Edward Hopper - Homolaicus
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The Sheridan Theatre, 1937 Intermission, 1963<br />
La messa in scena, le quinte… Tutto in <strong>Hopper</strong>, a dire la verità, sembra una quinta di teatro… Su Intermission, <strong>Hopper</strong> dichiarò in un’intervista:<br />
“L’idea dell’opera mi è venuta un anno fa, in un cinema qui vicino. Il quadro non è male. Ma forse è troppo preciso, non abbastanza allusivo. La figura<br />
– forse nell’esito finale – non ha sentimento. Non so”. E Jo aggiunse che la spettatrice si chiamava Nora, non perché la conoscessero, ma perché<br />
mettevano sempre dei nomi ai personaggi dei quadri. Anzi con ricchezza di immaginazione dissero che forse si trattava di una commessa, irlandese, mi<br />
pare; <strong>Hopper</strong> aggiunse che Nora stava per diventare un intellettuale. In Sheridan Theatre è la disposizione delle luci in rapporto al vasto spazio interno<br />
a creare il clima drammatico di attesa, mentre la donna appare come un’intrusa.<br />
<strong>Hopper</strong> ha messo in scena se stesso e le sue ossessioni, le sue reazioni di fronte all’oggetto. Ha mostrato costantemente tre solitudini: quella della<br />
Natura, quella della città, quella dell’umanità, filtrate attraverso la sua, di solitudine. Tutti e tre quei mondi sono autosufficienti, anche quando vengono<br />
rappresentati insieme: ogni dettaglio sta per sé e il senso complessivo si può cogliere quando lo si ignora e si passa ad una visione complessivo, a volo<br />
d’uccello, per così dire. Per accorgersi troppo tardi che quello che non c’è è invece una presenza ingombrante e che non si lascia scalfire: quella di<br />
<strong>Hopper</strong>. È con lui che bisogna fare i conti.<br />
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