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intervista su - Snowdonia.it

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You II) è un’appendice al lavoro con i Postal, quel<br />

gl<strong>it</strong>ch-folk di cui si diceva sopra e che oggi lo ascolti<br />

e dici che è cosa vecchia, ma al tempo era pane per<br />

i denti di chi usciva stanco dall’emo. Vocals filtrate<br />

con un po’ di rumore (Don’t Try), samples che cullano<br />

malinconie poi rielaborate dai Kings Of Convenience<br />

(Darkier Earlier) e qualche break per<br />

spezzare il lungo banchetto sonoro (Incomplete 4).<br />

L’eterogene<strong>it</strong>à del triplo CD lo rende un documento<br />

importante sia per chi viaggia <strong>su</strong>i binari dell’electro,<br />

sia per chi vuole sapere cosa <strong>su</strong>ccedeva tanto<br />

tempo fa nelle pianure nebbiose del gl<strong>it</strong>ch-folk. Riascoltandolo<br />

ci accorgiamo poi di come siano attuali<br />

quelle sensazioni a cavallo del millennio, quando<br />

etichettavamo queste sonor<strong>it</strong>à con la sigla IDM e,<br />

inoltre, di come DNTEL abbia saputo costruire un<br />

percorso personale e piacevolmente intimista. Buona<br />

riscoperta.<br />

(7.4/10)<br />

mArco BrAGGion<br />

dø (the) - A mouthful (Get down!,<br />

Giu 2009)<br />

Gen e r e: p o p me t i c c i o<br />

È passato un anno dalla prima usc<strong>it</strong>a, sempre per<br />

Get Down!, di A Mouthful, e ora con una nuova<br />

stampa dell’album i The Dø provano a raccogliere<br />

l’hype già coltivato in Francia e in Finlandia nei mesi<br />

passati. La formula è chiara quanto seducentemente<br />

galeotta. C’è una voce femminile di Helsinki che per<br />

timbro ricorda tanti esempi – nordici o meno - che<br />

tutti abbiamo in testa, da cui però si distacca con<br />

una personal<strong>it</strong>à che ammalia. Ammalia – come negarlo<br />

– anche la bellezza di Olivia B. Merilahti,<br />

come la <strong>su</strong>a presenza <strong>su</strong>l palco, dove ha una disinvoltura<br />

spiazzante. I video sono lì a dimostrarlo. Ma<br />

anche gli esempi musicali, in assenza dei quali, ovviamente,<br />

non staremmo qui a parlarne. In The Bridge Is<br />

Broken c’è una Bjork preadolescente, fanciullesca e<br />

mai folletta, scioltissima nel variare una voce bianca<br />

con una distrazione raffinata.<br />

C’è poi il tocco negli arrangiamenti e nella scr<strong>it</strong>tura<br />

delle musiche del parigino Dan Levy a rendere<br />

ciò che altrimenti sarebbe solo un piedistallo per<br />

Olivia un impianto sofisticato di musica pop che azzecca<br />

alcuni numeri – come l’iniziale Playground Hustle,<br />

piccolo happening di voce e r<strong>it</strong>mo che sembra<br />

derivare dal cortocircu<strong>it</strong>o Finlandia-Australia degli<br />

Arch<strong>it</strong>ecture In Helsinki - e non ne sbaglia<br />

mai del tutto altri – pur sfociando a volte in un forzato<br />

folk anglosassone tradizionale, o nella sempre<br />

presente autor<strong>it</strong>à di PJ Harvey. In realtà a dirla<br />

tutta il <strong>su</strong>ono di A Mouthful è nato se non vecchio<br />

già cresciutello e secchione, perché The Do<br />

sono bravi ma furbi. E sanno di mestiere imbellettare<br />

un brano, dargli una sovrastruttura di original<strong>it</strong>à.<br />

Siamo portati a giustificare<br />

l’atteggiamento con<br />

la provenienza parigina di<br />

Dan, che denuncia la tendenza<br />

a fare proprio (ma<br />

per sent<strong>it</strong>o dire da altre<br />

fonti) il <strong>su</strong>ono meticcio<br />

che confluisce nella<br />

grande c<strong>it</strong>tà europea. Ma<br />

quando arriva l’Eminem al femminile di Queen Dot<br />

Kong non ci sono più dubbi <strong>su</strong>lla volontà di usare un<br />

ampio spettro di possibil<strong>it</strong>à per gonfiare un peraltro<br />

divertente pallone di elio.<br />

Guardando tra un video e l’altro il MySpace della<br />

band, non si resta stup<strong>it</strong>i di vedere tra i riferimenti<br />

dichiarati dal duo (trio dal vivo, con il batterista<br />

francese Pierre Belleville) Beck e anche Young Marble<br />

Giants, Bartok e Peaches. In una parola autoconsapevolezza.<br />

Che, sarebbe stupido non ammetterlo,<br />

i The Dø sanno gestire e maneggiare. È un<br />

dato, ci pare.<br />

(6.6/10)<br />

GASpAre cAliri<br />

icy demonS - miAmi ice (leAf, Apr<br />

2009)<br />

Gen e r e: e n o -sy n t h -po p<br />

Un nome e una copertina che fanno pensare <strong>su</strong>b<strong>it</strong>o<br />

all’elettropop. È con questa disposizione d’animo<br />

che ci approcciamo a Miami Ice, terza prova (già<br />

stampata l’anno scorso da Obey Your Brain, ora ristampata<br />

da Leaf) degli Icy Demons, formazione<br />

un po’ di Chicago e un po’ di Philadelphia.<br />

Le prime due tracce (Buffalo Bill e la t<strong>it</strong>le-track),<br />

in effetti, sembrano confermare le aspettative, pur<br />

manifestando un piglio che convince maggiormente<br />

rispetto al 90% delle band che fanno elettropop. La<br />

lente si sposta però un poco verso il synth-pop, e<br />

si tinge di qualche decennio fa, un po’ per il r<strong>it</strong>mo<br />

quasi byrne-iano del primo brano, un po’ per i cori<br />

e i synth del secondo.<br />

È però con 1850 che crediamo di aver cap<strong>it</strong>o tutto;<br />

cosa che ci fa in un certo senso tirare un sospiro di<br />

sollievo, e proseguire con approccio completamente<br />

diverso al resto del disco. Tutto in questo brano –<br />

il dinamismo, la struttura, il r<strong>it</strong>mo, le voci – ci fanno<br />

pensare a Before And After Science di Brian<br />

Eno; è davvero riusc<strong>it</strong>o il momento di tranquill<strong>it</strong>à in<br />

mezzo al brano, con quel pulsare quasi nascosto che<br />

ci preannuncia che la canzone tornerà arrembante<br />

com’è nata. E così è.<br />

Prendiamo allora il pezzo a simbolo di memoria del<br />

proto-synth-pop eno-iano, e salutiamo pos<strong>it</strong>ivamente<br />

la c<strong>it</strong>azione poco velata; ma non perché ricerchiamo<br />

nel nuovo i nostri gusti passati; piuttosto perché<br />

– ancora a propos<strong>it</strong>o di lenti – l’elettropop e il synth<br />

pop di tutto l’album risentono, dopo l’ascolto-dedica<br />

di quell’ambiente, di quella fresca intelligenza<br />

compos<strong>it</strong>iva. E se ci pensassero qualche volta i più, i<br />

vari Morr-ismi che ci cap<strong>it</strong>a spesso di ascoltare, alle<br />

possibil<strong>it</strong>à s<strong>it</strong>e in questo collegamento, avremmo<br />

più canzoni ballabili come Spywatchers. Il pregio di<br />

Icy Demons – che sembrano anche aver cap<strong>it</strong>o Jeff<br />

Parker (Tortoise) e Josh Abrams (Prefuse 73), osp<strong>it</strong>i<br />

del disco - è la sofisticazione che non si fa sentire,<br />

che non appesantisce, che rimane comunque piena<br />

di indole pop, e diverte l’ascolto. Certo sono cose<br />

che si dicono dai tempi dei Roxy Music, e poi di<br />

quelli degli Ultravox…<br />

(7/10)<br />

GASpAre cAliri<br />

J dillA [AkA JAy dee] -<br />

dillAntholoGy 2 - dillA’S remixeS<br />

for vAriouS ArtiStS (rApSter, Giu<br />

2009)<br />

Gen e r e: h i p -ho p<br />

Le due Dillanthology della Rapster non sono attaccabili<br />

sotto il profilo del contenuto intrinseco.<br />

Tredici produzioni “per altri” nella prima, altrettanti<br />

remix nella seconda, e si tratta di capolavori, inutile<br />

stare a filosofare (certo con le prime tredici più necessarie<br />

dei secondi). Si può semmai mettere lingua<br />

<strong>su</strong>lla natura dell’operazione: quale il filo rosso che<br />

lega i brani, se c’è un filo rosso, forse il <strong>su</strong>ono, o si<br />

tratta di due “greatest h<strong>it</strong>s” e basta, e perché non<br />

farli doppi, eccetera. Resta una certezza: si tratta di<br />

due ottime introduzioni al Dilla-mondo, soprattutto<br />

per i neof<strong>it</strong>i con background hip-hop o comunque<br />

black.<br />

Questo volume, copertina emblematica col campionatore<br />

Akai, si sovrappone al primo in due pezzi,<br />

Slum Village e De La Soul, e contiene altre<br />

due produzioni native-Dilla, Pharcyde e Busta<br />

Rhymes. Sarà che siamo di parte, ma il tocco di<br />

Dilla è speciale, è quello: notturno, urbano, liquido,<br />

soul, di un soul assolutamente contemporaneo, che<br />

ci guarda negli occhi. Dilla non stravolge, fa <strong>su</strong>o:<br />

mette la giacca a Busta e Artifacts, o al contrario,<br />

ma sempre con eleganza, sporca quella di Four<br />

Tet con voce (di Guilty Simpson), una specie<br />

di palm-muting di tastiere e un ride in levare. Ironia<br />

della sorte, Dilla è stato a lungo il responsabile non<br />

dichiarato di tanti pezzi, che ora restano nella storia<br />

spesso proprio grazie al <strong>su</strong>o nome. Aspettiamo un<br />

volume tre con i pezzi di Dilla per Dilla.<br />

(6.9/10)<br />

GABriele mArino<br />

mAlcolm GoldStein - eArly<br />

electtronic/tApe collAGe muSic<br />

(AlGA mArGhen, Gen 2009)<br />

Gen e r e: e l e t t r o n i c a /im p r o<br />

Ci pensa la label Alga Marghen a recuperare una<br />

porzione d’archivio <strong>su</strong> nastro del compos<strong>it</strong>ore e<br />

violinista Malcolm Goldstein e a consegnarli a un<br />

lim<strong>it</strong>ato numero di copie in vinile.<br />

Siamo negli intorni Americani dei primi ‘60, quelli<br />

pre-Fluxus movimento che avremo poi imparato a<br />

conoscere nei <strong>su</strong>ccessivi Events e nel minimalismo<br />

completo di George Brecht. Ed è proprio a questo<br />

periodo che il materiale risale.<br />

Ai sondaggi d’improvvisazione cari al Godstein violinista,<br />

Early Electtronic contrappone i primi lavori<br />

in elettronica di collage soffermandsi <strong>su</strong>ll’indole<br />

maggiormente esploratrice dell’artista tra tecniche<br />

strumentali e vocali sottoposti ad estesi studi in audio<br />

e texture.<br />

Al lato A Sheep Meadow e Images of Cheng Hsieh<br />

sono un po’ meno convincenti, lavori come la maggior<br />

parte per la Judson Dance Theater . A lato B It<br />

Seemed to me e i segu<strong>it</strong>i di Judson #6 Piece e Illuminations<br />

from Fntastic Gardens, danno invece il via ai<br />

dibatt<strong>it</strong>i più interessanti. Ovvero <strong>su</strong>oni tradizionali<br />

e d’elettronica capaci di giocare con le ident<strong>it</strong>à sonore<br />

(linee vocali, ambient, big band anni ‘50 o avanguardia<br />

storica), concedendogli una certa vivac<strong>it</strong>à in<br />

stratificazione.<br />

Sono tutti frame, passaggi e leggere stazioni, lacerate<br />

da anime elettroniche che s’intromettono dimenticandosi<br />

volutamene di un contesto, sopravvivendo<br />

o imponendosì come ent<strong>it</strong>à a sé stanti, slegando<br />

l’essenza strumentale dalla fonte e concedendogi<br />

un nuovo mirabile spazio.<br />

(6.9/10)<br />

SArA BrAcco<br />

112 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 113

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