14 I cavalieri di Ekebù - Biblioteca civica di Rovereto
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sa esprimersi melo<strong>di</strong>camente me<strong>di</strong>ante un linguaggio fra passionale e sensuale, fra enfatico e raffinato, che<br />
ricorda in qualche modo il verismo e il wagnerismo, senza che sia né l’uno né l’altro, e senza tuttavia che riesca<br />
a definirsi con caratteri fortementi personali. È esso un linguaggio, comunque, non privo <strong>di</strong> commozione, che è<br />
quanto <strong>di</strong>re <strong>di</strong> facoltà liriche; specie quando descrive sentimenti torbi<strong>di</strong> o repressi o in<strong>di</strong>stinti, oppure certe<br />
atmosfere grige e malsane. Non è il linguaggio della gioia e del luminoso amore, come c’insegnano<br />
“Francesca”, “Giuliano” e “Giulietta e Romeo”; e ben lo definì il Rossi Doria allorché trovò che “anche<br />
l’accordo perfetto <strong>di</strong> do maggiore non suona gioioso o compiutamente sereno. Vi si ha sempre il dubbio <strong>di</strong><br />
sottintesi...”. Quando infatti questa musicalità si schiarisce e si alleggerisce, ossia nella “Farsa amorosa”, si ha<br />
un altro Zandonai, meno autentico anche se più fresco e grazioso.<br />
Da quanto si è detto, è facile immaginare che il soggetto tra fiabesco e allucinato dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”,<br />
che ben potrebbero chiamarsi <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> Belzebù per quel clima <strong>di</strong>abolico che alita intorno ad essi e alla loro<br />
Comandante, è un soggetto tipicamente zandonaiano. E invero ci sembra che il nostro compositore vi abbia<br />
trovato materia sufficiente per farvi risaltare la sua natura; una materia così fosca opaca pesante, che al<br />
musicista non ha concesso che raramente <strong>di</strong> abbandonarsi a quei voli melo<strong>di</strong>ci violenti quanto esteriori che si<br />
notano invece <strong>di</strong> frequente in “Giulietta e Romeo” e più ancora in “Giuliano”. In “<strong>Ekebù</strong>” la vena sarà forse<br />
meno ricca e densa che in queste opere e in “Francesca”; ma nei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” ci pare <strong>di</strong> scorgere una<br />
maggiore nobiltà <strong>di</strong> linea, un composto equilibrio <strong>di</strong> tutti i suoi elementi teatrali e musicali.<br />
Per certi motivi <strong>di</strong> ambiente, per certa compattezza <strong>di</strong> forza descrittiva, per certi interventi corali, per certo<br />
martellamento ritmico scoperto o sotterraneo, i “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” ci fanno pensare un poco al “Dibuk” (124) ,<br />
meno realizzato. Vogliamo <strong>di</strong>re che ci troviamo pressappoco sullo stesso piano operistico con personaggi dalla<br />
psicologia complessa e insondabile, avvolta nelle nebbie dell’alcool o nelle brume <strong>di</strong> un passato procelloso. Si<br />
tratta naturalmente <strong>di</strong> impressioni fugaci, suscitate più che altro da analogie momentanee, e alle quali non<br />
vorremmo si desse troppo peso. Resta comunque il fatto che, pur con mezzi musicali più modesti delle altre sue<br />
opere, vale a <strong>di</strong>re con minore ricchezza e slancio <strong>di</strong> melo<strong>di</strong>a, i “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” sprigionano egualmente un<br />
certo potere emotivo: più sensibile, ben inteso, quando siano valori <strong>di</strong> pura musicalità ad assorbire e dominare il<br />
dramma.<br />
In questi casi la felice impressione che può destare il buon taglio d’una scena, l’accostamento <strong>di</strong> due episo<strong>di</strong><br />
contrastanti, l’abile <strong>di</strong>stribuzione del colore ambientale, è fatta più viva e imme<strong>di</strong>ata dal riflesso che tali<br />
coefficienti <strong>di</strong> teatralità hanno nella musica. Come avviene, ad esempio, nel finale corale del primo atto in cui il<br />
tema ritmico dei Cavalieri si afferma imperiosamente, nel finale lirico del secondo, tenero, sentito e notturno<br />
come i più toccanti momenti <strong>di</strong> “Francesca”, nel coro a voci sole del terzo, trapunto dagli svolazzi d’un violino,<br />
nel duetto <strong>di</strong> Giosta e Anna dell’ultimo atto e nel ritorno della Comandante, pure <strong>di</strong> quest’atto. Il finale<br />
dell’opera, con la ripresa del lavoro al ritmo delle incu<strong>di</strong>ni, è invece alquanto esteriore, e ci sembra che non<br />
adempia nemmeno alla sua funzione teatrale.<br />
Opera complessa e <strong>di</strong>fficile, i “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” offrono numerose possibilità <strong>di</strong> spettacolo. E<br />
l’allestimento che ne ha curato ieri il Teatro Reale dell’Opera è stato dei più adeguati che si potesse desiderare, e<br />
senza dubbio uno dei più attraenti dell’attuale stagione. Efficientissima la realizzazione musicale, affidata a<br />
Tullio Serafin, che ha penetrato a fondo lo spirito della partitura, mettendone in luce ogni elemento vocale o<br />
strumentale che avesse una sua ragione <strong>di</strong> particolare rilievo. Efficientissima anche per la partecipazione <strong>di</strong><br />
cantanti valorosi e appropriati quali Giuseppina Sani, che è stata una Comandante <strong>di</strong> risorse ragguardevoli, dalla<br />
voce adatta a quel personaggio e in ispecie dal gioco scenico plastico, possente, efficacissimo, che denota<br />
un’intelligenza interpretativa <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne; Pia Tassinari, in Anna, che è il personaggio lirico femminile,<br />
aderente e commovente; José Luccioni, Giosta, ieri sera in pieno possesso dei suoi robusti mezzi canori come<br />
non mai; e Benvenuto Franci, il sempre possente Franci dalla voce <strong>di</strong> bronzo, semplicemente perfetto nel<br />
Capitano dei Cavalieri.<br />
Assai bene anche Filippo Romito. A una simile efficienza musicale ha infine portato il suo contributo il coro<br />
istruito dal maestro Conca: un coro che ha molto da lavorare, ed ha assolto egregiamente il suo compito,<br />
risultando intonato e vigoroso.<br />
Quanto alla parte scenica dello spettacolo, vi hanno cooperato il regista Carlo Piccinato, che ha trovato nella<br />
molteplicità dei quadri d’insieme, <strong>di</strong> cui l’opera abbonda, materia adatta alla sua sensibilità e alle sue possibilità<br />
<strong>di</strong> affreschista pittoresco; lo scenografo Giorgio Quaroni i cui bozzetti realizzati dal Polidori sono parsi<br />
indovinati soprattutto nel primo e nell’ultimo atto: questo, che rappresenta l’officina e il cortile del castello <strong>di</strong><br />
<strong>Ekebù</strong> immerso in una luce livida da miniera nor<strong>di</strong>ca; e finalmente il <strong>di</strong>rettore dell’allestimento Pericle Ansaldo,<br />
che ha offerto un’ennesima prova della sua fertilità in fatto <strong>di</strong> trovate sceniche e <strong>di</strong> “meccanismi” d’ogni sorta.<br />
Lo spettacolo, al quale assisteva un pubblico numerosissimo, è stato accolto da crescente successo,<br />
concretatosi in venti chiamate complessive all’autore, ai cantanti, al maestro Serafin e al regista.<br />
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I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/38