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14 I cavalieri di Ekebù - Biblioteca civica di Rovereto

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Settimo dei lavori teatrali <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, lo spartito dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” vide la luce al Teatro<br />

alla Scala nel 1925, sotto la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> Arturo Toscanini che ne fu il primo, genialissimo interprete.<br />

L’argomento dell’opera, ricavato da un famoso romanzo <strong>di</strong> Selma Lagerlof [sic] – la “Leggenda <strong>di</strong> Gösta<br />

Berling” – se presentava da un lato alcune lacune nella caratterizzazione e fisionomia dei personaggi, a volte<br />

contrad<strong>di</strong>ttori nei loro sentimenti, offriva al musicista larghe possibilità per cementare, in una partitura <strong>di</strong> grande<br />

impegno coloristico, la somma delle sue esperienze <strong>di</strong> uomo <strong>di</strong> teatro e <strong>di</strong> sinfonista.<br />

I “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” furono per il loro autore una cosciente prova delle proprie forze, un tentativo<br />

ponderato e risoluto <strong>di</strong> dare un nuovo impulso, pur conservando le linee tra<strong>di</strong>zionali <strong>di</strong> una espressione fondata<br />

sul canto, al melodramma italiano. La volontà <strong>di</strong> allargare gli orizzonti delle vedute teatrali è evidente: la<br />

scrittura si fa intensa e complessa <strong>di</strong> elementi fioriti dalle più certe esperienze della musica del tempo. Una<br />

coralità che quasi potrebbe <strong>di</strong>rsi alla Moussorgsky, alimentata da un sinfonismo che sembra <strong>di</strong>stillato dalle<br />

migliori vinacce straussiane, prepara il tessuto sonoro sul quale va ad impiantarsi il canto, d’una coerenza e <strong>di</strong><br />

una schiettezza tipicamente nostrane. Gli aspetti salienti e vari del teatro musicale moderno sono dunque<br />

riassunti nel tentativo estremo <strong>di</strong> cementarli attraverso una concezione unitaria dell’opera lirica. Impresa degna<br />

<strong>di</strong> un musicista che preferiva ai facili successi del conformismo i rischi e le incognite <strong>di</strong> un cammino solitario,<br />

da percorrere con passo ar<strong>di</strong>to fino alla mèta.<br />

Il valore dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” è tutto qui: possono i personaggi dell’opera, attenuati dalle poetiche<br />

nebbie <strong>di</strong> questa saga nor<strong>di</strong>ca, essere più o meno conseguenti, <strong>di</strong>ciamo anche più o meno simpatici, quin<strong>di</strong><br />

comunicativi al gran pubblico, può l’azione risultare <strong>di</strong>stante dalla sensibilità realistica del nostro mondo, ma la<br />

musica si afferma e si espande con un vigore straor<strong>di</strong>nario, esprime la certezza dei sentimenti, il calore <strong>di</strong> un<br />

umano, sentito linguaggio. Trascorrono le ore dello spettacolo piacevoli e rapide: l’interesse non langue mai,<br />

l’emozione arricchisce le suggestioni che scaturiscono dalla coloritissima partitura. E poi bastano la scena del<br />

“Teatrino”, il Natale dei Cavalieri, la morte della Comandante a garantire la ricchezza dell’opera, il suo <strong>di</strong>ritto<br />

alla vita.<br />

Esecuzione amorevole, appassionata, convinta: a cominciare dal maestro Oliviero De Fabritiis, che è stato un<br />

concertatore stupendo della complessa partitura, un animatore intelligente, sensibile ed ispirato dello spettacolo,<br />

tutti gli interpreti hanno sod<strong>di</strong>sfatto la complessità dei ruoli loro affidati. Gianna Pederzini nella parte della<br />

“Comandante” che è figura preminente dell’opera, ha offerto un’altra suggestiva prova del suo talento<br />

drammatico, della sua de<strong>di</strong>zione all’arte: è stata felice in ogni gesto e per ogni accento. La giovane Rina<br />

Malatrasi ha cantato con calorosa emozione ed ha avuto emissioni <strong>di</strong> bello smalto e sicura musicalità. Pieno <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>gnità vocale il tenore Mirto Picchi; efficaci per la gustosa caratterizzazione dei personaggi il Malaspina ed il<br />

Cassinelli. Il coro ha magistralmente cantato: il merito del suo vigoroso intervento va anche all’autorevole<br />

istruttore maestro Giuseppe Conca. Successo caloroso, con applausi a scena aperta, numerose chiamate al<br />

termine <strong>di</strong> ciascun atto.<br />

273<br />

Guido Pannain, I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, “Il Tempo”, 15.1.1954 - p. 3, col. 8-9<br />

Nella vita artistica <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, il periodo che segue imme<strong>di</strong>atamente la Francesca da Rimini<br />

segna un momento <strong>di</strong> particolare <strong>di</strong>sagio. L’artista, che nel teatro lirico aveva mostrato <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>re una sua<br />

parola schietta, avrebbe dovuto raccogliersi, attendere, me<strong>di</strong>tare. Invece fu trascinato ad operare da interessi<br />

pratici e professionali che sono, per definizione, contrastanti con quelli dell’arte. Così che, d’allora in poi, egli si<br />

trovò in perenne conflitto con se stesso: l’anima d’artista ch’era in lui, tolta alla tranquillità della<br />

contemplazione e spinta ad attingere méte a cui repugnava; l’uomo <strong>di</strong> teatro, il professionista del teatro, vòlto<br />

alla ricerca <strong>di</strong> risultati utilitari, in ogni caso estranei alla sfera dell’arte.<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> risentono <strong>di</strong> questo interiore e drammatico <strong>di</strong>sagio. È un’opera sostanzialmente mancata<br />

perché manca d’interiore necessità, ma è insieme ricca <strong>di</strong> pregi musicali. E questa non sembri una<br />

contrad<strong>di</strong>zione, perché l’artista ch’era nel fondo, pur sonnecchiando (quandoque bonus...) non poteva mancare<br />

<strong>di</strong> essere vigile e presente ad attingere, a tratti, risultati considerevoli.<br />

Nel modo in cui fu ridotta a opera <strong>di</strong> teatro, la Leggenda <strong>di</strong> Giosta Berling <strong>di</strong>venta un dramma incoerente. I<br />

personaggi e le situazioni che hanno luogo per loro hanno una vita scenica priva <strong>di</strong> nessi e <strong>di</strong> spirituale<br />

consistenza. Ognuno va per conto suo e nessuno trova la via <strong>di</strong> un’adeguata rappresentazione. La Comandante<br />

ha un suo dramma, che è un dramma morale, e Anna e Giosta anche ne hanno uno proprio, che è un dramma <strong>di</strong><br />

amore. Tra questi due drammi, messi l’uno accanto all’altro senza ragione estetica, non c’è rapporto: o meglio<br />

ce n’è uno, ma in superficie, artificioso e <strong>di</strong>staccato, che non incide sull’anima onde il personaggio rimane<br />

sospeso nel vuoto, senza vita, come un manichino. Le faccende della Comandante non interessano Anna e<br />

Giosta e viceversa; e non interessano, cioè non commuovono, lo spettatore e neppure il musicista. Anzi, meno <strong>di</strong><br />

tutti il musicista; come altra volta, invece, lo avevano interessato e commosso il travaglio nevropatico <strong>di</strong><br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/42

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