Il principio <strong>del</strong> nutrire reggeil mondo e corre attraversoil mondo, diceva Goethe. Maè forse nell’opera di Rabelaische assistiamo alla messa inopera più spettacolare <strong>del</strong>leimmagini conviviali legate alcibo e ai riti a esso collegati.Più precisamente al banchetto,che si svolge durante la festapopolare. La strabordante abbondanza<strong>del</strong> bere e <strong>del</strong> mangiare diventa la notadominante, quale lievito sfrenato, gioioso e telluricoquanto il gigantesco pane che lo incorpora. Il corpoche mangia e che è mangiato è il riflesso organico diuno spettro articolato di azioni; la macellazione <strong>del</strong>bestiame ad esempio, ma anche lo smodato spalancare<strong>del</strong>la bocca e il vorace inghiottire e deglutire.Per non parlare di ventri sbracati nell’atto fertile <strong>del</strong>lanascita, che precede la crescita tumultuosa e irregolaredi corpi che sfidano la propria spazialità, lastessa norma di un tempo che è solo proprio.L’incontro <strong>del</strong>l’uomo con il mondo avviene nellapropria bocca: sgranocchiare, dilaniare, masticare,assaporare, sonoazioni che consentonodi assaggiare ilgusto <strong>del</strong> mondo, eaccanto a questo c’èl’incanto <strong>del</strong>la parola,<strong>del</strong>la conversazione,<strong>del</strong>la battutadi spirito, <strong>del</strong> witz.Il mangiare è l’altraparte <strong>del</strong> mondo,l’emisfero che compensail lavoro, unavvenimento socialee individualeinsieme, alieno allatristezza, vicino allafesta vitale, alla pienezza<strong>del</strong> vissuto,lontano dalla morte,che è per definizioneassenza di vita comela perfezione.Il banchetto che siconcepisce comeun’affermazione<strong>del</strong>la vittoria, <strong>del</strong>trionfo, si accompagnaalla conversazioneconviviale,al simposio (nonIl banchettonecessariamente antico o classico,ma pure alla modernità diun Beethoven e ai suoi straordinaridiscorsi conviviali). Mangiaree parlare, cibo e verbo,sembrano essere fraterniamici, origini di un linguaggiocomune. E se il pane <strong>del</strong> Pantagruelè simbolo di abbondanzasmisurata, ecco che l’olio costituisceil simbolo magro <strong>del</strong>laserietà devota, un’accezione estranea alla concezioneliberatoria di Rabelais. Il pane e il vino scatenano laparola, la vivificano dall’interno, in una dimensioneche è tutta terrena e lontana da ogni suggestionemistica, mentre l’alterazione <strong>del</strong>l’ubriachezza portaverso il futuro: l’immaginazione di ciò che deve ancoraessere, nella voce sciolta senza limiti che fluttuain un pensiero dilatato e contagiato di speranza. Ilbanchetto in Rabelais incarna la potenza e l’ardore diuna parola liberata, in grado di andare oltre la pietàe la paura divina, per dirigersi decisamente verso ilgioco gioioso e disinibito. In questo senso il vino eil pane si ergono a paladini di una sazietà possibile,di un’abbondanzagiustificata da unapropria intima verità:la libertà impavida<strong>del</strong>la forza umana,materiale e corporea,dove non vige lapaura ma la temerarietà.Per parte nostramettiamo il Folengo arappresentare la tradizione<strong>del</strong>le nostreterre. Lui descrive lacucina degli dei conil verso; il tono è quiparodico, letterario,e la gioia folle <strong>del</strong>banchetto piega inaltra direzione, il simulacro<strong>del</strong> cibo siprofana nello smascheramentoe neltravestimento, nellasottolineatura <strong>del</strong>maccheronico, metaforicoe parallelouniverso di un’irrisionevertiginosa madiversa dal Rabelais,vicina ma non aderentea essa.22
Germania 1917-1918. Tra ildicembre 1917 e il gennaio 1918,presso il campo di prigionia diCelle (Hannover), vennero inviati2.921 ufficiali e sottoufficiali italianifatti prigionieri durante larotta di Caporetto. Dopo giorni egiorni di viaggio, giunti strematial lager di Celle, furono abbandonatia se stessi e dovetteroaffrontare con mezzi <strong>del</strong> tuttoinadeguati il freddo e la fame. Anche se la loro sortefu migliore di quella dei soldati semplici, il cui livellodi mortalità per fame raggiunse cifre spaventose,pure l’esperienza vissuta dagli ufficiali fu terribile.Il cibo divenne per tutti un pensiero ossessivo: “Lafame continuata non ci faceva pensare che al mangiare,al mangiare, al mangiare; si parlava di questo,si pensava questo, si ricordava questo”. Scrivono isuperstiti nelle loro memorie. “Quando si discorre,l’argomento è sempre lo stesso, e cioè il mangiare”.“La fame, a poco a poco, divenne una vera idea <strong>del</strong>irante:non si parla che di mangiare, non si aspettache l’ora in cui sarà distribuita la misera sco<strong>del</strong>la dibrodaglia”.Inutilmente sperarono nell’intervento <strong>del</strong>lo Statoitaliano che al contrario aveva adottato una politicapunitiva nei confronti dei prigionieri e aveva presola scellerata decisione di impedire l’invio di aiuti siada parte <strong>del</strong>la Croce Rossa, che da parte dei privati.Come scrive Giovanna Procacci “l’attribuzione <strong>del</strong>larotta di Caporetto a un fenomeno di diserzione collettiva– a seguito <strong>del</strong>la nota interpretazione di Cadorna<strong>del</strong> disastro – spinse infatti gran parte <strong>del</strong>l’opinionepubblica, e tra questa Sonnino, a credere che lamaggioranza dei militari catturati si fosse volontariamentearresa al nemico. D’Annunzio bollò i prigioniericon l’attributo di “imboscati d’oltralpe”; su varigiornali – e in particolare su quelli di trincea – essivennero raffigurati come uomini finiti, distrutti dallacolpa e dalla paura”.Durante il lungo inverno, iprigionieri passavano igiorni perlopiù coricati,economizzandole energie,aspettando conansia l’ora <strong>del</strong>lamensa. BonaventuraTecchi,recluso con CarloEmilio Gaddae Ugo Bettinella Baracca15c, scrive che“Un giocoquasi saporito”ricettari di prigioniadi Quinto Antonelli“durante la fame, non si parlòmai d’arte e di letteratura, nédi matematica e neppure didonne, noi che avevamo pocopiù di vent’anni e che, entroil filo spinato, da mesi nonvedevamo più viso di donna.Lugubre, pesante scendeva ilbuio <strong>del</strong>la sera su quelle nostrecucce di legno, ripiene di aghidi abete, allineate in fila comebare; il silenzio era il solo commento <strong>del</strong>la giornatao un parlottìo discreto, che rievocava lontani pranzie cene”. Perché, come ricorda ancora Tecchi, eraun gioco “quasi saporito” mischiare ricordi e fantasie,“come se anche il sogno, nel ricordo lontano,potesse per un momento ingannare la fame”.In altre baracche il gioco “quasi saporito” di rimemorarei cibi di casa e <strong>del</strong>la vita civile prende letteralmentecorpo nei quaderni dei prigionieri che sitrasformano in veri e propri ricettari. Due sottotenenti,Giuseppe Chioni e Giosué Fiorentino, ognunoper conto suo, si fanno promotori di una raccolta diricette interpellando i compagni di baracca. Così che“dallo scambio reciproco di ricordi, rimpianti e desideri”,come scrive Chioni, nascono più di un quadernointitolato all’arte culinaria.“Questa raccolta di ricette di culinaria, fatta nel campodi prigionia di Celle, è il frutto di uno dei più stranifenomeni psicologici senza il quale sembrerebbeinspiegabile come tante giovani energie, come tantorigoglio di vita e di giovanilità fervida non abbia trovatomodo migliore di manifestarsi ed espandersi.E chi non è vissuto fra noi, chi non ha avuto un’idea<strong>del</strong>le nostre sofferenze fisiche e morali potrebbe sorridereironicamente pensando alla metamorfosi checi ha mutato da guerrieri in cuochi; però se si pensaai lunghi digiuni che ci costringono a stare rannichiatiper sentire meno i crampi <strong>del</strong>la fame, a non muoversiper intere giornate onde sprecare meno energie, checi rendono <strong>del</strong>iziosocome una golositàil famosopane Rappa e sesi pensa che lafame presenteha un tristerisalto con l’abbondanzatrascorsasembrerànaturale comeognuno risognandoil domesticofocolareabbia ricordato23