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Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

DALL’ESPANSIONE ALLO SVILUPPO.<br />

UNA STORIA ECONOMICA DELL’EUROPA<br />

1. TRA ESPANSIONE E SVILUPPO ECONOMICO NELL’EUROPA DEL XVIII SECOLO<br />

1.1 NUOVE PROSPETTIVE SULLA MODERNIZZAZIONE ECONOMICA E LE MOLTE STRADE<br />

PERCORSE DALL’EUROPA VERSO IL XX SECOLO<br />

Secolo identificato con l’Illuminismo, guerra di indipendenza usa, rivoluzione francese e crisi delle<br />

monarchie europee dell’ancien regime. Per gli economisti, il secolo è studiato in funzione delle<br />

rivoluzioni industriali che nel secolo successivo trasformeranno le economie prima europee poi<br />

mondiali.<br />

Il primo paradigma era quella del “modello unico di modernizzazione” della Gran Bretagna di fine<br />

XVIII secolo e poi imitato da tutti i paesi che riuscirono ad industrializzarsi nel XIX secolo, reso<br />

famoso d<strong>allo</strong> studio di Rostow sulla prima rivoluzione industriale in Inghilterra (Stages of Economic<br />

Growth, 1960), nel quale questa viene considerata come la base empirica per un modello generale di<br />

<strong>sviluppo</strong> economico moderno applicabile a tutte le economie di ogni luogo e tempo e<br />

l’industrializzazione è il momento definitivo della trasformazione <strong>economica</strong> dal premoderno al<br />

moderno, definito dalla metafora del decollo (take-off) verso <strong>una</strong> crescita <strong>economica</strong> autosostenuta,<br />

evento epocale e fondamentale nella <strong>storia</strong> del mondo ottenuto grazie alla tecnologia ed ai<br />

macchinari.<br />

Nel corso della prima metà del 900 l’industrializzazione europea era stata studiata secondo il modello<br />

diffusivo del caso inglese, come risultato cioè del cammino di <strong>sviluppo</strong> dei followers nei confronti del<br />

first mover, i quali semplicemente impiegavano le nuove tecnologie disponibili importandole. Nuove<br />

interpretazioni mostrano come le differenti economie europee percorsero un cammino difficile e<br />

doloroso in <strong>una</strong> varietà di modi e velocità.<br />

Il decollo in Inghilterra è il risultato (l’apice) di <strong>una</strong> serie di precedenti cambiamenti e rivoluzioni che<br />

ne costituirono le precondizioni economiche, istituzionali e culturali:<br />

Rivoluzione agricola, incremento produttività (nuovi metodi di coltura, rotazioni di nuove colture,<br />

nuove forme di amministrazione agricola), liberazione di manodopera.<br />

Rivoluzione demografica: incrementa la manodopera e la domanda.<br />

Rivoluzione dei trasporti: mobilità, espansione del commercio locale ed interregionale.<br />

Rivoluzione nel credito: nuove istituzioni bancarie, flussi di investimento.<br />

Rivoluzione commerciale: nuova ricchezza, attitudini imprenditoriali, modelli di domanda e di<br />

consumo, frontiere del commercio più ampie.<br />

Per Rostow il capitalismo industriale era il prodotto di <strong>una</strong> impresa libera, che era stata capace di far<br />

leva sulla tecnologia mentre tra gli oppositori, Karl Marx & marxisti non interpretano diversamente<br />

sottolineando il carattere di sfruttamento che caratterizza il capitalismo borghese, la ricchezza dei<br />

ricchi deriva d<strong>allo</strong> sfruttamento dei poveri.<br />

Una debolezza centrale del modello unico è la difficoltà di misurare o datare il momento preciso del<br />

decollo nei diversi paesi: i critici insistono sul fatto che i modelli di <strong>sviluppo</strong> moderno sono stati<br />

diversi per ogni paese, presentano continuità col passato.<br />

Le rivoluzioni industriali vengono quindi considerate come processi più ampi di cambiamento<br />

economico, dove l’insediamento dei primi settori industriali è sia conseguenza che causa di profondi<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 1


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

cambiamenti strutturali e l’industrializzazione non è più vista come l’inevitabile apice di tutte le<br />

precedenti forme di crescita, ma come qualcosa di radicato nelle circostanze e contesti dell’Inghilterra.<br />

L’interpretazione sociologica dell’industrializzazione precoce inglese non convince perché:<br />

- non esistono ancora società nazionali, né economie nazionali (sono il prodotto del<br />

moderno <strong>sviluppo</strong> economico XIX secolo) ma piuttosto regionali,<br />

- gli attributi sociali e culturali attribuiti esclusivamente agli inglesi erano invece<br />

riscontrabili in molte parti dell’Europa,<br />

- Francia e Belgio stavano sperimentando forme di crescita <strong>economica</strong> altrettanto<br />

dinamiche, anzi sembra che le innovazioni tecnologiche dell’economia inglese fossero state stimolate<br />

dalla necessità di stare al passo.<br />

Il cambiamento di prospettiva sta nel liberare la <strong>storia</strong> <strong>economica</strong> del XVIII secolo dall’ombra delle<br />

rivoluzioni industriali, mettendo in luce cambiamenti propri di questo secolo nelle relazioni<br />

economiche tra l’Europa ed il resto del mondo: nascono le basi di <strong>una</strong> economia mondiale,<br />

conseguenza dei cambiamenti nelle economie europee e dell’espansione <strong>economica</strong> europea nel<br />

mondo noneuropeo.<br />

1.2 LO SVILUPPO ECONOMICO EUROPEO NEL XVIII SECOLO: I TEMI CENTRALI<br />

Il secolo è uno spartiacque per il passaggio dall’ Europa medievale a quella moderna e<br />

contemporanea. Il processo centrale è la CRISI E COLLASSO DELLA STRUTTURA<br />

ISTITUZIONALE, CULTURALE, POLITICA ED ECONOMICA DELL’ANCIENT REGIME (termine<br />

introdotto dopo la rivoluzione francese del 1789 per descrivere il periodo dell’ignoranza e della<br />

superstizione precedente all’Illuminismo). La rivoluzione francese costituì <strong>una</strong> rottura col passato<br />

minore di quanto sembrò, trovando infatti le sue radici nella grande rivoluzione scientifica del secolo<br />

precedente, e mostrando i segni del nuovo cosmopolitismo che portò gli europei a contatto gli uni con<br />

gli altri, ed il vecchio mondo europeo in più stretto contatto sia con l’Oriente che con il nuovo mondo.<br />

Il secolo non fu realmente il periodo dell’Illiminismo, i cui assertori erano in minoranza.<br />

La <strong>storia</strong> <strong>economica</strong> europea del XVIII secolo fu contraddistinta da <strong>una</strong> nuova fase di espansione<br />

coloniale, continuazione di un più antico processo, che portò gli europei non solo in nordamerica ma<br />

anche verso est ed in particolare nel subcontinente indiano. Continuano quindi le lotte di rivalità tra i<br />

colonizzatori, in particolare Francia, Spagna e Gran Bretagna per l’egemonia navale e commerciale sia<br />

in Atlantico che in India, attenuandosi dopo la metà del secolo e creando nuove possibilità per il<br />

commercio e per la produzione.<br />

Le “periferie” europee (termine introdotto da Wallerstein per indicare Stati germanici, Europa<br />

orientale e centrale, Europa mediterranea), erano coinvolte non meno dei “centri” nei nuovi processi<br />

di trasformazione <strong>economica</strong>. Anzi, nell’Europa rurale l’aumento della domanda di prodotti agricoli<br />

ed i nuovi incentivi alla produzione produssero sconvolgimenti molto prima delle rivoluzioni<br />

industriali.<br />

Nuove realtà europee, indicatori di processi di cambiamento che diedero un’unità tematica alla <strong>storia</strong><br />

<strong>economica</strong> europea:<br />

GRAND TOUR, itinerario per riscoprire i luoghi dell’antichità intrapreso da un numero sempre<br />

crescente di benestanti europei settentrionali (inglesi, francesi poi anche scandinavi, tedeschi, russi),<br />

viaggio d’istruzione che manifestò le prime nuove forme di ricchezza (la capacità di viaggiare,<br />

panorama nascente di cultura consumistica), e con l’avanzare del secolo il retroterra sociale si allarga.<br />

I viaggi sono resi possibili anche dalla cresciuta stabilità politica del continente europeo, e sono parte<br />

di un processo più ampio di esplorazione e scoperta all’interno del continente, opera dei governanti,<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 2


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

responsabili dei primi tentativi di riorganizzazione amministrativa secondo il principio Illuminista<br />

che la P.A. dovesse basarsi sui principi della ragione.<br />

La premessa è che il governo razionale è possibile solo quando la P.A. possiede <strong>una</strong> conoscenza<br />

accurata delle condizioni della società, dell’agricoltura, commercio e dei produttori: i governi<br />

cominciarono a raccogliere e comprare dati ed informazioni su scala senza precedenti (aiutati dalla<br />

nuova scienza della statistica).<br />

Tra i principi riconosciuti c’è quello della forza creativa della libera impresa, per la quale serviva la<br />

rimozione delle tradizionali restrizioni che ostacolavano l’uso della terra come proprietà privata<br />

(diritti feudali) e dei privilegi e monopoli corporativi (tasse sul commercio interno), avvenuta solo nel<br />

1800.<br />

1.3 L’EUROPA AGRARIA<br />

Nel XIX secolo la schiacciante maggioranza degli europei era occupata nell’agricoltura, la produzione<br />

serviva a soddisfare il fabbisogno delle famiglie dei contadini e dei proprietari, i raccolti erano scarsi e<br />

gli agricoltori vulnerabili ai disastri naturali e metereologici e nessun surplus veniva distribuito nel<br />

mercato,<br />

Le regioni più orientate al commercio erano: Germania orientale e Polonia (cereali), Francia<br />

settentrionale. In Olanda, nei polders, si praticava agricoltura mista intensiva (arativa, casearia ed<br />

allevamento) per il commercio, come anche nelle Fiandre (paesi bassi meridionali). Ricco e fertile<br />

anche il complesso di terre irrigate nella bassa Lombardia a sud del Po.<br />

I metodi di coltivazione non cambiarono di molto lungo il secolo, ed anche cambiamenti semplici<br />

(aratri migliori, falci con forme diverse) portarono <strong>una</strong> maggiore produttività. Quando verso la metà<br />

del secolo i prezzi salirono, incoraggiarono un aumento della produzione, ottenuta principalmente<br />

aumentando la superficie coltivata o adottando colture più abbondanti e affidabili come la patata ed il<br />

granoturco. I prezzi furono però pellagra (alimentazione basata esclusivamente sul granoturco,<br />

deficienza di vitamine), distruzione dei terreni boschivi con problemi di erosione del suolo, e<br />

usurpazione delle common lands, da cui dipendeva il sostentamento di molte comunità rurali.<br />

La geografia <strong>economica</strong> era un mosaico di sistemi commerciali locali, regionali ed interregionali, e<br />

raramente coincideva con la geografia politica: In Francia coesistevano 3 sistemi distinti (meridionale<br />

mediterraneo, settentrionale manufatturiero, occidentale atlantico), in Spagna Cadice e Siviglia si<br />

contendevano il primato del commercio con le Americhe, la Catalogna aveva vocazione mediterranea<br />

e l’entroterra circuiti più chiusi e frammentati. I territori della monarchia asburgica avevano coesione<br />

persino minore.<br />

La geografia tagliò anche molte regioni da tutti i contatti, come le comunità montane oppure in<br />

pianura per la mancanza di strade percorribili o per il costo troppo alto dei trasporti di merci (per<br />

ovviare agli alti prezzi scozzesi ed irlandesi decisero di distillare il grano per farne whisky). I fiumi ed<br />

il mare erano la rete di comunicazione più veloce e sicura: Bologna per esempio rimase un’importante<br />

esportatrice di seta grazie alla sua vicinanza al Po.<br />

Tra i privilegi urbani che subordinavano gli interessi dei produttori rurali a quelli dei consumatori<br />

urbani, c’erano le associazioni e corporazioni che avevano il diritto di comprare a prezzi fissi merci di<br />

prima necessità, mentre severi controlli sulle manifatture stavano a significare che le città godevano<br />

di monopolio su molte forme di produzione artigianale.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 3


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

È il periodo in cui nasce la povertà urbana: le città sono un magnete per gente in cerca di lavoro e cibo<br />

dalle aree rurali soprattutto durante periodi di carestia o mancanza di raccolti. I governanti<br />

costruirono in risposta case per i poveri (monumenti alla benevolenza), sollecitati dai riformatori a<br />

colpire invece il problema alla radice eliminando i privilegi ed i vincoli interni al commercio tipici<br />

dell’ancient regime, denunciando anche i vincoli imposti all’agricoltura da privilegi feudali e<br />

consuetudinari, e della proprietà privata della terra e premondo per la liberalizzazione del commercio<br />

interno, specie per le merci di prima necessità, logica accettata nel 1754 dalla monarchia francese che<br />

emise i primi decreti in questo senso, lasciando comunque insoluti molti ostacoli.<br />

In alcuni Paesi il feudalesimo sopravviveva sottoforma di tasse, mentre in Europa continentale gran<br />

parte della popolazione era ancora soggetta alle istituzioni della schiavitù del feudalesimo: la Polonia<br />

e l’Europa dell’Est offrono un caso di tardiva reazione feudale, dove i proprietari terrieri, per<br />

compensare l’impatto della caduta dei prezzi di esportazione dei cereali, avevano aumentato gli<br />

obblighi delle esazioni feudali. Questa tardiva servitù della gleba assecondò la crescente domanda di<br />

importazione di cereali dell’Inghilterra.<br />

Gli Illuministi perdendo di vista il fatto che il feudalesimo agrario era nato per bilanciare e<br />

riconciliare i differenti interessi economici e sociali della società rurale, il termine per loro arrivò a<br />

simboleggiare tutti i difetti dell’ancient regime europeo. Ogni proprietà feudale era invece soggetta<br />

ad <strong>una</strong> varietà di usi collettivi ma sono i crescienti interessi commerciali che spingono i proprietari<br />

terrieri ad espropriare la terra pubblica (common lands).<br />

Uno dei segnali di cambiamento più critici delle economie rurali del XVIII fu la crescita costante della<br />

terra privata a spese degli usi collettivo. Per i riformatori, qualsiasi uso collettivo delle proprietà era<br />

offensivo, perché violava il principio dei diritti di proprietà. Il processo di privatizzazione mise in<br />

conflitto gli interessi ma mutò anche un delicato equilibrio ecologico: le pecore, passando<br />

stagionalmente per i terreni, li fertilizzavano.<br />

Questo processo si era sviluppato precocemente in Inghilterra verso la metà del XVII secolo, e fu<br />

mantenuto durante il secolo successivo incoraggiato dalla crescente domanda commerciale di<br />

prodotti e d<strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> di nuovi principi di coltivazione e di conduzione aziendale. In questo<br />

contesto, la classe di contadini piccoli proprietari terrieri viene rimpiazzata da <strong>una</strong> classe più<br />

danarosa di fittavoli, e da lavoratori agricoli non proprietari, che dipendevano dai salari guadagnati<br />

nelle fattorie.<br />

La mancanza di un’ampia classe di agricoltori contadini, insieme alla nascita dell’agricoltura<br />

intensiva (<strong>sviluppo</strong> di vaste aziende agricole affidate ad amministratori professionisti per<br />

massimizzare la produzione per il mercato) sono le caratteristiche peculiare dell’agricoltura inglese<br />

del XVIII secolo, processo che porta alla ristrutturazione della società rurale, con <strong>una</strong> classe più stabile<br />

di fittavoli che rimpiazza le proprietà contadine più precarie, dove il surplus di popolazione si<br />

muoveva verso le città, che si andavo rapidamente espandendo. In questo contesto (come nella<br />

Repubblica Olandese) dove i proprietari terrieri erano meno legati o dipendenti dalla terra di quanto<br />

lo fosse la classe contadina, ma più liberi di farne l’uso che volevano, i nuovi metodi di coltivazione<br />

sono intordotti più facilmente che altrove. Sono i primi segnali di un’agricoltura capitalista.<br />

Anche per l’agricoltura l’Europa del XIX secolo fu un mosaico di realtà regionali contrastanti ed i<br />

divari che separavano le regioni con produttività più intensive dal resto erano crescenti, si iniziava a<br />

far sentire l’impatto crescente di <strong>una</strong> economia di mercato.<br />

1.4 L’ENIGMA DEL XVIII SECOLO: LA RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 4


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

La rottura con tutti i precedenti modelli di <strong>sviluppo</strong> demografico, fu la causa della nuova domanda<br />

che incoraggiava la produzione destinata al commercio nell’Europa rurale.<br />

Durante la prima metà del secolo i prezzi dei cereali continuarono a cadere nonostante la rapida<br />

ripresa dei livelli di popolazione dopo la crisi del secolo precedente: la produzione raggiunta con i<br />

metodi intensivi, superava la domanda.<br />

La popolazione dell’Europa moderna stava seguendo il cosiddetto grafico a sega: appena la<br />

popolazione cominciava a crescere si verificavano crisi di sussistenza, carestie, malattie e morte. Nel<br />

XVIII secolo invece vi furono crisi, ma la ripresa fu sempre rapida e la lunga curva di espansione le<br />

cui cause sono sconosciute rimase ininterrotta.<br />

La mortalità infantile rimase alta e la morte era <strong>una</strong> relatà sempre presente anche per gli europei più<br />

agiati, in particolare se bambini. I nuovi modelli di espansione si spiegano in termini di grappoli di<br />

differenti sviluppi che concernevano diverse regioni in tempi ed intensità differenti come l’apparente<br />

scomparsa delle grandi epidemie (XVII peste, XIX colera), non certamente dovuta al miglioramento<br />

dell’igiene e della medicina il cui impatto sull’aspettativa di vita rimase trascurabile fino ai primi del<br />

XIX secolo).<br />

La più probabile spiegazione dell’espansione è la tendenza a matrimoni precoci, e perciò a più alti<br />

tassi di natalità tra le classi intermedie.<br />

1.5 LA CRESCITA DEL COMMERCIO<br />

Interno<br />

L’Europa del XVIII secolo vide <strong>una</strong> continua espansione del commercio locale ed interregionale. Le<br />

aziende agricole dovevano soddisfare i bisogni di un numero crescente di persone non occupate<br />

nell’agricoltura che viveva nelle città l’impulso alla crescita <strong>economica</strong> era quasi direttamente<br />

proporzionale alla vitalità dei centri urbani.<br />

Negli Stati Germanici solo due città, Berlino ed Amburgo, avevano <strong>una</strong> popolazione superiore ai<br />

100.000 abitanti, e meno del 4% della popolazione della monarchia asburgica viveva in centri con più<br />

di 10.000 abitanti. In Italia l’espansione demografica si concentrò nei centri rurali, con l’eccezione di<br />

Milano. Al sud Napoli primeggiava con 400.000 abitanti a metà del secolo. I tassi più veloci di<br />

espansione si ebbero in quelle regioni dove la crescita <strong>economica</strong> era più dinamica: i paesi Bassi<br />

meridionali, la Repubblica Olandese, molte regioni francesi, la bassa Renania, il Regno Unito.<br />

Molti governi cercarono di promuovere il commercio migliorando la rete di trasporti, come i canali in<br />

Francia. In Gran Bretagna si sviluppò un sistema per attrarre gli investimenti privati nella<br />

costruzione di strade, con il recupero dei costi mediante il pedaggio sul traffico. Per la maggior parte<br />

delle regioni europee comunque i mercati locali rimangono isolati fino all’epoca delle ferrovie, e la<br />

cresciente domanda commerciale privilegia i circuiti favoriti da condizioni geografiche, con l’accesso<br />

a porti marittimi o a corsi d’acqua navigabili.<br />

Fu per mare infatti che crescienti quantità di prodotti e materie prime cominciarono ad avviarsi ai<br />

mercati stranieri: le piccole imbarcazioni costiere che dal baltico al mediterraneo convogliarono vaste<br />

gamme di merci, furono spesso l’unico mezzo mediante il quale i produttori locali potevano<br />

raggiungere i mercati extraregionali. Il commercio su lunghe distanze costituì <strong>una</strong> percentuale del<br />

commercio europeo molto minore di quello svolto dal più modesto naviglio costiero. Queste attività<br />

costituirono inoltre il fondamento per la comparsa di numerosi porti che offrivano <strong>una</strong> base ai gruppi<br />

di mercanti.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 5


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Il commercio internazionale<br />

Fino al 1800 la grande massa del commercio europeo avveniva all’interno dei confini europei, anche<br />

se l’espansione del commercio transatlantico fu un sorprendente indicatore della vitalità<br />

dell’espansione <strong>economica</strong> europea, e diede un contributo essenziale al processo di accumulazione di<br />

capitale che rese possibile la successiva espansione <strong>economica</strong> e l’industrializzazione dell’Europa<br />

(Immanuel Wallerstein sostiene che le grandi scoperte del XV secolo diedero vita ad un sistema<br />

economico mondiale il cui asse originario era l’Impero spagnolo, che mise insieme il vecchio ed il<br />

nuovo continente).<br />

Alla fine del XVII secolo il commercio non-europeo incideva meno del 10% sul giro d’affari<br />

commerciale londinese, in rapida crescita, e su quello di Amsterdam. Nel 1720, quando il commercio<br />

atlantico andava a gonfie vele, le esportazioni inglesi verso le colonie americane incidevano per meno<br />

del 50% sul valore delle esportazioni nel mediterraneo. Queste colonie offrivano ai mercanti europei<br />

preziose materie prime ma poche opportunità commerciali.<br />

All’inizio del XVIII secolo le nuove colonie europee oltreoceano erano ancora limitate alla costa<br />

atlantica, penetrando nell’entroterra sono in presenza di corsi d’acqua navigabili, come in Canada o<br />

nel New England. Fino ad <strong>allo</strong>ra infatti, “ né la Spagna né alcun’altra potenza europea aveva risorse e<br />

manodopera necessarie per la monopolizzazione dei vasti territori del Nuovo Mondo” (Fernand<br />

Braudel).<br />

Nelle due Carolina, nel Maryland, Georgia e Louisiana e più a sud nei Caraibi e nel Sud America,<br />

l’Inghilterra, la Repubblica Olandese, la Francia e la Spagna si contesero per tutto il secolo <strong>una</strong><br />

posizione vantaggiosa, sviluppando economie da piantagioni per la coltivazione del tabacco, sul<br />

modello delle piantagioni di canna da zucchero nei Caraibi.<br />

Gli Olandesi primeggiavano sul trasporto marittimo grazie alle capacità tecniche della loro Fluitship,<br />

che trasportava grossi carichi più velocemente delle concorrenti. Nella seconda metà del XVII secolo<br />

la flotta olandese eguagliava in tonnellaggio le flotte mercantili dell’Inghilterra, Portog<strong>allo</strong>, Francia,<br />

Spagna e Germania messe insieme. I produttori fornivano inoltre merci più competitive: nel 1700<br />

Amsterdam era la città commerciale ed il centro finanziario più importante al mondo.<br />

Alla fine del XVII britannici e francesi cominciarono a soppiantare gli olandesi nel commercio con il<br />

nord America: entrambi i paesi avevano adottato <strong>una</strong> legislazione monopolistica per escludere gli<br />

stranieri dal proprio commercio coloniale. L’economia olandese iniziava a perdere slancio, i centri<br />

manufatturieri non riuscirono ad adattarsi alla domanda del XVIII secolo di stoffe più leggere, e i<br />

pesanti costi di prosciugamento delle terre causarono problemi inflazionistici.<br />

Il caso olandese mostra come la vitalità dell’economia interna fosse <strong>una</strong> condizione essenziale per<br />

l’espansione del commercio internazionale, così come il caso spagnolo, che vede la prosperità di<br />

Cadice, che dal 1717 controllava il monopolio del commercio spagnolo con le sue colonie americane e<br />

caraibiche e per tutto il secolo si arricchì diventando la prima città spagnola, scomparire quando la<br />

guerra con la Gran Bretagna privò la Spagna delle sue colonie il commercio non aveva agito da<br />

impulso <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> o specializzazione agricola in Andalusia, o di nuove industrie o attività<br />

terziarie. Lo stesso in Francia, dove i porti della costa occidentale (Bordeaux, Nantes, Rochefort) si<br />

espansero sensazionalmente nel XVIII secolo in risposta alla espansione del commercio atlantico<br />

francese, sviluppando nuove industrie manifatturiere, di trasformazione, e specializzazione agricola<br />

(viticoltura), però non sopravvissero alla perdita dell’impero coloniale con le guerre napoleoniche.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 6


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Le principali battaglie commerciali e politiche tra Francia e Gran Bretagna si combatterono<br />

nell’Atlantico, nonostante vi fossero importanti differenze strutturali nel commercio su lunga<br />

distanza dei due paesi: come gli olandesi si affidavano ad <strong>una</strong> progettazione nautica innovativa ma<br />

soprattutto a nuove merci e prodotti, riuscendo a sviluppare complesse reti commerciali. La Gran<br />

Bretagna ovviò l’impossibilità di penetrare i mercati iberici e mediterranei, che imponevano pesanti<br />

dazi d’importazione ai manufatti inglesi, commerciando in questi paesi pesce secco e salato del Nord<br />

America, potendo incrementare così l’acquisto di prodotti agricoli dal mediterraneo senza esborso di<br />

contante e ribilanciare la struttura del commercio britannico destinata a colmare il deficit commerciale<br />

verso i paesi baltici, fornitori di legname e di materiali necessari alla costruzione navale.<br />

Gli schiavi africani erano destinati alle piantagioni portoghesi del Brasile ed alle colonie dei Caraibi<br />

che completavano il sistema commerciale triangolare: Africa (schiavi) – America (prodotti coloniali<br />

zucchero, tabacco, caffè) – Europa. Sistema reso più dinamico (nonostante gli alti e bassi causati da<br />

naufragi) quando le importazioni coloniali divennero fondamentali per le nuove industrie di<br />

trasformazione e riesportazione nei porti britannici ed europei.<br />

Con l’aumentare dell’importanza <strong>economica</strong> delle colonie, fu sempre più difficile gestire le relazioni: i<br />

coloni non accettavano più i regolamenti restrittivi volti ad impedire loro di sviluppare i propri<br />

manufatti, questi risentimenti contribuirono alla ribellione dei coloni del Nord America contro il<br />

governo britannico.<br />

Negli ultimi decenni del secolo, dopo la Guerra di Indipendenza, il commercio della Gran Bretagna<br />

con le sue ex colonie crebbe ancor più velocemente, e fu in questo periodo che le piantagioni<br />

americane divennero importanti fornitrici della principale materia per le nuove industrie tessili, il<br />

cotone.<br />

Nonostante tutto, alla chiusura del XVIII secolo il 76% di tutto il commercio extraregionale europeo<br />

aveva ancora luogo all’interno dei confini europei: solo il 10% verso il Nord America, l’8% verso<br />

l’America Latina e Caraibi, il 5% verso l’Asia e meno dell’1% verso l’Africa.<br />

La produzione di merci in Francia nel 1700 era di 2 volte e mezza superiore a quella della Gran<br />

Bretagna, e per entrambi i paesi non va esagerata l’importanza del commercio atlantico. La rapida<br />

crescita di nuovi mercati di consumo fu un riflesso importante della diffusione di nuove forme di<br />

ricchezza tra sezioni sempre più ampie di elites europee, ricchezza non reinvestita ma usata in stili di<br />

vita urbani che aiutarono a sviluppare mode, idee ed attitudini culturali e nuove forme di mobilità<br />

fisica (grand tour). Come si muovevano le persone, così si muovevano le idee ed i confronti.<br />

Il commercio coloniale contribuì anche <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> ed espansione di <strong>una</strong> nuova cultura commerciale<br />

e di nuove istituzioni mercantili, assicurazioni commerciali e marittime, all’espansione del credito ed<br />

alla nascita di nuovi mercati commerciali e finanziari. Incoraggiò l’espansione di <strong>una</strong> varietà di<br />

tradizionali industrie di beni di consumo e nuove industrie, come quella della birra, o più<br />

direttamente quella delle costruzioni navali. Tra gli effetti quello più sensazionale fu la diminuzione<br />

dei costi di trasporto su lunghe distanze.<br />

Il commercio estero in generale e quello coloniale in particolare, rivestirono un ruolo importante<br />

quindi nell’espandere la capacità del mercato di fornire beni di consumo, ma non spiega la<br />

contemporanea crescita della domanda di beni di consumo: molte città portuali della costa<br />

occidentale britannica, ma anche città della provincia non collegate direttamente al commercio<br />

marittimo, crebbero con rapidità sorprendente (Bristol da 48.000 a 100.000 abitanti tra il 1700 ed il<br />

1800, Liverpool da 6.000 a 35.000).<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 7


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

“Il commercio estero era <strong>una</strong> condizione necessaria ma non sufficiente per la crescita <strong>economica</strong>”<br />

(Carlo Cipolla)<br />

“Il più importante effetto del commercio estero sulle industrie interne venne dalla industrializzazione<br />

verso il commercio non viceversa” (K.P. Thomas & Donald McCloskey).<br />

1.6 LE INDUSTRIE E LE MANIFATTURE<br />

I Paesi Bassi Meridionali (l’attuale Belgio, furono parte della monarchia asburgica fino al 1797 quando<br />

furono invase ed annesse alla Francia)<br />

Regione che sperimentò la più dinamica e sostenuta crescita nel XVIII secolo, ricca di risorse naturali,<br />

con <strong>una</strong> delle più avanzate economie agricole d’Europa, innumerevoli vie d’acqua navigabili che<br />

furono estese da canali e strade che le fornirono uno dei migliori sistemi di comunicazione d’Europa<br />

che fino al 1850 era tre volte più grande di quello dell’Inghilterra.<br />

Dai tempi antichi sono stati localizzazione di importanti centri di lavorazione dei metalli e di<br />

produzione tessile, grazie a ricchi depositi di minerali grezzi e di carbone. Le prime pompe a vapore<br />

vennero introdotte già nel 1737, ma solo nel 1800 usate a gran regime. Con un sempre maggiore<br />

ricorso alla meccanizzazione si espanse la produzione di carbone e metalli lavorati nel XVIII secolo<br />

con lo spostamento delle piccole fornaci familiari verso centri urbani con migliore accesso ai mercati<br />

extraregionali, trasformandosi in industrie.<br />

Bruxelles divenne il centro amministrativo ma anche finanziario e commerciale. Anversa era il<br />

principale porto e anche dopo la sua chiusura la città rimase un importante centro finanziario e<br />

commerciale rivale ad Amsterdam.<br />

Nei Paesi Bassi meridionali si svilupparono importanti industrie del tessile, che utilizzarono<br />

macchine a vapore dal 1799 introdotte a Verviers dall’imprenditore William Cockerill, che installò<br />

anche proprie imprese di fabbricazione di macchinari che nel 1813 iniziarono a produrre le prime<br />

macchine a vapore belghe. Altro importante centro tessile delle Fiandre era Gand, famosa per i suoi<br />

fini tessuti di lana e di lino, e che nel corso del XVIII subì un cambiamento tipico delle nuove<br />

economie: le stoffe di alta qualità furono rimpiazzate da nuovi tessuti più economici e leggeri di<br />

cotone per il Sud America. Cambiamento non però accompagnato dall’assimilazione delle nuove<br />

tecnologie che riducevano il costo e acceleravano la produzione, per le quali si aspetterà l’inizio del<br />

XIX secolo.<br />

Il Belgio non sentì l’impulso del passaggio dalla forza umana alla macchina nonostante godesse di<br />

tutte le risorse materiali e condizioni infrastrutturali per sostenere l’industrializzazione, la ragione era<br />

l’abbondante offerta di potenziale umano adeguato a soddisfare le necessità dell’industria e<br />

dell’agricoltura, manodopera a buon mercato (l’estrazione del carbone dal sottosuolo era agevole).<br />

L’Olanda al contrario non godeva delle stesse risorse naturali per l’industria e la maggior parte<br />

dell’agricoltura era intensiva, le terre recuperate dal mare erano poco popolate e la maggioranza delle<br />

industrie erano urbane. Il mercato era principalmente interno e quindi non avvertì la spinta verso la<br />

macchina. L’altra grande industria olandese era quella delle costruzioni navali, con sede ad<br />

Amsterdam, che continuava a prosperare senza richiedere cambiamenti tecnologici.<br />

La proto-industrializzazione (termine coniato da Franklin Mendels)<br />

Innovazione sviluppatasi nei Paesi poveri delle Fiandre e che si andava espandendo in molte altre<br />

regioni europee (distretti montani dello Yorkshire in Inghilterra, in molti Cantoni svizzeri, in<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 8


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Germania, Francia e Italia): percorso alternativo alla modernizzazione <strong>economica</strong> che vede la<br />

diffusione delle industrie fuori dalle città, nelle regioni agricole dove erano precarie le condizioni<br />

della coltivazione. Erano forme di manifattura rurale di produzione domestica.<br />

È l’abbandono dei monopoli sulla manifattura esercitati dalle città, e sebbene forme di produzione<br />

artigianale fossero sempre esistite, l’innovazione sta nel fatto che ora tale attività era organizzata da<br />

mercanti cittadini in vista di <strong>una</strong> produzione concorrenziale volta al mercato, utilizzando la<br />

manodopera rurale, più a buon mercato di quella cittadina. Il sistema centralizzato di lavoro<br />

industriale era più veloce, sfruttava economie di scala, operava un maggior controllo sulla qualità e<br />

quantità, recuperi più veloci degli esborsi di capitali, maggiore flessibilità alle mutazioni del mercato.<br />

Tali sistemi si potevano sviluppare solo dove c’era un eccesso di manodopera rurale. Per le famiglie<br />

era <strong>una</strong> fonte supplementare di reddito, sostenuto dalle donne e dai bambini: causava forti spinte<br />

all’incremento del tasso di natalità ed al matrimonio precoce. Nel corso di alcune generazioni questo<br />

aumento di bocche da sfamare iniziò a pesare sull’economia della famiglia, e la sovraproduzione<br />

causò <strong>una</strong> caduta dei prezzi e quindi dei redditi.<br />

Nello stesso tempo si accelerò in tutta Europa il declino delle città con insediamenti tessili più antichi.<br />

Tessuti nuovi e meno costosi soppiantavano le più antiche e pesanti stoffe di lusso, risultato non solo<br />

della concorrenza dei prezzi ma anche del cambiamento dei gusti e della scomparsa delle elites<br />

tradizionali.<br />

Altri centri europei dell’attività manifatturiera pre-industriale<br />

L’Europa era un mosaico di vecchie e nuove regioni manifatturiere, molte delle quali mostrarono<br />

grande dinamismo in questo secolo: in Renania, Basso Reno, Ruhr meridionale e Bassa Sassonia meno<br />

del 20% della popolazione era occupata nell’agricoltura, Berlino presentava <strong>una</strong> importante industria<br />

serica, Svezia e Cantoni Svizzeri industrie tessili come anche nelle Province alpine, Lombardia e<br />

Carso.<br />

In Boemia nel 1789 più di 400.000 (17,5% della pop.) lavoratori erano impegnati nella filatura della<br />

lana, cotone e lino. In più c’erano 59 ferrerie, 197 fornaci, e l’industria vetraria era in espansione<br />

(erano condizioni familiari ed il passaggio alla meccanizzazione fu lento). Boemia e Moravia<br />

godevano di estese risorse naturali e buona manodopera, ed erano l’unica parte della monarchia<br />

asburgica che godeva dell’accesso ai mercati esterni tramite il fiume Elba.<br />

La Catalogna sviluppò un fiorente nuovo settore manifatturiero basato sulla stampatura e tintura<br />

della tela di cotone (a Barcellona nel 1780 c’erano 80 fabbriche del settore) poi esportata nelle<br />

Americhe e nelle altre parti d’Europa e del Mediterraneo.<br />

La breve rassegna mostra come anche senza innovazione tecnologica, nel XVIII ci siano importanti<br />

cambiamenti nelle economie dei paesi. L’assenza di mercati elastici ed accessibili è il maggior<br />

ostacolo. La necessità di passare da stoffe pesanti a nuove più leggere il maggiore stimolo.<br />

FRANCIA E REGNO UNITO<br />

Ciò che fu eccezionale in Inghilterra fu la velocità di accettazione delle nuove tecnologie,<br />

l’applicazione pratica e la rapida diffusione, che stimolò la sostituzione della forza lavoro con<br />

macchinari.<br />

Francia e Gran Bretagna furono per tutto il secolo a pari passo per l’espansione commerciale e<br />

manifatturiera, la popolazione francese era superiore di un terzo a quella inglese, in tutti e due i paesi<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 9


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

si assisteva al passaggio a stoffe più leggere di cotone, e ad <strong>una</strong> veloce introduzione delle novità<br />

tecnologiche in risposta ai mutamenti del mercato.<br />

La Francia possedeva comunque un ricco patrimonio di risorse economiche naturali, ricchi depositi di<br />

carbone e di minerali, abbondanza di legname da costruzione e d’uso industriale, fiumi e vie d’acqua<br />

navigabili, manodopera abbondante ed a buon mercato. Per questi motivi la meccanizzazione è<br />

sentita meno fortemente, le industrie possono espandersi senza difficoltà, senza sentire le strozzature<br />

dei concorrenti.<br />

In Inghilterra invece la mancanza di legname e della carbonella dovuta a secoli di metodi intensivi di<br />

coltivazione, espansione e costruzione urbana e della flotta navale porta i prezzi del legname alle<br />

stelle. Ecco perché ebbe gran successo l’invenzione di Abraham Darby, che sviluppò un processo di<br />

fusione del ferro sostituendo il carbone coke (prodotto dalla distillazione del carone fossile) alla<br />

carbonella nel 1709, seguito dall’introduzione del suo uso negli stadi finali della produzione<br />

siderurgica da Henry Cort nel 1784 che permise un abbattimento deciso dei costi. Nel 1800<br />

l’Inghilterra produceva 200.000 tonnellate di ghisa grezza all’anno, nel 1870 6 milioni, più della metà<br />

della produzione mondiale.<br />

L’impatto di queste innovazioni fu rivoluzionario ma graduale. La ghisa grezza di qualità sempre più<br />

elevata ed <strong>economica</strong>, aveva usi infiniti, le industrie metallurgiche si liberavano dalla dipendenza<br />

dalla carbonella e dal legname e si espansero insieme a nuove industrie minerarie, industrie vetrarie<br />

(Birmingham) e della ceramica. Si iniziarono a sfruttare nuovi filoni minerari e tra il 1680 ed il 1780 la<br />

produzione di carbone in Inghilterra aumentò del 300%, incentivando lo <strong>sviluppo</strong> della rete di<br />

comunicazione, soprattutto canali.<br />

I primi tessuti leggeri di cotone e di lino importati dall’India riscossero un grandioso successo<br />

immediato in tutti i mercati, rivoluzionando i gusti degli europei occidentali, le possibilità del<br />

disegno sui capi di vestiario e segnando un importante progresso negli standard dell’igiene personale<br />

essendo lavabili più frequentemente. I primi sviluppi dell’industria cotoniera erano volti a limitare la<br />

dipendenza dalle importazioni dall’India, ma la domanda in crescita costante mise in luce diversi<br />

problemi (lentezza della produzione domestica, alto costo della manodopera) risolti dalla<br />

meccanizzazione della filatura (1830) con la centralizzazione di tutti i passaggi all’interno di<br />

fabbriche. Dinamismo che sviluppò tutta <strong>una</strong> serie di altre attività, dalla costruzione dei macchinari,<br />

<strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> di reti di trasporto e fondazione di città (Manchester).<br />

La differenza tra l’Inghilterra ed i suoi vicini europei fu l’esuberanza della domanda sui mercati<br />

interni: la Francia per esempio presentava un’ampia popolazione contadina capace di autorifornirsi,<br />

le città erano piccole, il commercio era principalmente interno, le comunicazioni scarse, il territorio<br />

ampio. In Inghilterra invece le comunicazioni erano facili ed i porti raggiungibili, l’espansione urbana<br />

era vivace e rapida: la domanda urbana di consumi era dinamica e unica in Europa, come la domanda<br />

e produzione di birra, primo prodotto veramente di massa, destinata comunque alle classi più povere.<br />

Mentre in Francia e nel resto d’Europa le merci erano prodotte dalle stesse famiglie contadine per<br />

proprio uso, oppure da un’industria che badava più alla qualità che al volume, e che evitò quindi la<br />

meccanizzazione finche trovò manodopera specializzata con salari che non riducevano i profitti, le<br />

industrie inglesi provvedevano principalmente ai mercati di grosso volume e di basso costo,<br />

diventando modelli di organizzazione da imitare basate sulla divisione di manodopera e sui nuovi<br />

principi teorici di economisti come Adam Smith. Erano esempi tangibili dei valori che avrebbero<br />

ispirato l’era del capitalismo industriale: il ruolo dell’imprenditore e il lavoratore come unità.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 10


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

1.7 IL RUOLO DELLO Stato<br />

Uno dei temi centrali della prima storiografia <strong>economica</strong> collegava il precoce <strong>sviluppo</strong> dell’Inghilterra<br />

alla presenza di <strong>una</strong> cultura della libera impresa, mentre oggi si enfatizza di più l’importanza delle<br />

specifiche condizioni rurali e di mercato che incoraggiarono l’uso dei macchianari prima che altrove:<br />

<strong>una</strong> delle maggiori restrizioni <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> derivò dall’intervento dello Stato.<br />

Tutti gli stati europei continuavano a seguire le politiche mercantilistiche del XVII secolo basate sul<br />

presupposto che il volume del commercio è finito e che ogni stato dovrebbe protteggersi per<br />

assicurarsi la propria quota riducendo al minimo le importazioni straniere.<br />

Le politiche commerciali del XVIII secolo non furono influenzate da nuove teorie economiche ma<br />

piuttosto da necessità materiali dei governanti. Per quanto convincenti fossero in teoria i principi del<br />

libero scambio interno, il problema stava nel trovare un modo per rimpiazzare le entrate pubbliche e<br />

private (dazi e gabelle interni). Nel caso del commercio estero, il liberalismo andava contro la schiera<br />

di restrizioni e barriere monopolistiche delle nazioni commerciali più potenti.<br />

Nel XVIII secolo fu varia la capacità statale di proteggere e promuovere lgi interessi economici al fine<br />

di creare condizioni di stabilità e ordine. Le debolezze della monarchia spagnola e portoghese<br />

rendevano invece sedmpre più difficile la formazione di politiche commerciali coerenti.<br />

2. LO SVILUPPO ECONOMICO NELL’EUROPA DEL XIX SECOLO<br />

2.1 CRESCITA E TRASFORMAZIONE DELL’ECONOMIA EUROPEA<br />

Un secolo di crescita continuativa<br />

L’evoluzione <strong>economica</strong> di lungo periodo non procede mai in modo uniforme: ci sono aree<br />

inseguitrici ed aree guida, che sfruttano efficacemente le conoscenze tecniche disponibili grazie alla<br />

dotazione di risorse umane in grado di innovare e di utilizzare le nuove tecnologie, raggiungendo<br />

maggiore produttività delle risorse naturali disponibili, dai capitali e dal lavoro.<br />

Nella ricostruzione della <strong>storia</strong> dell’economia mondiale dal Medio Evo ad oggi, Meddison individua<br />

quattro fasi successive con diverse economie guida:<br />

XII – XVI con l’Italia centrosettentrionale e le Fiandre,<br />

1600 – 1750 con i Paesi Bassi settentrionali,<br />

1750 – 1890 con l’Inghilterra,<br />

1890 – oggi USA.<br />

La rivoluzione industriale sviluppa <strong>una</strong> posizione di monopolio per l’Inghilterra nel commercio<br />

mondiale con <strong>una</strong> incredibile forza industriale a rapido progresso tecnico nella produzione tessile,<br />

siderurgica, meccanica e utilizzo del carbon fossile. L’occupazione nell’industria aumentò dal 44% nel<br />

1700 al 60% nel 1820 e all’84% nel 1890, mentre quella nell’agricoltura passò dai due terzi della<br />

popolazione all’inizio secolo, all’8,8% nel 1910.<br />

Gli addetti all’agricoltura dei principali paesi europei e nell’area Nord-americana andarono<br />

progressivamente riducendosi e l’industria divenne la principale fonte di ricchezza e lavoro: fu <strong>una</strong><br />

cesura di principale importanza con il passato dell’umanità.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 11


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Grazie agli apporti della rivoluzione agricola, industriale e dei trasporti, l’Europa si liberava dai<br />

vincoli imposti dalla demografia e dalle limitate risorse del suolo. Il passaggio da fonti energetiche<br />

animate ad inanimate permise <strong>una</strong> crescita inimmaginabile nei secoli precedenti.<br />

L’800 è il primo secolo ad essere solamente in positivo, con crescita media annua del 2% del PIL. La<br />

crescita <strong>economica</strong> moderna viene rapportata alla quantità di beni prodotta da un Paese. Si calcola in<br />

termini di valore aggiunto, differenza tra il valore del prodotto finito ed il valore dei prodotti<br />

intermedi utilizzati, è la somma dei fattori di produzione impiegati: la produzione totale è<br />

approssimativamente uguale al reddito.<br />

Il PIL misura il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti all’interno di un Paese al lordo degli<br />

ammortamenti, sia dai cittadini che dagli stranieri (il PNL conta solo residenti). Per confrontare Paesi<br />

diversi non basta usare il cambio monetario, ma si usa un tasso di cambio speciale, il PPP (purchasing<br />

power parity), che tiene conto dei diversi livelli di prezzo.<br />

I dati sulla contabilità nazionale sono utili ma non tengono conto delle performance delle regionipilota<br />

dello <strong>sviluppo</strong> e sono per questo poco utili a comprendere le origini e le dinamiche interne dei<br />

processi di crescita. In tutte le nazioni si determinano differenze regionali nei tassi di crescita del<br />

reddito: in Italia per esempio, nel triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) il reddito era<br />

nel 1911 di un terzo superiore alla media nazionale. Differenze sono presenti anche all’interno dei<br />

diversi settori: è quindi necessario un approccio insieme macro e micro-analitico.<br />

I CAMBIAMENTI STRUTTURALI<br />

Con il passaggio da società rurale e agricola a civiltà industriale, il cambiamento strutturale più<br />

accentuato si coglie nei tassi di attività (rapporto tra popolazione attiva e passiva, e distribuzione nei<br />

vari settori): tutti i Paesi mostrano un incremento del tasso di attività femminile, con passaggio<br />

dall’attività di casalinga a lavoratrice a domicilio o occupata a tempo pieno fuori dalla famiglia.<br />

La struttura professionale della popolazione vede <strong>una</strong> diminuzione assoluta e relativa del settore<br />

primario (agricoltura, caccia e pesca), espansione del secondario (industrie e manifatture) e del<br />

terziario (P.A, banche, professioni). Processo più accentuato in alcuni paesi come la Germania, e meno<br />

in altri come in Italia, dove nel primario dal 1881 al 1911 si scese solo dal 61,8% al 59,1% e nel<br />

secondario si crebbe dal 20,5% al 23,6%. Il declino dell’agricoltura fu tanto più veloce quanto più<br />

precoce era stata la crescita.<br />

L’incremento del reddito pro-capite s’accompagnò ad un calo della fertilità e del tasso di natalità e<br />

mortalità infantile, e ad <strong>una</strong> crescita dei tassi di urbanizzazione, alfabetismo e scolarizazione.<br />

Crebbero anche le percentuali di risparmio, investimenti ed aumentò il grado di apertura al<br />

commercio internazionale.<br />

Gli effetti della crescita sulla distribuzione del reddito sono così ipotizzati da Kuznets: in <strong>una</strong><br />

primissima fase i pochi addetti ai settori moderni guadagnano molto di più ma ad un certo punto il<br />

trend si inverte a causa della crescita della percentuale degli addetti ai nuovi settori ed il divario di<br />

produttività intersettoriale diminuisce.<br />

Schumpter ed i cicli di <strong>sviluppo</strong><br />

La crescita non è mai stata lineare ma contraddistinta da variazioni e fluttuazioni che costituiscono la<br />

congiuntura di strutture diverse. Gli storici hanno da sempre cercato di individuare la regolarità nelle<br />

fluttuazioni che permettesse di prevedere gli andamenti futuri.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 12


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Joseph Schumpeter ritiene che l’andamento ciclico costituisce l’essenza stessa del processo di<br />

<strong>sviluppo</strong> capitalistico, le fluttuazioni sono la conseguenza necessaria della rottura dell’equilibrio<br />

stazionario. In Business cycles (1939) individua l’esistenza di tre cicli:<br />

- ciclo classico o maggiore o Juglar, fra i 7 e gli 11 anni, ripartito in 4 fasi di recessione,<br />

depressione, ripresa e boom (a metà del ciclo scoppiano le classiche crisi di sovrapproduzione),<br />

- ciclo minore o Kitchin, o congiunturale,<br />

- movimenti di lungo periodo Kondratieff o onde lunghe, durano 40 – 50 anni, <strong>una</strong> fase<br />

ascendente ed <strong>una</strong> discendente.<br />

Determinante è l’attività innovativa: le invenzioni procedono in modo autonomo senza rispondere ad<br />

un bisogno concreto, hanno <strong>una</strong> genesi scientifica e non sono rilevanti per l’analisi <strong>economica</strong>, le<br />

innovazioni invece si sviluppano nel sistema economico e ne sono il fatto fondamentale, in risposta a<br />

determinati bisogni, e danno vita a nuove combinazioni dei fattori produttivi.<br />

Il motore del processo di <strong>sviluppo</strong> sono gli imprenditori innovatori, dai quali scaturiscono le<br />

innovazioni, i nuovi prodotti e processi, i miglioramenti all’organizzazione di un’impresa, le<br />

conquiste di nuovi mercati e nuove fonti di approviggionamento di materie prime. Guadagnano <strong>una</strong><br />

temporanea posizione di rendita monopolistica che li ripaga del rischio iniziale, il guadagno<br />

differenziale viene poi gradualmente eliminato dalla concorrenza che imita e riporta il sistema ad un<br />

equilibrio stazionario.<br />

Nello studio delle fasi e dinamiche dello <strong>sviluppo</strong> si è passati da <strong>una</strong> prospettiva di imitazione del<br />

modello inglese alla verifica di importanti differenze per le quali si è cercato un comune<br />

denominatore, analizzando i cambiamenti economici in maniera comparativa.<br />

Negli anni 60 Walter Rostow e Alexander Gerschenkron tesero ad edificare <strong>una</strong> vera e propria teoria<br />

della <strong>storia</strong> <strong>economica</strong>, negando l’uso di modelli ciclici e proponendo interpretazioni incrementali<br />

dello <strong>sviluppo</strong>, entrambi accentuando gli aspetti di discontinuità che caratterizzano la fase iniziale dei<br />

processi di crescita delle economie.<br />

Gli stadi di Rostow ed il take off<br />

Rostow teorizza la teoria degli stadi, processo di crescita basato su 5 passi attraverso i quali ogni<br />

nazione sarebbe dovuta passare per raggiungere uno <strong>sviluppo</strong> economico completo e presuppone che<br />

tutte le economie soddisfino le varie fasi:<br />

1. Società tradizionale, situazione pre-industriale con debole produttività del lavoro<br />

umano, preponderanza dell’agricoltura, stretta correlazione tra popolazione e risorse, società chiusa<br />

ed esposta ad epidemie e carestie. Il reddito pro-capite non aumenta perché il tasso di investimento<br />

eguaglia il tasso di incremento demografico, per l’evoluzione serve un aumento dei tassi di<br />

investimento.<br />

2. Transizione, periodo di cambiamento, formazione di imprenditorialità e accumulo di<br />

capitali: incremento della produzione e produttività dell’agricoltura e delle miniere che permetta di<br />

indirizzare lavoro e capitali all’industria, <strong>sviluppo</strong> di servizi ed in particolare banche, uso efficiente<br />

delle materie prime locali o loro importazione, esportazione di prodotti manifatturati.<br />

3. Decollo, processo di accelerazione <strong>economica</strong> che nel corso di due o tre decadi<br />

trasforma l’economia portandola stabilmente ad un livello produttivo molto più elevato di quello di<br />

partenza. L’accumulazione del capitale e l’incremento della produttività si autoalimentano:<br />

innalzamento tasso di investimenti al 10% del PNN (no riscontro storico), quadro politico, sociale ed<br />

istituzionale che sfrutti le tendenze all’espansione per favorire un processo generale di <strong>sviluppo</strong>,<br />

<strong>sviluppo</strong> di settori guida, industrie leader e industrie sussidiarie, subordino dell’agricoltura<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 13


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

all’industria. (Gran Bretagna rivoluzione industriale, Belgio e Francia anni 30-60, Germania periodo<br />

1850-1873, Svezia 1868-1890, Russia 1890-1914)<br />

4. Maturità, il processo si estende, le innovazioni si diffondono, nuove industrie<br />

trasmettono dinamismo. Il volume degli investimenti passa dal 10 al 20% del reddito nazionale, la<br />

produzione supera l’incremento demografico ed i redditi aumentano costantemente, si destinano<br />

maggiori risorse ai consumi.<br />

5. Età dei consumi di massa, modello americano, la distribuzione di <strong>una</strong> crescente quota<br />

del potere d’acquisto per i consumi spinge le imprese produttrici ad investire in processi di<br />

standardizzazione della produzione per allargare il mercato abbassando i prezzi.<br />

I critici notano come tale modello presenta un modello di crescita che si svolge ordinatamente<br />

attraverso fasi in cui uno stadio deriva da quello precedente ma non spiega i meccanismi di<br />

passaggio, le cause, e come non consideri le interazioni tra le diverse dimensioni<br />

(internazionale,nazionale, regionale) in cui si sviluppa il fenomeno. È <strong>una</strong> teoria di imitazione senza<br />

varianti.<br />

Gerschenkron e i vantaggi dell’arretratezza<br />

Ruolo centrale non le dinamiche di lungo periodo ma i due più importanti stadi di Rostow: le<br />

precondizioni e lo stadio del decollo. Studia i meccanismi che mettono i Paesi ritardatari in grado di<br />

avviare un processo di <strong>sviluppo</strong>, introduce il concetto di arretratezza relativa al paese leader, la Gran<br />

Bretagna, posizionando i diversi Paesi su <strong>una</strong> graduatoria di confronto con la quantità ed importanza<br />

dei prerequisiti.<br />

Più le condizioni sono simili, più è probabile un’imitazione veloce ed efficiente. Se invece i<br />

prerequisiti mancano, i Paesi possono colmare le lacune con l’impiego di fattori sostitutivi (il sistema<br />

bancario in Italia). I diversi percorsi di industrializzazione derivano dai diversi livelli di arretratezza e<br />

fattori sostitutivi.<br />

L’arretratezza ha comunque dei vantaggi: chi arriva dopo può imitare le tecnologie senza processi di<br />

perfezionamento e impiego di risorse in ricerca e <strong>sviluppo</strong>, utilizzando d’un colpo tecnologie che<br />

avevano impiegato oltre un secolo per arrivare a standard accettabili. Maggiore è il livello di<br />

arretratezza, più rapido sarà il ritmo di <strong>sviluppo</strong> industriale, maggiore lo <strong>sviluppo</strong> della grande<br />

industria, la concentrazione nella produzione di beni strumentali anziché di consumo, il ruolo degli<br />

attori istituzionali impiegati ad aumentare la velocità del processo, minore la crescita agricola e<br />

maggiore l’importazione di conoscenze tecniche e capitali stranieri.<br />

Chi è in testa non è sicuro di rimanervi (declino della Gran Bretagna nella seconda metà dell’800), chi<br />

è più vicino al leader può subentrarvi, chi è decaduto può recuperare posizioni (Italia).<br />

Il problema delle unità di analisi: Pollard e la regione <strong>economica</strong><br />

Dagli anni 70 si cercano di abbandonare i modelli di interpretazione univoci e lineari cercando di<br />

evidenziare le caratteristiche peculiari di ciascun caso, incontrado però il problema dell’unità di base<br />

dell’analisi, comunemente quella nazionale (permetteva l’utilizzo di cifre raccolte da autorità centrali)<br />

si iniziavano a proporre le regioni, non necessariamente coincidenti con un’unità politico<br />

amministrativa.<br />

The peaceful conquest (1981) mostra come la nozione di decollo si debba applicare alla dimensione<br />

regionale, e come nel caso della Gran Bretagna la rivoluzione industriale fosse stata favorita dalla<br />

simultaneità del decollo di numerose sue regioni. Tra le regioni c’erano divari anche importanti<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 14


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

(dualismo): l’industrializzazione europea si realizza in ogni nazione su base regionale, e studiando<br />

queste si valorizzano le interdipendenze ed i rapporti funzionali.<br />

Il contesto internazionale invece che fare da sfondo all’azione del Paese ritardatario (come sosteneva<br />

Gerschenkron), secondo Pollard interferisce con le decisioni dei singoli Paesi orientandone gli effetti<br />

in senso positivo o negativo: è il concetto del differenziale della contemporaneità, esempio tipico la<br />

costruzione delle ferrovie con diverso ruolo nelle economie dei Paesi in rapporto alle condizioni sul<br />

piano internazionale, oppure la guerra che incise direttamente, in un senso o nell’altro, sui processi di<br />

<strong>sviluppo</strong> dei Paesi.<br />

Paul David e la “path dependence”<br />

La spiegazione dei mutamenti tecnologici ed istituzionali non va ricercata in leggi economiche di<br />

portata universale ma nel percorso storico del processo in questione, per cui catene di eventi anche<br />

casuali finiscono col delimitare il campo delle scelte alla configurazione che si à venuta a determinare.<br />

Il percorso seguito dai first comers non può quindi essere imitato pedissequamente dai followers.<br />

Il ruolo dello Stato<br />

La competizione tra le diverse aree non è avvenuta soltanto sul piano tecnologico e produttivo ma<br />

anche sui sistemi di regole, sulla loro capacità di promuovere ed assecondare lo <strong>sviluppo</strong> abbassando<br />

i costi di transizione (ricerca, diffusione e organizzazione delle informazioni, costi di realizzazione<br />

delle innovazioni) e rendendo l’economia più efficiente. Le istituzioni si imitano come le tecnologie, e<br />

cambiano in rapporto alle condizioni economiche.<br />

Douglas North teorizza il mutamento economico come risultato di un cambiamento isittuzionale<br />

intonato alle esigenze delle attività produttive: in Gran Bretagna il ruolo del potere pubblico nella<br />

creazione di un efficiente mercato nazionale e nello svecchiamento delle istituzioni fu fondamentale,<br />

il miglioramento nella definizione ed applicazione dei diritti di proprietà favorì l’organizzazione di<br />

fabbrica che spinse all’introduzione di nuove tecnologie.<br />

Questa teoria spinse ad approfondire il rapporto tra istituzioni e <strong>sviluppo</strong> economico: oltre<br />

all’importanza di uno Stato attivo nella creazione di condizioni favorevoli, anche quella di istituzioni<br />

intermedie come sistemi produttivi locali o distretti industriali.<br />

Nel periodo della rivoluzione industriale le teorie in vigore erano quelle del liberalismo economico,<br />

volto a lasciare spazio all’armonico dispiegarsi dei meccanismi di mercato (Smith e Ricardo), e quelle<br />

interventiste basate sulla convinzione che lo Stato dovesse assicurare il suo intervento nelle vicende<br />

economiche in quanto il mercato non era in grado da solo di garantire <strong>sviluppo</strong>.<br />

Già dal primo 800 si ponevano le premesse per uno Stato con attivo ruolo nel processo di<br />

industrializzazione in Stati Uniti, Belgio, Francia e Germania, nel 1850 tali teorie iniziarono a<br />

differenziarsi nelle loro realizzazioni: negli USA si delineò il modello di Stato regolatore, in Europa<br />

<strong>una</strong> formulazione di rapporti tra Stato ed economia anticipatrice del modello forte di Stato e della<br />

fiducia nel big goverment che si affermeranno nelle nazionalizzazioni del XX secolo.<br />

Il peso dello Stato nell’economia è andato quindi crescendo nel corso del tempo, i sistemi capitalistici<br />

industriali non possono funzionare senza uno Stato che garantisca difesa e leggi.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 15


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

2.2 DINAMICHE DEMOGRAFICHE E SOCIALI. IL RUOLO DELL’AGRICOLTURA<br />

La rivoluzione demografica in Europa<br />

Produzione e consumo sono correlati all’evoluzione della popolazione e alla sua distribuzione<br />

geografica, sociale e per fasce di età. I dati non sono precisi ma consentono approssimazioni utili: dal<br />

1800 ed il 1914 la popolazione europea progredì al ritmo dello 0,93% all’anno, <strong>una</strong> vera e propria<br />

rivoluzione demografica che cambiò strutture, movimenti e comportamenti.<br />

L’Inghilterra anticipò le tendenze e già nel 1740 l’aumento consistente della popolazione permise un<br />

aumento della forza lavoro sia nelle campagne che nelle attività urbane, e l’impiego in nuovi settori<br />

manufatturieri come quello cotoniero.<br />

Il vecchio modello demografico di antico regime era caratterizzato da <strong>una</strong> combinazione di elevata<br />

natalità (fertilità media) e mortalità, che permetteva meccanismi di autoequilibrio tra popolazione e<br />

risorse (grafico a sega), ed un complesso di pratiche tendenti ad abbassare la fecondità femminile, e<br />

promuovere la scelta del celibato (donne nubili 15-20%) ed i matrimoni ritardati (uomini 30, donne<br />

25-26) cercando di evitare le crisi da scarsità di risorse dovute ad un aumento della popolazione<br />

(trappola malthusiana). Per la prima volta nella <strong>storia</strong> dell’umanità, dall’800, grazie alle<br />

trasformazioni produttive, questo meccanismo non valeva più, si entrò nella transazione<br />

demografica: nei due secoli seguenti la crescita non conobbe più pause o regressioni.<br />

Dal 1800 al 1900 la popolazione mondiale crebbe del 70 % passando da 978 a 1.650 milioni, l’Europa<br />

registrò un aumento di più del doppio, passando da 208 a 430 milioni (i movimenti migratori<br />

contrassegnarono il secolo, gli europei contribuirono a triplicare il numero di abitanti dell’America<br />

Latina e Australia, e a moltiplicare per 10 quello dell’America del Nord). All’inizio della Prima<br />

Guerra Mondiale l’Europa contava 480 milioni di abitanti, tre volte la popolazione del 1750. All’inizio<br />

dell’800 <strong>una</strong> persona su 5 era europea, alla fine <strong>una</strong> su 4, e <strong>una</strong> su 3 se si contano anche gli emigrati.<br />

Un confronto tra le densità mostra come la popolazione fosse concentrata sul continente meno esteso,<br />

e se nella prima parte del secolo erano le aree nel Nord-Ovest d’Europa a crescere più rapidamente,<br />

nella seconda parte il Sud e l’Est. In Italia la popolazione crebbe continuativamente nel corso del<br />

secolo (Nord bassa natalità e mortalità, Sud alte entrambe), mentre la Francia subì un brusco<br />

rallentamento nel secondo 800 dovuto dalla caduta del tasso di natalità.<br />

Il nuovo modello demografico<br />

I perni furono la caduta della mortalità e la contrazione del tasso di natalità: in <strong>una</strong> prima fase di<br />

breve periodo la caduta della mortalità causò <strong>una</strong> crescita impetuosa, in <strong>una</strong> seconda invece la<br />

fertilità declinò ed il successivo aumento della popolazione dipese dal crescente allungamento della<br />

vita.<br />

La mortalità diminuì rapidamente nei primi due decenni del secolo, rimase poi stabile a lungo per far<br />

registrare <strong>una</strong> nuova caduta verso la fine del periodo. Il tasso di natalità invece diminuì molto<br />

lentamente prima di accentuare la sua tendenza a partire dagli anni 80. La diminuzione nelle nascite<br />

rifletteva la volontà delle famiglie di conservare o migliorare il proprio tenore di vita: meno figli<br />

significava maggiore garanzia di fronte al bisogno e migliore istruzione. La natalità restava alta nelle<br />

classi povere, che solo dopo la Prima Guerra Mondiale operarono un controllo sulle nascite.<br />

Scomparsero le grandi crisi di mortalità, cicli di carestia (eccezione crisi della patata in Irlanda 1845-<br />

1850) ed epidemie, virulenze e malattie infettive (progressi scienza medica, vaccino antivaiolo,<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 16


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

rivoluzione microbica di Pasteur, ospedali asettici, aspirina, anestetici), le difese immunitarie<br />

aumentarono grazie ai miglioramenti alimentari ed igienici (risanamento e modernizzazione urbana,<br />

sistemazione fognature, eliminazione cloache, ampliamento strade, costruzione reti idriche).<br />

Il fondamentale cambiamento del XIX secolo è che né la fecondità né la mortalità delle popolazioni<br />

europee dipendevano più dalle disponibilità alimentari: tra popolazione e risorse il feedback divenne<br />

positivo, incremento demografico ed innovazioni tecnologiche andavano di pari passo.<br />

La rivoluzione agricola fece fare un balzo alla redditività della terra (rotazioni più efficienti,<br />

allevamenti, concimi, prime macchine agricole) permettendo di produrre di più con meno addetti,<br />

soddisfando nuovi bisogni e liberando un quota di lavoratori agricoli a vantaggio delle attività<br />

industriali e urbane.<br />

Rivoluzione agricola ed industriale consentirono di migliorare in quantita e qualità l’alimentazione.<br />

La rivoluzione nei trasporti e l’allargamento dei mercati ruppero l’isolamento di molti territori e<br />

limitarono le crisi di sussistenza: le cadute produttive potevano essere compensate dalle<br />

importazioni.<br />

La vita si allungava, dalla media dei 30 anni salì nel corso dell’800 ai 40 anni e toccò i 50 nel 900,<br />

maggiormente negli strati sociali che più beneficiavano del progresso materiale e scientifico.<br />

L’accresciuta consistenza delle fasce centrali della popolazione, quelle detentrici del potenziale<br />

riproduttivo, si riflesse sul tasso di fecondità generale, provocandone un incremento.<br />

Le aspettative di vita variavano vistosamente a seconda del mestiere esercitato o dello status di<br />

appartenenza: la malnutrizione, la mancanza di igiene nelle abitazioni e luoghi di lavoro, la mancanza<br />

di cure diminuivano la resistenza fisica dei ceti popolari, soprattutto dei lavoratori urbani, ma anche<br />

agricoli.<br />

Urbanesimo, migrazioni e colonizzaizoni<br />

La concomitanza dell’espansione demografica e delle trasformazioni economiche, determinò <strong>una</strong><br />

ridistribuzione geografica e professionale della popolazione: l’industrializzazione procedette di pari<br />

passo con l’urbanizzazione, gli spostamenti verso le città aumentarono con l’introduzione di nuove<br />

tecnologie volte a limitare l’uso umano nelle campagne e con la crisi del lavoro a domicilio. La<br />

ferrovia aiutò lo spostamento massiccio.<br />

Dal 1851 al 1914 la percentuale degli abitanti delle città sulla popolazione passò in Gran Bretagna dal<br />

48 al 73%, in Francia dal 25,5 al 44.2%. Dalle 23 città con più di 100 mila abitanti nel 1800, un secolo<br />

dopo se ne contavano in Europa 135. Sotto la spinta dell’industrializzazione e della rivoluzione dei<br />

trasporti si svilupparono sia piccoli centri che importanti città e metropoli già da tempo al centro delle<br />

rispettive economie nazionali (Londra, Parigi).<br />

Industrializzazione significò anche perfezionamento dei sistemi idraulici e gasdotti per<br />

l’illuminazione, le città inglobarono le periferie e i centri si svilupparono in altezza, creando nuovi<br />

posti di lavoro. La tendenza è un regresso del settore primario, espansione del secondario e del<br />

terziario. Ad eccezione della Gran Bretagna, tutte le società restarono comunque a predominanza<br />

rurale per buona parte dell’800.<br />

Una linea interpretativa di scuola Marxista capeggiata da Eric Hobsbawm ha messo in evidenza il<br />

deterioramento degli standard di vita nel passaggio all’età industriale, mentre <strong>una</strong> corrente<br />

neoliberista di Max Hartwell sottolinea un effetto positivo.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 17


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

L’industrializzazione rappresentò sicuramente quartieri dormitorio senza acqua e luce o servizi<br />

igienici e si accompagnò a durissimi orari di lavoro in ambienti malsani e promiscui, ma significò<br />

anche liberazione da carestie e miseria, nuove opportunità di miglioramento sociale e culturale.<br />

La metà del secolo segnò l’inizio della più grande migrazione di popoli nella <strong>storia</strong>, ad opera della<br />

popolazione rurale sotto la spinta della pressione demografica e delle avverse congiunture. Non si<br />

trattò solo di un fenomeno europeo ma furono certamente questi gli attori principali, che, disponendo<br />

di un territorio di circa 700 miglia quadrate (l’Europa), finirono per colonizzare e controllare ben 8<br />

milioni di miglia quadrate, moltiplicando di 9 volte la superficie controllata.<br />

Nonostante fenomeni di migrazione interna, il fenomeno dominante divenne quello dell’emigrazione<br />

extracontinentale e permanente. Tra il 1821 ed il 1914 <strong>una</strong> cifra tra i 46 ed i 51 milioni di persone<br />

lasciarono l’Europa verso altri continenti: Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Brasile,<br />

Argentina.<br />

La migrazione fu favorita dalla rivoluzione dei trasporti marittimi e dagli stessi governi che<br />

cercavano di alleggerire il mercato del lavoro nazionale e garantire il livello dei salari. Il governo<br />

inglese stanziò nel 1869 5 milioni di sterline per l’emigrazione. Inizialmente la maggior parte degli<br />

emigranti erano inglesi, ma dagli anni 40 il fenomeno interessò l’Irlanda (patata 1847), Germania, ed<br />

Europa centro-meridionale pe difficoltà nelle economie.<br />

Tali spostamenti di popolazione determinarono cambiamenti nelle economie dall’<strong>una</strong> e dall’altra<br />

parte, e mentre le campagne europee si decongestionarono, le economie del nuovo mondo ricevettero<br />

importanti vantaggi: le partenze dei più giovani fecero crescere il tasso di natalità nei Paesi<br />

d’accoglienza, e ne modificarono i caratteri sociali e culturali, fondando comunità a base etniconazionale<br />

che si fusero lentamente alla massa. Il melting-pot si rivelò <strong>una</strong> delle chiavi dello <strong>sviluppo</strong><br />

statunitense, e la più drammatica vicenda demografica nella <strong>storia</strong> della popolazione europea si<br />

tramutò in <strong>una</strong> fondamentale componente del cammino verso la modernizzazione.<br />

Le trasformazioni del settore agricolo<br />

Nonostante il ridimensionamento del settore agricolo sia uno degli aspetti più vistosi dello <strong>sviluppo</strong><br />

economico europeo, l’agricoltura ha continuato a giocare un ruolo fondamentale nel proocesso di<br />

crescita <strong>economica</strong> moderna. Le trasformazioni del settore agricolo precedettero ed accompagnarono<br />

l’avvento delle società industriali e permisero di alimentare <strong>una</strong> popolazione sempre più numerosa<br />

ed urbanizzata incrementando produzione e produttività.<br />

La domanda di prodotti agricoli è inferiore di quella di manufatti e servizi, e sul consumo di generi<br />

alimentari influì il rallentamento nella crescita della popolazione. Da <strong>una</strong> dieta basata su cereali e<br />

vegetali si passò inoltre ad <strong>una</strong> dieta basata su carni e prodotti zootecnici.<br />

La produzione agricola crebbe comunque costantemente o per la crescita dei fattori (lavoro, capitale e<br />

terra) con interventi di bonifica in Olanda ed Italia bilanciate dalla perdita per l’industrializzazione,<br />

lavori di irrigazione dei terreni aridi e di calcinatura dei terreni acidi, oppure per la crescita della loro<br />

produttività (land-saving) o della produttività del lavoro (labour-saving).<br />

Nel XIX secolo si registrò un costante progresso nella qualità delle colture: rotazione continua con la<br />

sostituzione del maggese (periodo di riposo del terreno) con le leguminose, la maggiore dotazione di<br />

bestiame aumentava la quantitè di letame per la concimazione, si introdussero specie più adatte al<br />

clima e ai terreni e più resistenti ai parassiti, si svilupparono prodotti chimici fertilizzanti.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 18


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Anche gli attrezzi in ferro vennero perfezionati (falci, aratri) e comparvero le prime macchine<br />

sostitutrici del lavoro umano (trebbiatrici, sgranatrici del cotone, mietitrici, mietitrebbiatrici, trattore<br />

negli anni 90) dove la manodopera era scarsa e quindi cara l’agricoltore era spinto a meccanizzarsi,<br />

dove invece la pressione demografica restava forte, questo non era spinto ad aumentare il suo<br />

capitale. Le caratteristiche dei suoli determinavano inoltre le diverse tipologie di attrezzi e<br />

macchinari.<br />

Il tasso di crescita della produzione, maggiore di quello della popolazione permise, grazie alla<br />

rivoluzione nei trasporti, di eliminare le crisi di sussistenza e di migliorare l’alimentazione delle<br />

masse popolari.<br />

1877-1896 grande depressione, crisi agraria per la concorrenza con i prezzi dei prodotti esteri grazie<br />

alla rivoluzione dei trasporti. Tutti i prezzi calarono, specie dei vegetali e dei cereali (grano). La<br />

reazione fu <strong>una</strong> forte spinta alla politica protezionistica, ed un passaggio all’allevamento.<br />

2.3 IL PROCESSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE EUROPEA<br />

L’Inghilterra e l’Europa continentale<br />

La rivoluzione industriale (metà 700 – primi decenni 800) segnò l’inizio di <strong>una</strong> nuova era nella <strong>storia</strong><br />

dell’uomo. Fu l’effetto di <strong>una</strong> serie di innovazioni convergenti nell’agricoltura, commercio, trasporti e<br />

industria. Il fondamentale fattore fu il rapido incremento della capacità produttiva grazie all’utilizzo<br />

di tecniche sofisticate e lo sfruttamento di nuove fonti energetiche.<br />

La disponibilità di beni e servizi crebbe in misura inimmaginabile, i beni aumentavano più<br />

rapidamente della popolazione, gli standard di vita migliorarono e la vita <strong>economica</strong> conobbe<br />

continue trasformazioni ed accelerazioni.<br />

L’industrializzazione si è imposta, dal secondo 800, come condizione necessaria alla crescita e finì con<br />

l’identificarsi con lo <strong>sviluppo</strong>: dal 1820 al 1980 il prodotto lordo dei Paesi industrializzati è cresciuto<br />

di 60 volte, la popolazione di 4, il prodotto pro capite di 13, la produttività del lavoro di 20,<br />

producendo immensi con i Paesi non industializzati.<br />

Le vie dell’industrializzazione furono molteplici, sia per il peso dei percorsi di <strong>sviluppo</strong> precedenti,<br />

sia perché il quadro generale subì profondi mutamenti dopo la rivoluzione industriale inglese.<br />

Edward Wrigley individua l’elemento decisivo nell’utilizzo dell’energia derivante dal carbon fossile,<br />

abbondante a buon mercato e su vasta scala, un “miracolo insperato”, un “dono della sorte” il cui<br />

rendimento è stato massimizzato dal contesto inglese, dove c’era l’opportunità di fare profitti<br />

vendendo di più a prezzi più bassi, il che forniva un forte incentivo a cercare fonti di energia potenti e<br />

macchine sempre più automatizzate per aumentare il flusso dei prodotti e contenerne i costi. I mercati<br />

a loro volta si erano ingranditi ed il processo era capace di autoalimentarsi.<br />

La rivoluzione industriale si estese ben presto a tante altre regioni del continente dove sviluppi<br />

anteriori di lungo periodo avevano preparato il terreno, <strong>una</strong> serie di cambiamenti intervenuti<br />

nell’economia e nella società europea a partire dai secoli centrali del Medioevo, lenti progressi<br />

nell’agricoltura, nell’industria, allargamento delle relazioni commerciali. Il processo ebbe poco<br />

riguardo per i confini politici: i Paesi avevano radici comuni ed erano soggetti <strong>allo</strong> stesso clima.<br />

Quattro indicatori dello <strong>sviluppo</strong> economico europeo dal 1800 al 1913 sono la produzione di ferro e<br />

ghisa, il consumo di cotone, la produzione di carbone e i km di rete ferroviaria.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 19


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

L’ETA’ DELLE MACCHINE, DEL CARBONE E DEL VAPORE<br />

Uno sforzo convergente e comulativo: il tessile<br />

La tecnologia associata con lo sfruttamento di nuove fonti di energia fu il fattore chiave<br />

dell’eccezionale cambiamento europeo. Molte importanti innovazioni erano comunque state fatte<br />

anche in precedenza nelle industrie tradizionali (lavorazioni della porcellana, sbiancatura al cloro e<br />

processo di produzione della soda nel settore chimico, in Italia macchine per la filatura ad energia<br />

idraulica nell’industria della seta) e gli inglesi inizialmente imitarono tali tecnologie: ciò che mutò nei<br />

cambiamenti fu la continuità e la velocità del fenomeno.<br />

I benefici in termini di reddito pro capite si verificarono solo quando il progresso tecnico si estese a<br />

tutti i settori. La produzione di fabbrica non soppiantò il sistema domestico o di piccoli laboratori<br />

protoindustriale ma nuovi macchinari trovarono spazio nelle case.<br />

Nella modernizzazione delle economie europee le macchine ebbero un ruolo chiave: consentirono di<br />

aumentare la produttività cioè la produzione per lavoratore e per unità di tempo. Produssero un<br />

effetto valanga: la messa a punto in un settore di <strong>una</strong> macchina a forte produttività creava strozzature<br />

in un altro settore a monte o a valle, che stimolavano ingegneri e tecnici a scoprire nuove soluzioni: il<br />

progresso assumeva un’espansione illimitata.<br />

Nel settore tessile il punto critico era la meccanizzazione della filatura: l’inventore del filatoio<br />

meccanico fu Richard Arkwright, al quale nel 1764 si accompagnò l’invenzione della spoletta volante<br />

di James Heargraves. Negli anni 1780 la macchina diventò a vapore e permise di filare 100 libbre di<br />

cotone in 300 ore di lavoro contro le 5 mila del lavoro a mano. Erano comunque macchine costose che<br />

molti imprenditori non erano in grado di acquistare (solo nel 1815 la filatura divenne davvero<br />

meccanizzata).<br />

La tessitura rimase a mano fino al 1820 quando la meccanizzazione fu spinta dai progressi della<br />

filatura. Si affermò l’uso del cotone per la facilità di colorazione e lavaggio, elasticità dell’offerta di<br />

materia prima, adattabilità della fibra ai processi di meccanizzazione molto più che la lana.<br />

Il paradigma del carbone<br />

A segnare il cambiamento fu però il passaggio ad un nuovo paradigma energetico: il carbone.<br />

Prima la potenza europea derivava dalla buona ripartizione del manto forestale, era la civiltà del<br />

legno, che consumava circa 200 milioni di tonnellate di legna l’anno, a fine 700 in alcune regioni<br />

industriali francesi la deforestazione raggiunse livelli altissimi con gravi ripercussioni sull’ambiente e<br />

rincari del combustibile. In Inghilterra già dal 600 l’alto costo del legname, l’aumento della<br />

popolazione e la casuale disponibilità del fossile condussero alla progressiva adozione del carbone<br />

come energia termica. Nel 700, la vicinanza dei giacimenti al mare nonché lo <strong>sviluppo</strong> di <strong>una</strong> rete di<br />

canali a questo scopo, permisero di distribuire carbone con facilità (nel 700 si estrassero 3 Mt di<br />

carbone contro le 800 mila tonnellate del resto del mondo).<br />

Nel 1709 Abraham Darby, proprietario di <strong>una</strong> ferriera, produsse ghisa usando il fossile riscaldato ad<br />

alta temperatura in assenza di aria, che liberava in forma gassosa le impurità lasciando un prodotto<br />

spumoso e leggero, il carbon coke, utilizzato della lavorazione del ferro liberandola dalla dipendenza<br />

del sempre più scarso carbone di legna. Tra il 1760 ed il 1790 il procedimento al coke sostituì quello a<br />

carbone di legno.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 20


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Innescò un circolo virtuoso tra espansione del consumo di fossile, <strong>sviluppo</strong> della meccanica, decollo<br />

della siderurgia, meccanizzazione dei trasporti, ulteriore domanda di carbone: spinta propulsiva che<br />

si esaurì solo verso fine 800. Il carbone sostenne lo <strong>sviluppo</strong> e facilitò l’industrializzazione di regioni<br />

ricche di miniere.<br />

Le innovazioni fondamentali derivarono dalla combinazione di genio creativo e desiderio di<br />

abbassare i costi, arrivando prima della affermazione dei principi fisici su cui si basavano, ed il loro<br />

successo dipese spesso dalla disponibilità di innovazioni complementari: James Watt, padre della<br />

meccanica a vapore, avvalendosi dei macchine perforatrici, migliorò enormemente l’efficienza<br />

energetica e introdusse innovazioni a questa macchina che divenne il simbolo delle tecnologie della<br />

rivoluzione industriale inglese.<br />

La meccanizzazione dei trasporti aprì <strong>una</strong> nuova fase della civiltà ma anche un capitolo nuovo nella<br />

<strong>storia</strong> dell’energia: quello della sua distribuzione, con piroscafi e ferrovie che trasportavano energia<br />

fossile anche dove non ne esistevano dotazioni, diventandone grande consumatore.<br />

Per tutto il 700 la forza motrice per eccellenza rimase comunque l’energia idraulica anche in<br />

Inghilterra, e la definitiva affermazione della macchina a vapore avvenne tra il 1800 ed il 1850 grazie<br />

ad <strong>una</strong> serie di innovazioni. In questo cinquantennio la macchina fece più per la scienza di quanto<br />

questa non abbia potuto fare per essa, determinando la nascita della termodinamica e contribuendo<br />

all’elaborazione del concetto di energia.<br />

Dotazioni di risorse e combinazioni energetiche<br />

Il modello energetico instauratosi in Inghilterra era plasmato sulla dotazione di risorse del Paese:<br />

energia idraulica diffusa (utilizzata dalla meccanizzazione tessile) e abbondanza di energia fossile<br />

trasformabile in energia meccanica.<br />

Con i miglioramenti introdotti nel primo trentennio dell’800 il vapore divenne conveniente e fu<br />

addottato nelle attività più diverse, anche in miniere e ferriere che necessitavano di intensità di<br />

energia superiori. Carbone e vapore non fecero dunque la rivoluzione industriale ma ne permisero lo<br />

straordinario <strong>sviluppo</strong> e diffusione.<br />

Gli altri Paesi non imitarono pessidequamente lo <strong>sviluppo</strong> inglese ma ogni realtà adottò tecnologie<br />

congeniali alla propria dotazione di risorse, modificandole ed adattandole alle proprie specificità.<br />

Acqua, legname e carbon fossile, carbone di legna e coke si combinarono in vario modo per<br />

soddisfare le esigenze di energia dei diversi Paesi e regioni.<br />

Il binomio tessile–energia idraulica operò quasi ovunque nella prima metà dell’800, il vapore sostituì<br />

la ruota idraulica solo dove il carbone era più abbondante (Belgio) o quando se ne scoprirono<br />

giacimenti rilevanti (Germania, Usa), gli altri Paesi, sprovvisti di carbone, dovettero aspettare la<br />

rivoluzione dei trasporti per poter disporre del fossile sul mercato oppure la messa a punto di<br />

tecnologie a minore intensità di carbone (Italia). Una definitiva soluzione al problema sarebbe venuta<br />

a fine secolo con le tecnologie elettriche.<br />

In Germania la chiave del processo fu lo <strong>sviluppo</strong> del bacino carbonifero della Ruhr, che nel giro di<br />

un ventennio divenne la regione con la massima concentrazione mondiale di industria pesante, si<br />

sviluppò <strong>una</strong> moderna siderurgia a coke che costituì il motore di tutta l’industrializzazione del Reich.<br />

L’American System of Manufacturing, sistema basato sulla standardizzazione del prodotto e<br />

sull’intercambiabilità delle parti. Consisteva nel produrre meccanismi composti da parti<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 21


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

intercambiabili che si adattavano ed interagivano tra loro con precisione. Si otteneva maggiore<br />

velocità operativa e di movimentazione dei materiali. Inizialmente era applicato alla produzione di<br />

armi ma si allargò poi alle macchine agricole, da cucire, nelle pentole e serrature.<br />

La diffusione in Europa di metodi di produzione di massa fu ritardata fino alla prima guerra<br />

mondiale dalla propensione degli europei alla qualità, la loro sofisticazione dei consumi e la<br />

resistenza operaia (comportava l’eliminazione di operai specializzati).<br />

La collaborazione tra francesi, inglesi e tedeschi portò all’illuminazione a gas, sollecitata dalle<br />

esigenze della vita urbana e dalla necessità di illuminare le fabbriche per il lavoro notturno. I francesi<br />

inventarono il p<strong>allo</strong>ne aerostatico (fratelli Mongolfier, 1783).<br />

LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: ACCIAIO, CHIMICA ED ELETTRICITA’<br />

Scienza e industria: l’acciaio<br />

Fino alla metà dell’800 le invenzioni erano opera di tecnici o artigiani privi di cultura scientifica<br />

approfondita, dal 1850 (seconda rivoluzione industriale) il ruolo della scienza divenne invece sempre<br />

più importante nella genesi delle innovazioni, i progressi tecnici dell’era che si usa chiamare<br />

dell’acciaio, dell’elettricità e della chimica furono sempre più dovuti a scoperte di laboratorio.<br />

Di tutti i prodotti nuovi del XIX secolo nessuno fu più importante dell’acciaio, che assommava i<br />

vantaggi del ferro e della ghisa (plasticità, elasticità, durezza) e divenne il prodotto base dell’industria<br />

pesante di beni strumentali (macchine, navi, rotaie, armi, ponti) e di beni di consumo. Era ormai<br />

necessario costruire macchine che non avessero i difetti di robustezza ed elasticità del ferro e che<br />

costassero meno (solo nel 1880 il costo della produzione di acciaio diventò concorrenziale con quella<br />

del ferro dolce grazie a diverse innovazioni tecniche).<br />

Chimica ed energia elettrica (campi di maggiore correlazione tra scienza e industria)<br />

I prodotti si moltiplicavano man mano che le ricerche di laboratorio progredivano, prima nella<br />

chimica di base (acido solforico, 1861), poi nella chimica organica (coloranti artificiali, fertilizzanti,<br />

ecc). Il centro propulsore fu in Germania, paese che aveva la più antica tradizione di ricerca<br />

sistematica, diventando il leader incontrastato in tutte le produzioni sintetiche come quella di<br />

ammoniaca (1904) e dei nitrati (1913).<br />

Nell’elettricità gli esperimenti a fini commerciali erano iniziati fin dai primi dell’800: 1808<br />

dimostrazione dell’illuminazione elettrica di Davy, 1821 dinamo di Faraday, 1860 principio<br />

dell’autoeccitazione, 1880 prime lampadine di Thomas Edison. L’uso principale rimase nel campo<br />

della telegrafia e perché l’energia elettrica diventasse di uso comune fu necessario risolvere problemi<br />

di coerenza esistenti tra le parti del sistema (produzione, trasmissione, utilizzo). L’energia elettrica<br />

trasformò la vita quotidiana degli abitanti delle città e fece apparire nuovi prodotti come l’alluminio.<br />

La prima città ad essere illuminata fu NYC, i trasporti urbani divennero più rapidi (tram, metro) e<br />

permisero l’estensione di grandi agglomerati. L’industria e l’installazione di impianti elettrici divenne<br />

uno dei settori di punta del mondo indutriale.<br />

Gran parte delle innovazioni caratterizzanti il periodo tra il 1830 ed il 1914 vennero dalla<br />

ricombinazione di conoscenze precedenti (esemplare l’esperienza nel settore trasporti).<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 22


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

In campo energetico si passò ad un nuovo paradigma, il petrolio: scoperto in Pennsylvania nel 1859 e<br />

usato per illuminazione e lubrificazione, nel 1900 iniziò a diventare combustibile nelle navi e solo nel<br />

1914 iniziò a far concorrenza al carbone.<br />

Importanti innovazioni anche in altri settori: l’agricoltura europea beneficiò di fertilizzanti e<br />

fungicidi, le scoperte di Pasteur sull’origine dei batteri cambiarono la preparazione e conservazione<br />

dei cibi (sterilizzazione del latte), la centrifuga permise di separare il siero dal latte, le tecniche di<br />

refrigerazione permisero il trasporto di carni in tutto il mondo.<br />

Gli effetti politici e sociali di queste innovazioni furono enormi: le popolazioni agricole europee<br />

reagirono adottando politiche protezionistiche e la concorrenza stimolò la crescita di politiche di<br />

innovazione. Anche il mondo dell’informazione fu investito da cambiamenti, il più grande la<br />

macchina da scrivere che rivoluzionò l’organizzazione ed il funzionamento degli uffici, e nella<br />

stampa la rotativa.<br />

Ritmi e modalità di adozione delle nuove tecnologie dipesero da ragioni economiche ma anche dal<br />

funzionamento dei sistemi sociali nel loro insieme, dalle istituzioni e dai valori, rientrando nelle<br />

questioni più generali di <strong>sviluppo</strong> economico. La tecnologia non è <strong>una</strong> scatola nera liberamente<br />

accessibile (Nathan Rosenberg), fattori nazionali e locali specifici possono influenzare direttamente il<br />

cambiamento tecnico dandogli tratti nazionali oppure ostacolarlo attraverso l’assenza di capacità<br />

sociali come il livello dell’educazione, l’organizzazione politica e commerciale, le istituzioni<br />

finanziarie.<br />

GLI ATTORI DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE<br />

L’imprenditore è il vero motore del sistema capitalistico, e il proprietario dei mezzi di produzione, le<br />

macchine e le fabbriche (capitale fisso), materie prime, risorse finanziarie (capitale circolante).<br />

Organizza la produzione, decide di investire per innovare le tecnologie, i prodotti o le modalità<br />

organizzative, assume gli operai come salariati e vende i prodotti. Reinveste il profitto nell’impresa,<br />

consentendone lo <strong>sviluppo</strong>. Non può controllare il mercato e se ne assume il rischio.<br />

Le imprese, durante la fase di avvio all’industrializzazione erano un universo di piccole e autonome,<br />

incapaci di esercitare influenza sui prezzi, formavano <strong>una</strong> concorrenza perfetta, gli imprenditori si<br />

proponevano di conseguire il più alto rendimento possibile dai capitali investiti più che di realizzare<br />

un determinato volume di produzione. Nel XIX secolo comparvero imprese di grandi dimensioni che<br />

tendevano a conquistare posizioni dominanti capaci di imporre le loro decisioni e guidare i prezzi<br />

dominando il mercato (oligopolio o monopolio).<br />

Fino al 1860 la maggior parte delle imprese erano di piccola o media produzione, il cui capitale<br />

apparteneva ad un individuo solo o con qualche partner con responsabilità solidale ed illimitata dei<br />

soci (società in nome collettivo), sostituite poi dalla società anonime per azioni, in cui gli azionisti<br />

erano responsabili solo per le somme che avevano sottoscritto (s.r.l.), la cui adozione presupponeva la<br />

liberazione da alcuni vincoli statali.<br />

Parallelamente si rafforzano le concentrazioni industriali: un ristretto numero di imprese dominava la<br />

produzione di un intero settore, crescita dimensionale avviata per realizzare sempre maggiori<br />

economie di scala dato dal forte peso dei costi fissi. Per fronteggiare la concorrenza di beni a prezzi<br />

inferiori si cercarono soluzioni per combattere la concorrenza anarchica: nell’industria carbonifera e<br />

siderurgica i cartelli (tedeschi) stipulavano contratti che fissavano i volumi produttivi, i prezzi di<br />

vendita e le ripartizioni degli utili, in quella chimica ed elettrica prevalevano le fusioni di imprese, i<br />

trust americani (soprattutto nell’industria petrolifera con <strong>una</strong> spietata guerra di tariffe guidata da<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 23


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Standard Oil, di William Rockefeller). Le enormi concentrazioni avvenute tra il 1898 ed il 1906<br />

sconvolsero le regole minando i fondamenti della libera impresa e portarono alla legislazione atitrust<br />

(legge Sherman 1890).<br />

Le banche ebbero inizialmente un ruolo debole limitato al finanziamento del commercio<br />

internazionale ed il collocamento dei prestiti governativi. Il sistema si fondava su banche centrali<br />

controllate da pochi ricchi azionisti che anticipavano i soldi <strong>allo</strong> Stato ed erano le banche delle banche,<br />

poi banche provinciali per i commercianti e piccoli industriali, e grandi banche private poco attratte<br />

dal prestito commerciale.<br />

Col procedere dell’industrializzazione il crescente bisogno di credito spinse alla creazione di nuove<br />

istituzioni bancarie che rastrellavano i capitali dei piccoli risparmiatori con nuove tecniche (conti<br />

correnti, depositi) e li prestavano ad interessi più alti.<br />

C’erano banche di deposito, che disponevano di ingenti risorse (passivo) date dai depositi a breve<br />

termine e da <strong>una</strong> rete di filiali, e negli impieghi (attivo) si dedicava alle operazioni ordinarie di<br />

anticipazione su titoli e scoperti sui conti correnti, e banche d’affari, senza filiali, con depositi di<br />

medio e lungo periodo di ricchi capitalisti e di società, contava sul capitale proprio versato e si<br />

assumeva più rischi occupandosi di investimenti a lungo termine, partecipazioni al capitale, prestiti ai<br />

governi, etc.<br />

In Inghilterra c’erano poche banche d’affari e la forza del sistema si basava sulla specializzazione<br />

delle funzioni, per esempio banche di deposito concentrate in un territorio che conoscevano alla<br />

perfezione. Poco per volta le banche private vennero assorbite dalle banche per azioni o si fusero tra<br />

loro: nel 1914 le big five, le cinque banche di Londra, prevalentemente ad origine provinciale,<br />

controllavano la maggior parte dei sistemi finanziari.<br />

In Francia c’era meno specializzazione, poca propensione al rischio, orientamento al credito a breve<br />

termine: prudenza gestionale. Il Credit mobilier, fondato dai fratelli Pereire, era <strong>una</strong> società a<br />

contratto con l’industria che controllava tutti i capitali investiti in certi settori ma morì sotto il peso<br />

dei debiti.<br />

In Germania il legame tra banca ed industria era molto forte. Le più grandi banche, tra cui Deutsche<br />

bank (1870), erano banche commerciali che davano credito a breve termine ed insieme banche<br />

d’investimento indirizzate a crediti a lungo termine: banche miste che seppero sostenere le società<br />

industriali nella formazione e negli aumenti di capitale, collocandone le azioni presso il pubblico. Per<br />

ridurre i rischi seppero favorire la protezione del mercato interno e la costituzione di cartelli tra<br />

imprese: in paese relativamente povero le banche furono il principale agente della trasformazione, e<br />

divennero modello per molti altri Paesi tra cui l’Italia.<br />

Le istituzioni pubbliche (Stato, collettività locali) furono un altro importante attore per la crescita<br />

<strong>economica</strong> del XIX secolo: Paesi a forte autonomia locale come la Gran Bretagna o gli Stai Uniti si<br />

affidarono più <strong>allo</strong> spirito d’impresa di singoli individui, grandi Paesi con importanti apparati statali<br />

quali Francia o Prussia videro lo Stato intervenire in modo più pesante, e nei Paesi secondi arrivati lo<br />

Stato fu un essenziale agente sostitutivo alla debolezza della borghesia e scarsità di capitale.<br />

Il generale lo Stato tendeva a limitare le proprie spese, ricorreva ad imposte indirette sui consumi<br />

piuttosto che a quelle dirette, e sul patrimonio, aumentando così le disuguaglianze sociali,<br />

incoraggiando gli investimenti e riducendo i consumi. Attraverso la legislazione promuovè la libera<br />

impresa eliminando antiche restrizioni, protesse le invenzioni con i brevetti, controllò le frodi<br />

regolamentando banche. In certi casi intervenne in aiuto di industrie in difficoltà o si fecce esso stesso<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 24


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

imprenditore (Francia, regie des tabacs 1811). Alcune città alla fine del XIX secolo municipalizzarono<br />

la distribuzione del gas, elettricità, trasporti urbani.<br />

Il contributo più importante dello Stato <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> fu nel campo dell’istruzione ed educazione,<br />

associate a tre concetti:<br />

- Sviluppo: l’innovazione tecnologica richiedeva la creazione di un sistema scolastico di<br />

base e scuole di specializzazione di livello superiore. Gli Usa furono tra i primi a svilupparlo, in<br />

Francia naquero instituzione quali l’Ecole Politecnique da cui lo Stato trasse i propri quadri ed altre<br />

scuole locali di arti e mestieri di però basso livello di base, in Inghilterra l’insegnamento divenne<br />

gratuito solo nel 1891, ma il sistema non seppe stare al passo con la complessità tecnologica crescente,<br />

e questo determinò il sorpasso tedesco.<br />

- Declino: il caso dell’Inghilterra mostra come la mancanza di educazione porta ad <strong>una</strong><br />

perdita di posizioni economiche acquistate, inibisce lo <strong>sviluppo</strong>. Oxford e Cambidge davano grande<br />

preparazione umanistica ma tralasciavano completamente quella tecnico-scientifica; il problema non<br />

fu la qualità ma la tipologia.<br />

- Cambiamento: tra i fondamentali fattori di <strong>sviluppo</strong> ci sono la formazione e la<br />

riproduzione di competenze e conoscenze sia specifiche che ad alto potenziale innovativo. La scuola<br />

va considerata all’interno di un più ampio insieme di attori che costituiscono la società.<br />

I PERCORSI NAZIONALI<br />

Nel corso dell’800 lo <strong>sviluppo</strong> industriale era alla base della potenza politica e militare nelle nazioni;<br />

nei rapporti tra le potenze le tonnellate di ghisa contavano più degli uomini. La nuova geografia<br />

industriale si disegnava attorno ai bacini ricchi di carbone cokizzabile che consentivano lo <strong>sviluppo</strong><br />

dell’industria pesante e dei beni strumentali (i Paesi neri dell’Inghilterra, Galles e Scozia, la Loira, la<br />

Ruhr prussiana), oppure dove le esperienze industriali precedenti avevano trovato nuovi sviluppi, la<br />

manodopera era qualificata ed abbondante o i trasporti erano facili (grandi città come Londra e<br />

Parigi, fascia prealpina del Nord-Italia, regioni tessili dell’Alsazia e Svizzera).<br />

La Gran Bretagna godè di <strong>una</strong> supremazia schiacchiante durante la prima metà del secolo, il suo<br />

<strong>sviluppo</strong> tecnico assicurò prezzi bassi alle sue stoffe di cotone prodotte in grande quantità e gli<br />

imprenditori erano sostenuti dal clima di liberalismo, dal dinamismo del mercato interno e<br />

dall’abbondanza di materie prime e di carbone. Fino agli anni 80 mantenne la prima posizione per poi<br />

retrocedere e ritrovarsi nel 1914 al terzo posto dopo USA e Germania, che insieme alla Francia<br />

producevano il 71,2% dei manufatti mondiali.<br />

I suoi concorrenti diretti uscirono dalle guerre napoleoniche con ritardi da recuperare e grossi<br />

svantaggi come condizioni naturali meno favorevoli, scarsità di carboni facili da estrarre e<br />

trasformare in coke, capitali meno abbondanti, mentalità più attaccata all’impresa familiare, carenza<br />

di tecnici e operai specializzati. La legge inglese inoltre proibiva (fino al 1825) esportazioni di<br />

personale e di progetti di macchine.<br />

Il rallentamento dell’economia inglese, giunta con grande anticipo alla piena maturità ed <strong>allo</strong><br />

sfruttamento delle proprie risorse, è dovuta anche a motivi sociali, come industriali poco innovatori e<br />

manageriali che si attardano nelle vecchie produzioni e tecnologie ed erano orientati al rendimento<br />

finanziario immediato più che all’efficienza tecnica, e la scuola che si occupò poco della formazione di<br />

base e dei quadri tecnici.<br />

L’industria degli Stati Uniti era favorita dall’abbondanza di risorse naturali ben localizzate e<br />

facilmente sfruttabili, dalla protezione doganale che riservò agli imprenditori il mercato interno più<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 25


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

dinamico al mondo, dalla crescita demografica prodotta dalle ondate migratorie, dall’ambiente<br />

sociale favorevole all’accumulazione delle ricchezze materiali e all’adozione di tecniche moderne<br />

(dovuta alla carenza di manodopera e quindi l’alto costo del lavoro), all’equilibrio tra tutti i comparti<br />

produttivi e le diverse aree del paese e dalla crescita di grandi imprese nei settori strategici dello<br />

<strong>sviluppo</strong>.<br />

Il Belgio fu il Paese che più si conformò al modello inglese per similarità di risorse naturali, lunga<br />

tradizione marittima, commerciale e manifatturiera, e contiguità territoriale. In epoca napoleonica<br />

aveva beneficiato del mercato francese, poi fu accorpata ai Paesi Bassi e divenne indipendente nel<br />

1830. Il sistema industriale era forte: attività mineraria e metallurgica, polo laniero più potente sul<br />

continente, meccanizzazione del lanificio, industria cotoniera, meccanica e siderurgica. Più tardi<br />

zuccherifici, vetrerie, cantieri navali, ferroviari e tranvari, industria chimica. Sperimentò inoltre un<br />

originale strumento finanziario di sostegno all’attività industriale, <strong>una</strong> banca di investimenti (1830)<br />

che deteneva pacchetti azionari di imprese e ne creava seguendone gli interessi. La banque del<br />

Belgique, creata nel 1835, fondò e rilevò in 4 anni ben 24 imprese industriali. Lo Stato ebbe un ruolo<br />

importante nella costruzione di ferrovie e nel 1840 il Belgio era il paese più industrializzato del<br />

continente, e tale rimase fino al 1914.<br />

La Francia, svantaggiata da istituzioni e mentalità imprenditoriale poco adatte <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong><br />

industriale e dalla scarsità di carbone, mantenne fino al 1850 in primo piano gli interessi agricoli pur<br />

raggiungendo importanti sviluppi nel settore cotoniero, siderurgico e meccanico. I tre quarti<br />

dell’output industriale provenivano dalla manifattura artigianale di beni di lusso ad alto valore<br />

aggiuntivo (industrie naturali) che godevano di alto prestigio e radicate tradizioni. Già seconda<br />

potenza commerciale al mondo, la crescita accelerò quando la mano pubblica (Napoleone III, secondo<br />

Impero) intervenne nella costruzione di <strong>una</strong> rete ferroviaria e telegrafica, ma pesò negativamente la<br />

sconfitta nella guerra franco prussiana con la perdita dell’Alsazia-Lorena, la recessione degli anni 80,<br />

le epidemie nel settore vitivinicolo, le guerre commerciali con l’Italia e in generale la svolta<br />

protezionistica del periodo che penalizzava un Paese principalmente esportatore, il rallentamento del<br />

mercato interno dovuto alla bassa crescita della popolazione.<br />

I punti di debolezza strutturali erano le piccole dimensioni aziendali sia in agricoltura che nelle<br />

attività manifatturiere, il dualismo tra un ampio settore di produzioni artigianali di nicchia e poli<br />

industriali moderni localizzati intorno ai grandi centri urbani, la dipendenza energetica dalla forza<br />

idraulica (l’elettricità consentì un recupero all’esordio del nuovo secolo che ebbe il suo settore<br />

trainante nell’industria automobilistica).<br />

La Germania grazie ai suoi rapidissimi sviluppi divenne la seconda potenza mondiale, il più temibile<br />

rivale continentale dell’Inghilterra. Le industrie avevano alla base attività di laboratorio, erano<br />

orientate più all’efficienza tecnica che al rendimento, e la Germania fu la prima nazione ad introdurre<br />

un sistema di previdenza sociale (1880). Il decollo avvenne dopo l’unificazione nel 1871 e si fondò<br />

sull’attiva partecipazione dello Stato e sui forti legami con le banche (ruolo propulsivo della banca<br />

mista) che iniziarono col finanziare le costruzioni ferroviarie, per poi estendersi ai settori a monte<br />

(industria mineraria, siderurgica e meccanica) ed a tutto il mercato. Il modello di <strong>sviluppo</strong> si<br />

configurò come capitalismo organizzato o capitalismo manageriale cooperativo, i cui aspetti più<br />

significativi furono la tendenza alla concentrazione degli impianti ed il conseguente rafforzamento<br />

del ruolo della grande impresa (big business), forte legame tra scienza ed industria, e l’affermazione<br />

di cooperazioni tra imprese dello stesso settore attraverso accordi di cartello per eliminare la<br />

concorrenza, stabilire i prezzi e i profitti, che divennero legittimi nel 1897 (106 nel 1890, 385 nel 1905)<br />

I settori di punta, meccanica industriale pesante (elettromeccanica), metallurgica e chimica (Bayer,<br />

aspirina, coloranti) producevano beni strumentali e non di consumo, si imposero sui mercati<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 26


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

internazionali con aggressive politiche di marketing e richiedevano pesanti investimenti iniziali<br />

(banche) e sfruttavano i vantaggi delle economie di diversificazione e di scala.<br />

L’Impero Asburgico imitò il sistema finanziario tedesco ed i suoi cartelli ma la situazione <strong>economica</strong><br />

era ben diversa: non si era modernizzata, l’apertura del mercato era bassa, l’industria era<br />

prevalentemente leggera (alimentare, tessile, vetro, carta) e all’interno dei suoi vasti territori le<br />

situazioni erano diversissime, Austria, Boemia e regioni italiane erano le più avanzate, seguivano<br />

Slovacchia, Ungheria e Slovenia, mentre il resto dell’Impero era tra le aree più arretrate del<br />

continente.<br />

La Russia annegava nell’enorme estensione territoriale i pur significativi progressi compiuti:<br />

possedeva (1914) il maggior chilometraggio di ferrovie in Europa, produceva la stessa quantità di<br />

acciaio ed elettricità della Francia, ma il reddito pro capite era di un terzo rispetto agli inglesi, il 75%<br />

della forza lavoro era occupato in agricoltura, il 72% era analfabeta e solo il 15% viveva in zone<br />

urbane. Lo zar Alessandro II abolì nel 1861 la servitù della gleba ma l’effettiva liberazione delle terre<br />

avvenne solo nel 1907. Lo Stato svolse un ruolo molto attivo come agente sostitutivo nei canali privati<br />

di investimento, seppe attirare investimenti stranieri, protesse le industrie siderurgiche, sussidiò gli<br />

investitori. Il capitale straniero svolse un ruolo fondamentale per saldare il debito pubblico, utilizzato<br />

nella costruzione di ferrovie e nel finanziamento alle società per azioni: per far questo lo stato tassò i<br />

redditi già bassi restringendo la domanda privata e quindi penalizzando le industrie di beni di<br />

consumo, facendo invece decollare grazie alla domanda pubblica dagli anni 80 l’industria pesante<br />

(carbone, acciaio, macchine) legata a ferrovie ed armamenti non solo nelle aree industriali di Mosca e<br />

San Pietroburgo ma anche negli Urali, in Ucraina e Polonia.<br />

La Spagna presentava un’agricoltura arretrata ed un livello di istruzione carente, a parte la Catalogna<br />

(industria cotoniera, meccanica, trasporti, elettrica) ed i Paesi baschi (industria siderurgica). Nell’800<br />

la crescita fu quindi lenta e limitata.<br />

L’Italia, che nella sua stagione d’oro tardo medievale e rinascimentale aveva primeggiato nei<br />

commerci, manifatture e banche, concentrò le proprie attività industriali nella fascia tra l’alta pianura<br />

padana e le valli prealpine data la ricchezza di energia idraulica e la presenza di manifatture<br />

tradizionali favorite da un mix abbondante di materie prime. In un dominante contesto agricolo<br />

prevalevano piccole unità produttive e lavorazioni artigianali nel tessile, con la produzione di seta<br />

semilavorata, in crescita il cotoniero, arretrati invece la siderurgia e la meccanica.<br />

Nella prima metà dell’800 i territorio era stato sconvolto dal periodo napoleonico, dalla dominazione<br />

austriaca con la successiva frammentazione degli Stati preunitari con profonde differenze nelle<br />

strutture economiche, infrastrutture, nei livelli di istruzione e nelle condizioni socio-culturali che<br />

resero estremamente difficile il lavoro dei governanti nel porre le basi dell’unificazione. Essi<br />

effettuarono <strong>una</strong> vasta opera di modernizzazione istituzionale adottando <strong>una</strong> legislazione liberista ed<br />

<strong>una</strong> delle più avanzate leggi sull’istruzione (Casati), ed infrastrutturale sviluppando reti di ferrovie,<br />

strade e porti, le strutture educative, ricorrendo alla leva fiscale per procurarsi tali risorse.<br />

L’Italia era penalizzata dalla mancanza di carbone, dalla ristrettezza del mercato interno,<br />

dall’insufficiente accumulazione di capitali e di sistemi di finanziamento, dal basso livello<br />

dell’istruzione e da un quadro culturale non favorevole ad un mutamento strutturale del sistema<br />

economico. Il ruolo dello stato nello <strong>sviluppo</strong> fu da subito importante anche se diede preminenza ai<br />

consolidati interessi agricolo-commerciali e finanziari anche se con l’irrobustirsi delle attività<br />

secondarie, con il maggiore sostegno governativo dato dalla Sx storica e con gli effetti della crisi<br />

agraria che indusse al protezionismo, gli industriali ebbero più ascolto portando al decollo tra il 1896<br />

ed il 1913: nell’ultimo ventennio del secolo tutti i settori industriali decollarono, con preminenza del<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 27


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

tessile ma anche nella cantieristica, siderurgia, produzione materiale ferroviario ed armeria,<br />

produzione di elettricità (nel 1914 era uguale a quella della Francia), si avviò anche il settore<br />

automobilistico (Fiat 1899) e della gomma (Pirelli 1872). La forza produttiva si concentrava nel<br />

triangolo industriale (Torino, Milano, Genova), in parte del Veneto e del centro Italia, rimanendo<br />

condizionate dai permanenti squilibri regionali.<br />

2.4 LA RIVOLUZIONE NEI TRASPORTI E NELLE COMUNICAZIONI<br />

Strade e canali<br />

Alla fine del 700 il commercio era ancora vincolato alla forza animale o alla navigazione lungo fiumi o<br />

coste. I nuovi mezzi di trasporto (ferrovia, nave a vapore, telegrafo) non determinarono la rivoluzione<br />

industriale iniziata prima del loro avvento, ma la accelerarono ed estesero, oltre che trasformare il<br />

tradizionale rapporto dell’uomo con lo spazio e le dimensioni del pianeta. Il trasporto, ancor più nel<br />

900 con l’automobile e l’aereo, non fu più soltanto uno strumento mercantile di scambio ma divenne<br />

esso stesso parte rilevante dei mezzi di produzione.<br />

Uno dei prerequisiti della rivoluzione industriale inglese fu comunque la costruzione di un fitto<br />

sistema di canali che permetteva di abbattere il costo di trasporti di circa tre quarti rispetto al<br />

trasporto via terra. Sulla costruzione di canali e strade si diressero fin dal 1840 i principali<br />

investimenti, nel 1836 le strade a pedaggio inglesi (turnpikes, a capitali privati curate da trusts,<br />

consorzi locali) raggiungevano le 22 mila miglia, arrivando a raggiungere i più isolati villaggi, mentre<br />

in molte altre parti d’Europa la manutenzione si limitava alle strade maggiori per lo spostamento<br />

delle truppe.<br />

La Francia era il Paese con la migliore rete di comunicazioni: finanziamenti pubblici già dal 1750<br />

favorirono il miglioramento delle già estese reti, nuovi sistemi di costruzione erano dovuti a scuole<br />

specifiche per la formazione di ingegneri e di direttori dei lavori stradali. All’inizio dell’800 ai 33 mila<br />

km di strade maestre se ne aggiunsero altri per gli spostamenti delle truppe in Belgio, Germania e<br />

Nord Italia (per il resto dell’Italia si dovette attendere l’unità per il potenziamento).<br />

Il costo dei trasporti terrestri diminuì di 4 volte grazie a diligenze più leggere, e nonostante l’avvento<br />

della ferrovia fece cadere in dusiso il trasporto a cav<strong>allo</strong> su lunghe distanze, questo si usò sulle brevi<br />

sino al primo 900.<br />

Fiumi e acque rimanevano la via meno onerosa e il trasporto interno venne ulteriormente solleccitato<br />

dalla maggiore domanda dovuta dall’aumento della popolazione, dalla riduzione dei costi di<br />

trasporto e dall’invenzione dei battelli a vapore (1812) che risolvevano le difficoltà del trasporto<br />

controcorrente: in Inghilterra la costruzione di canali venne intensificata per tutti i primi 40 anni<br />

dell’800, in Francia ci si concentrò principalmente sulle aree industriali per unire le regioni<br />

carbonifere ai mercati urbani, in Germania fu tarda e solo tra il 1873 ed il 1914 vennero costruiti 6600<br />

km di canali.<br />

Avvento e <strong>sviluppo</strong> delle ferrovie<br />

La più importante invenzione del XIX secolo: il suo successo non fu dovuto ad un vantaggio tariffario<br />

ma alla migliore organizzazione, rapidità e versatilità del servizio. È il risultato della combinazione di<br />

elementi già esistenti prima dell’800: binari, carrelli e macchina a vapore che grazie all’invenzione<br />

della locomotiva (1825) divenne autonoma e dimostrò empiricamente la sua economicità sia per il<br />

trasporto di merci che di passeggeri (prima linea Liverpool-Manchester,1829). Da <strong>allo</strong>ra l’evoluzione<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 28


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

punta alla ricerca di <strong>una</strong> velocità elevata e del massimo di energia possibile in grado di consentire<br />

trasporti di massa. L’acciaio che negli anni 70 sostituì ghisa e ferro aumentò la resistenza delle rotaie e<br />

la capacità dei vagoni, e continui progressi migliorarono il rendimento della ferrovia, l’aumento della<br />

sua estensione fu eccezionale (da 7200 nel 1840 a 925 mila nel 1906). All’inizio del XX secolo il 70% del<br />

chilometraggio mondiale era di compagnie capitalistiche, il restante 30 dello Stato (in Inghilterra<br />

erano unicamente di proprietà privata, in Italia statali).<br />

In Inghilterra il parlamento spese in ferrovie solo nel 1835 più di quanto aveva spesa per la<br />

costruzione di tutti i canali, era un settore che attraevagli investitori, rappresentava più che un fattore<br />

per il futuro <strong>sviluppo</strong> economico uno strumento necessario per sostenere l’industrializzazione già in<br />

atto, per soddisfare la domanda di trasporto di un paese già industriale: le ferrovie, anziché causa<br />

furono conseguenza dello <strong>sviluppo</strong>, evitando quindi problemi di inadeguatezza dell’industria<br />

meccanica e metallurgica. Le ferrovie erano finanziate da privati e si svilupparono senza<br />

coordinamento nel territorio fino al 1842 quando venne creato un organismo apposito.<br />

Per gli Stati Uniti, secondi nella corsa alla ferroviarizzazione, il fattore stimolante fu la domanda<br />

proveniente dall’agricoltura, divenendo a sua volta occasione di industrializzazione, così come<br />

successe in Belgio, Francia e Germania quindi la costruzione di ferrovie assunse un forte ruolo di<br />

modernizzazione dando impulso all’industria metalmeccanica, attivando sistemi di finanziamento ad<br />

hoc e di gestione su larga scala.<br />

In Belgio grazie alle piccole dimensioni, si costruì la prima rete continentale, ad iniziativa dello Stato,<br />

che stimolò lo <strong>sviluppo</strong> della siderurgia e meccanica per sostituire le importazioni inglesi. Le linee<br />

secondarie vennero lasciate all’iniziativa privata, ma poi riscattate d<strong>allo</strong> Stato che nel 1914 possedeva<br />

il 95% del chilometraggio totale.<br />

La Germania fu la sola altra impegnata nella stagione pioneristica delle costruzioni ferroviarie (ante<br />

1850), puntò sull’iniziativa governativa (ruolo militare e politico), su quella privata e su capitali esteri,<br />

costruì in modo spartano, dal 1843 la metà della produzione di locomotive era interna.<br />

In Francia il vero decollo si ebbe con il Secondo Impero, ed il superamento delle ostilità dei fautori del<br />

completamento dei canali. La vastità del paese rendeva difficile il finanziamento pubblico, il sistema<br />

dominante fu quindi la concessione temporanea all’industria privata sotto il controllo statale: il<br />

governo decideva la struttura della rete, acquistava terreni, infrastrutture e stazioni mentre le società<br />

si assumevano gli oneri relativi a materiale rotabile, personale e organizzazione del servizio.<br />

Fu il ventennio 1850-1870 ad essere definito l’età d’oro della ferrovia, vide strutturarsi le reti<br />

continentali europea e Nord-americana. La Francia ebbe lo <strong>sviluppo</strong> migliore grazie alla garanzia<br />

statale, in Italia il sistema si sviluppò ad iniziativa statale dopo l’unificazione per l’italianizzazione,<br />

con accentuata dipendenza dall’estero sia per capitali che per materiali, la rete si estese accentuando<br />

gli squilibri.<br />

Le ferrovie fecero scomparire le diligenze e ridussero il traffico stradale, le vie d’acqua si mantennero<br />

per le merci voluminose e pesanti abbandonando il trasporto di persone e posta. Nell’ultimo<br />

ventennio del secolo si completarono le reti locali ed i collegmanti internazionali (trafori alpini) e<br />

intercontinentali.<br />

Trasporti marittimi<br />

L’affermazione della nave a vapore fu molto più graduale di quella della ferrovia sia per la sua lenta<br />

evoluzione nel ridurre i consumi e carico di combustibile, ma anche per la concorrenza della<br />

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Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

marineria a vela che aveva migliorato velocità e manovrabilità. L’apertura del canale di Suez (1869)<br />

abbreviò i percorsi per India ed Oceania e spostò le rotte su mari meno ventosi.<br />

Fino al 1850 i progressi del vapore furono più sensibili nella navigazione fluviale che in quella<br />

marittima, e la nave a vapore era ancora fornita di velatura (fino al 1880). Fu nel 1860 che si<br />

verificarono progressi decisivi: il ferro, e dal 1879 l’acciaio sostituirono il legno degli scafi diminuendo<br />

le spese di manutenzione e l’usura, l’elica eliminò le pale, il numero dell’equipaggio, i costi di<br />

funzionamento e le quantità di carbone diminuirono, aumentando gli spazi per i passeggeri o alle<br />

merci. All’inizio del XX secolo i piroscafi acquisirono la supremazia: il trasporto merci/passeggeri si<br />

specializzò.<br />

Anche l’industria navale crescette in parallelo, la predominanza inglese rimase un elemento chiave<br />

della sua potenza e fonte di entrate, possedendo metà delle navi europee.<br />

Le conseguenze economiche<br />

Funzione passiva mezzi di trasporto: trasferimento beni e persone. Funzione attiva: promuovere e<br />

moltiplicare lo <strong>sviluppo</strong>, riducendo i costi liberano risorse che possono essere destinate ad altri<br />

consumi a sostegno della crescita <strong>economica</strong>. Tra le principali conseguenze della rivoluzione dei<br />

trasporti c’è la riduzione dei prezzi dei noli marittimi per l’intensificarsi della concorrenza (più per le<br />

navi a vela), e il ribasso delle tariffe ferroviarie. Questo aumentò la mobilità delle persone agevolando<br />

i contatti, gli scambi e le interdipendenze economiche e sociali. Vennero inoltre stimolati settori a<br />

monte dando particolare stimolo alle industrie di costruzioni, alla siderurgia, alla meccanica ed ai<br />

servizi. Si crearono le prime grandi imprese di tipo capitalistico che svilupparono i primi ambiti di<br />

impiego manageriale.<br />

Il telegrafo e la globalizzazione dell’informazione<br />

1835, Morse inventa il telegrafo che a partire dal 1843 consente di mettere in comunicazione quasi<br />

reale città e continenti diversi. La circumnavigazione del globo via cavi si completò nel 1902, più della<br />

metà dei quali era controllata dagli inglesi, il che consolidò la posizione di Londra come centro del<br />

mercato mondiale.<br />

Mezzo secolo dopo il telefono si affermò come strumento commerciale e solo a fine secolo si estese<br />

alla comunicazione privata. Le prime trasmissioni radio di Guglielmo Marconi sono del 1896 e posero<br />

le basi alla comunicazione di massa.<br />

2.5 SCAMBI INTERNAZIONALI E SISTEMI MONETARI<br />

L’Europa e l’economia mondiale<br />

Nel corso dell’800 lo <strong>sviluppo</strong> del commercio internazionale conobbe un incremento prodigioso: il<br />

mondo divenne un mercato unico ed era l’Europa, già al centro della fitta rete di commerci con le<br />

Americhe, l’Asia e l’Africa, che dominava gli scambi. Protagonista assoluto il Regno Unito che<br />

controllava nell’800 il 36% del commercio mondiale (14% nel 1914), secondo posto a distacco per la<br />

Francia, superata all’inizio del XX secolo da Germania e Stati Uniti. L’economia internazionale<br />

diventava sempre più complessa consolidando nell’800 le relazioni già esistenti e formando nuovi<br />

equilibri, e si mantenne sotto il segno del gold standard.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 30


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Tra il 1815 ed il 1914 influirono sulle relazioni commerciali:<br />

- il progresso tecnologico permise un aumento dei traffici richiedendo nuove materie<br />

prime da importare (cotone dall’Asia e dalle Americhe) e proponendo nuovi prodotti da piazzare su<br />

mercati extraeuropei;<br />

- la rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni che consolidò <strong>una</strong> serie di rapporti<br />

commerciali e legami politici, e ridusse i costi di trasporto di merci;<br />

- la crescita della popolazione mondiale che passò da 900 milioni nel 1800 a 1,6 miliardi<br />

nel 1900, facendo nascere nuovi fenomeni di migrazioni, rendendo il lavoro più mobile, aumentando<br />

la richiesta di beni di consumo (l’Europa dipese a livello alimentare sempre più da produzioni<br />

extraeuropee);<br />

- l’accumulazione di capitali con <strong>una</strong> forte partecipazione d’investimenti stranieri<br />

(Inghilterra a parte) attratte da performance di <strong>sviluppo</strong> elevate.<br />

Liberalismo e <strong>sviluppo</strong> del commercio internazionale<br />

Grazie al ribasso dei costi di trasporto, l’aumento della varietà dei prodotti e del potere d’acquisto<br />

delle popolazioni, nel corso dell’800 lo <strong>sviluppo</strong> del commercio internazionale conobbe un<br />

incremento straordinario, registrando il tasso di crescita più elevato tra il 1842 al 1873, periodo del<br />

libero scambio (dagli anni 70 alla prima guerra mondiale vi fu un aumento del protezionismo) che<br />

incise più fortemente sul PIL dei Paesi più piccoli che potevano specializzarsi in <strong>una</strong> gamma ristretta<br />

di prodotti, questi furono infatti i più favorevoli, mentre Paesi grandi come Stati Uniti o Russia furono<br />

i più protezionisti, così come i Paesi in corso di industrializzazione. Vi fu inoltre un processo di<br />

multilateralizzazione: i Paesi non dovevano bilanciare esortazioni ed importazioni con ogni singolo<br />

partner ma nell’aggregato.<br />

Il pensiero liberista dell’800 (David Ricardo, scuola classica) riteneva che <strong>una</strong> volta superate le<br />

barriere naturali bisognasse superare anche quelle artificiali, dazi e proibizioni. Il libero commercio<br />

permetteva la specializzazione del lavoro aumentando la produttività globale del sistema e rendendo<br />

più efficiente l’uso delle risorse, costituendo un importante fattore di modernizzazione per i Paesi<br />

inseguitori. Nessun paese comunque arrivò <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> industriale con completa libertà di<br />

commercio, il protezionismo serviva a promuovere lo <strong>sviluppo</strong> di settori industriali ancora in<br />

embrione.<br />

Tra 600 e 700 la maggior parte degli Stati europei aveva abbracciato le teorie mercantiliste: perché<br />

l’economia di <strong>una</strong> nazione fosse prospera bisognava che le esportazioni superassero le importazioni,<br />

lo Stato doveva intervenire nel fissare protezioni nel flusso di merci straniere, e incentivazioni<br />

sull’esportazione di prodotti. Fu in Inghilterra del 1750 che presero forma nuove visioni: Adam Smith<br />

(1776) riteneva che la ricchezza delle nazioni poteva aumentare <strong>allo</strong>cando meglio le risorse, la mano<br />

invisibile del mercato avrebbe portato all’equilibrio ottimale, David Ricardo (1819) mostrò con la<br />

legge dei costi comparati i vantaggi della specializzazione e della divisione internazionale del lavoro.<br />

Gli Stati Uniti adottarono le teorie di protezionisti come l’americano Hamilton che voleva il libero<br />

scambio a seconda del livello di <strong>sviluppo</strong> economico di <strong>una</strong> nazione, o del tedesco List che sostenne<br />

che il liberalismo avvantaggia i Paesi già sviluppati ed impedisce agli altri di industrializzarsi, e che il<br />

passaggio ad un regime industriale può avvenire solo con l’ausilio di un regime protezionistico. Fino<br />

al 1913 l’economia americana fu <strong>una</strong> delle più protette dalla concorrenza.<br />

Corn laws: complicato sistema di dazi sul grano d’importazione introdotto dagli inglesi e tipico di<br />

legislazioni che vogliono ridurre l’imposta diretta concentrando il carico sui dazi doganali relativi ai<br />

consumi, variabili a seconda del prezzo interno del grano al fine di proteggere i produttori interni e<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 31


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

gli interessi dei grandi proprietari terrieri che vedevano i prezzi mantenuti elevati, scaricando il costo<br />

economico e sociale sui ceti meno abbienti e rendendo quasi impossibile l’importazione di cereali.<br />

Contro tali leggi l’industriale di Manchester Richard Cobden formò <strong>una</strong> lega, sostenendo che<br />

l’industria britannica dipendeva dalle condizioni atmosferiche che influivano i raccolti: un cattivo<br />

raccolto determinava un aumento del prezzo del pane, diminuzione del consumo di altri prodotti,<br />

disoccupazione, calo delle importazioni ed esportazioni. Per combattere le crisi economiche i governi<br />

accettarono i suggerimenti e dal 1842 iniziarono a ridurre i dazi per arrivare al definitivo trionfo del<br />

libero scambio nel 1860 quando l’Inghilterra era all’apice della sua forza <strong>economica</strong>, anno di<br />

stipulazione del trattato Cobden-Chevalier fra Gran Bretagna e Francia che prevedeva la rimozione<br />

di tutte le tariffe sull’importazione di merci francesi da parte dell’Inghilterra in cambio di <strong>una</strong><br />

riduzione delle tariffe sulle merci inglesi ponendo un dazio del 30% come massimo. Grazie alla<br />

clausola della nazione più forte il libero scambio trovò uno <strong>sviluppo</strong> a catena che coinvolse la<br />

maggior parte delle nazioni europee.<br />

Il ritorno al protezionismo<br />

Fattori che cambiarono il panorama dell’Europa dal 1870 orinentandola al protezionismo:<br />

- il raggiungimento di alti livelli di <strong>sviluppo</strong> industriale spinse i ceti imprenditoriali a<br />

chiedere protezione dalla concorrenza,<br />

- l’importazione di grano a basso prezzo da Stati Uniti e Russia resi possibili dai nuovi<br />

trasporti a basso costo,<br />

- la crisi <strong>economica</strong> che si abbatté sull’Europa rese la competizione più difficile,<br />

- l’affermarsi del nazionalismo ed imperialismo modificò il clima delle relazioni, si<br />

crearono le tensioni politiche che portarono alla guerra mondiale, si affermò <strong>una</strong> relazione sempre più<br />

stretta tra protezionismo e politica di prestigio internazionale,<br />

- le imprese coloniali portarono a scontri diplomatici sulla spartizione di terre e<br />

l’espansione coloniale aveva alti costi, ricavabili dal sistema tariffario,<br />

- l’abbandono di posizioni liberiste da parte di importanti nazioni produsse effetti a<br />

catena.<br />

In Germania Bismark adottò tariffe sui prodotti nazionali tra il 1879 ed il 1881, l’Italia preunitaria<br />

esportava materie prime agricole e prodotti semilavorati (seta) importando manufatti industriali, il<br />

passaggio dal liberalismo della classe dirigente del nuovo Regno al protezionismo fu graduale e<br />

travagliato, che vide con l’avvento della sx storica e la necessità di industrializzazione l’abbandono<br />

delle teorie di specializzazione internazionale, per adottare prima <strong>una</strong> politica di tipo<br />

semiprotezionistico (tariffa doganale 1878) ed arrivare infine alla svolta tariffaria del 1887,<br />

tenacemente sostenuta dal leader degli industriali del tempo, il laniere e senatore Alessandro Rossi di<br />

Schio.<br />

Tutti i Paesi tornarono quindi a posizioni di protezionismo ad esclusione delle nazioni con il<br />

commercio più sviluppato dell’Europa Nord-occidentale, e dell’Inghilterra che manteneva <strong>una</strong> forte<br />

apertura <strong>economica</strong> divenendo il perno dell’intero sistema di scambio internazionale.<br />

Il colonialismo<br />

La Gran Bretagna era l’unico paese con un forte legame economico con le proprie colonie:<br />

l’investimento verso queste copriva nel 1914 il 64% degli investimenti totali. Il cosiddetto declino<br />

economico inglese può essere associato ad <strong>una</strong> eccessiva insistenza in produzioni tipiche della prima<br />

rivoluzione industriale assorbibili dai mercati coloniali, ma che <strong>allo</strong>ntanava gli interessi ai prodotti<br />

della seconda rivoluzione. Nel lungo periodo il legame coloniale avrebbe assorbito enormi capitali<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 32


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

destinabili invece in processi di rinnovamento tecnologico interno, ed avrebbe creato un fenomeno di<br />

immobilità produttiva dovuto alla presenza di mercati poco sofisticati.<br />

L’economia internazionale<br />

Netta supremazia inglese lungo tutto l’800, Europa al centro del sistema-mondo, Stati Uniti in<br />

crescita. Il sistema è riconducibile ad un modello centro-periferia in cui l’Europa ha le redini del gioco<br />

e sviluppa la gran parte dei propri commerci all’interno dei propri confini (oltre 80% delle<br />

esportazioni europee trovava mercati d’acquisto in Europa stessa), era la periferia ad avere bisogno<br />

dell’Europa per avviare processi di <strong>sviluppo</strong> commerciale ed industriale.<br />

Il grande <strong>sviluppo</strong> del commercio internazionale, di cui la Gran Bretagna era il leader indiscusso, non<br />

avrebbe potuto realizzarsi senza lo <strong>sviluppo</strong> di sistemi di finanziamento: mercati di titoli, d’azioni,<br />

mercati di valuta estera, banche centrali, private e commerciali furono gli strumenti per <strong>una</strong><br />

espansione finanziaria senza precedenti. Tutto il mercato internazionale venne a regolarsi su Londra,<br />

la City, che disponeva di un mercato finanziario specializzato ed informato, rafforzato dalla<br />

supremazia della sterlina che grazie ai suoi servizi riusciva ad equilibrare la bilancia dei pagamenti.<br />

Profitti di attività commerciali restavano all’estero sotto forma di investimento in attività di<br />

produzione o investiti nel debito pubblico: attività che segnarono la crescita fenomenale<br />

dell’investimento estero nell’800. L’Europa era sia maggiore investitore al mondo (Gran Bretagna<br />

43%, Francia 20%, Germania 13% nel 1913) che maggiore ricettore di investimenti (Europa 27% con<br />

Paesi balcanici, Russia e turchia maggiori riceventi, Nord America 24%, Sud America 19%, Asia 16%)<br />

3. IL XX SECOLO, TRA ROTTURA E PROSPERITA’<br />

Belle Epoque, dal 1900 al 1914, periodo di grande prosperità per l’economia mondiale, globalizzata<br />

grazie ai nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, le persone e le merci potevano viaggiare<br />

ovunque ed in tempo reale, non c’erano ostacoli al commercio, se non alcuni dazi contenuti, il<br />

benessere si diffondeva in tutto il mondo, le regioni agricole progredivano ininterrottamente e gli<br />

strati sociali più poveri emigravano verso le Americhe.<br />

Questo progresso miracoloso può spiegarsi con un insieme di circostanze favorevoli: l’egemonia di<br />

Londra come piazza borsistica, finanziaria, commerciale e di servizi, il predominio dell’economia<br />

inglese nel complesso semplificava il mondo e facilitava gi scambi. È a questo equilibrio che si orienta<br />

il nostro futuro.<br />

3.1 CRESCITA E TRASFORMAZIONE DELL’ECONOMIA<br />

La crescita secolare<br />

Il PIL europeo è cresciuto dal 1913 al 1998 di 7 volte, lo stesso incremento annuale della Belle Epoque,<br />

un aumento secolare mai visto prima in Europa. America del Nord, Africa e Oceania lo aumentarono<br />

di 14 volte, l’Asia di 19 e l’America Latina di 24. L’economia mondiale nel complesso è cresciuta di 12<br />

volte. L’Europa nel 1913 generava il 47% del PIL mondiale, nel 1998 solo il 26%: il XX secolo vede un<br />

decremento continuo della posizione europea nell’economia mondiale, spiegato dal fatto che la<br />

popolazione europea cresceva alla metà del ritmo della popolazione mondiale compensato da un<br />

aumento relativo del benessere pro capite. Nel 1820 l’Europa aveva il 32,2% di PIL e il 21,5% di<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 33


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

popolazione, il che significa un livello di prosperità materiale superiore del 50% rispetto alla media<br />

mondiale, che nel 1998 arriva quasi a doppiare. C’erano meno europei, ma più prosperi.<br />

L’evoluzione demografica<br />

Durante il secolo i Paesi europei sono cresciuti di circa 300 milioni di abitanti, da 500 a 800, quindi più<br />

del 60%.<br />

La situazione prima del 1913, dopo le guerre balcaniche e con le frontiere esistenti in quel momento,<br />

vedeva il grosso della popolazione (88%) concentrata in 7 Stati (Russia, Germania, Austria-Ungheria,<br />

Regno Unito, Francia, Italia, Spagna).<br />

Il ritmo di crescita dal 1900 al 1913 fu di 1,11%, dal 1913 al 1950 (transwar years) molto più lenta,<br />

alcuni Paesi soffrirono di perdite numeriche considerevoli durante le guerre (Polonia e<br />

Cecoslovacchia), altri entrarono in <strong>una</strong> fase di stagnazione totale (Francia ma anche Germania,<br />

Austria ed Irlanda) mentre le periferie europee, la mediterranea e la settentrionale ebbero maggiori<br />

incrementi con in testa l’Olanda.<br />

Dopo il 1950 il ritmo globale di crescita aumenta come frutto del maggiore ottimismo del dopoguerra<br />

in tutti i Paesi tranne alcuni del blocco sovietico (Ungheria e Bulgaria), crescita concentrata nel terzo<br />

quarto di secolo (1950-1973 +1% annuo, 1973-1990 +0,5%, 1990-1998 +0,2%), mentre l’ultimo decennio<br />

fu segnato da <strong>una</strong> stagnazione totale dell’Europa orientale (CSI inclusa).<br />

I tassi di mortalità, specialmente quella infantile, declinarono fortemente, la speranza di vita alla<br />

nascita era in costante aumento. Nel 1900 si superavano raramente i 50 (Italia 43, Russia 32), alla fine<br />

del secolo la speranza di vita alla nascita era di 77–79 anni. La situazione attuale è di equilibrio tra<br />

natalità e mortalità, entrambe attorno al 10%0 .<br />

L’Europa fu durante tutto il XIX secolo un continente di emigrazione. Tra le due guerre l’Europa<br />

occidentale ed in particolare Gran Bretagna, Belgio e Francia cominciarono ad attrarre immigrati (dal<br />

Sud o dall’Est Europa) per la necessità di manodopera dovuta alle enormi perdite di vite umane, alle<br />

mutilazioni ed invalidità provocate dalla guerra, ma anche per le nuove severe leggi<br />

sull’immigrazione americane. Dopo la seconda guerra mondiale l’immigrazione europea ebbe un<br />

decollo, continuando negli anni ‘50 a convivere con la dominante emigrazione transoceanica, per<br />

trasformarsi negli anni ’60 in immigrazione netta iniziando ad attrarre anche popolazioni delle ex<br />

colonie ed extraeuropee.<br />

Il potenziale economico<br />

PIL: moltiplicazione della popolazione per il reddito pro capite, è il migliore indicatore della potenza<br />

<strong>economica</strong>, della capacità complessiva di mobilitare risorse.<br />

Nel 1913 le 6 maggiori potenze europee (Russia 20,4%, Germania 19,4%, Austria–Ungheria 17,2%,<br />

Francia10,7%, Regno Unito 10,1% ed Italia 6,1%) cumulavano l’85% del PIL (prodotto interno lordo).<br />

Ma tenendo conto anche il peso del PIL totale (coloniale), poderoso per l’Inghilterra (146%<br />

confrontato col PIL della madrepatria) e per l’Olanda (181%), ininfluente per Italia e Spagna (1%), la<br />

classifica del potenziale economico cambia vedendo l’Inghilterra al primo posto (31,9%), la Russia<br />

sprovvista di colonie retrocessa al secondo (15,5%) seguita da Germania (15,1%) e Francia (9,9%).<br />

Come si vede il potenziale britannico è molto superiore a quello dei soli territori metropolitani.<br />

Alla fine del XX secolo la situazione è stravolta: i grandi imperi coloniali sono svaniti, gli imperi<br />

centrali ed orientali si sono dissolti, il ranking delle potenze economiche è mutato del tutto. I grandi<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 34


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

nemici delle due guerre guidano la graduatoria: Regno Unito, Francia ed Italia sono <strong>allo</strong> stesso livello,<br />

quello che resta dell’Unione Sovietica è molto meno importante di qualsiasi Russia passata, gli antichi<br />

Paesi del blocco sovietico hanno meno peso di quello che gli spetterebbe rispetto alla loro<br />

popolazione e si trovano in modo consistente dietro ai piccoli Paesi dell’Europa occidentale.<br />

Il reddito pro capite<br />

Cresciuto in media dell’1,73% annuo. La prosperità europea crebbe moderatamente (+1% annuo) nel<br />

1913-1950 e 1973-1998, registrando un quarto di secolo nel mezzo con <strong>una</strong> crescita quasi 4 volte<br />

superiore (la golden age). Per l’Europa occidentale il dopo 1973 vede <strong>una</strong> crescita del doppio del<br />

prima 1950, mentre per l’Europa orientale sono anni catastrofici (in particolare gli anni 90).<br />

Nel 1913 il Paese più ricco era il Regno Unito, seguito dai Paesi che commerciavano intensamente con<br />

lui o che gli somigliavano nelle loro forme di specializzazione industriale (Svizzera, Belgio, Olanda,<br />

Danimarca), i nemici della grande guerra (Germania, Francia, austri) si situavano ad un terzo in meno<br />

di reddito pro capite con livelli molto simili tra loro, l’Italia era ad un gradino sotto a quasi la metà di<br />

reddito rispetto alla media britannica, superando però i Paesi della periferia mediterranea, mentre la<br />

Russia si situava ad un terzo e chiudeva la lista delle grandi potenze (la sua potenza derivava<br />

dall’estensione e dalla popolazione).<br />

Nel 1998 la situazione è più irregolare: la distanza dal primo all’ultimo è cresciuta (Europa<br />

occidentale-orientale), passando da 5 a 8 volte, mentre si è creata <strong>una</strong> forte convergenza tra i Paesi<br />

europei occidentali, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia non si differenziano di più del 10%.<br />

Società con alti livelli di consumo<br />

I consumi alimentari, insieme al reddito pro capite, migliorano: più calorie consumate, dieta<br />

diversificata, ma soprattutto sostituzione dei cereali e tuberi con prodotti lattei, proteine della carne e<br />

la frutta. Anche il consumo per l’abitazione aumenta (componente del riscaldamento), insieme ai<br />

trasporti individuali, tempo libero, sanità ed educazione.<br />

Il grande processo di socializzazione tecnologica del secolo fu la diffusione di massa dell’automobile,<br />

che segna anche la frontiera della diffusione della società dei consumi di massa (Gran Bretagna e<br />

Francia i Paesi più avanzati tra le due guerre, il blocco orientale arriva in ritardo) . Altri due oggetti<br />

che sintetizzano i modelli di consumo ed i cambiamenti di gusto sono la televisione (inventata in<br />

Inghilterra e quindi solo qui presente nel 1950 e diffusa nel 1955, la diffusione non distingue tra<br />

blocchi, è un’invenzione utile per i regimi dittatoriali, nel 70 c’è convergenza europea nei livelli di<br />

consumo, la TV ha eguagliato gli europei, negli anni 90 sono gli scandinavi in testa per ragioni<br />

climatiche e un sostrato educativo molto forte che assorbe le nuove tecnologie dell’informazione) ed i<br />

computer.<br />

Il ruolo propulsore del progresso tecnologico<br />

Prima della grande guerra il mondo era dominato dalle grandi rivoluzioni della prima rivoluzione<br />

industriale basate sul carbone: la siderurgia, la meccanica a vapore, la ferrovia, la nave a vapore. Nel<br />

1900-1913 si assiste all’ascesa di nuove tecnologie (l’elettricità, il motore a combustione interna e la<br />

chimica industriale, il telefono sostituisce il telegrafo) che non dominavano il panorama industriale<br />

ma sicuramente quello degli investimenti.<br />

La ricostruzione dopo la guerra frenò il cambiamento tecnologico europeo in quanto miniere,<br />

altiforni, ferrovie e fabbriche furono riparate in velocità consolidando le vecchie tecnologie e<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 35


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

segnando l’invecchiamento rispetto agli Stati Uniti, le cui innovazione tecnologiche risorsero in<br />

Europa solo quando l’attività <strong>economica</strong> si normalizzò. I due fenomeni tecnologici più rilevanti tra le<br />

due guerre sono l’elettrificazione (già a buon livello prima della grande guerra, fu considerata un<br />

simbolo di modernità, attirò ingenti investimenti nelle decadi ’20 e ’30 e venne applicata in tutti i<br />

settori) e la diffusione di massa dell’automobile, già in corso dal 1914 acquistò grande rilievo con la<br />

guerra e la Ford T inondò l’Europa nel dopoguerra grazie ai suoi prezzi contenuti.<br />

L’applicazione della scienza all’industria, già peculiarità tedesca alla fine del XIX secolo, diventò un<br />

investimento fisso ed ebbe risvolti nelle fibre artificiali e sintetiche e nell’industriale farmaceutica. La<br />

seconda guerra mondiale godette di tutte queste innovazioni, la più importante delle quali la radio,<br />

che rivoluzionò le comunicazioni di massa e la propaganda politica oltre che a ridurre i costi di<br />

comunicazione e intrattenimento.<br />

Gli Stati Uniti, non colpiti nel loro territorio dalla seconda guerra mondiale, uscirono da questa con<br />

molte innovazioni tecnologiche inizialmente dovute alla necessità di superare gli armamenti tedeschi,<br />

e poi applicate in infiniti campi: raggi laser, nuovi materiali come la plastica, l’energia atomica.<br />

L’Europa si avvantaggiò di queste innovazioni come leva per colmare il gap tecnologico che si era<br />

creato tra i due continenti, mai tanto accentuato come tra il 1945 ed il 1950. Il nucleo tecnologico<br />

organizzativo importato fu il fordismo, sistema a catena di montaggio che dominò la ricostruzione<br />

europea e la golden age. L’Europa cominciò ad emergere imitando le tecnologie americane fino ad<br />

arrivare a sfidare gli Stati Uniti sul loro stesso terreno: imprese europee di industria automobilistica,<br />

chimica e delle costruzioni meccaniche cominciarono a penetrare sui mercati internazionali.<br />

Nel 1973 la crisi del petrolio, che si sarebbe ripetuta nel 1979-1980, distrusse le basi energetiche del<br />

modello in quanto l’energia cara significa un ridimensionamento del sistema fordista che dovette<br />

essere adattato alle nuove circostanze. Dal 1985 la domanda di PC si delineava inesauribile e venne<br />

incoraggiata la ricerca, l’investimento e la domanda privata. Nella decade degli anni 90 c’è la<br />

rivoluzione di Internet che vede la combinazione di informatica e telematica, elaborazione e<br />

trasmissione dei dati.<br />

Le economie sviluppate riescono a migliorare la loro già alta produttività principalmente attraverso il<br />

progresso tecnologico. Al giorno d’oggi non più solo il capitale fisico ma anche quello umano hanno<br />

un ruolo fondamentale e sotto questo aspetto le economie europee, dotate di grandi quantità di<br />

capitale fisico, sommato alle sempre più alte dotazioni di capitale umano, sono ad alta intensità di<br />

capitale.<br />

Tecnologie come quella elettrica ed automobilistica hanno richiesto investimenti pubblici e privati<br />

ingenti nel reperimento di fonti energetiche, nel trasporto dell’enegia e del combustibile, nella<br />

creazione di infrastrutture per il loro uso, nella fabbricazione degli strumenti o prodotti che sfruttano<br />

le nuove tecnologie, che hanno incoraggiato la formazione di grandi imprese dedicate a questo scopo,<br />

che a sua volta hanno incoraggiato altre imprese per la loro manutenzione: il capitale non residenziale<br />

(cioè capitale fisico ad esclusione dei fabbricati per civile abitazione, è il capitale propriamente<br />

produttivo) ha effetti moltiplicatori.<br />

Grado di intensità capitalista dell’economia = capitale non residenziale / PIL<br />

Il cambiamento strutturale: la decadenza dell’agricoltura<br />

Man mano che cresce il PIL, la proporzione originata dall’agricoltura diminuisce mentre cresce<br />

l’industria, il settore terziario sostituisce progressivamente l’agricoltura ed industria diventando<br />

settore dominante alla fine del XX secolo: il tratto dominante del secolo rimane comunque la caduta<br />

della popolazione attiva in agricoltura.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 36


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Nel 1910 si distinguevano 4 Europe: Gran Bretagna già industrializzata (9% in agricoltura), blocco<br />

dell’Europa centro-occidentale con in testa Belgio, Svizzera e Olanda, i più avanzati nel percorso di<br />

emulazione, che avevano spostato la loro manodopera verso l’industria, poi i Paesi con ancora dal 49<br />

al 58% occupati in agricoltura, avevano solo iniziato il percorso (Svezia, Grecia, Irlanda, Italia,<br />

Spagna, Portog<strong>allo</strong>), infine il blocco dei Paesi ancora agrari come la Polonia, Romania, Finlandia,<br />

Bulgaria e Yugoslavia.<br />

Nel 1950 la tendenza è della diminuzione di 10 punti media, spicca la Finlandia con 33 punti in meno<br />

e la Svezia con 28, paese che si è industrializzato tra le due guerre, Austria e Cecoslovacchia sono<br />

invece stagnanti. Nel 1980 le proporzioni sono fortemente convergenti verso il basso, con <strong>una</strong><br />

diminuzione media di 20 punti: tra i Paesi con meno dell’11% si colloca tutta l’Europa centro e Nordoccidentale,<br />

con la Cecoslovacchia e la Finlandia che dimostrano l’enormità dei cambiamenti da loro<br />

sperimentati in meno di un secolo. I Paesi dell’Est seguono in coda ma a distanza ravvicinata, le<br />

eccezioni in negativo sono Portog<strong>allo</strong> che riduce solo di metà e la Grecia di un terzo (contro le<br />

riduzioni medie ad un quinto).<br />

L’evoluzione fino al 1998 è prevedibile ma presenta un’eccezione: la Romania che pass dal 29 al 40%<br />

di occupati in agricoltura invertendo la tendenza (come in realtà successe in tutta l’area balcanica), un<br />

vero e proprio ritorno all’agricoltura per effetto delle grandi crisi di sopravvivenza dei Paesi nei quali<br />

la transazione al capitalismo ed al mercato è fallita.<br />

La contrazione degli occupati in agricoltura si è sviluppata insieme all’aumento del prodotto agrario:<br />

la prima guerra mondiale comporta <strong>una</strong> drammatica riduzione della produzione portando carestia e<br />

fame, ci vorrà poi un decennio per tornare ai livelli dell’anteguerra (si ricorreva ad importazioni<br />

d’oltremare). La seconda guerra mondiale torna a mandare a fondo la produzione, che dopo la guerra<br />

si riprende grazie al protezionismo, e nonostante l’occupazione agraria continuasse a diminuire, la<br />

produttività iniziò a crescere grazie all’introduzione di macchinari di ogni tipo. Attualmente<br />

l’agricoltura è il settore che riceve più sovvenzioni attraverso i fondi dell’Unione Europea.<br />

Cambiamento strutturale: industrializzazione e deindustrializzazione<br />

Nel XX secolo il prodotto industriale è cresciuto molto, ma ha sofferto le ondate delle due guerre<br />

mondiali, della depressione anni Trenta e della crisi industriale più profonda del secolo a partire dal<br />

1975, culminata in un processo di deindustrializzazione, imperante nell’ultimo quarto di secolo.<br />

La graduatoria nel 1910 dei Paesi in relazione alla popolazione attiva industriale è simile a quella<br />

dell’agricoltura ma invertita e riflette lo stesso fenomeno di declino dell’agricoltura. Nel 1960, finite le<br />

guerre, la tendenza era <strong>una</strong> crescita netta dell’occupazione industriale, che per i Paesi<br />

dall’industrializzazione arretrata fu spettacolare: Finlandia e Polonia guadagnano 20 punti, altri Paesi<br />

del Sud e dell’Est Europa guadagnano tra i 12 ed i 17 punti con le eccezioni di Grecia, Romania e<br />

Yugoslavia che non crescono più di 7 punti come i Paesi già industrializzati. L’unico paese che<br />

procede verso <strong>una</strong> deindustrializzazione è la Gran Bretagna, con <strong>una</strong> diminuzione di 4 punti. Il<br />

risultato è che si è creata un’area intensamente industriale nel cuore dell’Europa con percentuali di<br />

occupati vicine al 50%.<br />

Tutti i Paesi comunque completeranno la loro industrializzazione tra il 1960 ed il 1980, quando i Paesi<br />

dell’Est sono ben piazzati (peso minore dei servizi nella loro struttura occupazionale), i Paesi<br />

dell’Europa centrale (Germanie, Cecoslovacchia, Svizzera, Olanda, Italia ed Ungheria) costituiscono il<br />

nucleo industriale europeo, la Grecia si mostra in gran ritardo non sembrando né orientale né<br />

occidentale, gli altri Paesi balcanici si caricano di furore per l’industrializzazione, le due ex grandi<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 37


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

potenze (Gran Bretagna e Belgio) sono in <strong>una</strong> posizione intermedia, i Paesi scandinavi con alto PIL<br />

procapite si trovano invece nella parte bassa. Da questo si intuisce come ormai il vento stia soffiando<br />

verso i servizi e come la specializzazione industriale non sia ormai garanzia di <strong>sviluppo</strong>.<br />

Cambiamento non percepito dai Paesi sovietici che, verso il 1988/89 conquistano i primi posti in<br />

termini di specializzazione industriale.<br />

La composizione interindustriale: dal tessile all’elettronica<br />

Nell’accezione più ampia fanno parte dell’industria anche l’estrazione di minerali, la produzione e<br />

distribuzione di acqua, gas ed elettricità e l’industria delle costruzioni, ma siccome <strong>una</strong> parte delle<br />

loro attività è estranea alla trasformazione industriale, si considera il nnucleo centrale dell’attività<br />

industriale la manifattura, divisa in 6 settori.<br />

Duranto il periodo dell’industrializzazione crescente (1913 – 1975) il settore in maggiore regresso<br />

relativo è il tessile, seguito dall’alimentazione e in ultimo dalla produzione di metalli, mentre i settori<br />

in piena espansione sono quelli della lavorazione di prodotti metallici e la chimica. Gli altri settori<br />

hanno avuto traiettoria ambigua: i Paesi industriali emergenti tendono a specializzarsi nei settori<br />

manifatturieri più maturi dove l’applicazione della nuova tecnologia ha scarso impatto sui costi di<br />

produzione e dove il fattore competitivo sono i salari, i Paesi più avanzati tendono invece a collocarsi<br />

nei settori più progrediti dove la componente del capitale umano è cruciale. I Paesi dell’Europa<br />

orientale, quelli ad industrializzazione forzata, si sono impegnati a fondo dopo la seconda guerra<br />

mondiale per dotarsi di tutti i settori manifatturieri, privilegiando quelli a tecnologia più avanzata<br />

rispetto a quelli tradizionali, e quelle attività a più alta intensità di lavoro non qualificato rispetto a<br />

quelle ad elevata intensità di capitale fisico e umano.<br />

Nel 1973 c’erano poche differenze nella struttura industriale europea occidentale ed orientale, più<br />

marcate erano invece quelle tra Nord e Sud: in Europa occidentale e meridionale i settori ad alta<br />

intensità di lavoro poco qualificato (alimenti, bevande e tabacco) sono in declino mentre<br />

sperimentano forti incrementi in Europa orientale, viceversa il settore dei macchinari industriali e del<br />

materiale di trasporto, con maggiori esigenze di capitale fisico e lavoro qualificato continua a crescere<br />

nell’Ovest ma soffre nell’Est.<br />

L’auge della grande impresa industriale<br />

I settori manifatturieri più dinamici sono stati anche quelli con imprese di maggiori dimensioni e<br />

migliore riuscita durante il secolo. Nel 1912 2 nazioni hanno entrambe 14 casi di grandi imprese<br />

industriali (gli Stati Uniti 54), Regno Unito (un paio di imprese tessili, un paio di tabacco, <strong>una</strong> di birra<br />

Guinness, <strong>una</strong> alimentare Lever, due di miniere non ferrose, tre di industria pesante, <strong>una</strong> chimica ed<br />

<strong>una</strong> petrolifera) e Germania (4 settori: 7 in siderurgia e industria pesante, 3 nella chimica, 2 settore<br />

minerario del carbone, 2 elettrico). Altri Paesi dotati di grandi industrie sono la Francia (4 compagnie<br />

minerarie), la Russia (tutte con importante presenza di capitale straniero e nazionalizzate con la<br />

rivoluzione del 1917).<br />

Malgrado la penetrazione delle nuove tecnologie della chimica, elettronica e petrolio, all’inizio del<br />

secolo domina ancora il peso delle attività di prima industrializzazione come quelle tessili, il settore<br />

minerario, metallurgico e delle costruzioni legate alle ferrovie e della navigazione. È dal 1937 che la<br />

preminenza imprenditoriale delle nuove tecnologie diventa un dato di fatto: sorgono grandi imprese<br />

chimiche e petrolifere mentre scompaiono quelle tessili, siderurgiche e soprattutto minerarie. Nel<br />

1958 il processo si intensifica e diventa dominante l’insieme dei colossi imprenditoriali legati al<br />

paradigma automobilistico (petrolio, costruzione di auto e pneumatici), nel 1973 entrano le<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 38


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

farmaceutiche (chimica fine), che si moltiplicano nel 1998 insieme a quelle di materiale elettronico ma<br />

non spiazzano il primo posto della Shell (anglo-olandese del petrolio).<br />

I Paesi con grandi dotazioni di minerale di carbone e di ferro hanno perso il loro vantaggio sul<br />

terreno della grande impresa, recuperato invece da quelli che sono riusciti a sviluppare nuove<br />

tecnologie e ad adattarsi alle nuove condizioni del mercato mondiale.<br />

La diversificazione dei servizi<br />

La Legge di Clark (alla crescita dell’industria seguirà quella dei servizi) si attua alla perfezione,<br />

portando come conseguenza la crescita dei servizi moderni ad alta intensità di tecnologia ed<br />

informazione. Le fasi:<br />

- svillupo dei servizi modeni per il XIX secolo: trasporti, comunicazioni, servizi<br />

finanziari ed assicurazioni si completa nel 1913–1950 con l’auge dell’impresa moderna con domanda<br />

crescente di servizi amministrativi e apertura di nuovi tipi di lavoro;<br />

- anni ’50 e ’60 il processo prosegue alimentato dalla crescita dello Stato di benessere,<br />

con <strong>una</strong> grande richiesta di lavoratori dei servizi personali avanzati, principalmente nel settore<br />

sanitario e scolastico;<br />

- anni ‘80prende corpo la rivoluzione informatica che esploderà nel decennio seguente,<br />

il risultato è un processo di terziarizzazione vivacissimo.<br />

I Paesi con reddito pro capite più elevato sono a fine secolo quelli che più sono andati avanti nel<br />

cammino di terziarizzazzione: banche commerciali, compagnie di assicurazione, imprese di trasporto,<br />

imprese elettriche, commercio all’ingrosso. La convergenza tecnologica dei diversi settori di attività,<br />

lo <strong>sviluppo</strong> dei mercati borsistici e la tendenza universale alla privatizzazione delle imprese<br />

pubbliche, hanno finito per unificare la visione imprenditoriale.<br />

Tra le più grandi compagnie di servizi classificate da Business Week nel 1998, il settore finanziario<br />

predomina con 6 banche (inglesi e svizzeri), 2 assicurazioni e 1 di servizi finanziari tra le prime 15<br />

europee, il rimanente sono 6 imprese di telecomunicazioni. Ness<strong>una</strong> impresa di trasporto che invece<br />

avrebbero dominato la classifica di inizio secolo, sostituite dalle imprese di telecomunicazione, bene<br />

la Germania, male la Francia.<br />

Modelli nazionali di crescita. I Paesi della prima industrializzazione<br />

Valutando i tassi di crescita del PIL pro capite del secolo si nota come esistano due clubs: i Paesi<br />

occidentali che sono tanto più cresciuti quanto più erano poveri ad inizio secolo, ed i Paesi orientali<br />

che sono cresciuti poco nonostante fossero poveri. Il Regno Unito era il più ricco nel 1913 ed infatti è<br />

quello che cresce meno durante il secolo, i Paesi scandinavi invece, quelli che si trovano alle periferie<br />

meno industrializzate dell’Europa occidentale, stanno nella parte alta della graduatoria così come la<br />

periferia occidentale e meridionale (Irlanda, Portog<strong>allo</strong>, Grecia, Italia e Spagna), Paesi che invece<br />

avevano imitato precocemente l’industrializzazione britannica (Belgio) o che si erano rapidamente<br />

adattati (Svizzera, Germania, Austria, Francia) sono al di sopra della Gran Bretagna ma sotto gli<br />

scandinavi.<br />

L’economia britannica, a causa dell’elevato livello dal quale partiva, è stata quella con la crescita più<br />

lenta tra quelle occidentali, perdendo la suapredominanza durante il secolo. Rispose molto bene alle<br />

due guerre aumentando il suo prodotto ed imponendosi così ai nemici, ma entrabi i dopoguerra<br />

furono periodi di stagnazione. Reagì bene alle grandi crisi economiche del secolo (1929, 1973 che<br />

coincise con l’entrata nella CEE, 1979), con carica innovativa che dimostrava il dinamismo economico.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 39


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Nel ‘45 in Regno Unito era ancora il paese più ricco d’Europa mentre nel’79 si trovava in situazione di<br />

decadenza fino ad arrivare al sorpasso italiano all’inizio degli anni ’80.<br />

Il Belgio, nazione di più antica industrializzazione dopo la Gran Bretagna, patì duramente le due<br />

guerre riuscendo però ad effettuare a buon ritmo la ricostruzione, soffrì lievemente la grande<br />

depressione ma essendo legata al gold standard tardò a riprendersi, stagnando per tutto il decennio<br />

1929-1939. Come tutti i Paesi occupati dalla Germania subì importanti perdite del PIL durante la<br />

seconda guerra mondiale ma non distruzioni di capitale, il che gli permise di svolgere un ruolo<br />

dinamico durante la ricostruzione postbellica fornendo carbone, ferro, acciaio e macchinai agli altri<br />

Paesi, e non si servì del piano Marshall evidenziando nel decennio ’50 l’invecchiamento industriale.<br />

Fu per questo <strong>una</strong> crescita relativamente lenta nel contesto europeo, ma la sua integrazione iniziale<br />

nella CEE le fu favorevole. Fu colpita duramente dalla crisi petrolifera senza più riuscire ad arrivare<br />

ai livelli ante 1973, nonostante i tentativi di conversione della sua base mineraria ed industriale<br />

concentrata nell’area v<strong>allo</strong>na ed incrementando l’occupazione del settore pubblico. La soluzione si<br />

trovò invece nella concessione di agevolazioni per l’ubicazione sul territorio di multinazionali,<br />

attirando forti investimenti e rilanciando l’economia.<br />

L’Olanda recuperò nel XX secolo quel dinamismo che ne aveva fatto l’economia più prospera<br />

dell’Europa del XVII secolo, grazie la dispiegamento delle tecnologie della seconda rivoluzione<br />

industriale che la liberarono dalla dipendenza del carbone. Fu neutrale durante la prima guerra<br />

mondiale ed approfittò di questa posizione durante e dopo il conflitto: nel 1929 era cresciuta del 77%<br />

rispetto al 1913, successo dovuto alla neutrlità nella guerra ed alla buona vicinanza e intenso<br />

commercio con la Gran Bretagna (uno dei colossi alimentari è parzialmente olandese, la Unilever), ma<br />

soprattutto alla posizione di porta marittima della Germania che le permise di avere accesso a tutto il<br />

mercato tedesco, controllandone il mercato petrolifero, l’importazione, la raffinazione e la<br />

distribuzione e creando così la Royal Dutch, futura Shell. Grazie alla leadership tecnologica e<br />

commerciale della Philips gli olandesi sfruttarono tutto il mercato centroeuropeo nel campo degli<br />

elettrodomestici. Nel decennio ’70 scoprirono <strong>una</strong> risorsa naturale molto apprezzata come il gas<br />

naturale e riuscirono finalmente ad uscire dal Dutch disease negli anni ’80.<br />

La Svizzera seppe arricchirsi senza disporre delle risorse naturali proprie della prima<br />

industrializzazione. Uscì frenata dalla guerra ma seppe approfittare della rovina della Germania per<br />

trasformarsi in sede di molte attività di matrice tedesca, la sua vita <strong>economica</strong> fu sempre dipendente<br />

dalle trasformazioni del suo poderoso vicino. L’impatto del 1929 fu lieve ma generò <strong>una</strong> prolungata<br />

stagnazione che durò per tutta la seconda guerra mondiale, per arrivare al grande momento della<br />

Svizzera che coincise con la fine della guerra: qui ristagnò la ricchezza accumulata dai nazisti, oro e<br />

valute, dal 1944 al 1945 il suo PIL crebbe spettacolarmente del 29% e dal 1945 al 1947 di un altro 20%.<br />

La golden age fu interrotta nel 1949 e nel 1958 quando le turbolenze monetarie la investirono<br />

transitoriamente, la crisi del petrolio la colpì fortemente, così come la deregolamentazione finanziaria<br />

e la caduta del muro di Berlino (1989) con la deviazione di risorse tedesche verso l’ex RDT. La<br />

Svizzera si basa oggi sulle sue imprese industriali, pessime multinazionali d farmaci.<br />

Il protagonismo secolare dei second comers<br />

La Germania soffrì, durante le due guerre, di grandi cambiamenti territoriali, la sua superficie<br />

aumentò in modo spettacolare in entrambi i conflitti, dato che amministrava territori altrui, per poi<br />

subire forti sanzioni territoriali causati dalle sconfitte, significative per la prima, radicali quelle della<br />

seconda: inizialmente divisa in 4 zone di occupazione militare da parte delle principali nazioni alleate<br />

e con forti cessioni alla Polonia, dal 1949 si crea la divisione tra RFT e RDT che durerà 40 anni<br />

(unificazione nel 1990). Le guerre e la grande crisi del 1929-1932 dominarono i lineamenti<br />

dell’economia tedesca: il primo dopoguerra fu penoso, il secondo iniziò in modo patetico ma finì<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 40


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

bene. La prima guerra mondiale, la crisi del 1919, quella del 23 e del 29 impallidiscono di fronte al<br />

crollo sofferto nel 1945 e 1946 (durezza del secondo dopoguerra). Il boom degli anni 50 è conseguenza<br />

dell’intensità della caduta e delle possibilità di recupero che aveva un paese con popolazione ed<br />

infrastrutture qualificate, l’industria tedesca recuperò il suo dinamismo e tornò ad essere fornitrice di<br />

macchinari e materiale da trasporto. I crescenti lacci commerciali diedero fondamento alla scommessa<br />

per il mercato comune europeo che si concretizzò con il Trattato di Roma del 1957. Alla fine del XX<br />

secolo l’economia tedesca era di nuovo la maggiore in Europa.<br />

Malgrado le due vittorie, l’economia francese risentì della devastazione delle due guerre, ed il<br />

periodo tra le due fu dominato d<strong>allo</strong> spettro della stagnazione demografica e dall’arretratezza<br />

<strong>economica</strong>. Nel periodo che va dal 1929 al 1944 l’economia francese di contrae del 51% (contro un<br />

aumento del 55% di quella tedesca), mentre nel secondo dopoguerra la Francia inaugura <strong>una</strong> lunga<br />

fase di crescita e di dinamismo. La ricostruzione fu utilizzata a fondo per innovare le infrastrutture di<br />

trasporto ed il macchinario industriale, entrando nella CEE la Francia accresce i suoi mercati ed<br />

elimina i rischi di un conflitto con il suo storico nemico. La continua e rapida crescita del periodo<br />

1945-1974 cambiò l’immagine di ritardo e l’economia francese diventò ben strutturata e perfettamente<br />

dotata di capitale umano sapendo convertirsi in economia dinamica dal punto di vista tecnologico ed<br />

imprenditoriale. Reagì alla seconda crisi del petrolio con <strong>una</strong> strategia di espansione della domanda,<br />

mentre la coincidenza nel 1881 della difficile congiuntura <strong>economica</strong> internazionale con l’ingresso al<br />

governo di <strong>una</strong> maggioranza di sinistra portò effetti negativi che si concretizzarono in <strong>una</strong><br />

svalutazione del franco rispetto al marco, considerato pietra miliare della revisione della politica<br />

<strong>economica</strong> francese. Al 2000 l’<strong>economica</strong> francese è la seconda per il PIL dopo la Germania.<br />

L’Italia è il paese che ha goduto dei tassi di crescita più elevati nel secolo tra i Paesi che si avversarono<br />

nella grande guerra. L’iniziale neutralità e la lontananza dai fronti di guerra consentirono<br />

all’<strong>economica</strong> italiana di prosperare durante il primo conflitto, ma il dopoguerra fu duro e vide crisi<br />

di sovrapproduzione e conflitti redistributivi che finirono per dar luogo al fascismo, che dominò il<br />

periodo tra le due guerre (dal 1922 al 1943). Il primo decennio fu liberale mentre il secondo<br />

autarchico. Gli ultimi due anni del conflitto furono caotici mentre la ricostruzione fu un successo,<br />

quasi un miracolo. L’Italia, come Germania e Francia, utilizzò i fondi del piano Marshall per<br />

ricostruire la sua industria e i suoi trasporti. Si inserì nei circuiti commerciali intereuropei che diedero<br />

luogo alla CEE e seppe approfittarne per accrescere i suoi mercati e offrire nuove prospettive di<br />

lavoro alla sua popolazione. Il miracolo iniziò ad incrinarsi nel 62 ma durò fino alla crisi del 1973.<br />

Negli ultimi due decenni inoltre l’Italia ha richiamato l’attenzione per il suo successo con la piccola<br />

impresa ed i suoi distretti industriali diventando un esempio paradigmatico grazie soprattutto alle<br />

sue esportazioni.<br />

Il XX secolo è il secolo dell’Unione Sovietica (URSS), segnato dalla sua origine nel 1917 e la sua fine<br />

nel 1991, nascita vista come risultato inevitabile del fallimento dello zarismo, ma anche dovuta alle<br />

estreme condizioni portate dalla prima guerra mondiale nella politica ed economia che favorirono la<br />

nascita di alternative radicali. Il primo periodo, il “comunismo di guerra” (1917-1921) è seguito<br />

dall’epoca della NEP (nuova politica <strong>economica</strong>) che fece segnare un recupero economico e arrivò<br />

fino al 1927 anno in cui si lancia il primo piano quinquennale, taglio netto nella politica <strong>economica</strong><br />

sovietica e mondiale che portò <strong>una</strong> forte crescita, seguito da un periodo di pianificazione centralizzata<br />

che durerà fino al 1991. I piani iniziali centrati sull’industrializzazione e creazione della grande<br />

industria pesante sono seguiti d<strong>allo</strong> sforzo di ricostruzione postbellica che durerà un decennio, e da<br />

un altro decennio di tentativi di riforma successivi alla morte di Stalin (1954). Inizia poi <strong>una</strong> decade di<br />

decadenza (periodo del breznevismo) interrotta dagli sforzi riformatori di Gorbachov e la sua<br />

Perestroika (ricostruzione) negli anni ‘80. Il PIL russo, sovietico e post sovietivo è segnato da forti<br />

rotture: la prima guerra mondiale, proseguita fino al 1921 come guerra civile, la seconda guerra<br />

mondiale che tornò a ridurre drasticamente il potenziale produttivo del paese, e un’altra caduta<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 41


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

spettacolare nel 1989 dovuta alle modalità della transizione all’economia di mercato, che vide<br />

un’assimetria di liberalizzazione (si liberalizzarono solo i settori in cui c’era più interesse) che creò<br />

distorsioni, violenze organizzate che limitarono gli investimenti e le attività imprenditoriali. L’ex<br />

URSS è entrata in un percorso distruttivo.<br />

I destini delle periferie<br />

I Paesi europei che più sono cresciuti nel corso del XX secolo sono quelli delle periferie occidentali: i<br />

Paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Finlandia, Norvegia) e quelli mediterranei (Sud). Sono Paesi che<br />

si presentano relativamente poveri all’inizio del secolo rispetto ai Paesi già industrializzati.<br />

L’elemento dominante dell’esperienza <strong>economica</strong> scandinava (in particolare svedese) del XX secolo è<br />

la velocità e continuità di crescita. La parziale neutralità durante le due guerre ed il modesto impatto<br />

della crisi degli anni ‘30 assicurarono all’economia <strong>una</strong> crescita ed un livello di benessere superiori<br />

agli altri Paesi europei: risale infatti agli anni Trenta l’insediamento dello Stato del Benessere. Lo<br />

scenario economico era stabile, l’impegno produttivo di sindacati e padroni era forte, i tassi di<br />

alfabetizzazione alti favorendo la specializzazione in attività industriali e di servizi con elevati<br />

contenuti tecnologici. La ricostruzione e la golden age fornirono mercati in espansione e contesto<br />

internazionale favorevole. La crisi del petrolio li colpì con forza diversa, la Norvegia infatti grazie alla<br />

scoperta di riserve di petrolio nel mare del Nord si trasformò in grande esportatore di greggio ed il<br />

suo tasso di crescita nell’ultimo quarto di secolo è importante. Soffrirono anche della crisi europea dei<br />

primi anni 90, in particolare la Finlandia, orientata al commercio con l’Unione Sovietica che dopo la<br />

caduta liberalizzò i commerci costringendo la Finlandia a specializzarsi in altre attività, risultati<br />

ottenuti brillantemente nell’elettronica e telecomunicazioni.<br />

Dopo l’indipendenza nel 1920 l’Irlanda crebbe alla velocità della Gran Bretagna ma senza godere<br />

dello stesso livello di prosperità. Neutrale nella seconda guerra mondiale, non godette degli aiuti del<br />

piano Marshall, e vide fino alla fine del decennio del 1950 un certo autarchismo di matrice agraria.<br />

Non partecipò alla CEE ed il suo legame al commercio internazionale si limitò ad un accordo con il<br />

Regno Unito. Entrò nella Comunità Europea nel 1973 sperando in <strong>una</strong> svolta ma l’ambiente<br />

internazionale fu poco propizio, nel 1980 decise di aprirsi agli investimenti esteri e dovette aspettare il<br />

1993, quando fu paragonata alle tigri asiatiche, per approfittare del suo potenziale, avvantaggiata<br />

dall’essere un paese anglofono.<br />

Nel primo terzo del XX secolo il Portog<strong>allo</strong> oscillò tra monarchia e repubblica e tra dittatura e<br />

democrazia. La soluzione più stabile fu <strong>una</strong> dittatura repubblicana imposta da Salazar nel 1927 e<br />

durata fino al 1974. Superò bene la crisi degli anni ’30 e si avvantaggiò della sua neutralità durante la<br />

seconda guerra mondiale e delle iniziative di cooperazione occidentale postbelliche. Nelle decadi del<br />

1950 e 1960 crebbe bene ma subì un salasso economico ed umano durante le guerre coloniali dal 1961<br />

al 1974. Nel 1974 la rivoluzione dei garofani mise fine alla dittatura e la rapida decolonizzazione<br />

generò quasi un milione di immigrati. A partire dall’entrata nella CEE nel 1987 ha saputo approfittare<br />

delle opportunità del grande mercato europeo e dei fondi comunitari destinati alle regioni più povere<br />

e alle produzioni agrarie.<br />

La Spagna si presentò agli anni ’20 con un livello di prosperità superiore al 1913 dovuto alla sua<br />

neutralità, riducendo le distanze rispetto agli altri Paesi europei. Naturalizzò tutti gli investimenti in<br />

mano straniera e riuscì a dotarsi della quara maggiore riserva aurea del mondo dilapidata durante la<br />

guerra civile dal 1936 al 1939. Ci fu <strong>una</strong> forte espansione negli anni 20, ed <strong>una</strong> blanda depressione<br />

nella prima metà dei 30, la guerra civile la buttò in depressione. Durante la seconda guerra mondiale<br />

la Spagna fu prigioniera degli accordi tra Hitler e Mussolini (potenze dell’Asse) e solo quando nel<br />

dopoguerra le potenze alleate decisero di non intervenire contro la dittatura di Franco, complice la<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 42


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

guerra fredda, la crescita <strong>economica</strong> si mise in moto e fu folgorante, riuscendo a compensare il tempo<br />

perduto. Nel 1959 l’economia si liberalizzò ed iniziò a godere del turismo, delle rimesse degli emigrati<br />

e degli investimenti esteri, crescendo molto in fretta dal 1969 al 1973. La crisi petrolifera segnò come<br />

per tutti la fine della golden age, situazione complicata dalla delicata transizione politica alla<br />

democrazia. Nuovi impulsi di crescita derivati dall’integrazione nella CEE.<br />

Il risultato in termini di crescita della Grecia, il più orientale dei Paesi occidentali, è meritevole e<br />

mostra la forza delle tendenze alla convergenza <strong>economica</strong> quando le si lascia agire. Agli inizi del<br />

1920 dovette accogliere 2 milioni di greci fuggiti dalla Turchia in conseguenza di reinsediamenti<br />

massicci di popolazione, occupata durante la seconda guerra mondiale dalle truppe dell’Asse, la<br />

Grecia subì distruzioni fino al 1949 a causa di <strong>una</strong> feroce guerra civile. Stabilizzata politicamente, la<br />

Grecia utilizzò per la crescita <strong>economica</strong> la forte domanda europea occidentale, le rimesse degli<br />

emigrati ed il crescente turismo. Entrata nella CEE nel 1980 non è riuscita a trasformare gli aiuti<br />

comunitari in <strong>una</strong> leva di modernizzazione.<br />

L’Europa centro orientale sorse dalle ceneri dei quattro imperi sconfitti: il tedesco, il russo, l’austroungarico<br />

e l’Ottomano. Gli stati erano creati dai trattati di pace e non avevano tradizione né risorse.<br />

Dedicarono gli anni 20 a dotarsi di <strong>una</strong> minima struttura statale e a costruirsi un’identità nazionale,<br />

riuscendoci in parte grazie agli aiuti nordamericani, francesi, britannici e belgi. Furono tutti catturati<br />

dal moto vorticoso dell’espansione hitleriana e rimasero sotto il controllo sovietico dopo la seconda<br />

guerra mondiale tranne la Finlandia e l’Austria.<br />

L’Austria è il paese che ha passato peggio gli anni tra le guerre: nel 1950 possedeva un PIL superiore<br />

solo del 9% a quello del 1913, soffrì molto duramente la prima guerra mondiale ed ebbe <strong>una</strong><br />

ricostruzione molto lenta e fragile dopo il crollo di tutta la struttura imperiale asburgica che dava vita<br />

a Vienna, capitale politica, <strong>economica</strong> e finanziaria dell’impero. La prolungata crisi si superò solo<br />

durante l’assorbimento nello spazio economico nazista, ma i buoni anni finirono bruscamente con<br />

l’occupazione alleata nel 1945 quando in un solo anno il PIL crollò del 60%. L’Austria rimase divisa<br />

anch’essa in 4 settori ma senza divisioni territoriali, la ricostruzione fu lenta, si completò nel 1953<br />

quando inizia la golden age: crescita rapida agevolata dall’ubicazione geopolitica in quanto faceva<br />

parte dell’economia occidentale ma era ottimamente collocata per realizzare compiti di<br />

intermediazione commerciale tra Est e Ovest. L’Austria recupererà tutti i suoi arretramenti bellici e<br />

tornerà ad essere prospera.<br />

Tutti gli altri Paesi dell’area centro orientale si integrano tra il 1945 e il 1948 all’area sovietica,<br />

restandoci fino al 1989 e condividendone la crescita<br />

3.2 LE GRANDI TAPPE<br />

Le fluttuazioni dell’economia<br />

1913 - esplosione della guerra e riduzione del PIL, che poi fluttua tra alti e bassi.<br />

1918 - fase finale della guerra e disorganizzazione successiva, caduta più forte.<br />

1923 - si ristabilisce il livello precedente alla guerra gli anni 20 sono di prosperità crescente 1929-1932<br />

il PIL cade continuamente totalizzando <strong>una</strong> perdita di più di 10 punti percentuali. 1933-1939<br />

recupero, incremento del 30% negli anni 30 le politiche sono autarchiche e si orientano a preparare<br />

nuovi conflitti. Il massimo del 1939 resiste precariamente fino al 1943.<br />

1944-1945 affondo fragoroso, caduta più forte del secolo, 15% in un anno. Con la guerra i Paesi si<br />

esauriscono e l’economia si paralizza.<br />

1946-1975 golden age dell’economia capitalista, aumento continuo del PIL (1948 anno iniziale del<br />

Piano Marshall, 1973 ultimo anno di prosperità)<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 43


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

1946-1950 ricostruzione, tasso di crescita annuo del 7%. Il recupero del massimo precedente alla<br />

guerra si ottiene già nel 1949, finisce il periodo storico dei transwar years (1914-1945) contrapposto<br />

agli interwas years (1918-1939).<br />

1951-1952 la crescita diminuisce ma la guerra si Corea e quella fredda danno nuovo impulso<br />

all’economia europea che recupera forza fino al 1957.<br />

1958 insieme di crisi e incertezze nella stabilità monetaria frenano la crescita che ritorna ai livelli<br />

precedenti già nel 1959.<br />

1960-1964 periodo più luminoso della golden age, ottimismo generale.<br />

1965-1967 rallentamento<br />

1968-1973 nuovo ciclo espansivo<br />

1974 i prezzi del petrolio crescono bruscamente ma l’economia gode dell’inerzia del periodo<br />

precedente<br />

1975 caduta del PIL, crisi poderosa, cambio di fase<br />

1974-1990 stagnazione <strong>economica</strong><br />

1975-1979 le economie cercano di aggiustarsi, ritmo meno intenso<br />

1979 nuova crisi petrolifera, nuova fase di pessimismo<br />

1980-1982 stagnazione<br />

1982-1988 crescita del 2-3% media (4%nel 1988)<br />

1989 caduta caduta del blocco sovietico, non porta acceclerazione per la crescita occidentale:<br />

1990-1993 il PIL in semiparalisi<br />

1993 annus horribilis dell’economia europea<br />

1993-2000 maggiore armonia produce alcuni casi di crescita modesta ma costante.<br />

Grande guerra e pace incerta<br />

Con l’esplosione della guerra crollò il mondo economico, sociale, politico, culturale, era la fine del’era<br />

del liberalismo ottocentesco. Lasciò <strong>una</strong> pesante eredità che condizionò la <strong>storia</strong> europea nel<br />

successivo quarto di secolo gettando le basi della seconda e per la rivoluzione che generò un sistema<br />

sociale contrapposto al capitalismo, il modello sovietico.<br />

Tre spetti importanti: rottura radicale con il passato, trasformazione dei modi di funzionamento delle<br />

economie nazionali e dell’economia internazionale, conseguenze economiche e costi della guerra:<br />

Appena si aprirono i combattimenti, i mercati finanaziari precipitarono e i governi persero il controllo<br />

delle transazioni estere sospendendo la conversione delle monete: il gold standard (modello<br />

monetario internazionale) fu smantellato, fu eliminato il libero movimento di capitali e di persone e il<br />

commercio estero trovò nuovi ostacoli. La guerra rappresentò <strong>una</strong> rivoluzione <strong>economica</strong>: i governi<br />

organizzarono economie di guerra per fabbricare armamenti ed assicurare provviste di beni essenziali<br />

agli eserciti ed alla popolazione civile, mobilitando in modo massiccio le risorse economiche e<br />

impiegando un dirigismo sistematico nel campo della produzione e distribuzione, controllando<br />

redditi e prezzi, ferendo a morte il liberalismo economico imperante fino al 1914 che nonostante gli<br />

sforzi non riuscì mai a tornare alla situazione precedente.<br />

Durante la guerra tutti i Paesi (compresi i neutrali) subirono cadute del loro PIL o comunque non<br />

crebbero salvo due eccezioni: l’Italia che cominciò neutrale ed entrò nel 1915 mantenendo le<br />

operazioni fuori dalle sue frontiere o da territori <strong>economica</strong>mente rilevanti e lavorando duro, ed il<br />

Regno Unito che mobilitò tutte le risorse. Finita la guerra, nel 1919 tutti i Paesi neutrali sono in buone<br />

condizioni per approfittare del ritorno alla normalità, tutti crescono e per alcuni c’è persino un boom<br />

(Danimarca e Olanda), Regno Unito e Italia, cresciuti orientati alle necessità belliche, cadono nella<br />

depressione postbellica così come gli imperi centrali (Germania e Austria) che subiscono forti cadute<br />

del PIL.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 44


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Nel 1924, con la chiusura della ricostruzione, sono finite anche le grandi inflazioni: i Paesi neutrali<br />

sono cresciuti superando il preguerra, così come i Paesi Alleati occupati (Francia e Belgio) e i Paesi<br />

degli imperi centrali che non avevano nessun legame con gli sconfitti (Cecoslovacchia e Yugoslavia)<br />

grazie ad abbondanti crediti dai vincitori. Italia e Regno Unito rimasero inchiodati ai livelli del 1919 e<br />

vissero un duro dopoguerra (in Italia generò il fascismo, mentre nel Regno Unito l’incertezza), come<br />

gli sconfitti (Germania, Austria, Ungheria, Turchia e Bulgaria) che passarono gli anni 20 nello sforzo<br />

di recupero.<br />

Il maggiore costo della guerra fu in vite umane (9 milioni di militari, 5 di civili) ed invalidi di guerra,<br />

il dolore e la sofferenza non possono esprimersi in termini economici. Il costo esorbitante che colpì le<br />

economie fu quello dei beni usati e distrutti nelle operazioni militari, che provocò indebitamenti<br />

colossali di spesa pubblica, ai quali i politici tardarono ad occuparsene in quanto decisi ad imporre<br />

indennizzi ai nemici sconfitti, ricorrendo alla via finanziaria più facile: l’emissione di denaro. Deficit<br />

pubblico ed inflazione sono i due squilibri macroeconomici più gravi per il dopoguerra, uniti a quelli<br />

che Keynes chiamò le “conseguenze economiche della pace” cioè le condizioni imposte dai vincitori<br />

nei trattati di pace firmati a Parigi nel 1919 (trattato di Versailles con la Germania) che comportarono<br />

la ricomposizione della mappa politica europea con conseguenti disordini economici e conflitti, e la<br />

richiesta di astronomici risarcimenti dalla Germania (che la spinsero al disastro monetario,<br />

l’iperinflazione) rovinando lo spirito di cooperazione e ritardando la ripresa tedesca e con essa quella<br />

europea.<br />

Gli Stati Uniti, trasformati in principale creditore e fornitore di beni che i belligeranti, impegnati nella<br />

fabbricazione di materiale bellico, non erano in grado di produrre, reclamarono intensamente la<br />

devoluzione dei crediti a fine guerra, ai quali i Paesi non erano in grado di rispondere in quanto<br />

impiegati nella ricostruzione delle economie.<br />

I “felici anni Venti” e le crisi degli anni Trenta<br />

Il 1919 fu l’anno <strong>economica</strong>mente peggiore: la riconversione dalle economie di guerra non fu facile,<br />

c’erano milioni di rifugiati, cambiamenti di confine, disorganizzazione, sovrapproduzione e scarsità.<br />

Ci vollero più di 2 anni perché le economie si normalizzassero, di più per i perdenti. Il 1922 fu il<br />

primo degli anni di prosperità, con <strong>una</strong> crescita generale dell’8,5%. Non per tutti: la Germania infatti<br />

vide i suoi ricchi bacini minerari occupati da francesi e belgi che decisero di recuperare in natura i<br />

debiti, lo Stato repubblicano si rifiutò di collaborare con gli invasori e finanziò i salari dei lavoratori in<br />

sciopero emettendo più denaro e mettendo in moto <strong>una</strong> spirale inflazionista che portò il passaggio ad<br />

economia di baratto nel 1923 (iperinflazione) dalla quale uscì solo con l’aiuto americano che dilazionò<br />

temporalmente i debiti per permettere all’economia tedesca di riprendersi (Piano Dawes 1925)<br />

Il resto dell’Europa visse invece i “felici anni 20”: dal 1921 al 1925 il PIL era cresciuto del 23%, le<br />

invenzioni degli americani durante la guerra arrivavano in Europa, come la Ford T e gli<br />

elettrodomestici. I Paesi, seguendo quanto consigliato da Dawes, tornarono al gold standard, che in<br />

Gran Bretagna (criticato da Keynes “le conseguenze economiche di Mr. Churchill) implicò <strong>una</strong><br />

rivalutazione della valuta nazionale da compensare con <strong>una</strong> riduzione del costo del lavoro, che<br />

provocò <strong>una</strong> recessione fulminante e la depressione che scatenò il grande sciopero del settore<br />

minerario del carbone nel 1926 e finì per dar luogo ad un governo di grande coalizione con la storica<br />

entrata al governo del partito laburista. I tre anni seguenti furono di notevole crescita e si assaporò<br />

ovunque la prosperità, persino in Germania, Austria, e in URSS che grazie alla NEP di Stalin (1924-<br />

1927) stava promettentamente recuperando.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 45


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Rimanevano comunque alcuni squilibri a livello di economia mondiale, come quelli causati dalla<br />

ristrutturazione produttiva internazionale: la guerra aveva incoraggiato l’aumento della capacità<br />

produttiva in tutto il mondo extrabelligerante per sostituire i mercati che prima venivano riforniti con<br />

l’importazione dall’Europa, che alla fine della guerra, con il ritorno alla normalità produttiva<br />

europea, portò a un problema di sovrapproduzione cronico che provocò <strong>una</strong> tendenza chiamata<br />

“deflazione strutturale” che riflette l’eccesso di offerta di beni sul mercato condizionando le<br />

opportunità di commercio durante la decade degli anni 20. Questa difficoltà di riorganizzazione<br />

produttiva spiega, secondo Kinndleberger, la durezza della crisi del 1929: la domanda mondiale andò<br />

decelerando di fronte all’incapacità dell’offerta di sostenere i prezzi commercializzando<br />

costantemente a prezzi di saldo.<br />

L’isolazionismo nordamericano inoltre, che intorpidiva la crescita del resto del mondo, si era<br />

dimostrato prima con il disinteresse per i trattati di pace e per il nuovo ordine mondiale, poi con il<br />

rifiuto del Congresso di entrare nella Società delle Nazioni, con la chiusura all’immigrazione, che<br />

provocava l’abbassamento dei salari operai e si realizzò con l’imposizione di <strong>una</strong> quota massima, ed<br />

infine con l’imposizione di dazi commerciali protezionistici che nel 1931 chiusero letteralmente le<br />

frontiere americane.<br />

In nordamerica si viveva comunque <strong>una</strong> grande prosperità, in gran parte derivata dagli enormi<br />

guadagni procurati dalla neutralità, dai prezzi insuperabili per i prodotti agrari, minerari ed<br />

industriali, qui si sviluppavano mode e nuovi prodotti, l’American way of life (le comodità della vita<br />

moderna) si diffonde attraverso nuovi mezzi di comunicazione, il più brillante dei quali è il cinema.<br />

In questo ambiente pieno di sicurezza e di prosperità si andò estendendo notevolmente<br />

l’investimento in borsa e l’acquisto di azioni di credito: il mercato borsistico attraè sempre più fondi<br />

entrando in <strong>una</strong> fase decisamente rialzista durante il 1928 e 1929, tutto basato sul fatto che l’economia<br />

non avrebbe cessato di crescere. In effetti molti mercati andavano riducendosi dalla crescente<br />

disparità degli Stati Uniti, e lo stesso mercato interno andava saturandosi e la capacità produttiva<br />

stava diventando sproporzionata rispetto alla capacità di assorbimento del mercato, mostrando un<br />

raffreddamento economico nel secondo semestre del 1929, che provocò <strong>una</strong> corrente di vendite nella<br />

borsa di NYC che culminò alla fine di ottobre nella precipitazione delle quotazioni (venerdì nero e<br />

martedì nero), dei valori dei titoli, distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro<br />

possessori. Molti investitori avevano comprato azioni a credito e la relativa insolvenza travolse chi<br />

aveva concesso loro i prestiti cioè le banche, e la spirale della contrazione del credito si mise in moto<br />

in tutte le direzioni, annullando le liquidità delle imprese, costrette a sospendere i pagamenti, molte a<br />

chiudere i battenti provocando disoccupazione. La Federal Reserv (FED, la banca centrale<br />

statunitense) sottovalutò il fenomeno e non intervenì, difesa dal presidente Hoover, che con questo<br />

errore si giocò la presidenza a favore dell’elezione nel 1932 di Roosvelt.<br />

Mentre la crisi borsistica si trasformava in bancaria e finanziaria in tutto il mondo, un altro<br />

meccanismo distruttivo si era messo in moto: l’America, per difendere la propria produzione, inasprì<br />

il protezionismo e ridusse fino a sospenderla l’erogazione di crediti all’estero, provocando la reazione<br />

di numerosi altri Paesi che avevano reagito con dazi più duri, e la tendenza alla guerra commerciale si<br />

vide rafforzata dalla caduta dell’attività <strong>economica</strong> e la crisi si globalizzò, portando il commercio<br />

mondiale a ridursi in modo continuo per 4 anni in <strong>una</strong> spirale di contrazione.<br />

Per sfuggire a questa ragnatela la soluzione era svalutare, tagliare cioè il legame con il gold standard,<br />

l’istituzione che simbolizzava la stabilità, normalità e benessere e che tanto era costato reintrodurre. Il<br />

Regno Unito fu il primo ad abbandonarla (settembre 1931), seguito da tutti i Paesi dell’area del<br />

Commonwealth e dai piccoli Paesi europei che dipendevano dal mercato britannico. In generale si<br />

comportarono meglio i Paesi che ne uscirono presto, riuscendo a svalutare e recuperare capacità<br />

competitiva, persa invece dagli altri.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 46


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

La crisi durò dal 1929 al 1933, il PIL europeo cadde mediamente del 10%, colpendo più duramente i<br />

Paesi sconfitti in guerra ed i loro eredi (Germania, Austria, Polonia e Cecoslovacchia) in quanto più<br />

legati a credito e commercio, due grandi meccanismi di diffusione della crisi. I Paesi scandinavi, la<br />

Spagna, l’Italia, ed i Paesi balcanici subirono leggermente la crisi, l’URSS neanche la soffrì.<br />

In generale la soluzione fu <strong>una</strong> certa chiusura commerciale ed un maggiore intervento pubblico, caso<br />

estremo gli Stati Uniti con il New Deal (1933) del neoeletto presidente Roosvelt che eliminò il gold<br />

standard e sostenne la domanda interna di consumo ed investimento attraverso l’iniziativa pubblica e<br />

la messa in moto di grandi opere pubbliche, iniziativa intrapresa anche da Hitler ma con tono politico<br />

completamente diverso: distrusse i sindacati e liquidò ogni opposizione politica, il tratto basilare della<br />

sua politica fu l’autarchia, il forte investimento per il riarmo dell’esercito, la produzione di articoli<br />

sostitutivi di quelli che dovevano importarsi, la chiusura commerciale, mantenne il gold standard.<br />

Forti investimenti pubblici anche in Gran Bretagna ed in Italia, con l’orientamento autarchico di<br />

Mussolini.<br />

Uscita dalla crisi, nell’Europa degli anni 30 si diffusero innovazioni come la radio, le fibre artificiali, le<br />

automobili di piccola dimensione, l’alluminio, nuovi elettrodomestici e vari prodotti che rianimarono<br />

l’offerta imprenditoriale e la domanda privata: fino al 1939 l’espansione <strong>economica</strong> dà luogo a 7 anni<br />

di crescita <strong>economica</strong> ininterrotta (unica eccezione la Spagna immersa in <strong>una</strong> guerra civile 1936-1939).<br />

La seconda guerra mondiale ed il progetto del nuovo ordine economico internazionale<br />

Fu molto più distruttiva della prima (16 milioni di militari, 26 milioni di civili), armamenti più<br />

potenti, odio più profondo, genocidi. Anche lo sforzo economico fu di scala maggiore in tutti i<br />

maggiori contendenti Germania, Regno Unito, Italia, URSS, Stati Uniti e Giappone, dove le capacità<br />

produttive vennero ampliate al massimo e scomparì la disoccupazione. Il PIL aumentò solo nei Paesi<br />

non occupati (Stati Uniti raddoppiarono il PIL in 5 anni) mentre in quelli occupati subì un crollo<br />

disastroso (Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio) in quanto l’occupazione significò<br />

disorganizzazione, sabotaggi, deviazione di risorse verso la Germania.<br />

Preparando la ricostruzione<br />

Dopo <strong>una</strong> veloce ricostruzione <strong>economica</strong>, il mondo si vide spronato alla maggiore crescita mai<br />

sperimentata, il secondo dopoguerra venne infatti affrontato con <strong>una</strong> ferma volontà di cooperazione<br />

<strong>economica</strong> da parte dei governanti, principalmente da Stati Uniti e Gran Bretagna (i due leader<br />

dell’economia mondiale e baluardi del blocco alleato), le coscienze dei quali erano state scosse e gli<br />

atteggiamenti su come sviluppare le relazioni economiche in tempo di pace capovolti: avevano<br />

imparato la “lezione della <strong>storia</strong>”. No debiti di guerra per evitare l’asfissia, no isolamento degli Stati<br />

Uniti, nuove regole accettate da tutti per scongiurare il pericolo di <strong>una</strong> ripetizione delle politiche di<br />

impoverimento del vicino (protezionismo esagerato e svalutazioni competitive).<br />

Serviva che la comunità internazionale si dotasse di <strong>una</strong> nuova architettura istituzionale che<br />

garantisse un commercio libero ed un sistema di pagamenti capace di assorbire gli squilibri, Gran<br />

Bretagna e Stati Uniti iniziarono nel 1941 a lavorare a tale modello, e convocarono nel giugno del 1944<br />

<strong>una</strong> conferenza <strong>economica</strong> internazionale a Bretton Woods (nordamerica) durante la quale si approvò<br />

<strong>una</strong> cornice istituzionale alla quale si sarebbero conformate tutte le relazioni economiche<br />

internazionali, che definì l’ambiente nel quale avrebbero dovuto operare idealmente il commercio, i<br />

movimenti di capitale ed i pagamenti esteri, un orizzonte verso il quale dovevano incamminarsi le<br />

politiche commerciali e cambiarie.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 47


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Gli accordi si basavano sulla creazione di 3 nuove istituzioni sovranazionali:<br />

- OCI (Organizzazione per il Commercio Internazionale) per il rafforzamento di un<br />

commercio libero, che non arrivò a nascere, fallì, e si dovette colmare il vuoto con un accordo più<br />

flessibile, il GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio) che favorì attraverso negoziati<br />

(round) <strong>una</strong> progressiva liberalizzazione del commercio mondiale e si trasformò nel 1995 in vera<br />

organizzazione con il nome di OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio).<br />

- BIRS (Banca Mondiale) con lo scopo di finanziare investimenti di lungo termine,<br />

strategici pe lo <strong>sviluppo</strong> economico, che non sono solitamente presi in considerazione dal capitale<br />

privato, e di cooperare alla ricostruzione <strong>economica</strong>.<br />

- FMI (Fondo Monetario Internazionale) è l’elemento fondamentale, si occupa della<br />

difesa di un sistema cambiario a tassi regolabili ma fissi, poteva prestare assistenza finanziaria ai<br />

Paesi in deficit nei conti esteri. È lo strumento che combina il rigore con la flessibilità, conferendo<br />

stabilità e prevedibilità al sistema monetario internazionale.<br />

Queste istituzioni, anche se la realtà non si adeguò alle aspettative e se le misure adottate<br />

impallidirono di fronte al piano Marshall, hanno permesso <strong>una</strong> crescita <strong>economica</strong> sicuramente<br />

maggiore durante la seconda metà del XX secolo che se non ci fossero state, hanno garantito relazioni<br />

economiche sicure e stabili.<br />

Ricostruzione postbellica, divisione in blocchi ed integrazioni regionali<br />

1945-1947 sono dominati dalla politica degli aiuti umanitari: le nuove amministrazioni nei territori<br />

liberati dal controllo nazista, con l’aiuto dell’UNRRA (United Nation Relif and Rehabilitation<br />

Administration) concentrano la loro attenzione sui compiti urgenti di soccorso alle decine di milioni<br />

di feriti, prigionieri, dispersi, città devastate e nazioni disorganizzate. L’estate del 1947 era il termine<br />

fissato per rendere operanti gli accordi di Bretton Woods ma era prematuro e gli Stati Uniti proposero<br />

un grande piano di ricostruzione. Tutta l’Europa si era lanciata in ambiziosi progetti di<br />

modernizzazione e invece di cercare di ridurre il deficit commerciale, importavano ingenti beni<br />

capitali dagli Stati Uniti, molto superiori alla loro capacità di pagamento, e Washington temendo <strong>una</strong><br />

brusca caduta della domanda europea sentì la necessità di cercare <strong>una</strong> soluzione per conservare<br />

l’eccezionale livello delle esportazioni e quindi delle attività e dell’occupazione che l’economia<br />

americana aveva conseguito grazie alla guerra.<br />

Tra l’aprile 1948 e il giugno 1951 il governo statunitense fornì ai Paesi dell’Europa occidentale aiuti<br />

per un importo di 13.000 milioni di dollari, l’essenza dell’ERP (European Recovery Program) o piano<br />

Marshall. I Paesi maggiormente beneficiati furono quelli piccoli come Grecia, Austria e Olanda, il<br />

resto ottenne dei miglioramenti del PIL dal 5 al 10%. L’obiettivo era di finanziare le importazioni che<br />

l’Europa necessitava ma non poteva permettersi, in cambio l’Europa si impegnava ad iniziare, <strong>una</strong><br />

volta ricostruita, il processo di liberizzazione commerciale che significava apertura dei mercati<br />

europei alla competizione dei produttori americani. L’America inoltre, sempre a questo scopo,<br />

finanziò l’esportazione di beni verso l’Europa, elimitò il limite massimo produttivo imposto alla<br />

Germania dopo la guerra (che facilitò la normalizzazione produttiva di tutta l’industria europea), e<br />

permise ai governi europei di approntare sistemi preferenziali transitori di commercio intraeuropeo.<br />

Già nel 1949 gli inglesi, non potendo sopportare il peso della sopravvalutazione, svalutarono la lira<br />

sterlina e durante la tempesta successiva riuscirono ad introdurre uno schema di cooperazione<br />

monetaria intereuropea che aveva l’intento di risparmiare dollari ed orientato alla più rapida<br />

stabilizzazione dei tassi di cambio: è l’UEP (Unione Europea dei Pagamenti) creato nel 1950 e<br />

destinato a finire nel 1958 che tra le altre cose incoraggiò a fare il passo verso la CEE (Comunità<br />

Economica Europea) con il Trattato di Roma firmato nel 1957 da Germania (RFT),Belgio, Francia,<br />

Olanda, Italia e Lussemburgo, e reso effettivo nel 1958.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 48


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Il primo esperimento di integrazione risale al maggio 1959 quando Robert Schuman, ministro<br />

francese degli Affari Esteri, propose di collocare la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio<br />

sotto un’unica Alta Autorità comune, rinunciando alla propria sovranità in settore essenziale per<br />

l’economia francese, e riconoscendo la neonara RFT, erede dei nemici storici, alleato senza pari. Con il<br />

Trattato di Parigi del 1951 si crea, a questo scopo e con ottimo risultato, la CECA (Comunità<br />

Economica del Carbone e dell’Acciaio), decisivo affinchè la Germania si sentisse e fosse integrata nella<br />

CEE e si creasse così <strong>una</strong> solida piattaforma per <strong>una</strong> crescita <strong>economica</strong> simbiotica. Per Italia, Francia,<br />

Belgio, Olanda e Lussemburgo il beneficio fu l’accesso preferenziale al sempre più dinamico mercato<br />

tedesco, mentre per la Germania la libertà di poter disimpiegare completamente tutto il suo<br />

potenziale di crescita senza provocare apprensione.<br />

Il Regno Unito, con gli altri Paesi occidentali piccoli, o molto orientati al commercio con la Gran<br />

Bretagna (Danimarca, Norvegia, Svezia, Svizzera), o ancora che non potevano integrarsi alla CEE per<br />

ragioni politiche (Portog<strong>allo</strong> che non realizzava il regime democratico) o per obbligo di neutraità<br />

(Austria e Finlandia), fondarono nel 1959 l’EFTA (European Free Trade Association). Rimanevano<br />

fuori dalle grandi alleanze l’Irlanda, legata da un personale trattato commerciale con la Gran<br />

Bretagna, la Grecia, comunque parte della Nato, e la Spagna.<br />

Impatto del processo di integrazione europea sull’area di influenza sovietica<br />

Titti i Paesi dell’area sovietica furono invitati a partecipare al piano Marshall ma intimati dall’URSS di<br />

declinare l’offerta (implicava per Stalin cessioni di potere e di capacità di controllo). Il mondo era<br />

Stato diviso, a Yalta e Potsdam, in aree di influenza, in blocchi, quello pro-americano decise di creare<br />

l’alleanza militare dell’Atlantico settentrionale, la NATO, mentre l’URSS creò in risposta nel 1949 il<br />

COMECON (Consiglio di Mutua Assistenza Economica) che riunì tutti i Paesi ad economia socialista<br />

che si trovavano nell’orbita sovietica e che fece ben poco, non potendo l’URSS beneficiare di niente<br />

tipo piano Marshall, bloccò comunque il recupero degli indennizzi di guerra dai Paesi occupati, un<br />

drenaggio di risorse (materiale da trasporto, macchinari, materie prime e prodotti semilavorati) che<br />

stava frenando la capacità di ricostruzione delle economie del Paesi dell’Est.<br />

I Paesi che rimasero sotto l’influenza sovietica (Albania, Bugaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia,<br />

RDT, Romania e Yugoslavia) puntarono su un modello di <strong>sviluppo</strong> autarchico. Il legame con il resto<br />

del mondo era limitato, all’interno del COMECON da:<br />

- fissazione di quantità e prezzi dei prodotti che si dovevano commerciare, gli scambi si<br />

realizzavano a vantaggio dell’URSS che così si rifaceva dei danni subiti durante la seconda guerra<br />

mondiale e manteneva la sua leadership,<br />

- mancanza di libertà nelle negoziazioni che dovevano sempre essere autorizzate,<br />

- mancanza di competitività dei prodotti dell’area e incapacità di sapere quale fosse il<br />

prezzo che andava fissato per non perdere terreno nel commercio internazionale (eliminazione del<br />

sistema dei prezzi di mercato).<br />

L’emergenza del terzo mondo<br />

Primo mondo: blocco capitalista diretto dagli Stati Uniti, economie dimercato prospere, sistemi di<br />

proprietà privata e democrazie politiche. Secondo mondo: blocco comunista guidato dall’Unione<br />

Sovietica, economie abbastanza prospere di pianificazione centralizzata, sistemi di proprietà<br />

collettiva, democrazie popolari (dittature). Terzo mondo: tutto il resto, potevano essere capitalisti o<br />

socialisti, economie di mercato o pianificate, democrazie formali o popolari, crearono il movimento<br />

dei Paesi non allineati, non desideravano essere soggetti né agli Stati Uniti né all’Unione Sovietica.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 49


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

La gran parte erano ex colonie delle potenze occidentali o del Giappone, per le quali la<br />

decolonizzazione fu il principale fattore unificante (quella nipponica durante gli ultimi anni della<br />

seconda guerra mondiale che interessò quasi tutto l’Estremo Oriente, quella inglese e quella francese,<br />

tra il 1945 ed il 1965: 1947-1949 emancipazione di India, Pakistan, Indonesia, 1960 Africa completata<br />

nel 1964, quella portoghese nel 1975), che offrì nuove opportunità di <strong>sviluppo</strong> politico e sociale che<br />

non sempre si realizzarono e sebbene le ex colonie non potessero più beneficiare di accessi<br />

preferenziali ai mercati metropolitani, registrarono risultati positivi durante la golden age: il Pil<br />

asiatico dal 1950 al 1973 crescè del 5,2%, quello africano del 4,5%, dinamismo esaurito dai notevoli<br />

incrementi demografici di questi anni.<br />

La golden age (1950-1973)<br />

Caratterizzata dalla globalità della crescita <strong>economica</strong>: in Europa occidentale il PIL pro capite cresce<br />

del 4,1%, quello dell’URSS e Europa orientale del 3,5%, nelle America del Nord del 2,4%, del Sud del<br />

2,5%, in Asia del 3%, Giappone 8,1%, Africa 2,2%: la crescita del PIL mondiale fu sempre tra il 5 ed il<br />

6%.<br />

Il fattore terra ha avuto pochissima importanza, il fattore lavoro meno nell’area OCSE (12%) rispetto<br />

al blocco sovietico, Asia ed America Latina (tra il 35 ed il 41%) a causa di <strong>una</strong> minore crescita<br />

demografica combinata ad <strong>una</strong> riduzione di ore lavorate per persona, OCSE e URSS hanno mobilitato<br />

più capitale che lavoro ma l’URSS il doppio. Il PTF (Produttività Totale dei Fattori) misura tutti gli<br />

altri fattori meno precisabili. In sintesi i Paesi più avanzati sono cresciuti per un migliore utilizzo<br />

integrato dei fattori (PTF) più che per l’aggiunta di altri, la crescita dell’URSS è stata estensiva mentre<br />

quella dell’OCSE intensiva.<br />

OCSE: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, raggruppa i Paesi ad economia<br />

di mercato e più sviluppati includendo tutti quelli dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Canada,<br />

l’Australia, la Nuova Zelanda ed il Giappone. È discendente dell’Ufficio Europeo di Cooperazione<br />

Economica.<br />

Il PTF nell’Europa occidentale crebbe spettacolarmente dal 1950 in quanto alla fine della guerra si<br />

trovò con <strong>una</strong> quantità e qualità di tecnologie da copiare impressionante, aveva la qualificazione<br />

necessaria, la voglia di lavorare per recuperare le distanze rispetto agli Stati Uniti, l’ambiente era<br />

efficiente e gli sforzi non venivano sprecati (il sistema politico ed economico era difeso dai governi e<br />

c’era convergenza di politiche nazionali concepite per alimentare il consenso politico e la coesione<br />

sociale, che creò <strong>una</strong> solida base per la crescita <strong>economica</strong>).<br />

Il 1958 fu di crisi <strong>economica</strong> per gli aggiustamenti produttivi imposti dall’avvento di un mondo di<br />

parità fisse, stabilità cambiaria prevista da Bretton Woods, che <strong>una</strong> volta superata portò un grande<br />

successo, i veri anni di golden age che portarono <strong>una</strong> crescita ininterrotta e spettacolare del<br />

commercio intereuropeo.<br />

Nel 1973, dopo 12 anni di continui solleciti ma sopratturro dopo l’abbandono al potere del generale<br />

francese De Gaulle, da sempre contrario, la Gran Bretagna entrò nella CEE con Danimarca ed Irlanda,<br />

lasciando nell’indecisione gli altri Paesi dell’EFTA.<br />

Durante la golden age c’era <strong>una</strong> forte tendenza alla convergenza dei redditi pro capite dell’Europa<br />

occidentale, superiori di quelli americani e mondiali, migliori quelli dei Paesi più poveri o più<br />

impoveriti in guerra di quelli dei Paesi già ricchi, neutrali o non occupati.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 50


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Crisi petrolifere, stagflazione e sfide extraeuropee<br />

I meccanismi di compromesso interno si stavano andando via via deteriorando con la comparsa delle<br />

nuove generazioni, la conflittualità sindacale aumentava e divenne preoccupante agli inizi degli anni<br />

70. La stabilità cambiaria, un compromesso di stabilità basilare del mondo economico del dopoguerra,<br />

svanì quando il presidente Nixon decise nell’agosto del 1971 la sospensione della convertibilità in oro<br />

del dollaro in quanto di fronte al deficit pubblico dovuto alle spese militari straordinarie e crescenti<br />

della guerra del Vietnam, gli Stati Uniti avevano bisogno di mettere mano a politiche inflazioniste.<br />

Era la fine dell’era dell’attuazione degli accordi monetari di Bretton Woods, e l’inizio di un periodo di<br />

instabilità monetaria internazionale nonostante si rafforzarono i meccanismi di cooperazione tra le<br />

monete europee mediante l’adozione del “serpente monetario”, fissazione di bande di fluttuazione<br />

per le valute (maggior margine di attuazione di politiche monetarie).<br />

Lo shock arriva alla fine del 1973: un brusco aumento dei prezzi del petrolio deciso dall’OPEC<br />

(Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) come rappresaglia per l’atteggiamento proisraeliano<br />

dei Paesi occidentali nella guerra del Kippur. In pochi mesi il prezzo del petrolio si<br />

quadruplicò portando massicci deficit commerciali in tutti i Paesi importatori, per i quali il petrolio<br />

già rappresentava la partita maggiore delle importazioni, era il pane dell’industria che ormai<br />

ovunque aveva sostituito il carbone, in termini economici la domanda di petrolio era molto rigida, il<br />

che provocò un impoverimento di tutti i Paesi importatori, quelli dell’OCSE.<br />

Il mondo era diviso in base a nuove frontiere: i Paesi autosufficienti, e protetti quindi dalla crisi, erano<br />

le due grandi potenze mondiali, Stati Uniti e Unione Sovietica che approfittò per aumentare le sue<br />

esportazioni, chi soffrì maggiormente furono Europa occidentale, Giappone e il Terzo Mondo<br />

importatore di petrolio che si indebitò aspettando tempi migliori, mentre i Paesi dell’OPEC si<br />

arricchirono fino a limiti inverosimili, i piccoli emirati arabi e gli altri micro Paesi esportatori<br />

riuscirono a distribuire la fiumana di dollari tra la parentela ed i sudditi, i Paesi con maggiore<br />

popolazione (Iran, Iraq, Algeria, Venezuela, Indonesia e Nigeria) misero in moto ambiziosi<br />

programmi di industrializzazione e benessere sociale.<br />

Le risposte alla crisi furono diverse e nell’ambiente più incerto creato dai tassi di cambio fluttuanti i<br />

governi ebbero maggiori margini di manovra, si distinsero 3 tipi di politiche:<br />

- Spagna e Svezia ritennero che la crisi fosse transitoria e ridussero le imposte alla<br />

vendita dei derivati del petrolio, senza prepararsi al risparmio energetico.<br />

- Il blocco più numeroso (Francia, Gran Bretagna, Italia) applicò politiche di<br />

trasferimento dei nuovi prezzi al pubblico ed affrontò la crisi con <strong>una</strong> volontà di risparmio energetico,<br />

senza però rivedere la politica dei redditi, rivendicata ed ottenuta dai sindacati. Si entrò in politiche<br />

inflazioniste.<br />

- RFT e Giappone accettarono l’idea di essersi impoveriti, e quest’ultimo, <strong>una</strong> volta<br />

assimilata la nuova struttura dei prezzi, tornò a crescere a gran velocità puntando <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> di<br />

settori poco intensivi da punto di vista energetico, come l’elettronica di consumo. La RFT cercò di<br />

ridurre l’inflazione obbligando gli operatori economici a ridimensionare le entrate, uscendo dalla crisi<br />

con <strong>una</strong> moneta più forte, inflazione bassa, guadagni in competitività e struttura industriale rinnovata<br />

ed alleggerita dai settori che consumavano più petrolio.<br />

In generale in tutti i Paesi dell’OCSE l’inflazione e la disoccupazione aumentarono. La situazione è<br />

quella della stagflazione, combinazione di stagnazione <strong>economica</strong> (aumento prezzi e disoccupazione)<br />

ed inflazione, non prevista nei modelli di politica <strong>economica</strong> tradizionali di taglio keinesiano.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 51


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

Quando il prezzo del greggio si fu stabilizzato e tutte le politiche cominciavano a produrre i loro<br />

risultati, arrivò il secondo shock petrolifero, nel 1979: lo Sha di Persia fu abbattuto da <strong>una</strong> rivoluzione<br />

islamica diretta dall’Ayatollah Khomeini, le cui dichiarazioni antioccidentali e la tensione con gli Stati<br />

Uniti crearono incertezza nel mercato petrolifero, che si tramutò in panico quando nel 1980 esplose la<br />

guerra tra Iran ed Iraq che si sviluppò fino nelle loro regioni produttrici di greggio. L’OPEC<br />

approfittò per imporre <strong>una</strong> nuova moltiplicazione dei prezzi del greggio che impoverì nuovamente i<br />

Paesi importatori tra il 1981 ed il 1983.<br />

I Paesi della CEE si sforzarono di coordinare le loro politiche per reagire alla crisi, riattivando il SME<br />

(Sistema Monetario Europeo) con margini di oscillazione tra le monete abbastanza ristretti (ormai si<br />

era convinti che convenisse lottare insieme contro l’inflazione).<br />

I Paesi dell’OPEC si ritrovarono in un regime di sovrabbondanza <strong>economica</strong>, accumularono fortune<br />

enormi in petroldollari, che per le monarchie arabe ritornarono nei mercati borsistici e nelle banche<br />

occidentali in cerca di opportunità redditizie di investimento, impossibili nelle piccolo monarchie<br />

arabe: i nuovi ricchi dei Paesi poveri depositavano massicciamente il denaro nei Paesi ricchi. Per i<br />

Paesi più popolati ed indipendenti vennero invece investiti in strategie più ambiziose ed orientate<br />

<strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong> delle loro economie, sviluppando l’industria della raffinazione del petrolio e tutte le<br />

industrie derivate, ma anche tentando l’industria pesante con il sogno di entrare nel club dei Paesi<br />

industriali.<br />

CRISI DEL DEBITO: la quotazione del dollaro si era mantenuta bassa nella decade del 1970 e iniziò a<br />

salire con l’arrivo di Reagan alla presidenza, e con la politica condotta dalla Riserva federale di<br />

scarsità del denaro <strong>allo</strong> scopo di sostenere la quotazione del dollaro. C’era forte fiducia nella ripresa<br />

della sua quotazione e tutti gli investitori del mondo si rivolgevano verso questi titoli: il dollaro salì<br />

inarrestabilmente per cinque anni (1980-1985) colpendo principalmente quei Paesi che si erano<br />

indebitati in dollari, in particolar modo in Messico, dove la crisi esplose nel 1982 con la caduta del<br />

peso messicano che generò un irrefrenabile circolo vizioso che finì della sospensione delle intenzioni<br />

di saldare il debito, che interessò anche i Paesi dell’America Latina e l’Africa.<br />

Dal 1991 al 1988 l’economia europea sperimentò un recupero modesto ma continuo, gli Stati Uniti<br />

intanto erano immersi in politiche di riforma strutturale liberal-conservatore del presidente Reagan.<br />

Tra il 1985 ed il 1986 tutto cambiò, prezzi del petrolio, del dollaro e dei tassi di interesse nordamicani<br />

cominciarono a scendere, nel gennaio 1986 l’Arabia Saudita ruppe il cartello dell’OPEC ed aumentò la<br />

produzione, seguita dagli altri Paesi ed il prezzo del greggio precipitò raggiungendo il suo livello<br />

reale anteriore alla crisi del 1973. Il dollaro scese e la crisi del debito divenne governabile. Il contesto<br />

successivo è di maggiore ottimismo, Spagna e Portog<strong>allo</strong> entrano nella CEE (1986) che lancia pa<br />

proposta di Atto Unico per il completamento dell’unificazione del mercato comune europeo, che si<br />

applicò progressivamente dal 1987 al 1993. L’espansione europea crebbe fino al massimo del 4% nel<br />

solo 1988.<br />

Caduta del blocco sovietico, rilancio dell’integrazione europea e globalizzazione<br />

Il 1989 è l’annus mirabilis del capitalismo occidentale, è l’anno della caduta del muro di Berilino e<br />

della maggior parte dei regimi dittatoriali dei Paesi dell’Est nel giro di poche settimane (novembredicembre),<br />

è anche l’ultimo anno di crescita: il decennio 1990 sarà molto diverso. Questi paesi<br />

avevano vissuto <strong>una</strong> lenta decadenza dalla fine della golden age, la prima crisi fu vissuta in modo<br />

uguale in tutta l’Europa (i Paesi del COMECON acqustavano petrolio dall’URSS a prezzi inferiori dei<br />

quelli del mercato mondiale, erano fissati impiegando la media dei 5 anni precedenti, per evitare<br />

shock) mentre la seconda fu più sofferta nell’Est dal 1979 al 1981 dove non si era capita la lezione e<br />

molti Paesi furono costretti ad indebitarsi in occidente con il quale avevano già dei debiti che<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 52


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

diventavano preoccupanti con il rincaro del dollaro, mentre i Paesi occidentali dal 1981 recupevano il<br />

loro ritmo di crescita, quelli orientali non riuscivano a stabilizzarsi e dopo 1956 le difficoltà, persino<br />

per l’URSS erano insostenibili (le spese militari della guerra in Afghanistan, combinate con la sfida<br />

militare con gli Stati Uniti moltiplicavano le uscite per la difesa), il sistema andava perdendo capacità<br />

di manovra. Dopo le rivoluzioni democratiche del 1989 l’Europa orientale, URSS compresa, si<br />

proposero di accelerare la transizione alla democrazia ed al capitalismo. Il processo subì un arresto<br />

con il colpo di Stato dell’agosto del 1991 che fallì nel tentativo di ritornare all’ortodossia comunista<br />

ma riuscì a rovesciare Gorbaciov, sostituito dal leader della resistenza al golpe, Yeltsin anche accelerò<br />

i cambiamenti convertendo l’URSS in CSI (Confederazione Stati Indipendenti) e convocando elezioni<br />

democratiche.<br />

La conversione ad economia di mercato, capitalista ed aperta fu traumatica, ci furono 4 anni di<br />

recessione (un crollo del 18% dal 1990 al 1992) per ritornare a tassi positivi nel 1994. Ci fu <strong>una</strong> vera<br />

rivoluzione <strong>economica</strong> che si verificò in modo istantaneo: le economie si aprirono al commercio estero<br />

di beni e servizi ed ai movimenti di capitali e persone, sparì la pianificazione ed emersero i mercati, le<br />

proprietà pubbliche vennero privatizzate con enorme ripercussione sui conti pubblici e sulle fortune<br />

private. I Paesi che decisero di accelerare i cambiamenti sono riusciti ad abbreviare la sofferenza della<br />

fase di transizione ed entrare in <strong>una</strong> nuova era di crescita, mentre quelli che esitarono nella<br />

transizione sono rimasti impantanati tra due sistemi ed hanno subito ricadute dolorosissime.<br />

La transizione di maggiore successo è quella Polacca che ha minimizzato le perdite (in termini di<br />

intensità e durata) ed è riuscita a tornare a crescere impetuosamente. La Cechia completò <strong>una</strong><br />

transizione rapida ma senza grande crescita, la Slovacchia, che cominciò con un regime politico simile<br />

al vecchio, con scarsa dotazione di infrastrutture, popolazione meno istruita e con un peso<br />

opprimente della grande impresa statale riuscì dopo due anni di transizione di tornare a crescere con<br />

velocità dal 1994. L’Ungheria non riuscì a far decollare la sua crescita, mentre gli altri tre Paesi<br />

(Romania, Bulgaria, RDT) rappresentarono transizioni fallite che dopo un tentativo cadono nel<br />

marasma economico e tornano ai vecchi sistemi e politiche. I Paesi balcanici, a differenza di questi,<br />

avevano usanze occidentali nella politica e nel diritto più recenti: la Yugoslavia subì un crollo del PIL<br />

dal 1989 al 1993 non dovuto alla transizione di mercato ma al caos derivante dalla frammentazione<br />

che fu estremamente traumatica e diede luogo a lunghe guerre devastatrici e spietate che hanno<br />

occupato il decennio. Nonostante l’economia yugoslava era quella a più alta concentrazione<br />

mercantile, con numerose imprese private, importanti investimenti stranieri e aperta al turismo, il suo<br />

potenziale andò in rovina dinanzi <strong>allo</strong> smembramento bellico. La Slovenia, separatasi per prima, è<br />

l’unica ad aver evitato il caos.<br />

La transizione più traumatica fu quella dell’URSS, che iniziò prima e durò di più. Gorbaciov già dal<br />

1985 introdusse riforme nel clima di libertà, nell’informazione, nella politica ma non nell’economia,<br />

senza toccare le pianificazioni. Solo dopo il colpo di Stato del 1991 si cominciò <strong>una</strong> transizione<br />

<strong>economica</strong> realizzata nella confusione, senza orientamenti e concertazione: il commercio estero fu<br />

liberalizzato mentre i mercati interni continuavano ad essere controllati dall’ufficio di pianificazione,<br />

dal1990 al 1998 c’è un vero disastro economico.<br />

La RDT viene assorbita dalla RFT dopo la caduta del muro nel 1990, la cui popolazione aumentò di<br />

un quarto, al quale avrebbe dovuto estendere diritti economici, infrastrutture ed opportunità<br />

equivalenti, il che richiese cospicui investimenti che la nuova Germania realizzò indebitandosi, il<br />

cancelliere Kohl approfittò della centralità del marco e dell’economia tedesca innalzando i tassi di<br />

interesse per attrarre fondi da tutto il mondo, disseminando il problema del finanziamento della<br />

ricostruzione dell’ex RDT in tutti i Paesi dell’Unione Europea, ma anche provocando <strong>una</strong><br />

rivalutazione del marco inarrestabile che, costretta in <strong>una</strong> banda di fluttuazione dalla SME, provocò<br />

nel settembre 1992 <strong>una</strong> crisi cambiaria di grandi proporzioni: la banda di fluttuazione fu ampliata<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 53


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

facilitando così grandi svalutazioni ed <strong>una</strong> instabilità che durerà fino al 1993, interrompendo inoltre<br />

gli impegni per l’integrazione monetaria presi nel 1991 con il Trattato di Maastricht che costituiva<br />

l’Unione Europea.<br />

L’Unione Economica e Monetaria fu la risposta al conflitto sorto tra l’incertezza avvertira di fronte<br />

all’unificazione della Germania e l’impossibilità di generare politiche monetarie indipendenti dalla<br />

Germania. L’integrazione monetaria viene rilanciata nel 1993 quando l’Unione Europea ha<br />

ufficialmente origine: l’euro sarà la massima espressione di integrazione <strong>economica</strong> europea, si crea<br />

l’Istituto Monetario Europeo nel 1994 che lancerà il calendario per la piena applicazione dei criteri di<br />

adesione alla moneta unica (i criteri di convergenza di Maastricht) da attuarsi entro il 1998, che<br />

domineranno la vita <strong>economica</strong> dell’Europa occidentale: non aver svalutato negli ultimi due anni, non<br />

avere un tasso di inflazione superiore di un punto e mezzo la media dei tre più bassi, non avere tassi<br />

di interesse a lungo termine superiori di due punti ai tre con inflazione più bassa, non avere un debito<br />

pubblico che superi il 60% del PIL né un deficit dei conti pubblici superiore al 3% del PIL.<br />

Questi criteri e la volontà di applicarli agevolarono la riduzione dell’inflazione che si era messa in<br />

moto, l’impegno per il contenimento della spesa e del debito e per il controllo monetario incoraggiò la<br />

fiducia dei mercati e il prezzo del denaro cominciò a cadere rendendo più gestibili i deficit pubblici e<br />

la massa del debito. L’economia europea riprese il cammino della crescita, dal gennaio del 1995 i<br />

membri comunitari divennero 15, con l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia, e le parità fisse<br />

dell’euro vennero approvate nel maggio 1998, la moneta unica cominciò ad essere quotata sui mercati<br />

monetari dal 1 gennaio 1999.<br />

La globalizzazione<br />

Si sono integrate molto più le borse valori che qualsiasi altra attività mercantile (le popolazione<br />

affrontano ostacoli per emigrare, le merci subiscono limitazioni significative, i flussi di capitali no). La<br />

capitalizzazione borsistica aggregata è cresciuta tra il 1983 ed il 1998 ad un tasso del 15% annuale, 6<br />

volte più del PIL, e ancora più alta è stata la crescita dei volumi delle negoziazioni nelle borse<br />

mondiali.<br />

I fattori dell’integrazione dei mercati finanziari sono stati politici, economici, ma anche tecnologici,<br />

con l’interconnessione delle borse mondiali nel 1987 grazie alla diffusione dell’informatica<br />

personalizzata (PC) e al miglioramento delle telecomunicazioni che facilitarono la trasmissione di dati<br />

a distanza. L’industria delle telecomunicazioni passò da <strong>una</strong> serie di monopoli nazionali alla<br />

liberalizzazione e deregulation negli Stati Uniti, Gran Bretagna e nei Paesi della loro area culturale,<br />

parte della rivoluzione conservatrice degli anni 80, le stelle della borsa europea negli anni 90 sono<br />

state proprio le compagnie di telecomunicazioni privatizzate. L’Europa è rimasta indietro rispetto<br />

all’America nella New Economy ed in Internet, ma non per quanto riguarda la telefonia mobile, che è<br />

invece cresciuta in modo straordinario. Internet ha permesso che il commercio internazionale di<br />

servizi si trasformasse in un’area molto dinamica di crescita.<br />

Dopo il 1973, a differenza di quello che accadde nella golden age, la crescita europea fu un fallimento<br />

rispetto a quella statunitense, e non fu inversamente proporzionale al livello di reddito iniziale per<br />

due motivi: i Paesi più poveri, quelli dell’ex area sovietica, sono cresciuti molto meno di quelli<br />

occidentali, ed elementi esogeni al modello di convergenza dei tassi di crescita, come le politiche<br />

seguite, hanno avuto più grande importanza.<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 54


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

3.3 LE POLITICHE ECONOMICHE E SOCIALI<br />

Il tratto caratteristico dell’economia europea del XX secolo è Stato il ruolo crescente dello Stato: da<br />

mercati sempre più controllati ad uno Stato sempre più coinvolto nell’andamento dell’economia. È un<br />

secolo di sperimentazione politica, nel quale le politiche economiche e sociali sono state le<br />

protagoniste.<br />

Le politiche dei diritti di proprietà<br />

Le due direzioni sono quelle della statalizzazione o privatizzazione. Dopo il XIX secolo durante il<br />

quale la concezione liberale della proprietà privata era intesa come sacra, il XX secolo si inaugura con<br />

la rivoluzione bolscevica nell’ottobre 1917 che portò l’abolizione della proprietà privata (con<br />

un’espropriazione su grande scala e senza indennizzo, non solo dei cittadini russi ma anche degli<br />

stranieri che avevano investito in Russia provocando un conflitto diplomatico che bloccò le relazioni<br />

tra URSS e Paesi occidentali per molte decadi, che uno dei fatti economici più importanti del secolo) e<br />

la sua sostituzione con quella socializzata controllata dai soviet, o assemblee rivoluzionarie, ruppe la<br />

tradizione di rispetto dei diritti di proprietà ed ebbe enorme impatto su tutto lo scenario politico<br />

mobilitando contro l’URSS e contro qualunque barlume di politica comunista, i settori conservatori.<br />

Le sinistre si divisero in ragione dell’adesione o ripudio della rivoluzione bolscevica, definendo due<br />

campi inconciliabili. La sinistra moderata, socialdemocratica, si <strong>allo</strong>ntanò da Lenin e dal bolscevismo,<br />

e l’entusiasmo riformatore verso la rivoluzione russa si raffreddò ancora di più con l’entrata del<br />

partito nel governo della Germania del dopoguerra ed i continui conflitti con i partiti comunisti nati<br />

dal 1920 in tutta Europa, attratti invece dalla rivoluzione (che difesero e diffusero) così come gli<br />

anarchici che però si sentirono presto defraudati dalla fortissima componente statalista dei<br />

bolscevichi.<br />

Tra le due guerre la socialdemocrazia difese il diritto della proprietà privata combinato con un<br />

intervento sussidiario dello Stato per garantire diritti complementari per migliorare il livello di vita<br />

del cittadino. Non ci furono socializzazioni ma statalizzazioni o nazionalizzazioni, verso le quali<br />

erano le dittature di orientamento fascista le più orientate: in Spagna il generale Primo de Rivera<br />

espropriò con indennizzo nel 1924 tutte le imprese telefoniche e nel 1927 quelle di raffinazione e<br />

distribuzione del petrolio con l’obiettivo di creare un monopolio, Mussolini nazionalizzò in Italia la<br />

grande banca di investimento con tutti i suoi investimenti a causa della crisi dell’inizio degli anni 30,<br />

salvataggio dal fallimento con denaro pubblico delle imprese avvenuto in segreto e che vide la nascita<br />

dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) per raggruppare tutte le imprese di carattere<br />

industriale rimaste nelle mani dello Stato. Anche hitler intervenne attivamente nella definizione di<br />

progetti industriali imponendo fusioni e fissando obiettivi circostanziali. L’interventismo di nuovo<br />

tipo di Roosvelt incoraggiò anche la sinistra non comunista a scommettere sulla nazionalizzazione (il<br />

primo caso fu quello della nazionalizzazione delle ferrovie francesi nel 1936 durante il governo del<br />

Fronte Popolare), così come fecero le necessità di guerra. Un’ondata di nazionalizzazioni si verifica<br />

nel dopoguerra, sia in Europa orientale dove fu eliminato il diritto di proprietà privata, che nei grandi<br />

Paesi democratici dell’Europa occidentale (Gran Bretagna, Francia, Italia) durante gli anni di governo<br />

delle sinistre, nei quali grandi imprese industriali e di servizi passarono nelle mani dello Stato per la<br />

necessità di conseguire economie di scala, produrre beni a prezzi politicamente accettabili, assicurare<br />

la disponibilità a tutta la cittadinanza, riequilibrare il territorio, contribuire al pieno impiego,<br />

sostenere il benessere dei lavoratori, migliorare il potenziale tecnologico.<br />

Vi furono due tipi di configurazione giuridica delle imprese nazionalizzate: quella britannica, che<br />

cercava di conservare il meglio della flessibilità privata, le imprese funzionavano come in regime<br />

privato ma i gestori erano responsabili di fronte al parlamento che ne designava gli amministratori,<br />

essendone proprietario, e quella alternativa (Italia e Francia) che vedeva un’impresa pubblica<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 55


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

responsabile di fronte al dipartimento ministeriale o trasformata in dipendenza pubblica equivalente<br />

a qualunque altro ministero (ferrovie e servizi pubblici).<br />

Con la crisi petrolifera e la nuova fase di stagnazione <strong>economica</strong>le imprese pubbliche si dimostrarono<br />

più rigide di quelle private dovendo soddisfare simultaneamente <strong>una</strong> pluralità di interessi<br />

contrastanti, e proprio a loro viene attribuita agli inizi degli anni 80 la responsabilità del cattivo Stato<br />

dei conti pubblici. Il 1979 anno in cui l’impresa pubblica aveva raggiunto la massima importanza,<br />

iniziano a verificarsi le prime privatizzazioni, con un’accelerazione del movimento nel 1989 con la<br />

caduta del socialismo. Tali processi hanno significato la costituzione di un ampio stuolo di possessori<br />

di titoli di proprietà di imprese private, un capitalismo popolare che fu la base del progetto<br />

thatcheriano e reaganiano e si diffuse in tutto il mondo. Le privatizzazioni più radicali sono state<br />

quelle nell’URSS e gli altri Paesi ex comunisti europei.<br />

L’interventismo pubblico<br />

Nel XX secolo l’interventismo aveva l’obiettivo di assicurare le condizioni migliori per il successo<br />

militare e aveva quindi motivazioni extra-economiche ma militari e strategiche. Sono tre le principai<br />

modalità:<br />

- Interventismo sistematico, politiche di pianificazione. Sono un’altra rivoluzione oltre a<br />

quella sovietica, si sviluppa in Germania e Gran Bretagna, viene abbandonata dopo la prima guerra<br />

mondiale e recuperata nel 1927 dai governi di Stalin e da quelli fascisti, trovando nuova legittimità<br />

durante la seconda guerra mondiale, nel dopoguerra viene rivendicata dai laburisti britannici e viene<br />

abbracciata anche dalla destra, con i gollisti prima e da Franco poi nel 1960. Il contenuto ideologico è<br />

più attenuato che nelle nazionalizzazioni e inizia a perdere consensi quando si rivela la sua<br />

inadeguatezza nel rispondere a necessità e gusti cangianti e nel reagire di fronte a tecnologie che non<br />

si prestano ad <strong>una</strong> gestione centralizzata come quelle su grande scala ed alto numero di unità<br />

produttive (impianti siderurgici o centrali nucleari) ma di uso e gestione individuale come<br />

l’automobile o il PC.<br />

- Interventismo selettivo, politiche di <strong>sviluppo</strong> o strutturali. Politiche di promozione<br />

della crescita <strong>economica</strong> nelle aree arretrate, sconosciute prima del 1945, sono propugnate da<br />

economisti dello <strong>sviluppo</strong> (il fondatore è Paul Rosenstein-Rodan) che vedono la necessità di un deciso<br />

impulso orientato alla creazione di infrastrutture che permettessero ai Paesi di dotarsi del capitale<br />

fisico indispensabile per la crescita, partendo dal principio che tali interventi avrebbero permesso agli<br />

aiutati di recuperare il ritardo e convergere con re regioni ricche, politiche che godettero di grande<br />

prestigio nelle decadi 1950 e 1960 (perdendo poi molto della loro attendibilità iniziale) e sulle quali<br />

puntano i grandi organismi di cooperazione <strong>economica</strong> come la Commissione Economica per<br />

l’Europa (CEE) delle Nazioni Unite, l’OCSE, la Banca Mondiale (esempi il Piano Marshall e la Cassa<br />

per il Mezzogiorno, 1950).<br />

- Interventismo ordinario, l’intervento nei mercati. Nel periodo bellico dal 1914 al 1918<br />

le pratiche interventiste si moltiplicarono e furono poi soppresse con il ritorno alla pace per poi<br />

riprendere vigore durante le mobilitazioni precedenti la seconda guerra mondiale e durante il<br />

conflitto: sono sempre le guerre a giustificare l’intervento, e sono tipi di intervento transitori, concreti<br />

per un mercato preciso o un preciso aspetto. Un esempio sono i libretti di sussistenza, sistemi di<br />

razionamento introdotti nei mercati di alimenti, bevande, tabacco e combustibili in risposta alla<br />

riduzione di offerta e condizione di penuria, ma anche l’abitudine attuale di fissare prezzi controllati<br />

come affitti bloccati e salari minimi, orari commerciali, nati con origine temporale.<br />

Le politiche di spesa<br />

Fino al 1913 esisteva <strong>una</strong> sola ortodossia di bilancio: le spese pubbliche ordinarie dovevano<br />

finanziarsi mediante le entrate erariali ordinarie, ed il deficit doveva essere nullo, solo spese<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 56


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

straordinarie, come le guerre, potevano finanziarsi con meccanismi di indebitamento o di conio<br />

(eterodossi) per raggiungere la vittoria, per poi essere rifinanziate con <strong>una</strong> riduzione delle spese<br />

ordinarie e con un incremento delle imposte. Era la concezione di ortodossia liberale, che prevedeva<br />

anche che le P.A. fossero di dimensioni ridotte al minimo, tendenza che andò indebolendosi ma era<br />

ancora robusta alla vigilia della guerra.<br />

Il XX secolo sarà caratterizzato da un ampliamento delle funzioni assunte dagli Stati, dell’attivismo<br />

pubblico, del peso dello Stato nell’economia e della spesa pubblica. I conflitti bellici accelerano il<br />

processo esigendo bruschi incrementi della spesa che non tornò mai alla normalità precedente. Finite<br />

le guerre gli Stati mantennero numerose funzioni assunte in via transitoria durante i conflitti,<br />

generando <strong>una</strong> spinta continua all’incremento della spesa che provocò uno dei problemi più frequenti<br />

delle finanze europee durante il secolo: l’indebitamento.<br />

L’introduzione dello Stato di Benessere e l’orientamento della spesa pubblica verso finalità sociali (la<br />

nuova spesa pubblica del secolo) si finanziava con le imposte che gravavano sulle entrate permanenti<br />

dei cittadini: l’imposta sul reddito fu introdotta in tutti i Paesi dell’Europa occidentale durante. Tali<br />

politiche di benessere sociale si fondavano su programmi di sovvenzione pubblica generalizzata delle<br />

cure sanitarie, delle pensioni di vecchiaia, dei sussidi di disoccupazione e della scolarizzazione<br />

obbligatoria (già introdotta alla fine del XIX secolo). La prima esperienza di assistenza sanitaria e<br />

pensionistica fu realizzata nella decade 1880 da Bismarck, si diffuse poi tra gli Stati scandinavi e nei<br />

piccoli Paesi dell’Europa centro-occidentale, ma fu nel secondo dopoguerra con l’ingresso ai governi<br />

dei partiti di sinistra che ci fu il momento più significativo della sua diffusione, che toccò in modo<br />

particolarmente attivo l’Europa orientale (grazie alla perequazione dei redditi).<br />

C’è un paradosso: la spesa pubblica è rigida, rimane stabile senza reagire alle circostanze<br />

dell’economia in quanto è risultato di compromessi permanenti, le entrate fiscali invece sono<br />

sottoposte al ciclo delle attività economiche. La saldatura di questo squilibrio provoca fasi deficit e<br />

fasi di surplus, e l’ortodossia liberale che voleva che con i surplus si pagassero i debiti assunti in<br />

circostanze eccezionali e non erano permessi deficit, fu messa in crisi negli anni 30, quando la<br />

recessione non sembrava voler cambiare tendenza. Nacquero le “politiche keinesiane”: far ricorso alla<br />

spesa pubblica deficitaria come meccanismo per elevare le aspettative economiche introducendo<br />

denaro nei circuiti economici tramite l’aumento della domanda pubblica (Gran Bretagna, Svezia,<br />

Germania e Stati Uniti ricorsero a tale spesa per finanziare programmi di opere pubbliche,<br />

costruzione di abitazioni sociali, creazione di sussidi di disoccupazione o riarmo).<br />

Le politiche keinesiane durarono fino all’inizio della crisi del petrolio, quando entrarono in crisi in<br />

quanto si basavano su un mondo in depressione (erano valide se l’equilibrio dell’offerta e della<br />

domanda si stabiliva al di sotto della piena occupazione, creando quindi disoccupazione) e non<br />

potevano quindi valere in un mondo di piena occupazione.<br />

Le politiche commerciali<br />

La prima guerra mondiale comportò un’introduzione di protezionismo in tutte le politiche nazionali:<br />

la dichiarazione di guerra comportò la proibizione di commerciare con i nemici, sfruttata dai Paesi<br />

neutrali per realizzare ingenti traffici, ed il rincaro inverosimile del commercio marittimo (noli e<br />

assicurazioni marittime). Con il ritorno alla pace l’esigenza di proteggere gli interessi che si erano<br />

creati ovunque portò ad <strong>una</strong> marcia verso il protezionismo tra il 1919 ed il 1921, anno in cui l’America<br />

chiuse le frontiere agli immigrati per poi chiudere anche il mercato nel 1929 (tariffa Hawley-Smooth).<br />

Gli anni 30 furono di chiusura commerciale sempre più intensa, adottata da tutte le politiche<br />

autarchiche in quanto in sintonia con gli ideali nazionalisti e gli obiettivi di riarmo e preparazione alla<br />

guerra e meno estremista negli altri Paesi che videro l’introduzione di nuove misure di intervento<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 57


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

pubblico nel commercio estero (accordi di cleaning cioè compensazione bilaterale dei saldi esteri,<br />

limiti quantitativi alle importazioni, permessi e licenze, pagamenti in contanti).<br />

Gli accordi per il secondo dopoguerra, il Bretton Woods in particolare, nacquero dalla convinzione<br />

che gli ostacoli al commercio erano sbagliati e che un nuovo ordine economico internazionale doveva<br />

garantire il libero commercio. Le difficoltà nel passare da regime protetto a libero furono fortissime,<br />

tanto da far fallire l’OCI, sostituita dal GATT che sanciva accordi (rounds) di liberalizzazione modesti<br />

ma sempre aperti a nuove e più significative intese (Kennedy round, Uruguay round che culminò<br />

nella creazione dell’OMC).<br />

La CEE nacque in questo contesto di riduzioni commerciali, negoziate <strong>una</strong> per <strong>una</strong> e a muso duro e<br />

non significò la fine delle politiche commerciali anzi continuò a dedicargli enormi sforzi ed in<br />

particolare riguardo le relazioni con i Paesi aspiranti all’ammissione, le relazioni con i Paesi poveri e<br />

la politica commerciale estera ordinaria con Stati Uniti, Giappone, Estremo Oriente, Paesi asiatici e<br />

latinoamericani.<br />

Il maggiore successo della CEE sarà l’integrazione dei Paesi dell’EFTA:<br />

1957 formazione della CEE<br />

1973 entrata Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca<br />

1986 entrata Spagna e Portog<strong>allo</strong><br />

1995 entrata Austria, Finlandia e Svezia<br />

Le politiche di stabilizzazione<br />

Sono quelle orientate a ridurre la variabilità dei tassi di cambio e dei prezzi, intimamente connessi tra<br />

loro, sono le politiche più classiche e conservatrici e perciò sempre nell’occhio del ciclone. Ci sono<br />

sempre state, durante il gold standard erano automatich, senza il modello aureo gli stati dovevano<br />

invece impegnarsi di più.<br />

La prima guerra mondiale significò sospensione del gold standard in tutto il mondo, le banche<br />

annunciarono che non avrebbero più cambiato carta moneta in oro, in modo da poter emettere più<br />

denaro e infatti ciò produsse inflazione. Con il ritorno alla normalità tornò anche il gold standard, gli<br />

anni 20 sono dominati dalla lentezza di questo processo che venne abbandonato dai governi appena<br />

completato, nel 1931 per poter svalutare le loro divise, recuperare capacità competitiva sui mercati<br />

internazionali e limitare il volume delle loro importazioni. Fu un circolo vizioso chiamato la politica<br />

del “rubare al tuo vicino”. Il gold standard fu, secondo Eichengreen, <strong>una</strong> gabbia d’oro per i Paesi che<br />

lo adottarono, e prima se ne fossero liberati e avessero recuperato libertà di azione monetaria,<br />

commerciale e fiscale, meglio sarebbe Stato. Negli anni 30 andò in fatti in crisi definitiva.<br />

Gli anni 30 furono l’ultimo periodo di deflazione generalizzata (riduzione della cartamoneta), durante<br />

la seconda guerra mondiale non vi furono politiche di stabilizzazione, ma solo verso la fine, coloro<br />

che si ritenevano i vincitori (gli Alleati) cominciarono a preoccuparsi delle condizioni di stabilità del<br />

sistema riuscendo ad evitare le iperinflazione del primo dopoguerra. Nel secondo dopoguerra si fece<br />

ricorso al razionamento e a stretti controlli sull’emissione di denaro, i Paesi tentati da politiche<br />

inflazionistiche vennero sollecitati ad abbandonarle dagli Stati Uniti che stanziarono a questo<br />

proposito il piano Marshall.<br />

Con la fine della ricostruzione nel 1950 si entrò in un lungo periodo di stabilità monetaria, fino al 1973<br />

i tassi di inflazione furono moderati e convergenti. Con la crisi petrolifera tutti i Paesi registrano<br />

grandi inflazioni senza controllo tranne il nucleo che segue la RFT nel suo impegno di stabilità<br />

monetaria (Austria, Svizzera, Belgio e Olanda), e il recupero di credito delle politiche di<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 58


Dall’espansione <strong>allo</strong> <strong>sviluppo</strong>.<br />

stabilizzazione (che sarà lentissimo) sarà molto legato all’autorevolezza della politica monetaria<br />

prudente ed indipendente della Banca Federale Tedesca (Bundesbank), la stabilità cambiaria della<br />

quale saranno al centro anche dei progetti di integrazione monetaria europea.<br />

Le politiche di cooperazione<br />

Sono le più delicate di tutte le politiche economiche, sono nazionali (orientate all’intermediazione tra<br />

le parti sociali per il conseguimento di accordi salariali) o internazionali.<br />

Le prime dominarono i primi decenni del secolo: la lotta di classe fu la norma per i sindacati di classe<br />

e le organizzazioni padronali che si affrontavano. Più intenso era il confronto più si moltiplicavano le<br />

possibilità di esplosioni rivoluzionarie o colpi di Stato fascisti. L’esperienza della golden age ha<br />

mostrato come la frammentazione delle rappresentanze sindacali ha come conseguenza <strong>una</strong> maggiore<br />

litigiosità e si fa entrare l’economia in un circolo vizioso inflazionista che porta alla stagnazione<br />

<strong>economica</strong>. Al contrario, Paesi che hanno rappresentanze sindacali unite e centralizzate (come l’area<br />

scandinava e germanica) normalmente raggiungono accordi più responsabili e sostenibili che sono<br />

alla base di circoli virtuosi di crescita. Sono chiamati sistemi neo-corporativi per il riconoscimento<br />

della centralità degli interessi economici e la necessità nazionale di giungere ad accordi tra le parti, ed<br />

in effetti nei Paesi dell’Europa centro occidentale e settentrionale questa formula con <strong>una</strong><br />

rappresentanza nel governo ha avuto successo riducendo i conflitti, migliorando la distribuzione<br />

delle entrate e la capacità di adattamento alle fluttuazioni dell’economia internazionale.<br />

Le politiche di cooperazione internazionale sono le più sofisticate, richiedono più tempo, comportano<br />

più rischio politico nel breve termine ma hanno dimostrato la loro efficacia. Già alla fine della seconda<br />

guerra mondiale gli incontri si moltiplicano in vista della preparazione del nuovo ordine mondiale: il<br />

più famoso è quello di Bretton Woods, luglio 1944 che culminò con la creazione delle Nazioni Unite<br />

ed il dispiegamento di organizzazioni internazionali<br />

Una Storia Economica dell’Europa pag. 59

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