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Edward Hopper - Homolaicus

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Avamposti<br />

Solitude, 1944 November, Washington Sq., 1932/1959<br />

Se, come ha osservato Elena Pontiggia, le sue città sono una “tebaide di eremiti in una città deserta”, allora i suoi paesi e le sue case isolate sono più<br />

che una tebaide: non ci sono nemmeno gli eremiti. E del resto spesso questi eremiti non ci sono nemmeno nella città. Gli <strong>Hopper</strong> abitarono a<br />

Washington Square 3, che oggi è certo molto più animata di un tempo, ma qui il pittore ha letteralmente cancellato dalla faccia della terra ogni traccia<br />

di vita, eppure in un parallelo tentativo di rappresentazione di Jo qualche segno di umanità nella piazza era rappresentato. Il fatto è che <strong>Hopper</strong> non è<br />

narrativo, ciò che vede e come lo vede non ha sviluppi possibili, non rinvia ad attività; da qui il senso di vuoto, in realtà di estraniazione, delle sue<br />

immagini di palazzi e di case, che stanno per l’uomo come avamposti in attesa. Se non si trattasse di due approcci completamente diversi, userei la<br />

metafora del Deserto dei tartari di Dino Buzzati, per dire che i suoi manufatti sembrano tante Fortezze Bastiani; anche essi sono in inesauribile attesa<br />

di qualcosa o di qualcuno che dia un senso al loro stare lì. Ma in <strong>Hopper</strong> sono loro i protagonisti dell’attesa e non gli esseri umani.<br />

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