A. Sisti--L'attesa del profeta fedele al tempo dei ... - Christus Rex

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48 A. SISTI incertezze, nacque quando già si conosceva per esperienza l’influsso benefico che avrebbero potuto esercitare persone di tale genere. Il testo più noto, anche per le risonanze messianiche che ha avuto lungo il corso dei secoli, è sicuramente quello di Dt 18,15-22 in cui Jahweh promette di far sorgere, in mezzo a Israele, un profeta come Mosè. E’ interessante osservare come questa promessa, nell’ambito del discorso in cui è collocata, si presenta quasi come un antidoto o come un rimedio, in sostituzione delle pratiche divinatorie, largamente accolte dagli Israeliti sull’esempio degli altri popoli, in mezzo o a contatto dei quali essi si trovavano a vivere. Di queste pratiche il testo ha già parlato ampiamente, condannandole come abominevoli davanti a Dio (Dt 18,9-14). Per la maggior parte dei commentatori, il legislatore deuteronomista parla di un “profeta” al singolare per indicare tutta una categoria, come prima ha parlato del sacerdote e del giudice (Dt 17,12-13) e poi anche del re (Dt 17,14-15). Osserva però G. Von Rad: “C’è da chiedersi se la promessa faccia veramente affidamento, nel corso dei secoli, su una prospettiva così ampia, e non piuttosto su un’unica realizzazione; quindi sulla venuta di un mediatore profetico escatologico” 3 . E’ nella seconda direzione che il testo è stato visto e inteso dalla tradizione giudaica e cristiana (Cfr. At 3,20-22; 7,37), che l’hanno letto prevalentemente come promessa dell’avvento di un profeta eccezionale, identificato talvolta col messia, visto principalmente come compimento dell’intera serie profetica. In qualunque modo la figura del profeta qui presentato ha dei lineamenti precisi. In primo luogo perché è un eletto, inviato da Dio: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me” (v. 15). In secondo luogo perché dovrà essere l’interprete di Dio presso la sua gente: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli, e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (v. 18). Se poi si vuole spaziare nei riferimenti alla figura pluriforme di Mosè, si può dire che, come questi, il profeta promesso dovrà essere un vero intermediario tra Dio e il popolo, facendosi interprete della sua gente presso Dio e interprete di Dio presso il suo popolo. Un’idea di quanto il profetismo fosse tenuto in considerazione nell’antico Israele, si può avere leggendo l’episodio relativo alla elezione dei settanta anziani a giudici del popolo (Num 11,16-30). Mentre Giosuè vorrebbe 3. G. Von Rad, Deuteronomio, Brescia 1979 (si legga tutto il brano). Cfr. A. Penna, Deuteronomio, Torino 1976, 188; M. Laconi, Deuteronomio, Roma 1969, 142-144; P. C. Craigie, The Book of Deuteronomy, Grand Rapids (Mich.) 1976, 261-264; P. Buis, Le Deuteronome, Paris 1969, 285-290.
L’ATTESA DEL PROFETA FEDELE AL TEMPO DEI MACCABEI 49 che il suo maestro proibisse a Eldad e Medad di profetare, contro ogni sua aspettativa Mosè gli chiede: “Sei tu geloso per me?”. Poi aggiunge: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!” (Num 11,29). A parte la natura del fenomeno, che può aver dato ansa al giovane Giosuè ad intervenire presso il suo maestro, per il lettore comune che si imbatteva in questa risposta, tanto aperta all’esperienza profetica, l’auspicio di Mosè doveva farla apparire come un dono di inestimabile valore, da potersi bramare come nessun’altra cosa al mondo, perché frutto diretto dello spirito di Dio, che si concede con somma liberalità a chi egli vuole. In tempi tra i più calamitosi per la storia d’Israele, il profeta Geremia attesterà ripetutamente che in realtà Jahweh è stato sempre generoso con il suo popolo, inviando ripetutamente e insistentemente i suoi servi, i profeti, per ammonirlo e ricondurlo sulla via del bene e della verità: “Dal giorno in cui i vostri padri uscirono dal paese d’Egitto fino a quest’oggi, io (Jahweh) inviai tutti i miei servi e messaggeri, i profeti, ogni giorno, premurosamente e costantemente, ma non mi hanno ascoltato e non hanno prestato il loro orecchio; anzi, hanno indurito la loro cervice e sono divenuti peggiori dei loro padri” (Ger 7,25-26; cfr. pure 25,4; 29,19; 35,15; 44,4). Il lamento del profeta è davvero amaro, ma non ingiustificato, perché dettato dalla constatazione di un fatto desolante, che da una parte vede l’intervento costante e ininterrotto del Signore, il quale non desiste mai dall’inviare i suoi messaggeri, mentre dall’altra parte il suo popolo, ostinato nei suoi peccati, si rifiuta sistematicamente di ascoltarli e di ravvedersi. Probabilmente anche altri uomini, prima e dopo di lui, dovettero fare la stessa amara constatazione. Ma non si può dire che la decadenza morale da essi lamentata abbia coinvolto tutti i singoli membri del popolo, né che per tale ragione il carisma profetico abbia perso il suo ascendente e la stima della gente sia rimasta fedele al suo ideale religioso. Ne è una dimostrazione un noto testo del profeta Gioele. Il breve scritto che va sotto questo nome è una delle composizioni bibliche, su cui il disaccordo dei critici è totale: tanto sull’unità di tutte le sue parti, quanto sull’identità dell’autore e sul tempo in cui il testo fu redatto (se prima o dopo l’esilio babilonese) 4 . L’accordo degli studiosi, però, si fa quasi unanimità, quando si passa a considerare l’importanza di alcuni brani, come quello che riguarda l’effusione dello spirito (Gl 3,1-5), su cui si concentra facilmente l’attenzione di tutti. 4. Cfr. G. Rinaldi, I Profeti minori, II, Osea Gioele Abdia Giona, Torino 1960, 125-137; G. Bernini, Sofonia, Gioele, Abdia, Giona, Roma 1972, 89-121.
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