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NN. 69/70 LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2009

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13 Cfr. G. GUARESCHI, La trattoria, in “Candido”, n.29 / 1953,<br />

[vol.II, 1296]; il racconto è inserito anche nell’edizione 1980<br />

di Gente così.<br />

14 Cfr. A. GNOCCHI – M. PALMARO, Giovannino Guareschi, Casale<br />

Monferrato, Piemme, 2008, 53. «La radice dell’umorismo<br />

guareschiano» – scrivono i due autori– è una «[…] capacità di<br />

sorridere della condizione umana aderendo alla logica del<br />

Creatore».<br />

15 Cfr. G. CONTI, Giovannino Guareschi, cit., 282. L’autore –<br />

richiamando un nota scritta da Guareschi in data 31/07/1944<br />

sul suo diario («Rebora ha tenuto una conferenza<br />

sull’ermetismo. Rebora parla molto difficile: ha detto che non<br />

ha capito niente. Neanche lui»)– commenta: «Giovannino non<br />

capisce perché si debba scrivere in modo incomprensibile,<br />

dimostrando ancora una volta il suo distacco dalle moderne<br />

tendenze della lettura novecentesca».<br />

16 Cfr. G. GUARESCHI, All’«Anonima», cit., [vol.I, 323].<br />

Guareschi scrive: «Perché, se ci sono cento cose, ci devono<br />

essere duemila modi per dire queste cento cose? […] Si fa un<br />

comitato di galantuomini di tutte le categorie, si piglia il<br />

vocabolario, si cancellano tutte le parole inutili e se uno,<br />

dopo, usa in pubblico qualcuna di queste parole proibite, lo si<br />

prende e lo si schiaffa dentro come quelli che tentano di<br />

spacciare moneta falsa».<br />

17 Cfr. G. GUARESCHI, Vennero per suonare e tornarono salati,<br />

in “Oggi”, n.37 / 1966, [vol.II, 2166]; il racconto è inserito<br />

anche nell’edizione 1996 di Don Camillo e don Chichì. La<br />

chiarezza analitica del cristianesimo ha radici dall’asserzione di<br />

Matteo «sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più<br />

viene dal maligno» [Mt 5,37].<br />

18 Cfr. A. GNOCCHI – M. PALMARO (a cura di), Don Camillo. Il<br />

vangelo dei semplici, Milano, Àncora, 1999, 10; A Pronzato,<br />

nella Prefazione, sostiene: «Guareschi osa mettere allo<br />

scoperto il cuore, i sentimenti, e soprattutto ha il coraggio<br />

della chiarezza».<br />

19 Cfr. G. GUARESCHI, Il figlio clandestino, in “Candido”, n.5 /<br />

1949, [vol.I, 326/327]; il racconto è inserito anche<br />

nell’edizione 1953 di Don Camillo e il suo gregge, con titolo Le<br />

lampade e la luce.<br />

20 Cfr. G. GUARESCHI, Furore, in “Candido”, n.24 / 1948, [vol.I,<br />

292]; il racconto è inserito anche nell’edizione 1992 di Mondo<br />

Candido 1948–1951.<br />

Ivan Pozzoni<br />

– Monza –<br />

IL GIAPPONE RACCONTATO DA ITALO CALVINO<br />

E ROLAND BARTHES<br />

“per Marco fu uno dei<br />

momenti più stralunati e alti<br />

della sua vita, momenti che<br />

solo il Giappone creava”<br />

L’eleganza è frigida<br />

Goffredo Parise<br />

Questo articolo intende<br />

mettere a confronto la La<br />

forma del tempo (1976) di<br />

Italo Calvino, infine incluso in<br />

Collezione di Sabbia (1984), e L’impero dei segni<br />

(19<strong>70</strong>) di Roland Barthes. Benché siano state<br />

individuate somiglianze e marginali influenze reciproche<br />

tra questi due autori 1 , una analisi incrociata delle loro<br />

opere non ha ancora avuto il peso che merita negli<br />

studi letterari e ancor di più in ambito yamatologico.<br />

Entrambi questi testi narrano il Giappone a un lettore<br />

probabilmente poco o nulla iniziato alla cultura<br />

orientale. Notiamo subito una marcata differenza tra le<br />

due opere, poiché riteniamo che solo quella di Calvino<br />

possa iscriversi nella lunga tradizione della saggistica di<br />

viaggio, il cui inizio si fa solitamente risalire al<br />

celeberrimo Il Milione (1298 ca.) di Marco Polo 2 . Questo<br />

aspetto è anche alla base della diversa anima dei due<br />

scritti. Difatti, sebbene entrambi condividano una forte<br />

presenza dei lori autori, ciononostante, essi divergono<br />

in stile e risultato. In altre parole, benché l’argomento<br />

trattato sia lo stesso, l’esito è sostanzialmente diverso:<br />

da una parte abbiamo l’opera di carattere chiaramente<br />

divulgativo di Calvino, dall’altro il saggio erudito del<br />

semiologo francese.<br />

“Quando mi trovo in un ambiente dove posso godere<br />

dell’illusione di essere invisibile, sono davvero felice.” 3<br />

Questa citazione, presa da Eremita a Parigi (1994,<br />

postumo), pone l’accento sul sempre malcelato<br />

desiderio di Calvino per un certo “anonimato” dello<br />

scrittore, aspetto che spiega anche il motivo della sua<br />

riluttanza nell’apparire in televisione 4 . Non diremo certo<br />

nulla di nuovo se affermassimo che il narratore ligure si<br />

considerava più un uomo di scrittura che di parola.<br />

Infatti, le pagine scritte da Calvino sul Giappone<br />

sembrano essere prossime alla sequenza di un<br />

fotoreportage: proprio alla stregua di un fotografo, egli<br />

rende la sua presenza poco percettibile, mentre nel suo<br />

animo imperversano sensazioni contrastanti.<br />

Lo scrittore ligure è ben conscio di non essere un<br />

esperto del Giappone, malgrado ciò egli non giudica la<br />

propria “ignoranza” in materia come un fattore<br />

negativo, tutt’altro: “Nuovo nel paese, sono ancora<br />

nella fase in cui tutto quel che vedo ha un valore<br />

proprio perché non so quale valore dargli” 5 .<br />

Affermazioni di questo tipo ci incoraggiano nel definire<br />

Calvino una specie flâneur contemporaneo, attento a<br />

ogni particolare e in possesso di uno sguardo discreto,<br />

dove la scrittura diviene mero supporto alle immagini<br />

catturate dagli occhi. Egli non è interessato al giudizio,<br />

ma al racconto: non concentra la sua attenzione sulla<br />

spiegazione di ciò che vede, per dedicarsi<br />

esclusivamente nell’imprimere immagini e suoni su<br />

carta. Ne La forma del tempo dunque, la complessità<br />

letteraria cede il posto a una prospettiva di taglio<br />

antropologico, dove la osservazione riveste un ruolo<br />

fondamentale.<br />

Ciononostante, l’incontro di Calvino col Giappone è per<br />

certi versi problematico: la coatta modernità di questo<br />

paese lo lascia sovente come stordito e perplesso,<br />

talvolta lo irrita persino; ciò malgrado egli non rinuncia<br />

mai a voler capire questa cultura per lui così remota:<br />

“Così il tempio Manju-in, che un incompetente come me<br />

giurerebbe che è zen e invece non lo è […]” 6 . Questa<br />

affermazione spiazza il lettore, visto che raramente un<br />

autore fa leva sulla propria “ignoranza” per dare<br />

autorevolezza alla sua riflessione. Desta ancor più<br />

stupore, se consideriamo che queste sono parole tratte<br />

da un testo il cui intento principale è proprio quello di<br />

descrivere il Giappone al pubblico italiano. Calvino<br />

manifesta senza remore la sua inesperienza in materia,<br />

affermando: “un incompetente come me”, in modo<br />

quasi provocatorio. Sembra voler lanciare una sfida alle<br />

proprie capacità intuitive e percettive, spingendole in tal<br />

OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove A<strong>NN</strong>O XIII – <strong>NN</strong>. <strong>69</strong>/<strong>70</strong> <strong>LUGLIO</strong>-<strong>AGOSTO</strong>/<strong>SETTEMBRE</strong>-<strong>OTTOBRE</strong> <strong>2009</strong> 59

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