Non è molto che l’uomo ricercanel cibo una dimensione collettiva;è probabile che l’uomocacciatore e successivamenteil cosiddetto raccoglitore vivesseroil pasto nella sua dimensionefamigliare e di piccologruppo.L’inizio di una dimensione piùampia trae sicuramente la suaprima esemplificazione nelconvento medievale. I pellegrinaggi,infatti, hanno posto iconventi nella necessità di forniredei pasti a una miriade diviaggiatori, pellegrini, che ad untempo chiedevano un cibo, maerano anche portatori di nuoveabitudini alimentari e anche atipi di preparazioni sconosciuteai monaci o comunque ai responsabili <strong>del</strong>le cucinedi tali istituzioni. Anche le collettività militari hannovia via posto lo stesso problema; soprattutto quelleconfinate in spazi molto ristretti, come per esempiole navi, con oggettive difficoltà di rifornimento e diconservazione degli alimenti.Con la rivoluzione industriale, infine, il problemasi estese progressivamente anche al mondo <strong>del</strong>lavoro. In Italia ciò accadde soprattutto con la cosiddettaseconda rivoluzione industriale, quando l’operaiofu costretto a subire un inquadramento che locollocava in una posizione di netto subordine, in cuile stagioni e le necessità <strong>del</strong>la famiglia non avevanopiù importanza; l’operaio diventa parte di un ingranaggioproduttivo in cui il lavoro si presta 14-16 oreal giorno e all’interno di tale periodo è praticamenteobbligatorio inserire una pausa per mangiare; la cosainteressante è che nel momento iniziale di tale rivoluzioneindustriale pochissime sono le fabbriche dotatenon solo di una mensa, ma neppure di una cucina,per cui la breve pausa pasto viene fisicamente consumatadove si lavorava, in condizioni igieniche e disicurezza assai precarie; spesso i refettori e i dormitori,soprattutto per la manodopera femminile, sonocomunicanti con la sala stessa dove le persone lavorano.In certe industrie tessili <strong>del</strong> Biellese è documentatoche le tessitrici consumavano il loro vitto al telaio conle macchine in funzione! D’altra parte anche le lottesindacali alla fine <strong>del</strong>l’Ottocento avevano ben altro datutelare e difendere che non la pausa pranzo: si pensisolo alla piaga <strong>del</strong> lavoro minorile e alla mancanza diqualsiasi tutela per la donna. Esistevano tuttavia <strong>del</strong>leoasi, <strong>del</strong> cosiddetto paternalismo padronale, doveera prevista una mensa come nell’industria “NuovaSchio” di Alessandro Rossi.Mangiare sul lavoroLe prime mense moderneall’interno degli stabilimentiindustriali fanno la loro comparsanel primo dopoguerra.di Carlo PedrolliÈ <strong>del</strong> 1929 l’inaugurazionea Trento <strong>del</strong>la prima mensapresso la Michelin, assiemeal pensionato femminile perle operaie residenti fuori città;sia la mensa che il pensionatofemminile furono ospitate inun primo tempo (si può immaginarela precarietà <strong>del</strong>la situazione)presso il vicino Palazzo<strong>del</strong>le Albere.In seguito è incominciata ancheper le mense operaie la questione<strong>del</strong> razionamento bellico(si parla <strong>del</strong> secondo conflittomondiale); esso è stato affrontato in vario modo dadiversi stabilimenti industriali; per esempio in Lombardiala Falk, la Vanzetti e l’Unione Industriale detteroorigine al Servizio approvvigionamenti stabilimentiindustriali (SASI), per favorire la fornitura <strong>del</strong>lemense industriali in modo collettivo ed economicamentevantaggioso. Le forze di occupazione tedescheobbligarono altre industrie “storiche” milanesi comela Siemens, la Breda, la Borletti, la Magneti Marelli adaderire alla SASI. Il problema principale era rappresentatoallora dalla disponibilità <strong>del</strong> secondo piatto,obbligatorio per legge, dal momento che ricadevasotto la responsabilità <strong>del</strong>le aziende; il primo invecericadeva sotto la responsabilità <strong>del</strong>la società pubblicaSEPRAL. Nel 1944 il SASI venne d’autorità incorporatonella Sezione provinciale per l’alimentazione(SEPRAL, società pubblica istituita con R.D.L. 18dicembre 1939, n. 2.222, quale organo periferico <strong>del</strong>Ministero <strong>del</strong>l’Agricoltura e <strong>del</strong>le Foreste, per quantoriguardava il “Servizio degli approvvigionamenti perl’alimentazione nazionale in periodo di guerra”, e <strong>del</strong>28
Ministero <strong>del</strong>le Corporazioni, relativamente al “Servizio<strong>del</strong>la distribuzione dei generi alimentari e <strong>del</strong> controllodegli stabilimenti <strong>del</strong>l’industria alimentare”). Lasituazione portò ad un fatto veramente paradossale;gli industriali pur di potersi approvvigionare per i lorooperai erano di fatto autorizzati a ricorrere alla borsanera tanto che si stimò che per il secondo piatto ledisponibilità alimentari provenissero per 1/5 da carteannonarie, e per i restanti 4/5 dalla cosiddetta “borsanera”. Le cronache <strong>del</strong>l’epoca, comunque, parlavanoper gli operai <strong>del</strong>la FIAT motori di Torino di un caloponderale medio, negli anni di guerra, di 10-15 kg.Non va poi taciuto come, di fatto, le mense <strong>del</strong>legrosse concentrazioni industriali di Milano, rimastein piedi durante la guerra, siano diventate un centropolitico di primo livello sia in senso antifascista primache di militanza politica ai tempi <strong>del</strong> CLN poi.La mensa diventò dopo la seconda guerra mondialeun fatto acquisito, ma vissuta dal lavoratore più checome una conquista in sé, come una parte integrante<strong>del</strong> salario che se non veniva goduta doveva esserein qualche modo risarcita; e la cosa divenne benpresto motivo di frizione con i cosiddetti “padroni”<strong>del</strong>la fabbrica che vedevano invece nella mensa unfatto assistenziale che doveva aumentare la produttività<strong>del</strong>la forza lavoro in fabbrica. La cosa portò avivaci vertenze sindacali in cui la mensa si pretendevavenisse inserita nel salario come parte integrante <strong>del</strong>lavoro e quindi computata nella retribuzione imponibileai fini <strong>del</strong> calcolo dei contributi assicurativi; lacosa durò non meno di dieci anni con risposte nonsempre omogenee non solo di tipo legislativo maanche di tipo giuridico. Nel complesso le mense <strong>del</strong>dopoguerra si presentavano in modo molto diverso;si andava dalle mense <strong>del</strong>la Ercole Marelli di SestoSan Giovanni, la Stalingrado di Italia, in cui il vitto eraultra controllato sia nella sua qualità che nella quantitàda un’apposita commissione; gli operai ricevevanoun’indennità mensa mensile di £ 1.500 e per 25 pastial mese spendevano £ 1.970; quindi con £ 470 l’operaiomangiava tutto il mese e talora talmente bene dapreferire il pasto <strong>del</strong>la mensa a quello di casa. Ma giànegli anni sessanta altre industrie “pilota”, come adesempio la Breda di Milano, affidavano per la primavolta in gestione a terzi il servizio mensa, modalitàche venne seguita da altre industrie.Non mancavano i lavoratori che, per ottenere l’indennitàmensa in contanti, preferivano consumareun pasto portato da casa e contenuto nel cosiddetto“baracchino” (chiamato in <strong>Trentino</strong> soprattutto daglioperai edili “gamela” e che era costituito da un contenitoredi alluminio diviso internamente da unasorta di coperchio che separava la parte bassa conil cibo liquido, di solito minestra, dalla parte alta conil secondo piatto e il contorno; il baracchino venivaspesso mal conservato e il contenuto consumato incondizioni igieniche assai precarie, spesso proprionei locali di lavoro, alle temperature più varie.Negli anni sessanta gli operai passarono dalla civiltà<strong>del</strong>la “sussistenza” alla società <strong>del</strong> “benessere”;si incominciò a guardare non solo alla quantità <strong>del</strong>cibo fornito dalla mensa, ma anche alla sua qualità. Iltutto con <strong>del</strong>le contraddizioni stridenti se è vero chelo stabilimento FIAT di Rivalta, inaugurato nel 1967,non prevedeva nel progetto iniziale né sala mensa nécucine. Si incominciavano ad affacciare i primi sistemirivoluzionari di cucina come per esempio i cosiddetticibi surgelati. La mensa nel ‘68 e negli anni <strong>del</strong>le lottesindacali presenta ulteriori peculiarità: alcune rivendicazionispostano l’obiettivo dal diritto alla mensaalla possibilità di monetizzare il valore <strong>del</strong> pasto;diventa quindi sempre meno importante la qualità<strong>del</strong> vitto, passaggio sancito anche dal fatto che progressivamentesi tende ad effettuare un outsourcing<strong>del</strong>la mensa, cioè ad attribuirne la responsabilità ela gestione all’esterno <strong>del</strong>la fabbrica stessa. In altreparole si passa dalla figura di industriale che notoriamenteassaggiava di persona il vitto degli operai ene consentiva la distribuzione solo se di gusto soddisfacente,a un cibo spersonalizzato posto sotto ilcontrollo di personale esterno all’azienda e quindi, intal senso, deresponsabilizzato.Emerge chiaramente dall’analisi dei documenti sindacali<strong>del</strong> tempo come la mensa fosse più sentitacome locale di ritrovo e quindi “spazio di lotta” piuttostoche luogo dove si doveva consumare un pasto.La mensa diventa soprattutto il luogo <strong>del</strong>le assembleesindacali, il luogo dove i lavoratori si trovanoper discutere i proprio diritti, luogo di aggregazioneper ogni forma di lotta, anche clandestina.Finita la stagione <strong>del</strong>le grandi lotte sindacali, incominciatala crisi industriale degli anni ottanta e novanta,la mensa subisce tutti i contraccolpi; molte fabbrichedi grandi dimensioni chiudono o vengono ridimen-29