31.05.2013 Views

intervista su - Snowdonia.it

intervista su - Snowdonia.it

intervista su - Snowdonia.it

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

h i g h l i g h t<br />

SylveSter AnfAnG ii - Self t<strong>it</strong>led (AurorA BoreAliS, mAG 2009)<br />

Gen e r e: a c i d vo o d o o<br />

C’è del marcio nelle Fiandre e i Sylvester Anfang ne sono i profeti. La stramba compagine che<br />

muove le fila della Funeral Folk si ridefinisce dalle fondamenta, passando alla fase numero due<br />

delle <strong>su</strong>e gesta. Ergo ingresso in formazione del meglio del peggio della scena psych-out belga,<br />

nelle vesti di Clay Ruby (Davenport, Burial Hex), Stef Anus (Kiss The Anus Of A Black<br />

Cat), Father Sloow (l’uomo dietro la Sloow Tapes) e Bram (Ignatz) con conseguente cambio<br />

di registro.<br />

Se il difetto maggiore fino ad ora era stato quello di muoversi eccessivamente entro i confini<br />

del genere, con arch<strong>it</strong>etture psichedeliche e tipico piglio weird-folkish<br />

da anni 2000, r<strong>it</strong>agliandosi un minimo di spazio giusto in virtù di una<br />

certa vena agreste e ironicamente pagana, ora la faccenda si fa più seria,<br />

propendendo per una maschera psichedelica molto più raffinata e<br />

spregiudicata. Il mer<strong>it</strong>o principale sembra essere di Ernesto Gonzalez<br />

venezuelano di origini, immigrato in Belgio e autore in proprio di osceni<br />

congegni per ch<strong>it</strong>arre effettate con il moniker di Bear Bones,<br />

Lay Low. È con il <strong>su</strong>o arrivo che si passa ufficialmente ai Sylvester<br />

Anfang II, come già dimostrato l’anno scorso da un’infernale jam modello<br />

Ummagumma (Offerbloed Van De Maansekte) messa in uno spl<strong>it</strong> con Burial Hex.<br />

Gonzales indica alle ch<strong>it</strong>arre la corrente da seguire, scioglie il flusso e ancora le gesta della band<br />

ad un taglio più canonicamente psichedelico. Su brani fiume come Na Regen Komt Zondvloed o The<br />

Devil Always Sh<strong>it</strong>s in the Same Graves part I e II sembra di ascoltare il Jimi Hendrix di Third Stone<br />

From The Sun invischiato in qualche palude oscura del nord Europa, con tutta quella r<strong>it</strong>mica da cerimoniale<br />

voodoo che fa tanto esoterismo anni ’70. Il meglio arriva proprio seguendo questa linea<br />

di condotta, con la lenta e mantrica danza macabra di Ossezaaddans o quando si taglia maggiormente<br />

verso l’estasi più kraut, in particolare nei brani di mezzo, quando si rimane accecati dalle<br />

visioni Ash Ra Tempel di Burkelbose Boom van de Eerste Menstruatie. Il resto del carattere della<br />

band rimane immutato, a partire dall’incredibile artwork in odor di black metal opera di Willem<br />

Moorthamers e dall’ironia maligna in odore di sberleffo che unisce Anton LaVey e Kenneth Anger,<br />

i Mayhem e le migliori birre trappiste.<br />

(7.7/10)<br />

Antonello comunAle<br />

poter affermare con una certa sicurezza che il momento<br />

di sost<strong>it</strong>uire il buon Nick Drake nell’immaginario<br />

comune non sia ancora giunto. Questione<br />

di congiunture, di approccio alla musica, di ricorsi<br />

storici ma anche di sensibil<strong>it</strong>à. Se nel 1972 il Nostro<br />

registrava minimale per necess<strong>it</strong>à musical-esistenziali,<br />

oggi lo si fa perché il lo-fi fa figo, soprattutto in<br />

certi ambienti.<br />

Non fraintendetemi. Matteo Griziotti aka The<br />

Lonely Rat non se la cava affatto male nel collezionare<br />

queste tredici stazioni in bilico tra folk, blues e<br />

sporadiche esplorazioni fuori tema – la psichedelia<br />

della t<strong>it</strong>le-track – e nemmeno gli si può chiedere<br />

di riservare una matur<strong>it</strong>à quasi fuori luogo al disco<br />

d’esordio. Di offrire a chi ascolta un ident<strong>it</strong>à forte,<br />

pero’, si. E invece al terzo-quarto ascolto ci si<br />

r<strong>it</strong>rova ancora al punto di partenza, a cercare una<br />

chiave di lettura che non sia quella di mettere in<br />

mostra un po’ di mestiere, buone doti <strong>su</strong>l fingerpicking<br />

e un’onesta passione musicale. Insomma, tutto<br />

gradevole, educato, virtuoso e consapevole. Tuttavia<br />

lontano dall’apparire imprescindibile.<br />

(6.4/10)<br />

fABrizio zAmpiGhi<br />

louderBAch - Autumn (minuS<br />

recordS, mAG 2009)<br />

Gen e r e: m i n i m a l te c h n o , p o s t -p u n k<br />

Prendete i Pan Sonic quando si chiamavano zero<br />

barrato, aggiungete un po’ di post-punk virato dark<br />

e deep firmato Two Lone Swodsmen e sostanzialmente<br />

il progetto Louderbach eccolo là. E’<br />

la seconda prova per Miller e Pierce e Hawtin non<br />

poteva farseli scappare.<br />

Autumn esce per la M_Nus dell’uomo di plastica e lo<br />

smalto minimal e quella voglia di drogarsi intrinseca<br />

nel lavoro lascia pochi dubbi: è come se Dave Gahan<br />

si facesse di eroina con Mika Vainio dentro un cubo<br />

nero Borg. Naturalmente a spedirceli è stato Alan<br />

Vega in persona con ri<strong>su</strong>ltati tra il deja vu pesante e<br />

qualche bell’androne (One Hundred Reasons).<br />

Il ma arriva <strong>su</strong>b<strong>it</strong>o: l’energia è instabile. D’accordo,<br />

Miller non è semplicemente un vocalist, del resto<br />

neanche uno che ha venduto l’anima all’Hell DJ. Ne<br />

viene un prodotto necessario quanto i riferimenti<br />

a cui fa capo non smettono di piacerci con concessioni<br />

allo sballo ordinario troppo evidenti (indovinate<br />

un po’ a cosa allude Nothing More Than A Wh<strong>it</strong>e<br />

Poison…). Se volete sentire un cantato ugualmente<br />

sotto effetto ma di carisma nettamente <strong>su</strong>periore<br />

accostate l’orecchio a Chelonis R. Jones. Li c’è<br />

la deep qua c’è la minimal. Fate i vostri conti, slaves<br />

to Mr Brown.<br />

(6.5/10)<br />

edoArdo BriddA<br />

lucA Aquino - lunAriA (univerSAl,<br />

mAG 2009)<br />

Gen e r e: j a z z<br />

Che l’Italia sia terra di <strong>su</strong>pertrombettisti apprezzati<br />

anche in amb<strong>it</strong>i (afro)americani è ormai fatto assodato.<br />

Si pensi - lasciando stare i senatori Rava e<br />

Fre<strong>su</strong> - ai Boltro, ai Bosso, ai Falzone, solo<br />

per c<strong>it</strong>arne qualcuno. Apprezzati per il virtuosismo<br />

sì, ma anche per l’intraprendenza un po’ sbarazzina<br />

con cui - vedi anche i casi Petrella e Bollani<br />

- impastano la robusta formazione jazz con amb<strong>it</strong>i<br />

meno ortodossi, senza paura di dissacrare la tradizione<br />

<strong>su</strong>ll’altare della contemporane<strong>it</strong>à. Perché il<br />

jazz o cerca o muore.<br />

A propos<strong>it</strong>o di trombettisti e di ricerca, ecco Luca<br />

Aquino da Benevento, che dopo il già buono Sopra<br />

Le Nuvole (Emarcy/Universal, 2008) torna a proporsi<br />

come leader con questo Lunaria, dedicato a<br />

Freddie Hubbard buonanima e pervaso di più o<br />

meno febbrili omaggi, manie, devozioni. Per l’adora-<br />

to ciclismo (una frenetica La Volata), per De André<br />

(una erratica Amore che vieni, amore che vai), per i<br />

Radiohead (una <strong>su</strong>adente No Surprises cantata<br />

dall’estrosa Maria Pia De V<strong>it</strong>o) e ovviamente<br />

per Miles Davis, di cui trasfigura All Blues in un<br />

circospetto delirio electro-fusion.<br />

Si segnala la presenza del grande trombettista texano<br />

Roy Hargrove<br />

in una Nuvola Grigia che<br />

è funk-bop nevrastenico<br />

con malinimi radioheaddiani.<br />

Belle atmosfere e<br />

intuizioni melodiche in<br />

Ninna Nanna Per La Piccola<br />

Sara (dalle parti degli<br />

EST più potabili), mentre<br />

in No Ca<strong>su</strong>alties e Nadir, lo sposo e la fata Malika<br />

si azzarda un’avanguardia che non perde di vista il<br />

cuore.<br />

(7.3/10)<br />

StefAno Solventi<br />

lucA lo BiAnco – eAr cAtcher<br />

(f<strong>it</strong>zcArrAldo, 2009)<br />

Gen e r e: ja z z e di n t o r n i<br />

I migranti, i nomadi. Popoli che abbandonano un luogo<br />

inosp<strong>it</strong>ale per trasferirsi, a volte senza una meta<br />

ben precisa, in luoghi “altri”, a contatto con culture<br />

spesso molto diverse dalla loro. Eppure capaci di apprendere<br />

“nuovi linguaggi, sovrapponendoli ai ricordi<br />

di un terr<strong>it</strong>orio che non hanno mai avuto” (dalle<br />

note di copertina dell’album). L’etnomusicologia li<br />

definisce “mediatori culturali” (penso agli zingari),<br />

l’ignoranza li relega ai margini della società, mentre<br />

la poesia romantica ne ha esaltato il grande senso di<br />

libertà. In ogni caso, le popolazioni nomadi rappresentano<br />

l’essenza stessa della contaminazione, che<br />

nel loro caso diviene necess<strong>it</strong>à, diviene v<strong>it</strong>a.<br />

E’ probabilmente questo il motivo che ha spinto<br />

Luca Lo Bianco a dedicare il <strong>su</strong>o secondo album<br />

proprio ai migranti. Dopotutto il jazz, genere di riferimento<br />

del bassista siciliano, è di per sé musica<br />

interculturale, interrazziale e (a modo <strong>su</strong>o) nomade,<br />

in quanto linguaggio che ha fatto il giro del mondo,<br />

contaminandosi con qualsiasi stile fosse venuto a<br />

contatto.<br />

Dopo il “concept” <strong>su</strong>lla misteriosa storia del matematico<br />

Ettore Majorana (La Scomparsa Di<br />

Ettore Majorana), Lo Bianco r<strong>it</strong>orna dopo due<br />

anni con un album tutto strumentale, che guarda al<br />

jazz da una prospettiva molto ampia, passando dal<br />

72 / recensioni recensioni / 73

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!