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intervista su - Snowdonia.it

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copie nel 1985. Siamo quindi nel cuore degli eighties,<br />

c’è un ventiduenne che si fa chiamare semplicemente<br />

E (“Non ho cambiato il mio nome, è lui che ha<br />

cambiato me”, sostiene in un’<strong>intervista</strong> del 2000 alla<br />

radio australiana Channel V), ci sono canzoni che<br />

premono per uscire in una forma adeguata, in un<br />

ambiente adeguato. Nel 1987 Mark Oliver Everett<br />

mise tra sé e il <strong>su</strong>o passato un continente intero: si<br />

trasferì a Los Angeles.<br />

a BRi l l i a n T Fu T u R e ?<br />

L’impatto con la c<strong>it</strong>tà californiana non fu dei più<br />

semplici, Mark si dette agli espedienti, finì a lavorare<br />

in un autolavaggio, ebbe modo insomma di covare<br />

la <strong>su</strong>a viscerale disaffezione per lo stare al mondo.<br />

Ma non smise un attimo di fare musica. Al punto che<br />

la Musa si accorse di lui. O la dea bendata, se prefer<strong>it</strong>e.<br />

Che in questo caso si chiamava Polygram. Fu<br />

il produttore Dav<strong>it</strong>t Sigerson, impressionato da un<br />

demotape, a convocarlo e scr<strong>it</strong>turarlo per la gloriosa<br />

etichetta. Sul contratto erano previsti due album,<br />

una manna per questo ragazzo quasi trentenne che<br />

sfogava l’ossessione sonica riempiendo cassette nella<br />

perfetta sol<strong>it</strong>udine del proprio monolocale. Il debutto<br />

A Man Called E (Polydor, 1992, 6.2/10) fu<br />

un piccolo caso discografico trainato dalla fortunata<br />

Hello Cruel World, ballatina <strong>su</strong>l filo di un malanimo irrecuperabile<br />

e dolciastro (“the angry mob/the happy<br />

mass/this birthday cake may be the last/i’m looking out<br />

to find another way”) <strong>su</strong> cui Mark spalma bava pop<br />

anni ottanta, versante Cars e Supertramp più<br />

carezzevoli.<br />

La scr<strong>it</strong>tura è ovviamente fresca ma piuttosto<br />

acerba, non tanto per le liriche già piuttosto efficaci<br />

nel tratteggiare i contorni di questo anti-nerd<br />

disadattato, il <strong>su</strong>o confl<strong>it</strong>to senza quartiere e assieme<br />

quel sottaciuto bisogno di tenerezza (“have two<br />

eyes/but i cannot see/i have a heart/but i cannot feel<br />

anything/don’t give up now/i’m almost there”), roba che<br />

viene voglia d’abbracciarlo se non fosse per quei<br />

primi sintomi di licantropia (“i will run through the<br />

streets/i will howl at the moon/if you and me cannot be<br />

happening soon”) o la disperata alienazione (“oh she<br />

comes on like a fog/and then she goes out/like a neurotic<br />

dog/so now i’m s<strong>it</strong>ting here/thinking all day long/<br />

looking out the window/w<strong>it</strong>h a blue hat on”). Quanto<br />

alle musiche e ai <strong>su</strong>oni, la quadratura fa acqua, azzardando<br />

tess<strong>it</strong>ure Brian Wilson e arios<strong>it</strong>à Tom<br />

Petty complicate da orchestrazioni tra il facilone e<br />

l’eccessivo, senza mai smarcarsi dal sospetto dell’artificioso<br />

non padroneggiato, coi synth eccessivi, le<br />

tastierine carine, gli assolo arguti ma d’ordinanza.<br />

Spiccano <strong>su</strong>lle altre Are You & Me Gonna Happen per<br />

l’efficacia melodica e l’intens<strong>it</strong>à dell’interpretazione<br />

(prime ruggini nella voce, quelle che in futuro prenderanno<br />

splendidamente il sopravvento) e una E’s<br />

Tune che sprimaccia la malinconia di sogni Beach<br />

Boys.<br />

In quei primi anni novanta spazzati dal tifone del<br />

grunge, quello strano tipo di Mr. E dovette sembrare<br />

un residuo avariato degli ottanta, cuginetto sfigato<br />

e disilluso dei new romantic, nipotino malmesso dei<br />

Billy Joel e dei Randy Newman. Tuttavia, gli ingranaggi<br />

si misero in moto, il buon Mark si trovò catapultato<br />

in tour lungo gli States ad aprire per Tori<br />

Amos incassando una non trascurabile quant<strong>it</strong>à<br />

di applausi. Fu quindi con spir<strong>it</strong>o ringalluzz<strong>it</strong>o che<br />

si mise al lavoro <strong>su</strong> Broken Toy Shop (Polydor,<br />

dicembre 1993, 6.3/10), album che ha ben poco<br />

da invidiare al predecessore anzi mette in mostra<br />

qualche apprezzabile passo in avanti in direzione del<br />

Tom Petty più abboccato (la solenn<strong>it</strong>à amarognola<br />

di Most Unpleasant Man, l’appassionata Shine It All On,<br />

l’impellente Tomorrow I’ll Be Nine), ammiccando obliqui<br />

turgori un po’ Costello e un po’ Rundgren<br />

(la tragicomica She Loves a Puppet, una cartilaginosa<br />

The Day I Wrote You Off sintonizzata <strong>su</strong>lle afflizioni<br />

future), sprofondando un’agra malinconia Lennon<br />

tra riff sintetici quasi Pet Shop Boys (Permanent<br />

Broken Heart).<br />

Anche <strong>su</strong>l versante dei testi vanno segnalate<br />

perle che t’inchiodano, ora per lo spleen laconico<br />

(“poor river/empty river/i’m feeling just like you”, “she<br />

had a brilliant future/i have a past/i have my memories/<br />

but they’re fading fast”), ora per l’irrecuperabile abbandono<br />

(“and there’s no place i can go/and this noise<br />

inside my head/<strong>it</strong> comes and goes”), ferma restando<br />

<strong>su</strong>llo sfondo uno straccio di speranza (“i’d like to<br />

spend at least/one life w<strong>it</strong>h you/eight lives left/and a<br />

heart that wants/to be true”). Nel complesso però il<br />

sound fatica a proporsi, la disinvoltura e a tratti la<br />

brillantezza con cui Mark confeziona queste quattordici<br />

tracce non bastano a renderlo riconoscibile<br />

in un panorama parecchio affollato e rumoroso. La<br />

mancanza di un singolo dall’effort contagioso come<br />

Hello Cruel World fece il resto, condannando l’album<br />

ad un flop commerciale senza appello.<br />

Puntualmente scaricato dalla Polydor, mortificato<br />

in un cul de sac creativo e macerato dall’indifferenza<br />

del pubblico che diserta regolarmente i <strong>su</strong>oi show,<br />

Mr. E arrivò molto vicino ad appendere gli spart<strong>it</strong>i al<br />

chiodo. Ma era il 1994, l’inizio di una nuova era.<br />

liF e is ha R D<br />

1994, dunque. A marzo esce Mellow Gold di<br />

Beck, ad agosto è il turno di Dummy dei Portishead,<br />

a settembre Protection dei Massive<br />

Attack. Il rock insomma è un’altra cosa, cerca di<br />

muoversi <strong>su</strong> frequenze diverse, si reinventa attraverso<br />

cortocircu<strong>it</strong>i musicali (i loop, i samples, le strategie<br />

dub e hip-hop), abbeverandosi all’immaginario<br />

delle arti affini (il cinema, i fumetti, il clip televisivo).<br />

Per Mark fu un’illuminazione, un’ancora di salvezza,<br />

un’iniezione d’adrenalina che lo rimise in moto con<br />

un entusiasmo e una determinazione mai provati.<br />

Assieme al bassista Tommy Walter e all’amico batterista<br />

Jonathan “Butch” Norton, inizia a smerigliare<br />

il nuovo <strong>su</strong>ono <strong>su</strong> una pletora di pezzi appena<br />

sbocciati. Per rimarcare la differenza con la passata<br />

produzione, Mark decide di presentarsi come una<br />

band vera e propria, battezzando il trio Eels, “anguille”,<br />

scelta poi motivata con un’affermazione tanto<br />

demenziale quanto credibile: “Volevo che <strong>su</strong>gli scaffali<br />

dei negozi i dischi della band fossero messi accanto a<br />

quelli miei da solista, non avevo pensato a quanti album<br />

degli Eagles ci sarebbero stati nel mezzo”.<br />

Alcuni singoli attirano l’attenzione della Dre-<br />

amworks, etichetta appena fondata da David Geffen<br />

con Jeffrey Katzemberg (già al timone della Disney)<br />

e Steven Spielberg, che scr<strong>it</strong>turano la band licenziandone<br />

l’esordio Beautiful Freak (Dreamworks,<br />

1996, 7.6/10). Prodotto assieme al multistrumentista<br />

Jon Brion, a Mike Simpson dei Dust Brothers<br />

(a loro volta produttori di Odelay) e a Jim Jacobsen,<br />

fin dalle primissime note - con quei fruscii pseudo-vinilici,<br />

lo swing lo-fi e gli archi ectoplasmatici - ti<br />

sbatte in faccia il mutamento dello scenario, poi la<br />

voce in primissimo piano, il vibrafonino ipnotico e<br />

l’impetuosa flemma di basso-ch<strong>it</strong>arra-batteria definiscono<br />

un sound sbalzato <strong>su</strong> più dimensioni, l’artificio<br />

come emblema esistenziale, narrazione filmica<br />

o fumettistica, ellissi e simbolismo espressionista,<br />

parole sgranate come dadi impietosi (“life is hard/<br />

and so am i/you’d better give me something/so i don’t<br />

die”): è Novocaine For The Soul, pezzo-passepartout<br />

per qualsivoglia chart più o meno indie. Melodia<br />

semplicissima, immediatamente memorizzabile, un<br />

delirio volatile e giocoso nel r<strong>it</strong>ornello, la genial<strong>it</strong>à<br />

adesiva degli espedienti sonori, e di contro tutto<br />

quel disagio, il malanimo senza r<strong>it</strong>orno, quella fragil<strong>it</strong>à<br />

così dolce e disperata.<br />

Una confessione di alter<strong>it</strong>à confessata<br />

con disarmante franchezza (“some people<br />

think you have a problem/but that problem<br />

lies only w<strong>it</strong>h them/just ‘cause you are not<br />

like the others”) in quella ninna nanna da<br />

melodramma m<strong>it</strong>teleuropeo della t<strong>it</strong>le<br />

track, poi però svolti l’angolo e trovi il<br />

guizzo fiero della speranza (“one day the<br />

world will be ready for you/and wonder how<br />

they didn’t see”) nella struggente Spunky.<br />

Così come spunta una rabbia che oltrepassa<br />

l’autocommiserazione, come nella<br />

tesa Rags To Rags (“rags to rags and rust<br />

to rust/how do you stand when you’ve been<br />

crushed?”, echeggiando in qualche modo<br />

il Dylan di Like A Rolling Stone) o nella<br />

ruvida Mental (“they say i’m mental but<br />

i’m just confused/they say i’m mental but<br />

i’ve been abused/they say i’m mental ‘cause<br />

i’m not amused by <strong>it</strong> all”), quest’ultima capace<br />

di accogliere senza sforzo istanze<br />

quasi grunge. Gli influssi dello slackerismo<br />

beckiano e del noir cinematico<br />

bristoliano complottano piccoli capolavori<br />

come Your Lucky Day In Hell, roba<br />

da scomodare parentela con un altro<br />

disadattato e per di più omonimo, quel<br />

26 / Drop Out Drop Out / 27

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