intervista su - Snowdonia.it
intervista su - Snowdonia.it
intervista su - Snowdonia.it
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
na. I Never Said I Was Deep: più che una giustificazione,<br />
una rivendicazione. Di cosa? Del dir<strong>it</strong>to sacrosanto<br />
di non prendersi <strong>su</strong>l serio, a partire da quella copertina<br />
che rievoca lo straordinario Bowie senza bussola<br />
di Lodger. Nondimeno, Jarvis è cosciente della<br />
radical<strong>it</strong>à della <strong>su</strong>a mossa, per questo si tuffa nel gioco<br />
fino al collo, quale che sia il ri<strong>su</strong>ltato. In queste<br />
canzoni c’è tutto quello che le parole “Chicago” e<br />
“Steve Albini” - sì, è andato a registrare fino a lì,<br />
con quello lì - possono evocare: distorsioni di carta<br />
vetrata, b<strong>it</strong>ume rock’n’roll, produzione all’osso. Praticamente<br />
l’opposto del precedente Jarvis, se non<br />
addir<strong>it</strong>tura di This Is Hardcore; semmai, lo spir<strong>it</strong>o<br />
leggero e dissacrante è lo stesso di Relaxed Muscle,<br />
il progetto electro-trash con Richard Hawley<br />
(correva l’anno 2003) con cui Further Complications<br />
condivide, probabilmente,<br />
il fine: spazzare via<br />
quella fastidiosa aura di<br />
sant<strong>it</strong>à aleggiante intorno<br />
al nome Pulp.<br />
Niente di meglio allora<br />
che l’elementare garagepop<br />
di Angela, gli sgolamenti<br />
della sguaiata t<strong>it</strong>le<br />
track, il motorik di Pilchard, lo starnazzare Stooges<br />
del sassofono in Homewrecker! (sarà perché in studio<br />
è passato Steve Mackay?), i Sabbath travisati<br />
funk di Fuckingsong, nonché una Caucasian Blues<br />
che par voler fare concorrenza ai Black Lips. Epperò,<br />
nonostante gli sforzi, alla fine il disco non riesce<br />
a <strong>su</strong>onare come un - ruffianesco quanto volete -<br />
arrembaggio all’indie americano. E non perché, in<br />
fondo, co<strong>su</strong>cce come la solenne Slush, la decadente<br />
Hold Still (il Bowie di metà ’70, senza troppi fronzoli),<br />
gli spassosi e languidi strusciamenti disco alla<br />
Barry Wh<strong>it</strong>e di You’re In My Eyes il loro deb<strong>it</strong>uccio<br />
con i Pulp lo conservano sempre. Anche se in<br />
tutta onestà questo non sarà il più riusc<strong>it</strong>o dei <strong>su</strong>oi<br />
album, la reale differenza sta ancora lì: personal<strong>it</strong>à<br />
(bastino testo e musica della c<strong>it</strong>ata I Never Said I Was<br />
Deep). Quindi tranquilli, Jarv è sempre lui. Soltanto,<br />
non si fa più la barba.<br />
(6.8/10)<br />
Antonio puGliA<br />
Jeffrey lewiS - & the JunkyArd –<br />
‘em Are i (rouGh trAde, Apr 2009)<br />
Gen e r e: c a n t a u t o r i a l e ro c k<br />
Non sempre capisco da dove arriva la dic<strong>it</strong>ura antifolk<br />
per Jeffrey Lewis. ‘Em Are I è un disco di<br />
rock, un po’ folk, un po’ psichedelico, soprattutto<br />
cantautoriale. Jeffrey Lewis è un cantastorie, niente<br />
di più, e la musica è un <strong>su</strong>pporto come gli altri; le <strong>su</strong>e<br />
storie as<strong>su</strong>mono qui delle note musicali come piano<br />
di espressione, come altrove possono as<strong>su</strong>mere i<br />
<strong>su</strong>oi fumetti, o entrambe le cose allo stesso tempo,<br />
come ben sa chi l’ha visto dal vivo. Queste piccole<br />
narrazioni sono ormai condotte grazie una cosa di<br />
cui non ci si accorge <strong>su</strong>b<strong>it</strong>o ascoltando Jeffrey, ovvero<br />
il fatto di essere così navigato, così pieno di<br />
mestiere nel fare queste cose; ormai Jeffrey Lewis<br />
è un cantautore navigato, questo lo possiamo dire.<br />
Il numero di dischi e il numero di anni di attiv<strong>it</strong>à ci<br />
danno ragione.<br />
‘Em Are I è molto meno pervaso di quel “caordine”<br />
(caos nell’ordine pop) rispetto all’altro disco<br />
Rough Trade, C<strong>it</strong>y & Eatern Songs, che era decisamente<br />
più eccentrico, forse lì sì anti-folk - ma<br />
ricordiamoci che c’era la mano di Kramer alla<br />
produzione. Epperò cresce con gli ascolti e piano<br />
piano uno capisce che quelle che sembrano canzoni<br />
molto semplici, molto poco complesse, molto<br />
“piane”, in realtà contengono piccole sofisticazioni,<br />
una costruzione molto particolareggiata, proprio<br />
in virtù dell’esperienza di Jeffrey. La compless<strong>it</strong>à si<br />
manifesta esplic<strong>it</strong>amente forse solo in The Upsidedown<br />
Cross, una mini-galoppata che ricorda Yo La<br />
Tengo che si basa <strong>su</strong>l basso di Jack, il fratello di<br />
Jeffrey, e si sviluppa poi in una melodia accorata e<br />
in un passaggio abbastanza teso. Per il resto queste<br />
sono canzoni semplicemente efficaci; e il fatto che<br />
la perizia tende a sfuggire fa proprio parte della loro<br />
efficacia. C’è insomma un’estetica che si oppone in<br />
qualche modo al disco sopracc<strong>it</strong>ato; ma in defin<strong>it</strong>iva<br />
va detto che probabilmente è quella di ‘Em Are I<br />
la “vera” estetica di Jeffrey Lewis, che sembra sempre<br />
cantare come se giocasse con uno stornello<br />
<strong>su</strong> cui trarre piccole variazioni e costruire canzoni<br />
standard; sembra sempre non affaticarsi per la costruzione<br />
della canzone, non pensare troppo all’arrangiamento<br />
ma seguire il modo in cui funziona la<br />
“normal<strong>it</strong>à”; invece non è proprio così e insomma<br />
questo fa parte del <strong>su</strong>o personaggio.<br />
Una accuratezza dietro a un’apparenza di approssimazione<br />
che crediamo sia ri<strong>su</strong>ltata interessante anche<br />
agli occhi della Rough Trade. Come il fatto che<br />
questo è un disco che cresce grazie a un elemento<br />
che Lewis sa bene sfruttare, ovvero la dimensione<br />
“affettiva” degli ascolti; il fatto che uno si possa affezionare<br />
a queste piccole storie e a questi piccoli<br />
r<strong>it</strong>ornelli. Ascortarli <strong>su</strong>b<strong>it</strong>o e spesso e ricordarli<br />
h i g h l i g h t<br />
Scott mAtthew - there iS An oceAn thAt divideS… (SleepinG StAr,<br />
mAG 2009)<br />
Gen e r e: s o n G w r i t i n G , c h a m b e r po p<br />
Si diceva l’anno scorso, a propos<strong>it</strong>o del bel debutto omonimo di Scott Matthew, che teatral<strong>it</strong>à,<br />
pathos e una tensione palpabile lo animavano inconfondibilmente, tanto da farlo accostare alla<br />
drammatic<strong>it</strong>à di un Antony Hegarty e all’att<strong>it</strong>udine e alla voce del primo Bowie più cantautorale,<br />
dalle parti di Hunky Dory, per intendersi.<br />
Giunto al secondo disco, il cantautore australiano trapiantato a New<br />
York conferma pienamente l’impressione pos<strong>it</strong>iva <strong>su</strong>sc<strong>it</strong>ata. Il sophomore<br />
album dal t<strong>it</strong>olo così chilometrico (There Is An Ocean That<br />
Divides/And W<strong>it</strong>h My Longing I Can Charge It/W<strong>it</strong>h A Voltage<br />
Thats So Violent/ To Cross It Could Mean Death) lascia<br />
intravedere perfettamente la <strong>su</strong>a volontà di esprimersi <strong>su</strong>i temi<br />
dell’amore, della perd<strong>it</strong>a e del desiderio.<br />
La base folk <strong>su</strong>lla quale si innestava un chamber pop abbastanza minimale<br />
del Self T<strong>it</strong>led ora lascia il posto ad una maggiore ampiezza<br />
strumentale e di arrangiamenti, lasciando inalterato il mood che caratterizzava<br />
quell’esordio, vale a dire in buona sostanza l’espressiv<strong>it</strong>à, ciò che ci ha sempre colp<strong>it</strong>o<br />
per esempio di Antony, Rufus Wainwright o Elliott Sm<strong>it</strong>h, il senso anche della fragil<strong>it</strong>à e<br />
vulnerabil<strong>it</strong>à sottese in ognuno di noi ed espresse al massimo dell’intens<strong>it</strong>à.<br />
Musicalmente si oscilla tra ballad minimali, sia pur più arricch<strong>it</strong>e negli arrangiamenti ed un chamber<br />
pop compos<strong>it</strong>o tra fiati, archi, piano ed ukulele più che ch<strong>it</strong>arra. Se prima si notava un senso<br />
di sospensione e come dì incompiutezza nella musica di Matthew, ora tutti gli elementi sono<br />
perfettamente bilanciati al loro posto. L’oceano e la lontananza che lo divide dai <strong>su</strong>oi desideri ed<br />
aspirazioni, generando una tensione più che palpabile riesce ad arrivarci con tutta la <strong>su</strong>a forza.<br />
(7.4/10)<br />
tereSA Greco<br />
dopo del tempo. Jeffrey non parla ai cr<strong>it</strong>ici, parla ai<br />
lettori. Che usano occhi orecchie e ascoltano la <strong>su</strong>a<br />
fresca fantasia.<br />
(6.9/10)<br />
GASpAre cAliri<br />
John foxx/roBin Guthrie -<br />
mirrorBAll (metAmAtic, mAG 2009)<br />
Gen e r e: d r e a m am b i e n t<br />
L’incontro tra Robin Guthrie e John Foxx non si<br />
direbbe poi così peregrino. Il dream pop dell’ex-<br />
Cocteau Twins, e la <strong>su</strong>a <strong>su</strong>ccessiva prosecuzione<br />
solista strumentale essenziale non sono dissimili, se<br />
ci si riflette, dai variegati percorsi di Foxx, tra techno<br />
pop degli ultimi album, ambient e misticismo, si veda<br />
la serie Cathedral Oceans. L’idea della collaborazione<br />
tra i due è nata nel 2005 quando entrambi si<br />
sono esib<strong>it</strong>i a un concerto di Harold Budd, con il<br />
quale hanno lavorato in periodi diversi.<br />
Mirrorball allora segna l’incontro tra le loro personal<strong>it</strong>à<br />
artistiche sospeso com’è tra musica da<br />
“chiesa” in senso lato, permeata cioè del misticismo<br />
non religioso che li contraddistingue evidentemente<br />
entrambi e ambient. L’incontro tra i layer ch<strong>it</strong>arristici<br />
assai pregnanti di Guthrie, i riferimenti al canto<br />
gregoriano, la molt<strong>it</strong>udine di stratificazioni sonore, il<br />
cantato astratto di Foxx (non in inglese, bensì in un<br />
linguaggio inventato che richiama il latino) ne fanno<br />
un disco non facilissimo ma allo stesso tempo non<br />
di difficile ascolto.<br />
Evocativo ed etereo, Mirrorball si pone allora<br />
perfettamente <strong>su</strong>lla scia delle ultime ricerche foxxiane<br />
con in più la forte impronta musicale del sodale<br />
Guthrie, un incontro a metà strada tra i due.<br />
68 / recensioni recensioni / 69