quattrocento metri, sulla strada “dei cipressi” che raggiungeva il cimitero, mi si<br />

presento una scena raccapricciante: una fila di alcune centinaia di casse da morto, alcuni<br />

militari e giovani con mascherine al volto che provvedevano a sistemare i corpi delle vittime<br />

in attesa di riconoscimento. Mentre una ruspa scavava le fosse, un frate francescano<br />

cercava di dare un nome ad ognuna delle quattrocento bare.<br />

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Nessuna delle poche persone che avevo incontrato aveva saputo dirmi in quale ospedale era<br />

stata portata mia madre. Trascorsi la notte in macchina in un dormiveglia interrotto da<br />

frequenti scosse telluriche d’assestamento. Il mattino dell’8 Maggio mi recai a Udine nel più<br />

grande ospedale della Regione sperando di trovarla, ma non risultava ricoverata. Alla fine ci<br />

consigliarono di rivolgermi al nuovo ospedale di San Vito al Tagliamento, dove erano stati<br />

ricoverati diversi feriti dal sisma. Mi recai a San Vito e trovai mia madre ricoverata nel<br />

reparto d’ortopedia.<br />

Aveva varie ferite alle gambe, braccia e testa, ma era salva! Mi raccontò, che alla prima<br />

scossa era uscita sul terrazzo, il dirimpettaio Ezio Copetti le aveva gridato di non rientrare in<br />

casa, ma lei nel tentativo di andare a spegnere il televisore si era chiusa la porta alle spalle,<br />

in quel momento iniziò la nuova, forte scossa che durò un interminabile minuto,<br />

fortunatamente non ebbe il tempo di raggiungere il televisore; nel crollo totale della casa si<br />

ritrovò in una nicchia sotto una trave. Fu lo stesso Copetti, alle 4 del mattino, dopo avere<br />

messo in salvo la sua famiglia, ad abbattere la porta ed estrarla dalle macerie. Riportai mia<br />

madre a Crema ai primi di Luglio, in buone condizioni di salute.<br />

Le rovine di casa <strong>Canciani</strong> a Gemona Casa <strong>Canciani</strong> ricostruita nel 1980<br />

33 - Una scelta difficile: apertura di un’edicola di giornali<br />

Quando a distanza di due anni mi arrivò la risposta positiva della Federazione Editori,<br />

rimasi perplesso; il destino mi aveva messo di fronte ad una scelta difficile! Lasciare l’Agip<br />

ed iniziare una nuova attività come edicolante, senza alcuna esperienza era un passo<br />

azzardato.<br />

La Federazione aveva respinto la mia richiesta di aprire un’edicola in prossimità<br />

dell’ospedale e fissato un termine per iniziare la nuova attività nel centro commerciale, la<br />

cui apertura era prevista in breve in prossimità del rondò. La COOP aveva iniziato la<br />

costruzione di questo centro, ceduto poi alle Ass. Generali e da queste dato in subaffitto alla<br />

COOP: Speculazioni che contribuirono ad aumentare il canone di locazione. Erano tante le<br />

incognite da considerare prima di dare una risposta affermativa, mi consigliai con diverse<br />

persone; ma era solo nell’ambito famigliare che si doveva dare una risposta a tutte le<br />

perplessità e considerare i pro ed i contro. Partivo favorito dalla vicinanza della mia<br />

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abitazione al nuovo centro ed anche al Settore Agip; alla fine decidemmo, che, per non fare<br />

un salto nel buio, avrei potuto temporaneamente conservare il mio lavoro e con l’aiuto di<br />

mia moglie e delle figlie iniziare la nuova attività. Il primo Settembre 1976 fu inaugurato il<br />

Centro Commerciale. Molta la gente, venuta a curiosare, sul banco poche le riviste ed i<br />

giornali esposti. Per un anno il guadagno venne reinvestito per aggiornare l’edicola con tutte<br />

le pubblicazioni, quotidiani, settimanali, mensili, semestrali ecc.<br />

Al mattino mi alzavo alle 5 e 30 per andare alle 6 a ritirare i giornali in agenzia. Aperta<br />

l’edicola, arrivavano i primi clienti, pendolari che partivano per Milano dalla fermata<br />

antistante dei bus. Anche Rosetta si alzava sempre presto, i lavori per una donna di casa<br />

sono molteplici; mentre Laura e Mara si preparavano per andare a scuola. Rosetta, alle otto<br />

meno un quarto, arrivava in edicola a darmi il cambio e io, con la sua bici, in pochi minuti<br />

arrivavo in tempo sul lavoro a timbrare il cartellino. Il pasto di mezzogiorno, lo consumavo<br />

in mensa, ed alle dodici e mezza di corsa di nuovo in edicola fino alla chiusura di<br />

mezzogiorno, per dare la possibilità a mia moglie di andare a casa a preparare da mangiare.<br />

Arnaldo davanti all’edicola Rosetta al lavoro in edicola<br />

Dopo le 5 del pomeriggio, finita la mia giornata di lavoro in officina, andavo di nuovo in<br />

edicola fino alle 19, orario di chiusura; poi a casa dopo cena, lo straordinario per compilare<br />

la distinta delle pubblicazioni da rendere il mattino successivo. Senza la collaborazione e<br />

l’aiuto di mia moglie e di entrambe le figlie, sarebbe stata un’impresa impossibile. Laura, la<br />

più grande, aveva la patente di guida, ed è stata quella più impegnata, perché doveva spesso<br />

sostituirmi per andare a prendere le pubblicazioni in agenzia.<br />

E così trascorsero circa due anni, quando nel giugno del <strong>1978</strong> l’INPS di Cremona mi<br />

comunicò che era stata accolta la mia domanda di accredito di quattro anni di contributi, dal<br />

1945 al 1949, che l’AIPA, controllata Agip, non aveva versato in Albania. Dovetti<br />

contribuire personalmente per circa metà della somma: un milione e mezzo di lire, ma ne è<br />

valsa la pena perchè sommando i 4 anni riconosciuti ai 34 già maturati, con 38 anni di<br />

contributi potevo tranquillamente chiedere il pensionamento, rinunciando a raggiungere il<br />

massimo di pensione.<br />

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Distretto di Crema - La premiazione per i 25 anni di servizio nel Gruppo ENI nel 1977<br />

Dopo aver fatto le dovute riflessioni e valutato tutti gli aspetti della situazione, nell’Ottobre<br />

del <strong>1978</strong> presentai le dimissioni.<br />

Avevo 55 anni e non potevo escludere a priori che il futuro potesse riservarmi qualche<br />

incognita, gli incassi netti dell’edicola davano un reddito basso, ma sommato alla pensione<br />

mi tranquillizzava per quanto concerne i problemi economici.<br />

Alla fine dell’anno <strong>1978</strong> lasciai l’Agip dopo quasi quaranta anni di lavoro.<br />

Pag.66


Conclusioni<br />

Quando si raggiunge, quella che oggi chiamano la terza età, con l’esperienza acquisita in<br />

una vita, l’uomo potrebbe dare ancora molto all’umanità ma viene emarginato dalla società,<br />

dai giovani in attesa di inserirsi nel mondo del lavoro. L’anziano non riesce ad adeguarsi, a<br />

capire ed imparare le nuove tecnologie informatiche, si sente umiliato, inutile. Quello che ha<br />

saputo fare e dare in una vita di lavoro, scompare nel nulla, non è mai esistito!<br />

Condannato all’emarginazione, seguita da una malattia che si chiama solitudine, difficile da<br />

combattere anche per chi è dotato di molta volontà ed ha la forza di tentare in tutti i modi di<br />

sfuggire a questa ingiusta legge della natura, pur essendo consapevole che il tempo e le<br />

malattie alla fine avranno la meglio.<br />

Il lato positivo del mio carattere mi ha consentito di non accettare mai una resa<br />

incondizionata.<br />

Quando ho iniziato a pensare di scrivere queste memorie, nel <strong>1978</strong>, non avrei mai<br />

immaginato che sarei riuscito ad arrivare alla fine. Dopo molte difficoltà iniziali incontrate<br />

nell’uso del computer, ero quasi intenzionato a rinunciare, ma poi, sollecitato da Laura,<br />

raggiunsi il primo traguardo, un volumetto nel quale sono racchiusi i ricordi del ventennio<br />

trascorso in Albania, fino all’aprile del 1949.<br />

Ne ho fatto una decina di copie da distribuire ai pochi amici rimasti ed una copia è stata<br />

inviata alla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, onde evitare che gli avv<strong>eni</strong>menti<br />

narrati vadano dispersi. Incoraggiato da questa prima esperienza, ho continuato a scrivere e<br />

narrare le vicende più importanti che hanno caratterizzato la mia vita.<br />

Ora, dopo aver ampiamente passato gli 80 anni, dalla terza età passo all’età libera, senza<br />

impegni con la società, con la famiglia e nipoti, una sola incertezza, l’interrogativo su quanti<br />

anni ancora da v<strong>eni</strong>re? Per questo ho voluto anticipare la fine di questo volume, per essere<br />

certo di poterlo donare alle figlie in occasione del mio prossimo compleanno. Se non mi<br />

sarà concesso di aggiungere un’appendice alle mie memorie negli anni a v<strong>eni</strong>re, li lascio<br />

scrivere a voi.<br />

Quando viene a mancare un g<strong>eni</strong>tore, cosa che prima o poi succede a tutti, ci accorgiamo<br />

che sono tanti gli aspetti della sua vita che non conosciamo, tante sono le domande che uno<br />

vorrebbe fare, molti i punti interrogativi dai quali non si può più avere una risposta. Rimane<br />

solo il rimpianto che, per svariati motivi, non ci sia stata la volontà o la possibilità di<br />

conoscersi meglio.<br />

Mi auguro che chi leggerà queste memorie, possa recepire dei messaggi capaci di provocare<br />

paragoni, e riflessioni che possano indicargli la giusta via, incoraggiarlo nelle difficoltà che<br />

incontrerà, quando tutto sembra crollare intorno a lui, spero che da questa lettura possa<br />

attingere un filo di speranza.<br />

Se dovessi fare un bilancio della mia vita, dovrei elencare gli errori che sono in parte<br />

inevitabili, quello che conta è che mi sono sempre ispirato a principi di equità, di giustizia.<br />

Ho dedicato tutta la vita alla famiglia, le mete raggiunte sono in uguale misura il frutto di<br />

sacrifici di entrambi i g<strong>eni</strong>tori. Come in tutte le famiglie, non sono mancate anche nella<br />

nostra, discussioni, incomprensioni, periodi di tensione coniugale, dovuti a diversità di<br />

carattere, ma alla fine si è sempre giunti ad un ragionevole compromesso.<br />

Pag.67


Durante i periodi trascorsi all’estero per lavoro mi è mancato molto l’affetto, la tenerezza<br />

dei miei cari, ma sono stato compensato dalla gioia che mi hanno dato, in uguale misura,<br />

tutti i nipoti.<br />

Hanno allietato per anni le mie giornate, ho cercato di donare a loro quello che non mi è<br />

stato possibile donare alle mie figlie, raggiungendo almeno il loro livello di istruzione.<br />

Questo traguardo per me è rimasto una chimera, che ha condizionato tutta la mia vita: se<br />

avessi avuto la possibilità di studiare avrei potuto spaziare su orizzonti più ampi. Ho vissuto<br />

sempre nella consapevolezza che nulla ci è dovuto, tutto quello che sono riuscito a<br />

realizzare è frutto di tanti sacrifici e rinunce, nessuno mi ha mai donato nulla.<br />

Vorrei che questa massima restasse per sempre bene impressa nella vostra mente.<br />

Non mi lamento di tutte le difficoltà che ho dovuto superare, non rimpiango gli anni della<br />

mia vita movimentata ed avventurosa, perché hanno contribuito alla formazione del mio<br />

carattere. Avere un carattere forte può essere considerata una fortuna o una sfortuna, ma<br />

non sempre è facile da gestire. “L’amore è come una lieve brezza mattutina che dura un<br />

attimo breve.” Godetevi la vita! Sbagliate, peccate, ma siate giusti come io ho sempre<br />

cercato di esserlo.<br />

“ MANDI “ <br />

Arnaldo <strong>Canciani</strong> Crema 25 Novembre. 2003<br />

Della prima parte autobiografica, che narra il ventennio trascorso in Albania “1929—<br />

<strong>1950</strong>”, ne sono state fatte 12 copie: due di queste sono state inviate alla Fondazione Archivi<br />

Nazionali, onde evitare che queste memorie storiche vadano disperse. Le rimanenti, donate<br />

ai pochi superstiti e parenti di persone scomparse che hanno vissuto con me questi<br />

avv<strong>eni</strong>menti. L’unico riconoscimento ufficiale Agip di mia conoscenza è venuto nel 2007,<br />

con la pubblicazione del diario di Mazzini Garibaldi Pissard, che riconosce a pagina 63<br />

“tutto il personale prov<strong>eni</strong>ente dall’Albania ha coperto lodevolmente ogni mansione”<br />

Tutta la storia completa narrata e documentata la dedico ai miei famigliari, Laura, Mara e<br />

mia moglie Rosetta. Ringrazio tutti coloro che mi hanno incoraggiato ed aiutato a portare a<br />

termine quest’opera. Un particolare ringraziamento a mia figlia Laura, al Presidente del<br />

APVE Muzzin Adriano che mi hanno aiutato nell’inserimento dei capitoli e corretto le<br />

bozze. A Lucio Deluchi, che con il suo lungo e meticoloso lavoro a reso possibile<br />

Pag.68


l’inserimento della prima e seconda parte delle mie memorie nel sito web dell’<strong>associazione</strong><br />

<strong>pionieri</strong> Eni.<br />

Allegato 1 Attrezzatura per le prove di strato in foro scoperto.<br />

Ritengo sia indispensabile dare qualche spiegazione tecnica a chi mi legge cercando di<br />

spiegare nel modo più semplice possibile, a cosa serve e come si svolge un “test o prova di<br />

strato”.<br />

L’attrezzatura è composta da vari elementi che vengono assemblati, “avvitati”, sul bancone<br />

oppure direttamente sul piano sonda, partendo dalla componente posta più in basso..<br />

1°: il peduncolo, composto da un’asta pesante, il primo a scendere nel pozzo. Usato solo in<br />

prove a foro scoperto, non tubato,<br />

2°: segue il filtro, “tubo con molti fori”,<br />

3°: il registratore “BT” di pressione, con orologio che forniva, quando non esistevano<br />

ancora attrezzature elettroniche, un tracciato su una lamina metallica delle variazioni di<br />

pressione nel tempo. ossia il diagramma della pressione nello strato da provare in rapporto<br />

al tempo,<br />

4°: una valvola per la circolazione inversa, che consente al fango di entrare all’interno delle<br />

aste,<br />

5°. Il secondo registratore, per la misura della pressione a monte dello strato da provare,<br />

6° giunto di sicurezza, che in caso di blocco dell’attrezzatura in pozzo consentiva il<br />

recupero di una parte dell’attrezzatura,<br />

7° il packer, composto da quattro cunei dentati laterali estraibili che si fissavano alle pareti<br />

interne del “casing” nel caso di prova nei pozzi tubati. Nel caso di foro scoperto, i cunei<br />

erano formati di sola gomma alta circa un metro che si bloccava direttamente alla parete del<br />

foro. Per le prove in pozzi tubati si usavano una serie di anelli di gomma di 5 cm. di<br />

spessore e di diametro leggermente inferiore al diametro interno del casing. La durezza di<br />

questi anelli variava in rapporto alla temperatura che si registrava con il variare della<br />

profondità del pozzo.<br />

8° l’attrezzo più importante, “l’hydrospring”.<br />

Tutto l’assieme v<strong>eni</strong>va avvitato ad una serie di aste lunghe 27 m. ciascuna, calate nel foro,<br />

senza fango al loro interno, una dopo l’altra, fino a raggiungere la profondità desiderata per<br />

effettuare la prova di produzione. Ogni singolo componente dell’attrezzatura aveva una sua<br />

funzione specifica e tutti v<strong>eni</strong>vano manovrati dal piano sonda.<br />

Pag.69


Raggiunta la profondità desiderata, si faceva ruotare in senso orario tutta la colonna di aste<br />

per complessivi 7 giri, si esercitava un peso di 4 tonnellate sulle aste a fondo pozzo, per<br />

fissare i 4 cunei alla colonna; l’espansione causata dal peso sugli anelli di gomma li faceva<br />

aderire fortemente fissandoli alle pareti del foro o del casing, consentendo così di escludere<br />

la pressione idrostatica del fango sullo strato, permettendolo in pratica il collegamento<br />

diretto con la superficie.<br />

A questo punto, esercitando un ulteriore peso sulle aste, si apriva una valvola a<br />

funzionamento idraulico inserita nell’ “hydrospring” per consentire ad eventuali idrocarburi<br />

presenti nello strato da provare di entrare nelle aste vuote attraverso il filtro e da qui risalire<br />

in superficie.<br />

Il petrolio, o gas, erogato dal pozzo, dopo la misura del suo volume, v<strong>eni</strong>va campionato e<br />

quindi convogliato, attraverso un tubo, alla fiaccola e bruciato a distanza di sicurezza.<br />

Al termine di tutta questa complessa operazione, che poteva durare dalle 24 alle 36 ore, si<br />

iniziava l’estrazione delle aste ed il recupero dell’apparecchiatura e del diagramma delle<br />

pressioni.<br />

Prima di iniziare la manovra di recupero delle aste era necessario ruotare la colonna per<br />

altri 10 giri, per aprire la valvola di circolazione inversa e consentire così al fango di entrare<br />

nelle aste e ristabilire la pressione idrostatica all’interno delle stesse, per contrastare la<br />

pressione degli eventuali idrocarburi presenti nello strato provato.<br />

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