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NN. 69/70 LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2009

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sono altro che degli spunti che gli servono a riflettere<br />

sul passato e sul tempo.<br />

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,”: il “colle” si<br />

caratterizza fin da subito come “ermo”, solitario, e così<br />

il poeta instaura fin da subito un rapporto affettivo con<br />

un luogo che come lui è solitario, e allo stesso tempo<br />

mette a nudo il suo dolore esistenziale dovuto alla<br />

solitudine.<br />

“E questa siepe”: la “siepe” è la vita stessa intesa come<br />

ostacolo, limite, disagio.<br />

“che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo<br />

esclude”: gli ostacoli stessi producono stimoli per<br />

l’anima, mettono in moto le ali dell’essere.<br />

“Ma sedendo e mirando”: è proprio la pratica della<br />

meditazione, nel buddhismo per mantenere pensieri<br />

positivi bisogna praticare la meditazione, cioè sedersi e<br />

acquietare la mente. Nel buddhismo inoltre viene posta<br />

in risalto la trasformazione della mente, e tale<br />

trasformazione dipende dall’intensità della meditazione,<br />

ciò avviene esattamente in Leopardi.<br />

“interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani /<br />

Silenzi, e profondissima quiete”: il poeta descrive<br />

un’esperienza sovrumana ove il silenzio e la quiete sono<br />

sentori di quel nulla che è l’infinito stesso, inaccessibile<br />

all’apparenza ma raggiungibile tramite l’essere;<br />

l’individuo ormai non è più un semplice individuo, ma<br />

costituisce di suo un processo creatore.<br />

“Io nel pensier mi fingo”: “fingere” in latino significa<br />

“plasmare”, e “plasmare” è facoltà lecita all’individuo<br />

che costituisce da sè un processo creatore, è il frutto<br />

spontaneo di chi sta vivendo il “satori”; il pensiero come<br />

trincea dell’interiorità, come presa d’atto della distanza<br />

dell’uomo superiore dai dogmi che costringono l’uomo<br />

nella società. Questa distanza provoca incapacità di<br />

comunicare l’esperienza superiore vissuta e ricerca di<br />

mezzi e di modi che siano atti a divulgarla e descriverla,<br />

proprio per questo motivo questo idillio è stato letto in<br />

maniera così molteplice anche dai critici più stimati, è<br />

difficile cogliere il senso di una esperienza che per sua<br />

natura non è facile trasmettere.<br />

“E come il vento / Odo stormir tra queste piante”: per<br />

giungere alla totalità del reale bisogna abbandonarsi al<br />

processo infinito e indefinito del flusso vitale che<br />

pervade l’universo, Leopardi lo percepisce e ne fa una<br />

base di lancio onde spiccare il volo verso l’infinito.<br />

“io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo<br />

comparando”: è il primo sentore dell’infinito.<br />

“E mi sovvien l’eterno”: secondo sentore della fusione<br />

totale con l’infinito.<br />

“E le morte stagioni, e la prensente / E viva, e il suon di<br />

lei.”: cade il concetto di tempo fisicamente percepito e<br />

si realizza un completo distacco dalle cose del mondo<br />

che confluisce in uno stato rinnovato di autocoscienza.<br />

“Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio”:<br />

l’esperienza dapprima lontana si realizza in “questa<br />

immensità”, si annulla la distanza che separa il poeta<br />

dall’infinito proprio quando “s’annega il pensier mio”,<br />

cioè quando la sua mente muore, è un evidente stato di<br />

“satori”.<br />

“E il naufragar m’è dolce in questo mare”: dopo la<br />

morte avviene la rinascita, il poeta si identifica con<br />

l’infinito, è infinito lui stesso, ormai l’infinito è dentro di<br />

lui e il naufragio nel nulla è un divenire inarrestabile.<br />

“L’infinito” di Leopardi segue il percorso da me<br />

delineato ad eccezione di un punto, ad eccezione di<br />

quella fase di tensione sulle grandi domande esistenziali<br />

che invece è presente più in avanti, nel “Canto notturno<br />

di un pastore errante dell’Asia”).<br />

Lo stato di coscienza che in questa fase il poeta<br />

dimostra di vivere non è ancora quello del “nirvana”,<br />

ma è ancora uno stato preparatorio. Dopo il “satori” di<br />

cui è chiara prova “L’infinito” il ritorno della normale<br />

percezione delle cose mette Leopardi in una condizione<br />

di ulteriore ricerca, e il suo nuovo ragionare deriva da<br />

una consapevolezza separata da quella del mondo,<br />

questa è una conseguenza di quel primo “satori”.<br />

“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai / Silenziosa<br />

luna? / Sorgi la sera, e vai, / Contemplando i deserti;<br />

indi ti posi. / Ancor non sei tu paga / Di riandare i<br />

sempiterni calli? / Ancor non prendi a schivo, ancor sei<br />

vaga / Di mirar queste valli? / Somiglia alla tua vita / La<br />

vita del pastore.”: Senso della vastita cosmica, le sue<br />

domande investono l’intero universo. Non è un dialogo,<br />

ma un monologo, poichè il pastore si interroga e misura<br />

se stesso. Sia la luna che il pastore sono eterni<br />

pellegrini, ma la luna non è neppure capace di<br />

ascoltare, la luna è diversa dal pastore e non può<br />

neppure capirlo, mentre il pastore non capisce le leggi<br />

che lo governano.<br />

“Dimmi, o luna: a che vale / Al pastor la sua vita, / La<br />

vostra vita a voi? dimmi: ove tende / Questo vagar mio<br />

breve, / Il tuo corso immortale?: Dietro l’apparente<br />

confronto si cela tutta la distanza, poichè la luna e il<br />

pastore parlano un linguaggio diverso; il pastore nel<br />

suo “vagar breve” si perde nel labirinto della vita,<br />

mentre la luna col suo “corso immortale” segue delle<br />

regole precise che sono inconoscibili per l’uomo.<br />

Esistono solo ipotesi di senso che non trovano garanzie:<br />

non ci sono risposte.<br />

“Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren?<br />

che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io chi<br />

sono? / Così meco ragiono: e dalla stanza / Smisurata e<br />

superba, / E dell’innumerabile famiglia; / Poi di tanto<br />

adoprar, di tanti moti / D’ogni celeste, ogni terrenza<br />

cosa, / Girando senza posa, / Per tornar sempre là<br />

donde son mosse; / Uso alcuno, alcun frutto /<br />

Indovinar non so. Ma tu per certo, / Giovinetta<br />

immortal, conosci il tutto”: Il senso dell’immenso è<br />

presente anche qui come ne “L’infinito”, ma con un<br />

senso di sgomento. In Leopardi c’è la volontà di trovare<br />

dei valori, ma la mancanza di senso investe tutto<br />

l’universo e cielo e terra si avvicinano solo nella<br />

reciproca insensatezza.<br />

“Forse in qual forma, in quale / Stato che sia, dentro<br />

che sia o cuna, / E’ funesto a chi nasce il dì natale”: la<br />

conoscenza è un ostacolo e un uguale destino di dolore<br />

forse accomuna tutte le forme di vita dell’universo,<br />

come ha scritto il critico Luperini:”al pastore restano<br />

infine solo il conforto turbato delle proprie stesse<br />

interrogazioni e la minaccia incombente<br />

dell’insensatezza e del dolore”.<br />

La vacuità è l’unca realtà non illusoria e l’immenso<br />

edificio del pensiero conduce solo ad una assenza di<br />

sostanza. Questo produce ancora sofferenza, ma a<br />

differenza di “A Silvia” ove si scopre che la sofferenza<br />

esperita è frutto di prospettive illusorie, qui la<br />

OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove A<strong>NN</strong>O XIII – <strong>NN</strong>. <strong>69</strong>/<strong>70</strong> <strong>LUGLIO</strong>-<strong>AGOSTO</strong>/<strong>SETTEMBRE</strong>-<strong>OTTOBRE</strong> <strong>2009</strong> 53

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