intervista su - Snowdonia.it
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za melodica.<br />
Se non fosse per l’undicisettembre che calò un<br />
manto di tragedia cosmica <strong>su</strong>l mondo occidentale e<br />
un altro tragico scherzo del destino per Mark, la cui<br />
cugina perì nell’attentato al Pentagono, potremmo<br />
sostenere che nel 2001 il principale problema per<br />
l’uomo chiamato E fosse il rapporto di attrazione/<br />
repulsione con lo shobiz, che raggiunse un emblematico<br />
apice con la partecipazione di My Beloved<br />
Monster - pezzo quanto mai opportuno - alla OST<br />
di Shreck, film d’animazione Dreamworks dal piglio<br />
abbastanza disturbato e dissacrante, ai cui sequel<br />
non a caso gli Eels continueranno a prestare<br />
canzoni.<br />
lon e Wo l F<br />
A propos<strong>it</strong>o di cinema, più impegnativo (e “impegnato”)<br />
fu il lavoro per la OST di Lev<strong>it</strong>y (Pleximusic,<br />
22 aprile 2003, 6.2/10), film di Ed Solomon con<br />
Holly Hunter e Morgan Freeman: due pezzi ined<strong>it</strong>i<br />
targati Eels (l’onirica Taking A Bath In Rust e la delicata<br />
Skywr<strong>it</strong>ing, soffici malinconie altezza Daisies) più<br />
una dozzina di strumentali che sembrano rielaborare<br />
frammenti del repertorio, diluendoli in un brodo<br />
allib<strong>it</strong>o e sognante. Il produttore della soundtrack<br />
ri<strong>su</strong>lta essere un tal Sir Rock-A-Lot, moniker<br />
dello stesso Mark, utilizzato anche per i cred<strong>it</strong>i di<br />
I Am The Messiah (Spin Art Records, 8 aprile<br />
2003, 6.4/10), disco firmato Mc Honky, fantomatico<br />
e stagionato cantante di Silverlake con un’antica<br />
esperienza nel Rat Pack di Sinatra e Sammy<br />
Davis Jr, di cui Mark si sarebbe invagh<strong>it</strong>o dopo<br />
averne sent<strong>it</strong>o le gesta in una cassetta. In realtà, ovviamente,<br />
I Am The Messiah è un progetto solista<br />
di Mark, coadiuvato da Butch, Joey Waronker<br />
e dal sol<strong>it</strong>o Koool G Murder. Tra febbri e deliri<br />
electro-dance, miraggi chamber-soul, fatamorgane<br />
cinematiche e funky-house futuristici, la scaletta si<br />
con<strong>su</strong>ma ecc<strong>it</strong>ante e carezzevole, rivelando solo a<br />
tratti la propria natura eelsiana (scopertamente in<br />
What A Bringdown, sotto una coltre sordida in My<br />
Bad Seed). Digressioni <strong>su</strong> digressioni, un distrarsi da<br />
sé in studio e <strong>su</strong>l palco, coi live sempre più imprevedibili<br />
(ora al calor bianco, ora a spine staccate) e all<br />
over the world.<br />
Obbedendo ad una fertil<strong>it</strong>à ai lim<strong>it</strong>i del prodigioso<br />
(“Non ho mai ricevuto alcuna sollec<strong>it</strong>azione dalla<br />
mia etichetta. Consegno un nuovo disco ben prima delle<br />
scadenze imposte”, dichiarerà serafico), quello stesso<br />
anno realizzò il quinto album targato Eels. Shootenanny<br />
(Dreamworks, 3 giugno 2003, 6.3/10) è<br />
una raccolta piuttosto sbrigliata e gradevole, confezionata<br />
in evidente stato di relax rispetto alle opere<br />
precedenti, rispetto alle quali compie una specie<br />
di sintesi introducendo qualche elemento di nov<strong>it</strong>à<br />
tutt’altro che clamoroso. Guardando ai Beatles<br />
col riflusso blues di Abbey Road, al folk errebì<br />
dell’amato Leon Russell e ai languori del power<br />
pop, la scaletta annovera momenti di torvo turgore<br />
blues rock (Agony, All In A Day’s Work) dal piglio<br />
pressoché ined<strong>it</strong>o nel canone eelsiano, ma a sorprendere<br />
è più che altro quel senso di posa che<br />
sterilizza il malanimo, l’icastica profusione di ottoni<br />
e ch<strong>it</strong>arre effettate al servizio di un romanticismo<br />
veemente e umorale, forse mero esercizio di stile<br />
oppure - stando a quanto dichiara lo stesso Mark<br />
- una pratica di autodifesa: “(...) if you are really depressed,<br />
romanticizing <strong>it</strong> might be the only thing that<br />
gets you through <strong>it</strong>”.<br />
Sia quel che sia, lo stesso senso di “costernato distacco”<br />
permea il pop rock tompettyano di Wrong<br />
About Bobby e Rock Hard Times, la mestizia robotica<br />
à la Beautiful Freak di Love Of the Loveless, la<br />
palp<strong>it</strong>azione Wilco di Numbered Days e il trepido<br />
falsetto Lennon di Fashion Awards, per non dire dei<br />
pop rock dinoccolati Saturday Morning (strutturato<br />
<strong>su</strong> riff Dandy Warhols via Blur) e Dirty Girl, oppure<br />
dei folk affogati in crema di archi e slide (The<br />
Good Old Days, Restraining Order Blues) tipo il Beck<br />
di Sea Change: storie fin troppo normali e perciò<br />
anomale per uno spostato fisiologico come Mark.<br />
Sentirlo in Lone Wolf mentre ci serve la <strong>su</strong>a lupesca<br />
alter<strong>it</strong>à (“i am a lone wolf/<strong>it</strong> blows my mind/that people<br />
wanna try to get/inside my tired head”) in salsa poperrebì<br />
degna di una Gwen Stefani qualsiasi, obbedisce<br />
allo spir<strong>it</strong>o di un disco di ordinari depistaggi.<br />
O di transizione, se prefer<strong>it</strong>e.<br />
Venne quindi un altro tour mondiale a cui seguì<br />
un riposo forzato dovuto ad una cisti alle corde<br />
vocali. Figuriamoci: per l’ipercinetica ispirazione di<br />
Mark, non poter esibirsi né incidere fu una specie<br />
di tortura. Senza contare le nubi che si addensavano<br />
<strong>su</strong>lla sorte della band: dopo otto anni di fedele<br />
mil<strong>it</strong>anza Butch aveva mollato, intanto che la Dreamworks<br />
veniva fagoc<strong>it</strong>ata dalla Universal la quale<br />
pensò bene di tagliare quegli squinternati degli Eels<br />
dal proprio catalogo. In questo scenario tutt’altro<br />
che favorevole, Mark trovò la determinazione per<br />
guardarsi dentro e in prospettiva. Recuperò spunti e<br />
idee abbozzati ad inizio carriera, mise del fieno nuovo<br />
in cascina, insomma cucinò un rientro in grande<br />
stile: Blinking Lights And Other Revelations<br />
(Vagrant, 19 aprile 2005, 7.1/10) è un doppio album,<br />
trentatré canzoni per un’ora e mezza abbondante<br />
di messinscena nostalgica e briosa. Un barcamenarsi<br />
divertente e incantevole, narrando una storia che<br />
poi è (forse, anzi sicuramente) v<strong>it</strong>a e dolori dello<br />
stesso Mark. Certi guizzi dolceagri (la squillante Losing<br />
Streak, la madreperlacea From Which I Came / A<br />
Magic World, il <strong>su</strong>rf squinternato di Hey Man), certe<br />
toccanti mestizie (il country vaporoso di Railroad<br />
Man, la sospensione d’archi e piano di The Stars Shine<br />
In The Sky Tonight, la soav<strong>it</strong>à str<strong>it</strong>olacuore di If You<br />
See Natalie - Lennon/<br />
McCartney da<br />
una parte e Alex<br />
Chilton dall’altra),<br />
ed ecco recuperato<br />
il tocco struggente,<br />
il ghigno <strong>su</strong>rreale,<br />
l’inquietudine marionettistica,<br />
la capac<strong>it</strong>à<br />
d’irradiare sensazioni<br />
dalla tenerezza quasi<br />
insostenibile.Un programma<br />
generoso di<br />
tensioni e rilasci, di<br />
arrangiamenti vividi<br />
(campanellini, ottoni,<br />
slide gu<strong>it</strong>ar, synth,<br />
organi, organetti…),<br />
di apnee diafane e<br />
preziosismi vari. Oltre<br />
venti i musicisti<br />
coinvolti, tra cui le<br />
osp<strong>it</strong>ate eccellenti di<br />
Tom Wa<strong>it</strong>s (ghigni,<br />
espettorazioni<br />
e frignate nell’errebì<br />
giocattolo Going<br />
Fetal), Peter Buck<br />
(al dobro e al basso<br />
nella delicata To Lick<br />
Your Boots) e John<br />
Sebastian (autoharp<br />
in Dusk: A Peach In The Orchard).<br />
Se pop doveva essere, lo fu ad un livello di straordinaria<br />
efficacia e dens<strong>it</strong>à, tanto nei momenti più<br />
complessi (l’enfasi quasi-prog di In The Yard, Behind<br />
The Church) che in quelli più immediati (vedi l’irresistibile<br />
inezia pop-soul per piano di Ugly Love). Una<br />
specie di ulteriore consacrazione.<br />
haR D Wo R k e R<br />
Sono passati quattro anni da allora, un periodo di<br />
silenzio discografico spezzato dal primo live ufficiale,<br />
il buon Live At Town Hall (Vagrant, 20 febbraio<br />
2006, 7.1/10), usc<strong>it</strong>o anche in DVD, un’antologia in<br />
chiave cameristica <strong>su</strong>lla scorta dell’esperienza Eels<br />
W<strong>it</strong>h Strings, e da due doppie antologie vere e proprie,<br />
Meet The Eels (Universal / Geffen, 15 gennaio<br />
2008, 7.0/10) e Useless Trinkets (Universal /<br />
Geffen, 15 gennaio 2008, 7.2/10), quest’ultima contenente<br />
rar<strong>it</strong>à e b-side. Contemporaneamente, l’uomo<br />
chiamato E fa il<br />
punto di una v<strong>it</strong>a (anche)<br />
in musica pubblicando<br />
l’autobiografia<br />
Things The Grandchildren<br />
Should<br />
Know, tanto per<br />
ribadire il senso di<br />
punto e accapo.<br />
Dal canto nostro,<br />
se dovessimo tracciare<br />
un bilancio non<br />
potrebbe che ri<strong>su</strong>ltare<br />
pos<strong>it</strong>ivo. Gli Eels<br />
hanno imposto codici<br />
e standard ineludibili<br />
per chiunque<br />
voglia cimentarsi in<br />
amb<strong>it</strong>o pop rock. Il<br />
canzoniere è copioso<br />
e qual<strong>it</strong>ativamente di<br />
rilievo, con un pugno<br />
di pezzi capaci di giocarsela<br />
coi capolavori<br />
di Beatles, Randy<br />
Newman, Todd Rundgren,<br />
Brian Wilson<br />
e via discorrendo. A<br />
46 anni, l’instancabile<br />
Mark Oliver Everett<br />
si appresta a ripartire<br />
con Hombre Lobo<br />
(Vagrant, 6 giugno 2009). Altri licantropismi. Altri<br />
incantesimi. Ghigni minacciosi e vicinanza sconcertante:<br />
il nemico è tra noi, è dentro di noi. Ti carezza,<br />
ti asseconda, civilmente convive. E’ un uomo. Lupo<br />
tra gli uomini.<br />
30 / Drop Out Drop Out / 31