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BOLLETTINO 178 - Società Filosofica Italiana

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Hannah Arendt, allieva di Heidegger e Jaspers, coniuga in modo altrettanto originale la filosofia<br />

dell’esistenza con una sorta di ontologia della vita activa, che la conduce a riflettere sul senso<br />

della praxis sociale e politica. Proprio la condizione della vita activa, in quanto condizione<br />

dell’uomo storico, traduce l’ek-sistenza in quanto situazione-limite, ma dice anche la possibilità<br />

di inizio e la promessa che ne caratterizzano la trascendenza in quanto cifra dell’essere nel<br />

mondo. Per questo motivo le riflessioni arendtiane sono rivolte al totalitarismo in quanto perversione<br />

del pensiero e del giudizio nel dominio, con la conseguente incapacità politica, intesa come<br />

spazio etico della città dell’uomo. Forte è qui il recupero della filosofia pratica di Aristotele,<br />

quanto quello dell’istanza kantiana del giudizio come espressione di libertà e autonomia morale,<br />

il cui pervertimento sfocia nel male. Quest’ultimo assume anche il sembiante della banalità e<br />

della superficialità del giudizio, sfociando in ultima analisi nella perversione stessa della libertà<br />

umana; esso si traduce quindi in quella “normalità” del funzionario nazista che ripete un cliché,<br />

senza capacità di giudizio: è la normalità spaventosa del mondo totalitario, in cui l’incapacità di<br />

mettersi dalla parte dell’altro (anche il discernere ed il giudicare sottende un aver parte dell’ io<br />

con il suo sé) genera un mostro infernale.<br />

Questa raccolta di profili merita dunque attenzione e può essere certamente utile per chi volesse<br />

avvicinarsi al pensiero femminile cercando di comprenderne problematiche e istanze di novità,<br />

trovando nel contempo una chiave di lettura della filosofia come sforzo dì comprensione della<br />

propria esistenza.<br />

Paola Mancinelli<br />

U. Curi, Ombre delle idee. Filosofia del cinema da American Beauty a Parla con lei, Bologna<br />

2002, pp. 160.<br />

Prendiamo due film recenti e conosciuti, La stanza del figlio di Nanni Moretti e L’uomo che non<br />

c’era di Joel Coen. Qual è il loro soggetto? Sembra evidente: nel primo film la morte straziante di<br />

un figlio, ovvero il lutto più doloroso che possa capitare ad un uomo o ad una donna. Il film è allora<br />

da inscrivere nel genere tragico. Nel secondo la trama è alquanto complessa, i temi sono quelli<br />

«potenzialmente più carichi di emotività»: l’amore e il tradimento, la morte e l’arte, la solidarietà e<br />

la giustizia, ma trattati con stile «asciutto fino all’ascetismo», deliberatamente senza pathos. Ad un<br />

primo esame, comunque, il problema intorno a cui tutto ruota sembra essere quello del limite invalicabile<br />

della conoscenza da parte dell’uomo, suggerito da un paio di riferimenti espliciti alla teoria<br />

di Heisenberg; il genere è ancora quello del dramma tragico. Ma nell’uno come nell’altro caso ci<br />

troviamo di fronte ad una «immagine riflessa» dell’opera filmica in quanto tale. Infatti, ad uno<br />

scavo interpretativo condotto, come fa U. Curi, attraverso l’interrogazione filosofica ed in particolare<br />

utilizzando la poetica aristotelica, l’idea portante del film si rivela nella sua originarietà e, di<br />

conseguenza, il genere del film appare nella sua autentica forma. La stanza del figlio non è finalizzato<br />

alla rappresentazione del dolore conseguente alla morte prematura del giovane Andrea, quanto<br />

piuttosto alla descrizione della «radicale impossibilità di misurarsi con esso da parte del protagonista».<br />

E quindi il dramma a cui Moretti si riferirebbe sarebbe quello di un autore che verifica la<br />

propria inadeguatezza a cimentarsi con la dimensione del tragico: la tragedia, infatti, non è ben riuscita.<br />

Laddove quella di Coen risulta una tragedia «ben fatta» perché essa sì riesce a suscitare nello<br />

spettatore pietà e terrore, il piacere della tragedia secondo Aristotele.<br />

Parto da queste due letture filmiche contenute nel volume di Curi, da me messe a confronto, perché<br />

chiaramente esemplificative della proposta interpretativa che l’autore ha sviluppato già dal<br />

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