Edward Hopper - Homolaicus
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The City, 1927 Rooftops, 1926<br />
La città di <strong>Hopper</strong> non è solo panoramica, è fatta di interni e di esterni, e la seconda cosa da notare è che la sua New York non è quella dei grattacieli.<br />
È sì una città verticale, ma sembra ferma allo stile costruttivo dell’ultimo decennio dell’Ottocento. In effetti erano proprio le dimore vittoriane a<br />
interessarlo di più. La sua non è la città delle torri di Georgia O’Keefe (p.17) e di Charles Sheeler; né è la città degli impianti industriali e delle febbrili<br />
attività economiche. Nel 1928 aveva scritto che “la nostra architettura con la sua orrenda bellezza, i suoi tetti fantastici, pseudo gotici, mansardati alla<br />
francese, coloniali, ibridi o che altro, con i colori abbaglianti o le delicate armonie della vernice sbiadita, che si susseguono lungo strade interminabili<br />
che finiscono in paludi o discariche, tutto ciò appare continuamente come dovrebbe essere in ogni onesta descrizione la scena americana”. Quando è<br />
costretto a dipingere una veduta in cui appaiono grattacieli – peraltro molto raramente – questi sono messi di lato, talvolta sono solo un’ombra, altre<br />
hanno una fisionomia approssimativa. Insomma, sono trattati male, come delle ineliminabili presenze di cui si farebbe volentieri a meno.<br />
Le uniche concessioni alla modernità sono gli interni, quando finestroni impossibili per ampiezza lasciano entrare una luce che schiaccia e dirada i<br />
dettagli: gli interni sono in genere disadorni per quanto sono invece ricche di particolari le architetture esterne.<br />
Quest’ultima osservazione è un’altra chiave interpretativa della pittura di <strong>Hopper</strong>: ossia il contrasto tra la ricchezza dei dettagli degli esterni e la<br />
desertificazione degli interni, un approccio che è stato giustamente confrontato con il minimalismo in musica e in letteratura dell’ultima parte del<br />
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