Abbiamo intervistato, mettendoa confronto fra lorodue diverse visuali, un notoDalla scrivania <strong>del</strong>lo storicoal fornello <strong>del</strong> cuocointerviste a Massimo Montanarie Rinaldo Dalsassostorico <strong>del</strong>l’alimentazioneMassimo Montanari e unapprezzato chef trentino,Rinaldo Dalsasso. MassimoMontanari è professore ordinariodi Storia medievalepresso la Facoltà di Lettere eFilosofia <strong>del</strong>l’Università degli studi di Bologna, doveinsegna anche Storia <strong>del</strong>l’alimentazione e dirige ilMaster europeo in Storia e cultura <strong>del</strong>l’alimentazione(attivato assieme alle università di Tours, Barcellona eBruxelles). È codirettore <strong>del</strong>la rivista Food & History,pubblicata dall’Institut Européen d’Histoire et desCultures de l’Alimentation. Tra le principali pubblicazioni:L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo(1979), Alimentazione e cultura nel Medioevo (1988),La fame e l’abbondanza: storia <strong>del</strong>l’alimentazione inEuropa (1993), Il cibo come cultura (2004), Il formaggiocon le pere: la storia in un proverbio (2008), L’identitàitaliana in cucina (2010). Con Alberto Capatti hascritto La cucina italiana: storia di una cultura (1999).a cura di Paola BertoldiHa curato Il mondo in cucina:storia, identità, scambi (2002);con Jean-Louis Flandrin,Storia <strong>del</strong>l’alimentazione 1996;con Françoise Sabban,Atlante <strong>del</strong>l’alimentazionee <strong>del</strong>la gastronomia 2004. Isuoi lavori sono tradotti innumerose lingue. RinaldoDalsasso è oggi uno dei piùnoti chef <strong>del</strong> <strong>Trentino</strong>, anche se, parlando <strong>del</strong>la suaprofessione, lui preferisce essere chiamato “brusapa<strong>del</strong>e”. Originario di Borgo Valsugana, 58 anni, dallafine degli anni sessanta, dopo la scuola alberghiera,ha sempre operato nel settore e collezionato riconoscimenti.Ha lavorato inizialmente a Verona, poi hagestito la trattoria Celeste di Rovereto, fino a quando,il 27 ottobre 1979, giorno <strong>del</strong> suo compleanno, hainaugurato il ristorante Al borgo di Rovereto, che l’hareso famoso ed è stato il primo in <strong>Trentino</strong> ad ottenerela stella Michelin. Dopo aver lasciato la guida<strong>del</strong> Borgo nel 2004, si è trasferito, l’anno successivo,a Besenello, dove continua a lavorare, tiene corsi dicucina e organizza cene e catering.Massimo Montanari: “Le abitudini alimentari sonolegate alle condizioni naturali, ma anche ai condizionamenticulturali di ogni società”.Dal punto di vista storico, in che periodo il cibosmette di essere solo il soddisfacimento di un bisognoprimario e diventa in qualche modo parte <strong>del</strong>latradizione e <strong>del</strong>la storia di una popolazione? Comee quando si è cioè sviluppata una “cultura <strong>del</strong> cibo”?Io credo che di “cultura <strong>del</strong> cibo” si possa parlareda sempre. In modi diversi, più o meno complessi,più o meno elaborati, gli uomini hanno sempre vissutoil rapporto col cibo come qualcosa di più che unsemplice gesto nutrizionale. Basta pensare alla convivialità,alla spartizione <strong>del</strong> cibo come espressionetipica <strong>del</strong>la specie umana: in quel momento, il cibonon solo s e r v e, ma s i g n i f i c a. Perciò non credoesista un momento storico in cui questo accade. Lastoria <strong>del</strong>l’uomo coincide con la storia <strong>del</strong>la cultura<strong>del</strong> cibo. Allo stesso modo, l’esigenza <strong>del</strong> piacereaccompagna da sempre l’esigenza di nutrirsi. Sonotutte varianti (il bisogno, il piacere, la comunicazione)che si fondono insieme a costruire il patrimonio disaperi e di idee, le “tradizioni”, materiali e intellettuali,che conferiscono identità a un gruppo umano.È quindi possibile analizzare una società, il suo“dna” anche attraverso le abitudini alimentari? Letradizioni gastronomiche non dipendono probabilmentesolo da elementi legati alla natura e all’ambiente,ma avranno a che fare anche con la storia,l’organizzazione sociale, le credenze religiose, leabitudini culturali. Esiste cioè una sociologia <strong>del</strong>lagastronomia?Certamente. Le abitudini alimentari sono legate allecondizioni naturali, ma anche ai condizionamenti culturalidi ogni società. D’altronde, la storia umana vivesempre in questa interazione fra natura e cultura.La cosiddetta “natura” è la pre-condizione su cui sicostruisce la cosiddetta “cultura”. I due termini inte-14
agiscono continuamente: il biologico sul culturale, ilculturale sul biologico.Un aspetto importante <strong>del</strong>la storia <strong>del</strong>la gastronomiaè la trasmissione <strong>del</strong> sapere. A questo proposito,quando nascono i primi ricettari e come vengonotramandate le tradizioni culinarie? Prevale unatendenza a divulgare ricette e informazioni oppuresi tende a considerare l’abilità culinaria come unsegreto da custodire e non diffondere?Direi che la tendenza principale (a parte il “gioco”dei segreti, che ogni tanto ci piace fare) è quella ainsegnare e trasmettere i saperi. Ciò è il fondamentodi ogni cultura. La trasmissione avviene, per quantoriguarda la cucina, sia in forma orale, sia in formascritta. Le società che trasmettono i saperi in formaesclusivamente orale tendono a essere più statiche,quelle che si affidano anche allo scritto riescono ad“accumulare” di più, a proporre anche sperimentazioni,a essere insomma più innovative. Però questaregola conosce anche eccezioni. In ogni caso, i ricettari(o almeno, le ricette) sono scritte fin da quando –e là dove – l’uomo usa la scrittura. Ce ne sono perfinonelle tavolette cuneiformi <strong>del</strong>l’antica Mesopotamia.Viceversa, anche le società molto alfabetizzate comequelle moderne amano spesso affidare alla parola, al“consiglio” orale l’apprendimento e l’insegnamentoculinario. Oggi siamo sommersi di libri di cucina, maquando abbiamo bisogno di un’informazione telefoniamoalla mamma o a un conoscente “esperto”.Nella società occidentale sono stati messi a puntouna serie di “canoni gastronomici” in occasioni divarie celebrazioni. Nell’antica Roma si celebrava ilmatrimonio mangiando una focaccia di farro allapresenza <strong>del</strong> pontefice massimo. Da allora è iniziatala tradizione di festeggiare le nozze sedendosi atavola. Come si è evoluta da allora la consuetudine<strong>del</strong> banchetto nuziale, sia dal punto di vista dei cibiche <strong>del</strong>la “scenografia”?Il banchetto di nozze è un momento essenziale <strong>del</strong>lasocialità, ossia di rituali che in tutte le società esprimonoprincipalmente col cibo l’idea <strong>del</strong>la festa e <strong>del</strong>rito. Quindi l’evoluzione <strong>del</strong> banchetto di nozze seguel’evoluzione degli usi culinari: ciò che rimane stabileè l’idea di concentrare in quell’evento una quantità dienergie positive, il “meglio” di ciò che si può elaboraree offrire. Il banchetto di nozze è lo sforzo estremodi produzione e di rappresentazione <strong>del</strong>la propriacultura (alimentare, ma non solo). Aggiungerei che,in passato, questo momento aveva un valore ancorapiù forte di oggi: nel Medioevo, per molti secoli, ilmatrimonio non è concepito come un rito religiosoma, fondamentalmente, come un banchetto in cui lefamiglie si incontrano, si festeggiano, si manifestanoall’esterno.Come sono cambiate nel tempo, le “buone maniere”a tavola o il modo di apparecchiare? Ci sono statesignificative trasformazioni attraverso i secoli?Non si può parlare di “buone maniere” come se sitrattasse di realtà “oggettive”. Ogni società ha le sue.Anzi: all’interno di ogni società, qualcuno definisceche cosa sono le “buone maniere” al fine, principalmente,di distinguere un gruppo, una élite dallamassa: separare chi pratica le “buone maniere”(definite tali dagli stessi che le praticano) da chi nonle pratica. In ogni caso, non credo si possa parlaredi un’evoluzione in questo campo, ma solo di realtàdiverse nel tempo e nello spazio. Ciò che in Europaoggi è definito “buona maniera” può non esserloin Giappone, o poteva non esserlo qui da noi nelMedioevo. E chi giudicherà questa “bontà”? In realtà,soprattutto in casi come questi, siamo costretti adaccettare un relativismo culturale assoluto.Nella storia <strong>del</strong>la società occidentale, il cattolicesimoha spesso considerato peccaminosi i piaceri<strong>del</strong>la buona cucina, imponendo digiuni o limitandoalcuni cibi. In generale, come ha influito la religionesulla tradizione culinaria?In tutte le società, la religione ha avuto un’importanteinfluenza sui modi di vivere e di pensare. La tradizionecristiana è stata da questo punto di vista moltocontraddittoria: da un lato ha condannato la golacome peccato capitale; dall’altro ha tollerato i piaceri<strong>del</strong>la gola come piaceri “minori”. D’altronde proprioi pensatori medievali sottolinearono l’imperiosanecessità di domare i peccati di gola, poiché purcostituendo il primo e più semplice, all’apparenzainnocente, piacere <strong>del</strong>la vita, si trascinava dietro maliben più pericolosi.Altri, però, hanno proposto immagini diverse: nontanto di penitenza, quanto di rispetto <strong>del</strong>la naturae <strong>del</strong> mondo, di sobria moderatezza. La tradizionecristiana insomma propone soluzioni molto diverse.Il cattolicesimo, in particolare, ha accettato generalmentemeglio i piaceri <strong>del</strong>la tavola, mentre il mondoprotestante ha sviluppato una maggiore severità neiconfronti <strong>del</strong> corpo e dei suoi piaceri. La differenzasta nell’interiorizzare di più (per i protestanti) i meccanismi<strong>del</strong>la colpa, mentre il sacramento <strong>del</strong>la confessionelibera il cattolico da questo peso. Ciò nontoglie che, come dicevano le nostre nonne, “più unacosa è cattiva, più fa bene”. Che è un discorso dallaradice moralistica, molto legato all’idea cristiana <strong>del</strong>corpo come qualcosa di cui si deve diffidare.Molto spesso, nella storia, cibi e piatti sono statiimmortalati sulle tele dei pittori. All’inizio <strong>del</strong> Novecentouna <strong>del</strong>le avanguardie, il Futurismo, ha cercatopersino di cambiare la gastronomia. È possibiledescrivere o comunque interpretare il rapportoche nei secoli ha legato l’arte alla gastronomia?15