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14 I cavalieri di Ekebù - Biblioteca civica di Rovereto

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I CAVALIERI DI EKEBU'<br />

245<br />

Tancre<strong>di</strong> Mantovani, [Rassegna musicale], “Nuova antologia” LX/1268, 16.1.1925 - pp. 216-7<br />

Siano rese grazie a Santo Stefano! In quasi tutti i capoluoghi delle nostre provincie i teatri si sono riaperti<br />

nella ricorrenza del tra<strong>di</strong>zionale patrono delle scene liriche, salvo qualche deroga, come quella fatta dalla<br />

“Scala”, che ha iniziato la sua “Stagione” a metà novembre, o quella del “Regio” <strong>di</strong> Torino, che l’ha cominciata<br />

il 30 <strong>di</strong>cembre. Almeno così per due o tre mesi avrà sosta il ritornello della lamentata "crisi del teatro", una delle<br />

tante crisi che ci travagliano, con scarsa probabilità <strong>di</strong> vederla risolta, stante che <strong>di</strong>pende dal costo quintuplicato<br />

delle spese degli spettacoli, sopra tutto <strong>di</strong> quelle delle masse orchestrali e corali.<br />

Certamente alla soluzione invocata non giovò la intromissione delle Camere del Lavoro, né ora val meglio<br />

quella dei Sindacati orchestrali, che, specie nella gestione <strong>di</strong>retta d’imprese, o per poca esperienza in materia, o<br />

per ragioni d’indole amministrativa, si sono risolte in <strong>di</strong>sastri economici e spesso anche artistici. Ma<br />

l’argomento, meritevole <strong>di</strong> essere stu<strong>di</strong>ato e <strong>di</strong>scusso a fondo, esorbita dai modesti limiti <strong>di</strong> una rapida rassegna,<br />

così per oggi dovremo sorvolare, passando alla cronaca abbastanza lieta della “stagione” lirica in corso.<br />

La “Scala” ha riaperto i suoi battenti con una ripresa del Nerone boitiano che poco prima aveva ottenuto una<br />

magnifica accoglienza al “Comunale” <strong>di</strong> Bologna. Delle novità assolute comprese nel "cartellone" scaligero ha<br />

già riportato, come tutti ricordano, un battesimo complessivamente molto onorevole La Cena delle beffe <strong>di</strong><br />

Umberto Giordano, sul testo, necessariamente sfrondato, del notissimo poema drammatico <strong>di</strong> Sem Benelli. La<br />

seconda delle nuovissime opere, attesa con eccezionale interesse, saranno I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Riccardo<br />

Zandonai, sul libretto che Arturo Rossato ha tratto dalla Leggenda <strong>di</strong> Gösta Berling, il bel romanzo della<br />

rinomata scrittrice svedese Selma Lagerlöf, il quale compen<strong>di</strong>a un seguito <strong>di</strong> novelle che s’intrecciano<br />

fantasiosamente con un carattere rapso<strong>di</strong>co tra un bizzarro miscuglio <strong>di</strong> elementi umani e <strong>di</strong> soprannaturali. Non<br />

ostante che il dramma si svolga in ben quattro atti a cinque quadri, Zandonai ci ha rassicurati che lo spartito avrà<br />

complessivamente proporzioni e durata normali, avendo egli rinunziato <strong>di</strong> proposito a <strong>di</strong>gressioni o<br />

amplificazioni liriche, a preludî od intermezzi per lasciare il primato all’azione drammatica, per fare<br />

esclusivamente “del teatro”. E niente estremismo orchestrale o armonistico: una strumentazione molto leggera,<br />

che non soverchi le voci dei cantanti con le pletoriche sonorità dell’orchestra, una trama armonica chiara,<br />

riposante su le consonanze, senza il sistematico urto stridente spasmo<strong>di</strong>co degli accor<strong>di</strong> eterogenei.<br />

In vero abbiamo tutta la fiducia che un musicista geniale, maturo d’esperienza qual è Riccardo Zandonai si<br />

sarà attenuto ai suoi propositi estetici. Del resto Riccardo Strauss, dopo le sonorità orgiastiche della Salome, non<br />

ha forse dato “macchina in<strong>di</strong>etro” fino a ritornare alla limpidezza dell’orchestrazione mozartiana E Igor<br />

Strawinsky non ha dunque scritto una sua recente partitura teatrale con soli do<strong>di</strong>ci strumenti in orchestra Segni<br />

<strong>di</strong> una evoluzione, se non <strong>di</strong> una reazione, <strong>di</strong> cui molti giovani compositori italiani votati all’estremismo<br />

dovrebbero tener conto per non andar incontro a delusioni.<br />

[...]<br />

246<br />

Giorgio Barini, Alla vigilia dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”, “L’Epoca”, 27.3.1925 - p. 3, col. 5-6<br />

Quando seppi che Riccardo Zandonai aveva scelto a soggetto del suo spartito “La Saga <strong>di</strong> Gösta Berling” <strong>di</strong><br />

Selma Lagerlöf, non conoscevo della forte scrittrice svedese che “Il meraviglioso viaggio <strong>di</strong> Nils Hogersson a<br />

traverso la Svezia”: il libro <strong>di</strong> lettura per le scuole; in esso le oche selvatiche, tra cui prima la vecchia Akka; e<br />

Jarro, l’onesta anatra, la quale, avendo compreso che gli uomini vogliono valersi <strong>di</strong> lei come richiamo, pone in<br />

guar<strong>di</strong>a gli uccelli che accorrono; e Mirke, il gatto loico; e tutti gli altri animali si rivelano <strong>di</strong> così equilibrata e<br />

razionale mentalità, mentre la Svezia appare a traverso le pagine della popolaresca o<strong>di</strong>ssea la protagonista<br />

dell’opera geniale.<br />

Lessi subito “La saga <strong>di</strong> Gösta”, in cui vivono e si agitano i tumultuanti <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>; e rimasi<br />

perplesso, non comprendendo come da quel libro denso e turbinoso, in cui i paesaggi e le figure si agitano e le<br />

avventure si svolgono con una volubilità caleidoscopica impareggiabile, fosse possibile ricavare lo schema<br />

sintetico e necessariamente scheletrico <strong>di</strong> un dramma per musica.<br />

Però, nella vicenda varia e agitata del romanzo, che rivelò al mondo la potenzialità creatrice della poetessa<br />

illustre, un elemento appariva dominante, così da giustificare l’attrazione del libro sul maestro: la potenza della<br />

musica, feconda, animatrice, inspiratrice <strong>di</strong> attività buone, <strong>di</strong> gaiezza sana e forte, largitrice <strong>di</strong> sentimenti nobili,<br />

<strong>di</strong> scatti vigorosi: un alito sonoro, vibrante conferisce alla rigida atmosfera scan<strong>di</strong>nava inattese dolcezze, e alle<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/1


passioni una intensità travolgente: ma è la molteplicità delle persone, delle passioni, delle visioni che non può<br />

stringersi nella rigida cerchia della scena lirica.<br />

E poi, il protagonista, prete spretato a causa dell’abuso <strong>di</strong> bevande alcooliche, instabile, violento, pur<br />

presentando innegabile fondo <strong>di</strong> bontà, <strong>di</strong> poesia, <strong>di</strong> eroismo, non è eroe lirico e non può avvincere e<br />

commuovere se non a traverso una acuta e continuata analisi psicologica quale può offrirci il libro mercé la<br />

riproduzione <strong>di</strong> episo<strong>di</strong>i e pensieri e atti in cui si manifesta e si definisce l’anima e il cuore <strong>di</strong> Gösta. Né il<br />

successivo suo appassionarsi per una non breve serie <strong>di</strong> figure femminili, <strong>di</strong>verse ma ugualmente attraenti nella<br />

varietà profonda dell’immagine, del sentimento, del carattere, culminanti nella adorabile contessa Elisabetta,<br />

può trovare adeguata rievocazione scenica; sarebbe anzi causa <strong>di</strong> <strong>di</strong>sagio e turbamento il loro affermarsi, e lo<br />

spettatore <strong>di</strong>sorientato e affaticato non sopporterebbe un problema psicologico che il fatale schematismo degli<br />

scorci lascerebbe insolubile.<br />

Che <strong>di</strong>re poi dei <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, <strong>di</strong> quella dozzina <strong>di</strong> buontemponi, parassiti, impenitenti adoratori <strong>di</strong><br />

Venere e Bacco, le cui fisionomie appaiono oscillanti e livide a traverso la fiamma azzurrastra del "punch",<br />

creduli come fanciulli, entusiasti, crudeli, viziosi, e poi redenti dalla sacra virtù del lavoro Schiera tumultuosa,<br />

devota e ingrata <strong>di</strong> apostati, che non esitano a sacrificare quella rude comandante la cui mano buona li sollevò<br />

investendoli del cavalierato della sua terra, dando luce e sicurezza alla loro povera vita, turbati e convinti della<br />

meschina finzione <strong>di</strong>abolica <strong>di</strong> Sintram, mentre dalla morte serena della donna redenta riconquistano la vita<br />

propria, animatrice e gioiosa.<br />

Sarebbe occorso un miracolo per accogliere nella pratica sintesi dello scenario melodrammatico la<br />

fantasmagoria lussureggiante cui l’arte stupenda <strong>di</strong> Selma Lagerlöf ha conferito così impetuosa ricchezza <strong>di</strong><br />

vita, in una serie <strong>di</strong> evocazioni <strong>di</strong> paesaggi caratteristici nei quali le persone acquistano rilievo nitido e colore<br />

brillante e caldo e si muovono e stanno con naturale efficacia. Ho letto il libretto <strong>di</strong> Arturo Rossato; e, in verità,<br />

è da riconoscere che egli ha ingegnosamente risoluto il <strong>di</strong>fficile problema: è certo che ha dovuto rinunziare a<br />

moltissimi elementi <strong>di</strong> grande importanza e interesse; ha limitato la attività erotica <strong>di</strong> Gösta Berling al solo<br />

amore <strong>di</strong> Anna, la quale, nell’ultima parte, si sostituisce a Elisabetta prendendone il posto e le intenzioni; ha<br />

fatto appena ricordare con brevi frasi l’epica scena dell’accanito, terrificante inseguimento dei lupi nella gelida<br />

notte <strong>di</strong>etro la slitta pericolante; ha dovuto sopprimere ogni menzione della inondazione e del crollo della <strong>di</strong>ga; e<br />

tante altre scene ed episo<strong>di</strong> in<strong>di</strong>menticabili. Invece ha dato inatteso sviluppo alla breve scena del quadro<br />

plastico, chiuso col bacio <strong>di</strong> Gösta, sostituita con una rappresentazione in cui v’è tutta una scena <strong>di</strong> preparazione<br />

e poi un lungo <strong>di</strong>alogo amoroso con Anna, e quin<strong>di</strong> la ampia ripresa delle espressioni appassionate <strong>di</strong> Gösta,<br />

<strong>di</strong>mentico della parte, prorompente in un inno d’amore, interrotto dalle grida <strong>di</strong> Sintram.<br />

Pertanto, da un lato può sembrare sia stato, più che quale base salda, adottato come pretesto ad una azione<br />

esotica il romanzo-poema della Lagerlöf con la cernita dei materiali adattabili al tipo <strong>di</strong> "libretto", fatti rimanere<br />

insieme, saldati abilmente; ma non è stato possibile eliminare l’intonazione alcoolistica, orgiastica, l’acre odore<br />

dell’acquavite, mentre le figure, le macchiette originali, delineate con personale caratteristica evidenza, sono<br />

andate ammassandosi, trasformandosi in un gruppo corale, con carattere <strong>di</strong> omogeneità, pure presentando<br />

<strong>di</strong>fferenze d’abito.<br />

247<br />

Giorgio Barini, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> R. Zandonai, “L’Epoca”, 31.3.1925 - p. 3, col. 3-4-5<br />

A ragione si è detto e ripetuto che Arturo Rossato è riuscito a compiere un lavoro che poteva ritenersi<br />

impossibile, ricavando uno schema scenico organico da quell’ampio e tumultuoso romanzo <strong>di</strong> Selma Lagerlöf<br />

“La leggenda <strong>di</strong> Gösta Berling” in cui si agita in una stupenda molteplicità <strong>di</strong> figure e <strong>di</strong> visioni tutta l’anima<br />

della Svezia d’un tempo, eroica e folle, intessuta <strong>di</strong> contrasti, poetica e volgare, sentimentale e alcoolizzata: da<br />

cui balza fuori vivo e fremente, tutto ombre e luci, generoso e umiliato, Gösta, il “Signore dai <strong>di</strong>ecimila baci e<br />

dalle tre<strong>di</strong>cimila lettere d’amore”, il prete interdetto che nell’acquavite dorata cerca il sole e la morte e procede,<br />

tra i sorrisi e le lacrime delle belle fanciulle, parassita ingenuo, poeta avventuriero; ed al suo fianco la<br />

Comandante, tragica figura, ruvida e buona, che vide soffocato il suo sogno d’amore e ne prese aspra vendetta,<br />

aspramente scontata: lavoratrice e animatrice <strong>di</strong> lavoro, chiusa in una corta pelliccia, una pipa <strong>di</strong> creta fra i denti,<br />

un coltellaccio nel corpetto, corti e rigi<strong>di</strong> i capelli bianchi.<br />

Queste due figure giustamente campeggiano nel dramma musicale steso dal Rossato e musicalmente<br />

espresso da Riccardo Zandonai: e con i due assume importanza Anna, in cui è sintetizzato l’elemento femminile<br />

che a Giosta si volge, dandogli il cuore: le altre figure si uniscono quasi in amalgama corale formando una<br />

specie <strong>di</strong> sfondo plasticamente sentimentale dal quale si staccano Sintram, ciurmatore atteggiantesi a demonio;<br />

Cristiano, il capitano dei <strong>cavalieri</strong>, spavaldo e buono. Costoro si aggirano in un paesaggio nevoso, gelido, dal<br />

pallido sole: ed hanno atti e pensieri e tendenze che non rispondono ai nostri sentimenti, e, se pure ci interessano<br />

destando la nostra curiosa attenzione, non si accostano al nostro cuore, alla nostra anima. Assistiamo alle loro<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/2


gioie tumultuose, allo scoramento, alla ribellione, alla redenzione per il lavoro; ma soltanto come a spettacolo<br />

caratteristico, senza riuscire ad appassionarci e commuoverci per le loro vicende.<br />

Se dobbiamo lodare il Rossato per l’ingegnoso suo lavoro, ancor più è da ammirare Riccardo Zandonai che<br />

ha avuto la forza <strong>di</strong> animare musicalmente e a far vive e colorite le immagini <strong>di</strong>segnate dal librettista,<br />

scaldandole con l’ardore sonoro delle idee melo<strong>di</strong>che, drappeggiandole nella ricca veste strumentale,<br />

avvolgendole in una atmosfera <strong>di</strong> armonie vibranti e gustose. Nel nuovo spartito il maestro ci appare più<br />

semplice nella elaborazione, più spontaneo e limpido nella ideazione, più sobrio e più significativo: e se ancora<br />

egli tende a ricavare forza espressiva dal non raro impiego <strong>di</strong> prorompenti scatti <strong>di</strong> voce che ascendono nel<br />

registro acuto tuttavia egli non vi insiste come nelle opere precedenti: ed ottiene efficacia con l’accento e la<br />

flessibilità melo<strong>di</strong>ca più che col grido.<br />

Il primo atto si inizia con <strong>di</strong>segni e accenti ritmici e impasti strumentali che dànno sensazione ben riuscita<br />

della rigidezza <strong>di</strong> una nor<strong>di</strong>ca notte, e il dolore <strong>di</strong> Giosta si fonde plasmandosi nel gelido grigiore; lo<br />

sghignazzare sguaiato <strong>di</strong> Sintram, il garrulo cinguettare delle fanciulle che scorrazzano tra le nevi in scarpette da<br />

ballo, spargono <strong>di</strong> riflessi lucenti e arguti l’atmosfera invernale; Anna giunge e passa senza affermarsi, né ci<br />

commuove l’episo<strong>di</strong>etto della babbuccia slacciata; mentre nell’incontro con la Comandante, che solleva Giosta<br />

dalla neve in cui giace e, narrandogli il dramma della propria vita, solleva anche l’anima e il cuore del giovane,<br />

la musica si stacca dalla funzione coloristica fino allora esercitata per assurgere ad espressione vitale e<br />

affettuosa: anche il tema ritmico da cui la Comandante è caratterizzata è nella sua brevità plasticamente<br />

significativo.<br />

Ecco finalmente la breve schiera dei <strong>cavalieri</strong>, i parassiti redenti della Comandante, spaval<strong>di</strong> e gioiosi, che<br />

intonano a gran voce la loro canzone: “vecchia terra d’<strong>Ekebù</strong>”... <strong>di</strong> carattere popolare, irruente e squillante, rude<br />

al pari dei <strong>cavalieri</strong>, e che chiude l’atto con sonorità festosa e tumultuante.<br />

Il secondo atto, nell’ampia sala del Castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, si inizia con un nuovo brillante episo<strong>di</strong>o delle vivaci<br />

fanciulle: riappare il <strong>di</strong>segno e il colore che le accompagnava per via, tra la neve: ed ancora l’irruzione <strong>di</strong><br />

Sintram, che tombola giù per il camino, forma contrasto con la gaiezza delle giovinette: le quali però ben<br />

riescono ad allontanare il padre <strong>di</strong> Anna che vorrebbe portare via seco per strapparla all’amore <strong>di</strong> Giosta. Ed<br />

ecco ancora i <strong>cavalieri</strong>, che intonano ancora la canzone “gaia e <strong>di</strong>sperata”: e la investitura <strong>di</strong> Giosta, con la<br />

presentazione dei <strong>cavalieri</strong>, ben caratterizzati da brevi commenti strumentali: e poi il primo duo fra Giosta ed<br />

Anna, i quali, mentre debbono accordarsi a provare la breve azione scenica da svolgersi durante la festa,<br />

esprimono il loro amore, che Anna vuol soffocare pel <strong>di</strong>sgusto in lei destato dall’avvilimento in cui ha visto<br />

scendere l’uomo amato, mentre egli vuole re<strong>di</strong>mersi: accento commosso, largo respiro melo<strong>di</strong>co scaldano le<br />

espressioni <strong>di</strong> Anna; il sarcasmo spezza lo slancio lirico.<br />

Comincia la rappresentazione: l’orchestrina primitiva dei <strong>cavalieri</strong>, cui sovrastano le fantasiose volute del<br />

violino <strong>di</strong> Liecrona, ha un carattere nettamente grottesco; e Giosta, dopo le prime espressioni preparate per la<br />

recita, trascinato dall’impeto del cuore, prorompe in un alato canto d’amore, ardente e sincero, che contrasta<br />

nettamente con le ru<strong>di</strong>mentali armonie dei <strong>cavalieri</strong>: è commosso e commuove, e, tra i commenti dell’u<strong>di</strong>torio<br />

stupìto e ammirato, Anna, affascinata e vinta, si getta fra le braccia del giovane. Riappare, urlante e male<strong>di</strong>cente,<br />

Sintram: questi è cacciato via, ma la Comandante, turbata dalle minaccie <strong>di</strong> lui, impone a Giosta <strong>di</strong> ricondurre<br />

Anna alla sua casa, <strong>di</strong> amarla e <strong>di</strong> rispettarla: Giosta, per mostrare la potenza e la purezza del suo amore, stende<br />

nel fuoco la mano; ed Anna lo trae via e stringe e bacia la mano ancor calda, e piange e chiede: “perché...<br />

perché...”.<br />

Il secondo duo <strong>di</strong> Giosta ed Anna ha movenze e accenti tutto ardore; ma non si <strong>di</strong>fferenzia dal primo: la<br />

declamazione musicale si stringe e svolge in linee melo<strong>di</strong>che vibranti: Riccardo Zandonai ci offre idee <strong>di</strong> respiro<br />

più ampio <strong>di</strong> quelle che <strong>di</strong> consueto si incontrano nei suoi spartiti: e più schietto e spontaneo è il suo linguaggio<br />

sonoro. I “perché” <strong>di</strong> Anna richiamano alla mente i “perché” <strong>di</strong> Iris...<br />

Il primo quadro del terzo atto ci presenta i Cavalieri aggruppati attorno alla caldaia del ponce, coronata <strong>di</strong><br />

azzurra fiamma, che fiocamente splende nella notte: festeggiano il Natale, e l’ardente bevanda li ha già vinti;<br />

Liecrona ha l’ubbriachezza sentimentale: piange pensando ai suoi, e suona il violino: e i Cavalieri pian piano<br />

intonano i dolci canti del Natale. Qui lo Zandonai ha trovato gli accenti più intimamente commossi del suo<br />

spartito: un senso <strong>di</strong> poesia anima il cantico sacro e si effonde con sottile dolcezza, e prende i cuori: lievi tocchi<br />

<strong>di</strong> arpa e <strong>di</strong> celeste illuminano e infiorano la melo<strong>di</strong>osa ninna-nanna, limpida ed espressiva.<br />

Sintram, camuffato da demonio, appare ad un tratto: nelle menti offuscate dall’ubbriachezza getta terrore e<br />

risentimento, <strong>di</strong> cui è vittima la Comandante, la quale si allontana offesa e affranta, lasciando ai Cavalieri le<br />

ferriere <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, ma annunziando che, lei lontana, ari<strong>di</strong>tà e carestia invaderanno il paese: e parte, ricordando la<br />

materna male<strong>di</strong>zione.<br />

A questo quadro, efficace e significativo, sebbene il falso satanismo <strong>di</strong> Sintram non ci convinca, ne segue un<br />

secondo in cui abbiamo ancora un duo d’amore tra Giosta ed Anna, animato dal calore delle idee melo<strong>di</strong>che; e<br />

poi, dopo la vana preghiera della fanciulla cui non si apre la porta sbarrata della casa paterna, i due giovani<br />

hanno una nuova <strong>di</strong>ffusa espansione amorosa, con cui termina l’atto. Non devesi nascondere che certi andamenti<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/3


melo<strong>di</strong>ci, in cui le idee dello Zandonai si rivelano animate da un ardore passionale più vivo e intenso,<br />

presentano qualche riflesso <strong>di</strong> tendenze musicali non nuove: ma egli le esprime con linguaggio suo proprio, e sa<br />

loro imprimere potenzialità emotiva con mezzi suoi: non si può negare che i <strong>di</strong>aloghi d’amore tra Anna e Giosta<br />

cominciano a sembrare un po’ troppi.<br />

Il quarto atto si inizia con i lamenti e le rampogne del popolo stremato dalla carestia, cagionata dalla incuria,<br />

dalla <strong>di</strong>ssipazione dei <strong>cavalieri</strong>, i quali, partita la Comandante, hanno abbandonato il lavoro immergendosi nelle<br />

gozzoviglie: e qui sembra u<strong>di</strong>re sorgere dalle voci della folla e dal substrato strumentale un’eco lontana delle<br />

in<strong>di</strong>menticabili lamentazioni del popolo nel “Boris” del Mussorgski. Ma Giosta giura che la Comandante sarà<br />

fatta tornare e sarà ripreso il lavoro e la vita rifiorirà: i Cavalieri giungono e vanno alla ricerca della forte donna,<br />

e Cristiano impone a Giosta <strong>di</strong> rimanere per consolare e sostenere sua moglie: cosicché ne scaturisce un altro<br />

duo fra Giosta ed Anna, in cui risorgono le sensazioni che già animarono le precedenti scene d’amore. Ma<br />

quando Anna sta per lasciare il marito si odono voci che si avvicinano annunziando il ritorno della Comandante:<br />

la forte donna ha ottenuto il perdono materno ed ha voluto rivedere <strong>Ekebù</strong> per morirvi, dopo aver reso la vita<br />

alla vecchia sua terra, alle ferriere; eccola: essa lega in eterno i cuori <strong>di</strong> Anna e <strong>di</strong> Giosta; e, salutata dal fragore<br />

delle incu<strong>di</strong>ni e del maglio enorme, che significa la resurrezione del lavoro e della vita, muore serenamente,<br />

mentre la canzone dei Cavalieri prorompe con magnifica sonorità.<br />

Il maglio cade ancora, nel silenzio, in onore della Comandante spenta: e il velario si chiude rapidamente.<br />

***<br />

Il nuovo spartito è nel complesso degno fratello delle precedenti opere <strong>di</strong> Riccardo Zandonai: vi si conferma<br />

la straor<strong>di</strong>naria abilità tecnica del maestro, la sicura padronanza <strong>di</strong> ogni risorsa tendente alla migliore<br />

estrinsecazione scenica; e in pari tempo vi si rivela una tendenza ad una più larga vena melo<strong>di</strong>ca, che, se pur<br />

non sempre originalissima nel fondo, si atteggia però con notevole senso personale nella elaborazione: e se il<br />

temperamento del musicista lo induce ad insistere in espressioni che tendono al conseguimento <strong>di</strong> effetti<br />

imme<strong>di</strong>ati più che alla rivelazione dell’intima essenza <strong>di</strong> sentimenti indagati con profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> analisi, la<br />

sincerità del <strong>di</strong>scorso musicale <strong>di</strong>mostra come egli intenda conseguire una purificazione ed elevazione dell’arte<br />

sua, che gli fa onore.<br />

***<br />

La esecuzione che hanno avuto al Costanzi “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” è degna della massima lode: ed anche per<br />

questo spartito il primo nome da farsi è quello <strong>di</strong> Edoardo Vitale, che lo ha concertato e interpretato con vero<br />

amore ed alta intelligenza, riuscendo a dare una ammirabile sensazione <strong>di</strong> unità ad un lavoro così vario, spezzato<br />

e <strong>di</strong>ffuso, pur curando con acutezza e <strong>di</strong>ligenza eccezionali ogni minimo particolare. Francesco Merli ha<br />

impersonato il <strong>di</strong>fficile personaggio <strong>di</strong> “Giosta” con molta arte, facendo ammirare la bellezza dei suoi mezzi<br />

vocali adoperati con sicura abilità; Maddalena Bugg è stata una eccellente “Anna”: è questa una parte che si<br />

adatta più <strong>di</strong> ogni altra alla sua voce, al suo temperamento; Sara Sadun ha eseguito con grande impegno la parte<br />

<strong>di</strong>fficoltosa della “Comandante”; ottimo “Cristiano” è riuscito Taurino Parvis, per voce robusta e intelligente<br />

interpretazione; lodevoli Alga [sic] De Franco, Teofilo Dentale, Vittorio Julio; le ben riuscite schiere dei<br />

Cavalieri, tra cui il Nar<strong>di</strong>, il Pellegrini [sic], De Petris, Uxa; e delle fanciulle, tra cui la Tesorieri, la Lauri, la<br />

Benincori, la Caputo. Ottima l’orchestra, e sopra tutto eccellente Oscar Zuccarini, violino solista; assai efficace<br />

e sicuro il coro istruito dal maestro Consoli: lodevoli gli scenari e gli abbigliamenti.<br />

La cronaca della serata porta: al primo atto un applauso al Merli e scena aperta, e sette chiamate alla fine <strong>di</strong><br />

cui cinque allo Zandonai ed al Rossato; al secondo atto applausi a scena aperta alla Bugg e sei alla fine <strong>di</strong> cui<br />

cinque agli autori; al terzo, nei due quadri, nove chiamate delle quali sei allo Zandonai; al quarto otto chiamate<br />

<strong>di</strong> cui quattro all’autore: cogli esecutori sono apparsi il maestro Vitale, festeggiatissimo, ed anche i maestri<br />

Consoli e Ricci.<br />

248<br />

Guido Sommi, La prima dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”, “L’Impero”, 29.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3-4<br />

La sala del Costanzi era invasa ier sera da quel senso <strong>di</strong> febbrile attesa che precede sempre la prima <strong>di</strong><br />

un’opera nuova, specie quando essa è l’ultima creazione <strong>di</strong> un musicista quale Zandonai, che ha dato già alla<br />

scena lirica italiana melodrammi riusciti in un certo senso, pieni <strong>di</strong> musicalità e <strong>di</strong> genio, tecnicamente costruiti<br />

con sapiente e sicurissima mano.<br />

Teatro vibrante dunque, elegantissimo, contenente quanto <strong>di</strong> intellettuale, <strong>di</strong> mondano, <strong>di</strong> politico e <strong>di</strong><br />

artistico offre Roma capitale, fervida amica <strong>di</strong> tutte le manifestazioni artistiche italiane.<br />

Quando Edoardo Vitale giunge sul po<strong>di</strong>o e la sala si spegne, il Costanzi si fa silenzioso [ed] attento, pronto<br />

ad ascoltare, a giu<strong>di</strong>care e a applau<strong>di</strong>re. E i Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> hanno inizio.<br />

Il libretto<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/4


Il libretto della nuovissima opera è tratto, come ormai già tutti sanno, dal poema <strong>di</strong> una scrittrice nor<strong>di</strong>ca<br />

Selma Logerlöf [sic]: La leggenda <strong>di</strong> Gosta [sic] Berling ed è stato sceneggiato con non poca fatica da Arturo<br />

Rossato, che da un romanzo poetico, pieno <strong>di</strong> personaggi e <strong>di</strong> simboli e <strong>di</strong> episo<strong>di</strong>i infiniti e <strong>di</strong>versi fra loro ha<br />

saputo ricostruire un melodramma interessante, abbastanza conciso, non statico e non oscuro. E l’impresa non<br />

era certo facile.<br />

Siamo all’inizio del primo atto in un’osteria <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. L’inverno colora <strong>di</strong> bianco le strade, gli alberi, le<br />

montagne lontane; la neve soffoca i rumori, avviluppa del suo freddo manto le anime accese dei personaggi<br />

semifantastici.<br />

Giosta Berling, giovane prete sconsacrato perché sempre ubriaco, erra <strong>di</strong> bettola in bettola. Anima <strong>di</strong> poeta,<br />

egli è oppresso dalla sua stessa vita viziosa e sconclusionata. Deciso a troncare la misera sua esistenza, giunge<br />

all’osteria ove spenderà le ultime sue risorse per annegare la vita nel vino e nella morte. Ed ecco arrivare<br />

Sintram, personaggio strano, mefistofelico, miscuglio <strong>di</strong> varii tipi che si riscontrano spesso nei racconti nor<strong>di</strong>ci,<br />

che offre a Giosta del denaro onde questi si abbrutisca sempre più, si danni e si ammazzi, lasciando Anna, la sua<br />

bionda figliola, <strong>di</strong> cui è innamorato, libera a contrarre nozze cospicue e gran<strong>di</strong>ose. Giosta, ubriaco, accetta e<br />

beve, finché cade bestialmente nella neve, vinto dalla sbornia e dal sonno. Giungono allora al castello alcune<br />

ragazze fra cui Anna che, vedendo Giosta, che pur ama, ridotto in uno stato umiliante, lo ritiene ormai<br />

completamente perduto e si lascia trascinar via dalle compagne, ignare del suo amore.<br />

Invece la Comandante <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, donna vecchia energica e generosa, decide <strong>di</strong> salvarlo e lo raccoglierà come<br />

altri miserabili ella ha raccolto, nel naufragio della vita. Giosta le racconta la sua triste storia e la Comandante<br />

rievocandogli la memoria <strong>di</strong> Anna, che egli potrà vedere la notte istessa al castello, lo persuade a vivere.<br />

Giungono allora tutti i <strong>cavalieri</strong> (gaia brigata <strong>di</strong> do<strong>di</strong>ci spensierati lavoratori, rotti ad ogni fatica e ad ogni<br />

temerarietà agli or<strong>di</strong>ni della Comandante); ad essi la vecchia presenta Giosta. Essi lo salutano con il loro grido<br />

<strong>di</strong> esultanza. E Giosta <strong>di</strong>venta dei loro.<br />

Il second’atto si svolge nella gran sala del Castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, dove si prepara la recita <strong>di</strong> una comme<strong>di</strong>a.<br />

Anna sta abbigliandosi per la rappresentazione, quando sopraggiunge Sintram che vuole portar via la fanciulla<br />

per non lasciarla alla mercé <strong>di</strong> Giosta. Ma il vecchio è cacciato via dalle fanciulle, che dopo d’aver aiutato Anna<br />

a vestirsi aprono le porte alla folla per la rappresentazione. Entra Giosta, che deve giurare fedeltà allo strano<br />

statuto dei Cavalieri e che dal capo <strong>di</strong> essi è consacrato dapprima, poi designato a recitare con Anna.<br />

La comme<strong>di</strong>a ha il suo inizio. Giosta, infervorandosi poco a poco in un vero <strong>di</strong>alogo d’amore, <strong>di</strong>mentica che<br />

la sua è una finzione teatrale e le <strong>di</strong>ce le cose più dolci che il suo cuore gli detta. Anna gli risponde e, <strong>di</strong>nanzi<br />

alla folla stupita e ammirata, la scena amorosa ha termine in un lungo ed infuocato bacio dei due innamorati.<br />

A questo punto balza d’improvviso Sintram, che giura vendetta ai Cavalieri tutti e alla loro Comandante che<br />

ha fatto sì che Giosta ed Anna potessero liberamente amarsi.<br />

La Comandante, colpita da un tristo presagio, impone allora a Giosta <strong>di</strong> ricondurre quella notte stessa Anna<br />

alla casa del padre. E tutti piegano il capo al volere della vecchia padrona.<br />

Il terz’atto è <strong>di</strong>viso in due quadri: nel primo ve<strong>di</strong>amo la fucina dei <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, che fanno baldoria per<br />

celebrare la notte <strong>di</strong> Natale. Cantano e bevono. Improvvisamente appare Sintram camuffato da <strong>di</strong>avolo, che tale<br />

è creduto dagli avvinazzati <strong>cavalieri</strong>. Sintram allora, giocando d’astuzia, riesce a istigarli contro la Comandante<br />

<strong>di</strong>cendo loro che questa vende a Belzebù ogni anno una delle loro anime per conservare le ricchezze donatele in<br />

gioventù da un amante. I <strong>cavalieri</strong> esplodono in una rivolta minacciosa quando ecco che entra la stessa<br />

Comandante cui Cristiano (uno dei <strong>cavalieri</strong>) getta in viso, alla presenza del marito <strong>di</strong> costei, l’accusa svelata da<br />

Sintram. La vecchia è vinta, il marito la scaccia ed ella si allontana altera, lasciando le miniere ed il castello ma<br />

pre<strong>di</strong>cendo sventura agli ingrati suoi <strong>cavalieri</strong>.<br />

Nel secondo quadro assistiamo al ritorno <strong>di</strong> Anna, ricondotta da Giosta, alla casa del padre. Ma la povera<br />

ragazza invano batte alla porta sprangata da Sintram, che la scaccia e l’abbandona sulla neve. Giosta allora la<br />

raccoglie e la conduce con sé.<br />

L’ultimo quadro si svolge <strong>di</strong>nnanzi alle deserte fucine <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. I <strong>cavalieri</strong> senza più la guida della<br />

Comandante hanno mandato tutto in rovina. La carestia regna. Si auspica al ritorno della Comandante, che<br />

infatti ritorna, ma sorretta dalla folla che l’ha trovata morente nella neve. Essa con delle parole <strong>di</strong> bontà e <strong>di</strong><br />

pace perdona a tutti e chiama Giosta e Anna a sé. Li bene<strong>di</strong>ce, li esorta ad amarsi e per sempre. Poi impartisce<br />

or<strong>di</strong>ni per la ripresa del lavoro nelle fucine. La sua voce fa il miracolo. La vita ritorna, i fuochi si riaccendono ed<br />

al ritorno del maglio e dei martelli essa muore felice, mentre la folla canta e bene<strong>di</strong>ce. E l’opera ha fine.<br />

La musica<br />

Non è possibile <strong>di</strong> parlare della musica della nuovissima opera <strong>di</strong> Zandonai in maniera generale, ché il<br />

carattere del lavoro è assolutamente <strong>di</strong> frammentarietà: frammentarietà data in gran parte dal libretto folto <strong>di</strong><br />

episo<strong>di</strong>, <strong>di</strong> stati d’animo, <strong>di</strong> piccoli ma pur importanti dettagli <strong>di</strong>etro cui il musicista ha dovuto accodarsi ed<br />

adattarsi con una sottigliezza da equilibrista provetto. Bisogna perciò, per rendersi conto della musica dei<br />

Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, analizzarla via via abbandonando un episo<strong>di</strong>o ritmico coloristico per seguire<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/5


imme<strong>di</strong>atamente un brano lirico, o prestare attenzione ad una frase ironica o ad un accenno eroico che<br />

d’improvviso si presenta a chi l’ascolta.<br />

Lo Zandonai in questa sua ultimissima opera si è trovato forse <strong>di</strong>nnanzi a questa <strong>di</strong>fficoltà non lieve <strong>di</strong><br />

saltare <strong>di</strong> continuo da un argomento ad un altro e la fusione dell’opera d’arte ne ha certo sofferto nel suo<br />

insieme, <strong>di</strong>fficilmente costringibile entro una quadratura definita che le desse un assetto ben geometricamente<br />

esatto.<br />

Gli slanci lirici sono sparsi in tutti e quattro gli atti <strong>di</strong> questa poderosa opera ma non hanno modo <strong>di</strong> nascere<br />

da una emozione sottile che si ingran<strong>di</strong>sca a mano a mano per giungere ad un apogeo <strong>di</strong> sentimento, generando<br />

uno stato d’animo ascendente e <strong>di</strong>lagante. E questo è forse il <strong>di</strong>fetto principale <strong>di</strong> questi Cavalieri cui manca una<br />

linea interna che ne sia uno scheletro robusto.<br />

Intorno dunque a questo colosso senza una visibile ossatura interna, l’autore <strong>di</strong> Francesca ha lavorato <strong>di</strong><br />

cesello e <strong>di</strong> bulino con, innegabilmente, molto talento. L’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Sintram al primo atto sottolineato da un<br />

sottile e stridulo movimento ritmico che interrompe la grigia monotonia dell’inizio dell’opera è <strong>di</strong> un effetto<br />

originale, brillantemente messo in valore sia dal punto <strong>di</strong> vista del colore esterno che del contenuto psicologico;<br />

l’entrata della Comandante e la scena che ne segue (il racconto <strong>di</strong> Giosta <strong>di</strong> marca assai palesemente italiana<br />

stile melodramma), il coro delle ragazze fresco [e] leggermente russeggiante, la Canzone dei <strong>cavalieri</strong>,<br />

indovinatissimo brano sonoro <strong>di</strong> una bacchica e voluta pesantezza che chiude l’atto, sono elementi riusciti dal<br />

punto <strong>di</strong> vista teatrale e pittorico ed hanno in sé delle qualità <strong>di</strong> effetto assai rimarchevoli. Nel secondo atto il<br />

mosaico <strong>di</strong>venta ancor più fantastico e gli episo<strong>di</strong>i e i sottoepiso<strong>di</strong>i (li chiamerò così perché sono parte degli<br />

episo<strong>di</strong>i medesimi) si rincorrono con una frenesia che abbaglia ma anche <strong>di</strong>sturba la serenità <strong>di</strong> chi ascolta.<br />

La scena del teatro è forse musicalmente la parte più riuscita dell’opera, dove Zandonai si è lasciato andare a<br />

cantare assai liberamente senza freno e senza scrupoli. Questa scena cantata da Anna e da Giosta, con un<br />

accompagnamento <strong>di</strong> striduli ottoni e <strong>di</strong> soffocati legni, appena caricaturale, cui fa da contrasto un a solo<br />

cantabile <strong>di</strong> violino, è <strong>di</strong> un effetto veramente originale, <strong>di</strong>vertente e poetico, né le nuoce l’entrata <strong>di</strong> Sintram<br />

che l’interrompe e il finale dell’atto in cui il sentimentalismo torna a far capolino leggermente più stanco.<br />

Buono d’effetto il coro dei <strong>cavalieri</strong> della prima parte del terz’atto, adagiantesi tristemente sulle modulazioni<br />

<strong>di</strong> un violino e sulle scalette della celeste; rumorosa e un po’ convenzionale la scena <strong>di</strong> Belzebù impersonato da<br />

Sintram; superficiale invece e non vivificata affatto dall’emozione del musicista quella seguente della<br />

Comandante e relativa rivolta dei <strong>cavalieri</strong> avvinazzati ma improvvisamente <strong>di</strong>venuti, per grazia <strong>di</strong> Dio,<br />

moralisti, puritani e forse in realtà solamente comunisti, al miraggio della proprietà delle miniere e dei beni della<br />

Comandante.<br />

La notte nevosa del principio del secondo quadro ha in sé elementi <strong>di</strong> bella poesia grigia e nor<strong>di</strong>ca, e la breve<br />

scena <strong>di</strong> Sintram e della madre è <strong>di</strong> una robusta drammaticità.<br />

Poi subentra l’elemento amoroso e sentimentale, ma questa volta non desiderato e non sentito<br />

profondamente, sicché la romanza sulla porta cantata da Anna è <strong>di</strong> una pericolosa debolezza.<br />

Arriviamo così al quart’atto che musicalmente è forse il meno interessante, per quanto però indubbiamente il<br />

più quadrato. L’invocazione <strong>di</strong> pace <strong>di</strong> Giosta è non<strong>di</strong>meno <strong>di</strong> una bella enfasi, il coro dei <strong>cavalieri</strong> si inquadra<br />

con molta sottigliezza nel clima dell’atto e l’entrata della Comandante è <strong>di</strong> una certa efficacia.<br />

Ma quello che rialza però le sorti dell’ultimo atto, fatalmente monotono perché statico e non ricco d’azione,<br />

è il coro finale imperniato sulla canzone dei Cavalieri e validamente corroborato dallo scatenamento <strong>di</strong> tutti i<br />

martelli e del grande maglio delle fucine <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> che rinforzano con i loro ritmi la pesante e lucente sonorità<br />

della pagina musicale più significativa del nuovissimo spartito.<br />

L’insieme dell’opera è dunque ricco <strong>di</strong> pregi, curato come sempre nello strumentale, arricchito <strong>di</strong> cori ben<br />

condotti; i personaggi sono scolpiti con tratti sicuri (ad eccezion fatta <strong>di</strong> quello della Comandante), ben<br />

in<strong>di</strong>viduati fra loro, drammaticamente e teatralmente riusciti, vivi <strong>di</strong> una vita loro, vita convenzionale del teatro<br />

melodrammatico, ma non confon<strong>di</strong>bili però con quella delle tante larve che popolano oggi giorno stesso i<br />

palcoscenici della nostra lirica.<br />

E i Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, se non sono un passo avanti nell’arte <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, rappresentano però<br />

certamente un nobilissimo lavoro che può degnamente stare al confronto dei suoi fortunati predecessori.<br />

Il grande successo<br />

La tarda ora alla quale è finito lo spettacolo ci impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> parlare come vorremmo dell’ottima esecuzione<br />

dell’opera nuovissima <strong>di</strong> Zandonai, che ci ripromettiamo però <strong>di</strong> analizzare dopo la seconda rappresentazione.<br />

Diremo solo che Edoardo Vitale, alle prese con la lunga e complessa partitura, si è <strong>di</strong>mostrato ancor una<br />

volta l’animatore infaticabile dello spettacolo. A lui fecero degna corona il Merli nelle vesti <strong>di</strong> Giosta, il Parvis<br />

ottimo Cristiano, la Bugg, il Dentale e la Sadun. Buone tutte le parti minori, pur così importanti, <strong>di</strong>sciplinati i<br />

cori, riuscite le scene, alcune delle quali veramente belle.<br />

Il successo si delineò fin dal principio magnifico. Applausi a scena aperta e alla fine <strong>di</strong> ogni atto agli<br />

esecutori e all’autore, in numero tale che ci è impossibile <strong>di</strong> ricordarlo con precisione.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/6


S.A.R. il Principe Ere<strong>di</strong>tario, che aspettava allo spettacolo, volle dopo il second’atto congratularsi<br />

personalmente con Riccardo Zandonai chiamandolo in palco ed esprimendogli la sua ammirazione per la<br />

riuscita <strong>di</strong> questi nuovissimi Cavalieri, che dovrebbero ora cominciare a girare il mondo.<br />

Il successo <strong>di</strong> Roma è certo un buon auspicio.<br />

249<br />

F[rancesco] P[aolo] Mulè, Il successo de “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” al Costanzi, “Il Risorgimento”, 29.3.1925 - p.<br />

5, col. 3-4-5-6-7 (con la riproduzione <strong>di</strong> tre battute dell’inno dei Cavalieri e firma autografa <strong>di</strong> Zandonai con la<br />

data “Roma, 27 marzo 1925”)<br />

La sala del teatro è gremita in ogni or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> posti; in mezzo al pubblico sono molte fra le più note<br />

personalità dell’arte e della cultura romana; in tutti un’ansia <strong>di</strong> potere ascoltare la nuova opera <strong>di</strong> Riccardo<br />

Zandonai: meritato omaggio al giovane e infaticabile maestro, sul quale si fondano tante legittime speranze pel<br />

domani del nostro teatro lirico.<br />

Seguendo la rappresentazione<br />

Il primo atto<br />

Dalle prime battute comincia a farsi palese la chiara semplicità della partitura. Le frasi <strong>di</strong> Giosta, spontanee,<br />

istintive, rivelano il travaglio del giovane, il quale, sconsacrato da prete, vuol morire e affoga il suo dolore<br />

nell’acquavite. Semplicità <strong>di</strong> declamato e un’armonizzazione anch’essa semplice, che lo sottolinea con una<br />

proprietà che si conserva e anzi si compie nella sobria colorazione che riceve dall’orchestra.<br />

Sarà questo, salvo in qualche momento <strong>di</strong> maggiore espansione – in cui si avvertono delle esuberanze vocali<br />

e strumentali – il carattere fondamentale dell’opera.<br />

All’entrata <strong>di</strong> Sintram il sapore della musica cambia. Lo strano, il fantastico, il malefico dell’astutissimo<br />

uomo che si vuol far credere – e vi riesce – il demonio, s’insinuano nella tavolozza del desto musicista, che alla<br />

singolare figura dà delle frasi ambigue, con acri armonie e non so che fosco nell’orchestra.<br />

E semplicità, sempre. La quale ora acquista non so che can<strong>di</strong>da dolcezza al sopraggiungere delle fanciulle,<br />

giù dal sentiero. È il noto, felice pennelleggiare col quale Riccardo Zandonai compone, a volta a volta, le sue<br />

atmosfere sonore. Il coro, nelle opere del maestro trentino, oltre che esprimere il prorompere d’un sentimento<br />

collettivo, ha anche un felice ufficio coloristico e riesce <strong>di</strong> notevole efficacia teatrale. Dopo l’accorato<br />

linguaggio <strong>di</strong> Giosta e quello sinistramente cupo <strong>di</strong> Sintram, le garrule voci femminili punteggiano l’aria come<br />

uno sciame <strong>di</strong> farfalle bianche.<br />

Giosta è steso sulla neve, ebbro. Nel suo torpore ripete il nome <strong>di</strong> Anna la quale, venuta con le altre<br />

fanciulle, gli si avvicina un istante, ma le compagne la trascinano con loro verso il castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, dove si<br />

farà festa.<br />

E giunge la salvatrice, la Comandante, padrona del castello e delle officine. È con Samzelius, suo marito, un<br />

essere debole e vuoto, una larva d’uomo. Appena la Comandante scorge Giosta, si propone <strong>di</strong> salvarlo. Si fa<br />

precedere dal marito al castello e si dà a confortare il giovane. Siamo a una delle pagine più penetranti e più<br />

significative dello spartito. Pagina musicale suggestivamente umana. La Comandante ne balza con un carattere<br />

<strong>di</strong> tutto rilievo. Lo scorcio drammatico, nel quale è contenuta la storia del suo passato e del suo peccato<br />

d’amore, nella musica acquista una maggiore ampiezza. Riccardo Zandonai qui è andato a fondo. Ha trovato<br />

l’anima della Comandante e l’ha convertita con sincerità schiettissima in un linguaggio musicale che ne ha tutto<br />

il calore e il dolore. La commozione della musica si propaga negli spettatori. È tanta l’umanità <strong>di</strong> questa figura<br />

che al suo contatto Giosta ritrova se stesso, nel suo intimo, e il suo riaffacciarsi alla vita è espresso con un<br />

<strong>di</strong>scorso melo<strong>di</strong>co che nelle sue snodature, nelle sue inflessioni, nelle sue cadenze ne reca l’accoramento<br />

profondo e insieme una trepida ma non confessata speranza. Riccardo Zandonai ritorna con le sue virtù più<br />

insigni e con le voci più sue. Il consenso del pubblico è intero. Ed esso si mantiene sino alla fine dell’atto. Si fa<br />

anzi più caloroso, ché siamo alla canzone dei <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, vibrata e spavalda in un imperioso ritmo <strong>di</strong><br />

sanità popolaresca. Per intenderci: quando <strong>di</strong>co popolo <strong>di</strong>co la più genuina ed alta sorgiva <strong>di</strong> canti, alla quale<br />

vorrei si <strong>di</strong>ssetassero tanti stitici e sudati accozzatori <strong>di</strong> soporifere esercitazioni cerebralistiche per apprendere<br />

che cosa è essenzialmente la musica.<br />

Il secondo atto<br />

Siamo in una sala del castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. Le fanciulle abbigliano Anna per una rappresentazione scenica. Il<br />

loro cicaleccio è un continuo rizampillare <strong>di</strong> frasi melo<strong>di</strong>che. Melo<strong>di</strong>a, <strong>di</strong>co. Come quella del buon tempo<br />

antico, ma <strong>di</strong> Zandonai. Il pubblico ne piglia un sensibile <strong>di</strong>letto.<br />

Un rumore strano, nel camino. È Sintram. Sa che sua figlia s’incontrerà con Giosta, salvato dalla<br />

Comandante, e la vuole trascinare via. Frasi dure, crucciate, cui l’orchestra sottolinea cupamente. Ma i <strong>cavalieri</strong><br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/7


<strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> stanno per giungere, annunziati dalla loro canzone. Le fanciulle spingono Sintram fuori della sala,<br />

nella quale irrompono i <strong>cavalieri</strong> seguiti dalla folla. La loro canzone scoppia squillante e festosa. Si ha<br />

l’impressione <strong>di</strong> uno <strong>di</strong> quei “concertati” all’antica, che mandavano gli spettatori in visibilio. Il pubblico è<br />

incatenato.<br />

Ed ecco un nuovo aspetto dell’opera, che è merito <strong>di</strong> Arturo Rossato aver reso <strong>di</strong>namica e varia. I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>Ekebù</strong> consacrano Giosta loro compagno. Chi sono essi Dei vagabon<strong>di</strong> salvati dalla Comandante. Situazione<br />

grottesca. E grottesca si fa la musica. Un grottesco, però, ottenuto con mezzi semplicissimi. Nessun tuffo nella<br />

tavolozza dei modernissimi. Zandonai insiste nella sua chiarezza. Canta. Con intenzioni comiche e burlesche,<br />

ma canta. Perio<strong>di</strong> melo<strong>di</strong>ci, sempre. Il grottesco vien su dall’orchestra, con certi suoi accor<strong>di</strong> volutamente<br />

bislacchi, con certi suoi suoni volutamente striduli e sconcertanti. Una preparazione al sapore musicale che avrà<br />

la rappresentazione.<br />

Ma assistiamo prima all’incontro <strong>di</strong> Giosta con Anna. Ritorna l’autentico Zandonai, quello delle migliori<br />

pagine della Conchita, quello della Francesca da Rimini. Un fraseggiatore ampio, con un fondo quasi costante<br />

<strong>di</strong> malinconia. Nell’esprimere l’amore Riccardo Zandonai è quasi sempre così, ed è lui. Non importa che qua e<br />

là si ravvisino mo<strong>di</strong> mascagnani, veementi, impetuosi. Esteriorità. L’anima del canto è <strong>di</strong>versa. In<br />

quest’ebbrezza c’è sempre non so che dolore. Zandonai in fondo è un musicista elegiaco. Il <strong>di</strong>alogo d’amore<br />

scorre fluido e vivo. Ma è interrotto. È l’ora della rappresentazione.<br />

Siamo, secondo me, ad una delle pagine più singolari non soltanto <strong>di</strong> quest’opera ma <strong>di</strong> tutta la produzione<br />

<strong>di</strong> Zandonai. Sul piccolo palcoscenico preparato nella sala la scena è cantata da Giosta e da Anna, ma l’orchestra<br />

è formata dai <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. Sulla scena l’amore; in orchestra il grottesco. Ecco la <strong>di</strong>fficoltà che a se stesso<br />

ha posto il compositore e, a mio giu<strong>di</strong>zio, egli l’ha superata felicemente. Era tutt’altro che agevole dare ai due<br />

amanti un linguaggio appassionatamente melo<strong>di</strong>co, d’un delicato sapore settecentesco, e fonderlo con le<br />

petulanti <strong>di</strong>ssonanze <strong>di</strong> cui lo con<strong>di</strong>scono implacabilmente i giocon<strong>di</strong> <strong>cavalieri</strong>. Ma la <strong>di</strong>fficoltà è stata, ripeto,<br />

superata, e la perfetta fusione appunto <strong>di</strong> due così <strong>di</strong>versi elementi – l’uno serio e sognante, l’altro brutalmente<br />

realistico – va messa all’attivo del maestro.<br />

Il terzo atto<br />

Nella prima parte Sintram, volendo ven<strong>di</strong>carsi della Comandante, penetra nella fucina del castello dove sono<br />

radunati, celebrando il Natale, i <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. Il musicista, naturalmente, gli ha dato degli accenti da<br />

Mefistofele, un Mefistofele però <strong>di</strong> me<strong>di</strong>ocrissima statura borghese, quale in realtà è Sintram. Comunque, i<br />

<strong>cavalieri</strong>, a quel suo sogghignante schiamazzare, lo credono il <strong>di</strong>avolo e si ribellano alla Comandante,<br />

giu<strong>di</strong>candola la causa d’ogni loro male. Il declamato musicale, nei sobrii chiaroscuri dell’orchestra, si incupisce.<br />

Le frasi fiere ed accorate della Comandante <strong>di</strong>ffondono un profondo senso <strong>di</strong> tristezza. Ma <strong>di</strong> questa prima parte<br />

dell’atto ciò che musicalmente più mi piace è l’episo<strong>di</strong>o nel quale i <strong>cavalieri</strong> celebrano il Natale. Una<br />

celebrazione materiata <strong>di</strong> non so che accoramento nostalgico. Uno dei <strong>cavalieri</strong> fraseggia patetico sul violino e<br />

gli altri cantano a coro una ninna-nanna, ricordo dell’infanzia e delle loro case lontane. Un gioiello <strong>di</strong> musica<br />

squisita, della nostra più bella tra<strong>di</strong>zone e che va <strong>di</strong>retta alle anime.<br />

Come, nella seconda parte dell’atto, commuove per la viva e incisiva umanità dei suoi accenti l’invocazione<br />

<strong>di</strong> Anna <strong>di</strong>etro la porta della sua casa, alla quale Giosta, obbedendo alla Comandante, l’ha ricondotta nella notte<br />

stellata e gelida. Quest’invocazione è sgorgata <strong>di</strong> getto dalla sensibilità musicale <strong>di</strong> Riccardo Zandonai. Anche<br />

le altre scene, del resto, sono pervase d’un lirismo che sale dall’intimo e che nel suo calore pare fonda per<br />

sempre le anime <strong>di</strong> Giosta e <strong>di</strong> Anna, che, in o<strong>di</strong>o al padre, si avvia con l’amante verso l’ignoto. L’orchestra<br />

corona l’atto con un “pianissimo” penetrante come la gioia muta d’una carezza.<br />

Il quarto atto<br />

Dal giorno in cui la Comandante s’è allontanata, attorno al castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> sono piombate miseria e<br />

carestia. Le prime scene descrivono musicalmente l’angoscia del popolo. L’effetto è raggiunto, perché frasi e<br />

perio<strong>di</strong> musicali si snodano veramente con inflessioni <strong>di</strong> dolore. Ma io – me lo perdoni l’amico Zandonai – avrei<br />

preferito una maggiore contenutezza e una più profonda intimità <strong>di</strong> accento. Più che la tragica desolazione d’un<br />

popolo che non ha <strong>di</strong> che sfamarsi qui c’è una sua violenta e fragorosa rivolta contro i <strong>cavalieri</strong>. Comunque<br />

l’effetto è raggiunto e in certo senso teatrale Zandonai ha forse ragione.<br />

Efficacemente reso, nella travagliosa sobrietà dell’espressione musicale, il nuovo stato d’animo <strong>di</strong> Anna, che<br />

si crede l’origine prima della pubblica sciagura e vuole troncare, pure amandolo, i suoi rapporti con Giosta, che<br />

cerca <strong>di</strong>ssuaderla con un declamato drammatico pieno ora <strong>di</strong> dolcezza ora <strong>di</strong> ardore. Ed eccoci ad una delle<br />

scene capitali dell’opera. Torna la Comandante, portata a braccia, moribonda. Ancora una volta, da lei si<br />

sprigiona un vivo senso d’umanità che investe tutti gli altri. Pure trattata <strong>di</strong> scorcio, la Comandante assurge con<br />

una ben definita fisionomia nella vita dei suoni, e sta tra le figure più recisamente caratterizzate <strong>di</strong> Riccardo<br />

Zandonai. Con la Comandante torna il lavoro. Le fucine si rianimano. La speranza rinasce in tutti. Il maglio<br />

batte sull’incu<strong>di</strong>ne. La passata miseria è vinta dall’esultanza nuova. Un fremito possente passa nell’orchestra e<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/8


si propaga sulla scena. Canti <strong>di</strong> gioia. I <strong>cavalieri</strong> intonano la canzone spavalda. La folla si unisce a loro.<br />

Orchestra e scena <strong>di</strong>ventano un solo vulcano sonoro. È il trionfo dell’operosità umana. Una scena <strong>di</strong> carattere<br />

impressionistico, nel quale puoi <strong>di</strong>stinguere l’intensa macchia generale, non la pennellata. Tanta la sonorità, che<br />

il ritmo, pure essendo così gagliardamente scolpito, si <strong>di</strong>stingue appena. L’effetto teatrale è completo.<br />

Opera italiana<br />

Allorché il maestro Vitale occupa il suo posto, si fa silenzio religioso.<br />

Quale valore ha quest’ultima opera nella produzione <strong>di</strong> Riccardo Zandonai Quali sono i suoi caratteri C’è<br />

un progresso sulle opere precedenti<br />

Risponderò a queste domande molto brevemente. Sulla Giulietta e Romeo la nuova opera segna un<br />

progresso. Progresso specialmente <strong>di</strong> chiarificazione. La tendenza alla semplicità, attuata nella Giulietta con<br />

melo<strong>di</strong>e limpide e belle ma contrastanti con altri aspetti dell’opera che perciò ne usciva un po’ squilibrata, qui<br />

domina in tutto lo spartito, che vuole essere da cima in fondo un’affermazione d’italianità. Né il meccanismo <strong>di</strong><br />

Wagner, né Strauss, né Debussy, né l’elegante cerebralità degli ultimi francesi.<br />

Nessuna astruseria, dunque, né armonistica né orchestrale.<br />

La melo<strong>di</strong>a parla, l’armonia ombreggia e illumina, l’orchestra contribuisce alla più intensa espressione <strong>di</strong><br />

questa e <strong>di</strong> quella con la sua colorazione varia e propria. I momenti d’enfasi sono compensati dalla squisitezza<br />

<strong>di</strong> moltissime pagine.<br />

Il compositore ha avuto cura <strong>di</strong> creare al dramma una ben determinata atmosfera sonora, e in ciò è riuscito<br />

stupendamente.<br />

Circa i caratteri dei personaggi, ne ho già detto qualche cosa seguendo il corso della rappresentazione. Sono<br />

nettamente in<strong>di</strong>viduati la Comandante, Sindram [sic] e complessivamente il gruppo dei <strong>cavalieri</strong>.<br />

Giosta ed Anna fanno quasi unica persona, confusi e fusi nel sentimento del reciproco amore.<br />

Aggiungerò che con quest’opera, come già con la Francesca da Rimini, Riccardo Zandonai si afferma uomo<br />

<strong>di</strong> teatro dall’istinto sicuro.<br />

Il successo<br />

Ecco la cronaca... numerica della serata.<br />

Primo atto: un applauso a scena aperta (tenore Merli) e alla fine sette chiamate, delle quali cinque all’autore<br />

e al poeta Rossato.<br />

Secondo atto: due applausi a scena aperta (uno alla signora Bugg) e sei chiamate alla fine, delle quali cinque<br />

all’autore col poeta.<br />

Terzo atto: complessivamente nove chiamate, delle quali sei all’autore.<br />

Quarto atto: otto chiamate, delle quali quattro all’autore.<br />

L’esecuzione<br />

Dirò in primo luogo che la presenza <strong>di</strong> Riccardo Zandonai e <strong>di</strong> Carlo Clausetti – specialmente <strong>di</strong><br />

quest’ultimo, che ha avuto occhio per tutto – è stata molto utile.<br />

Si deve in gran parte a loro se l’opera ha avuto un’esecuzione che nel suo complesso non lascia troppo a<br />

desiderare. Per fortuna il tenore Merli (Giosta) si è pro<strong>di</strong>gato in tutti e quattro gli atti con la sua bella voce e ha<br />

<strong>di</strong>stratto dalle altrui deficienze.<br />

Anche la signora Brugg [sic] (Anna) ha sostenuto una valida fatica canora, uscendone con onore.<br />

La signora Matilde Sudan [sic] (la Comandante) ha mostrato <strong>di</strong> possedere nel registro grave una ben<br />

timbrata voce.<br />

Il Dentale (Sintram) e il Parvis (Cristiano) non mancarono <strong>di</strong> efficacia.<br />

Ammiratissimo il primo violino prof. Zuccarini in due <strong>di</strong>fficili a solo. I cori, istruiti dal valoroso maestro<br />

Consoli, molto intonati.<br />

Il maestro Vitale ha concertato e <strong>di</strong>retto l’opera con vivo amore, raggiungendo, specialmente al secondo atto,<br />

notevoli effetti. Ci consentirà il valente maestro un’osservazione: vorremmo che i passi nei quali la partitura è in<br />

se stessa un po’ enfatica non fossero, per giunta, esagerati dall’orchestra. Sono effetti <strong>di</strong> gusto <strong>di</strong>scutibile e che<br />

danno fasti<strong>di</strong>o agli ascoltatori.<br />

250<br />

Roberto Forges Davanzati, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> Zandonai, “L’Idea nazionale”, 31.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> sono stati applau<strong>di</strong>ti, sabato sera al Costanzi, da un pubblico folto che gremiva la sala.<br />

La cronaca notarile ed onesta segna un applauso al racconto <strong>di</strong> Giosta, cantato con dovizia e dolcezza dal tenore<br />

Merli, magnifico interprete; sette chiamate alla fine del primo atto, chiuso dalla canzone fragorosa e ritmata dei<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/9


Cavalieri, che il pubblico accoglie con gran favore come una promessa <strong>di</strong> carattere, <strong>di</strong> robustezza, <strong>di</strong> vastità<br />

corale dell’opera. L’esecuzione, sotto la guida animosa del maestro Vitale, si manifesta sicura, colorita, fusa. La<br />

Bugg offre la sua grazia bionda e la sua voce nitida ad Anna. la Sadun è la Comandante: manda talvolta il tra[<br />

] fra le note basse, ricche <strong>di</strong> sono[rità] e le note me<strong>di</strong>e e alte un po’ esili, [ ] l’accento è vivo e<br />

chiaro e il personaggio è incisivamente segnato. Parvis [ ] perfetto capitano dei <strong>cavalieri</strong>: <strong>di</strong>[zi]one pura,<br />

canto ampio e timbrato, a[zione] spigliatissima e dominatrice. Al secondo atto le chiamate sono sei. Il corale<br />

ripete la promessa buona del finale del primo, ma non aggiunge novità caratteristiche. L’amore <strong>di</strong> Giosta e <strong>di</strong><br />

Anna si abbandona a gran<strong>di</strong> pienezze canore; ma la fine dell’atto sull’apparizione <strong>di</strong> Sintram non ha efficacia. Il<br />

basso Dentale fa quanto è possibile, con intelligenza <strong>di</strong> attore, per animare <strong>di</strong> mistero sinistro questo<br />

personaggio, ma Sintram, che dovrebbe essere il deus ex machina della vicenda drammatica, vi resta estraneo. Il<br />

primo quadro del terzo atto, la rivolta dei Cavalieri alla Comandante, è gustato musicalmente ma <strong>di</strong>sorienta il<br />

pubblico, che si sente allontanato da avvenimenti scenici poco chiari e niente affatto interessanti. Gli applausi<br />

hanno lacune <strong>di</strong> incertezza. Il secondo quadro: paesaggio <strong>di</strong> cave, cielo stellato, ululato <strong>di</strong> vento, appello<br />

<strong>di</strong>sperato <strong>di</strong> Anna, canto d’amore <strong>di</strong> Giosta e Anna, ha un suo fascino decorativo, ma gli manca una vera,<br />

toccante emozione. Gli applausi vincono tuttavia qualche fugace resistenza e si ripetono unanimi. Sono nove<br />

chiamate per i due quadri. Al quarto atto il corale domina e si <strong>di</strong>mostra la parte più robusta dell’opera. L’amore<br />

<strong>di</strong> Giosta e Anna è, in quest’atto, una ripetizione canora e pleonastica. La morte della Comandante ha finezze <strong>di</strong><br />

particolari, ma non può toccare l’animo degli ascoltatori. L’atto dà una conclusione all’opera col ritorno al<br />

lavoro che rinnova in una espressione più vasta e sonora e <strong>di</strong> alto sentimento la canzone dei <strong>cavalieri</strong>. le<br />

chiamate – anche questa è una brutta parola del gergo – sono quattro, dominate dalla fretta dell’[uscita] ma il<br />

finale è piaciuto.<br />

L’esecuzione non ha mai velato l’opera del maestro trentino e del suo collaboratore Rossato; anzi l’ha<br />

offerta al [pubblico] con chiarezza, con flui<strong>di</strong>tà, con [ ], per merito maggiore del maestro Vitale. I<br />

Cavalieri, bravi cantanti [che] il Costanzi ha saputo accogliere e [man]tenere in questi anni per le parti minori;<br />

le Fanciulle amiche <strong>di</strong> Anna, [i] cori, addestrati dal maestro Consoli, hanno gareggiato con i personaggi<br />

maggiori. In tutti slancio, passione canora, []plicità <strong>di</strong> azione scenica. Il giu<strong>di</strong>zio del pubblico ha potuto essere<br />

però schietto, <strong>di</strong>retto, cor<strong>di</strong>ale. E l’opera ha avuto il suo gran battesimo <strong>di</strong> applausi.<br />

Questa cronaca lieta riconosce allo Zandonai virtù teatrali, melodrammatiche, e lo riaccoglie in quella<br />

cor<strong>di</strong>alità tra pubblico e autore che egli sembra essersi conquistata largamente fra i musicisti della generazione<br />

post-pucciniana; non può tuttavia comprendere un giu<strong>di</strong>zio sicuro sulla vitalità dell’opera; tanto meno un<br />

riconoscimento aperto, clamoroso, sod<strong>di</strong>sfatto <strong>di</strong> quel desiderio <strong>di</strong> tempo nostro, <strong>di</strong> musica nostra,<br />

contemporanea, che è nel tormento irrequieto dei nostri pubblici, <strong>di</strong>sorientati dalle esperienze e dai tentativi<br />

riflessi, culturali, intellettualistici, e assetati <strong>di</strong> fantasia e <strong>di</strong> ispirazione. Il maestro Zandonai ha il gran merito,<br />

specie in paragone <strong>di</strong> molti suoi detrattori, <strong>di</strong> tener fede al melodramma e <strong>di</strong> non mascherare la sua ansia <strong>di</strong><br />

raggiungere l’anima degli ascoltatori con deviazioni <strong>di</strong> tecnica decorativa, preziosa, estranea; con teoremi<br />

artistici privi <strong>di</strong> capacità realizzatrici. Ma il suo merito non può annullare il vago, il fluttuante, il retorico <strong>di</strong><br />

questo melo<strong>di</strong>smo contemporaneo, dal quale non sappiamo più uscire, e che è l’atmosfera falsa non soltanto del<br />

nostro melodramma, sottolineato <strong>di</strong> ironie e <strong>di</strong> <strong>di</strong>sprezzi da tanti novatori, ma anche del modernismo sinfonico e<br />

vocale <strong>di</strong> uno Schönberg. Se mai, Zandonai che cerca contrasti drammatici, espansioni liriche, personaggi<br />

definiti, quadrature episo<strong>di</strong>che, confessa sinceramente, nella sua struttura strumentale e vocale, quanto sia<br />

<strong>di</strong>fficile affettare questa nebbia musicale e farne linguaggio canoro e sinfonico.<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> non si perdono nel lirismo esasperato <strong>di</strong> Giulietta e Romeo, poiché l’amore <strong>di</strong> Giosta e<br />

Anna non è parte assolutamente dominante della nuova opera; ma questo amore anch’esso, nei tre atti che lo<br />

comprendono, è immobile, superficiale, sperduto in una versificazione vacuamente imaginifica e in una<br />

musicalità <strong>di</strong>ffusa, eccessiva, declamatoria, senza schiette definizioni melo<strong>di</strong>che, nemmeno <strong>di</strong> quella modestia<br />

che è stata delle ultime creazioni pucciniane; e soprattutto senza una vera umanità commossa. I personaggi<br />

appena si avvicinano perdono carattere, vaniscono in un linguaggio astratto, canoro, in cui l’affanno<br />

dell’espressione è al posto dell’espressione. I tre duetti <strong>di</strong> Giosta e Anna sono uguali, senza ascesa, senza varietà<br />

<strong>di</strong> accenti. I personaggi, anche per colpa della vicenda, sono immobili e ripetono, al principio come alla fine,<br />

una tristezza <strong>di</strong> nostalgia mortale. L’inesistente e quin<strong>di</strong> incomprensibile comme<strong>di</strong>a recitata dai due innamorati<br />

al secondo atto prima <strong>di</strong> perdersi nell’esaltazione amorosa, ha alcuni fugaci accenti <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo melo<strong>di</strong>camente<br />

definito, seppure non originale, e sono accenti che riposano, che si desidererebbe fossero continuati. La<br />

Comandante avrebbe potuto essere dominante, <strong>di</strong> lineamenti incisivi e originali; ma qualche robusta<br />

sottolineatura orchestrale e il canto della morte non possono correggere l’estraneità <strong>di</strong> questo tipo bizzarro <strong>di</strong><br />

donna che ha peccato e ha redento ma che non è mai in atto sulla scena, non domina mai la vicenda ma la<br />

attraversa senza prospettiva, senza nemmeno improvvise luci <strong>di</strong> cosiddette situazioni. Come, perché la<br />

Comandante racconti, nel primo atto, a Giosta ubbriaco il segreto della sua vita; perché il Capitano dei<br />

Cavalieri, che sono o almeno appaiono una compagnia <strong>di</strong> scrocconi beoni, l’accusi e la Comandante accetti<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/10


subito <strong>di</strong> andarsene quando potrebbe ridurli all’obbe<strong>di</strong>enza: tutto questo non è chiaro, non persuade, non<br />

interessa. E non v’è <strong>di</strong> peggio che persuadere il pubblico, a un certo momento, che non valga la pena <strong>di</strong> capire.<br />

Poiché quando si è capito, e si è data anche una integrazione personale alla vicenda scenica, si è capito<br />

soprattutto che non vale la pena <strong>di</strong> interessarsi all’umanità <strong>di</strong> personaggi che son tanto lontano da noi, e che si<br />

raccolgono in quadri casuali. Senza una vigoria, una logica, un impeto drammatico, sia pure esteriori; e senza<br />

nemmeno un modesto al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> intenzioni e <strong>di</strong> mistero. I <strong>cavalieri</strong> hanno un carattere vocale popolaresco:<br />

robusto nella canzone, fine e accorato nella Ninna Nanna natalizia che luccica in sor<strong>di</strong>na tra i fumi<br />

dell’ubbriacatura; ma il grottesco della loro sfilata e dell’accompagnamento orchestrale alla comme<strong>di</strong>a e<br />

all’amore <strong>di</strong> Giosta e Anna è <strong>di</strong> una vivacità soltanto esteriore, ottenuta con proce<strong>di</strong>menti anche<br />

strumentalmente massicci. Sono tuttavia, con le grazie acquarellate dei cori <strong>di</strong> fanciulle e con i corali più vasti,<br />

specie nel quarto atto, i protagonisti <strong>di</strong> quest’opera che in realtà non ne ha. Sono piuttosto una cornice che<br />

inquadra il melodramma, gl’impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> cascare dalle varie parti <strong>di</strong>sunite nel lirismo inconcludente: sono il<br />

meglio dell’opera. Di Sintram, che dovrebbe essere il legame <strong>di</strong>abolico <strong>di</strong> questi casi nor<strong>di</strong>ci, ho già detto. I<br />

tentativi musicali <strong>di</strong> dargli un carattere sono vani e superficiali: non c’è da ricordare che il suono delle<br />

sonagliere della slitta che lo trasporta. Le sue apparizioni improvvise al secondo e al terzo atto sono<br />

insignificanti.<br />

Ma perché il maestro Zandonai s’è andato a cacciare in questo pasticcio scan<strong>di</strong>navo Se egli fosse un<br />

musicista gravido <strong>di</strong> secon<strong>di</strong> fini, cercatore <strong>di</strong> esotismi preziosi, preoccupato <strong>di</strong> sperdere la realtà<br />

melodrammatica in un falso alone <strong>di</strong> significati più o meno profon<strong>di</strong>, si potrebbe capire l’errore. Ma egli ha<br />

confessato assai semplicemente ad un collega che nella fucina e<strong>di</strong>toriale <strong>di</strong> Casa Ricor<strong>di</strong> c’era già allestita una<br />

traccia <strong>di</strong> libretto sul romanzo <strong>di</strong> Selma Lagerloff [sic]; che, compiuta Giulietta e Romeo, Arturo Rossato, suo<br />

collaboratore, gli aveva con fatica raccolti i cinque quadri dai molti episo<strong>di</strong> del romanzo, e che egli li ha<br />

musicati. Sui nostri palcoscenici gira ancora la Vally [sic] <strong>di</strong> Catalani; per onorare Puccini è stata rappresentata<br />

la sua prima opera: Le Villi; e altri esempi non mancano per persuaderci che <strong>di</strong> tempo in tempo, non si sa perché,<br />

un po’ per obbe<strong>di</strong>enza a mode letterarie, un po’ per calcolo <strong>di</strong> colpire l’immaginazione credula dei nostri<br />

pubblici, un po’ per speranza <strong>di</strong> trovare del nuovo scenico, si infliggono ai nostri musicisti, che se le lasciano<br />

infliggere quando non le desiderino, queste pasticciose romanticherie nor<strong>di</strong>che, veramente mortificanti per il<br />

nostro spirito semplice, solare, armonico. Ammessa questa fatalità cieca, non è il caso <strong>di</strong> <strong>di</strong>scutere il libretto <strong>di</strong><br />

Arturo Rossato, il quale non avrebbe forse potuto farne uno <strong>di</strong>verso e migliore, ma avrebbe dovuto non farne<br />

alcuno, da quel romanzo. E non c’è nemmeno il caso <strong>di</strong> porre un problema estetico nell’incontro tra questa<br />

materia che si dovrebbe chiamar poetica e il temperamento musicale <strong>di</strong> Zandonai. L’in<strong>di</strong>stinto e l’in<strong>di</strong>fferente<br />

dei personaggi non ha certo giovato a correggere il melo<strong>di</strong>smo lirico del maestro che in quest’opera, tenuta<br />

me<strong>di</strong>tatamente in linee più raccolte, ha parentele mascagnane e ha avvicinato il racconto <strong>di</strong> Giosta<br />

all’“improvviso” dello Chénier. Molto invece s’è giovato il maestro dell’episo<strong>di</strong>co e del corale, trattati con un<br />

senso largo, spigliato, che fa sperare in un suo desiderio <strong>di</strong> robuste e ampie costruzioni melodrammatiche. Nel<br />

canto permane l’amore agli ampi declamati, alle tessiture un po’ esasperate, che uguagliano i personaggi;<br />

nell’orchestra un desiderio <strong>di</strong> semplicità, <strong>di</strong> chiarezza, con finezze trasparenti, ma ancora con crescen<strong>di</strong> o scoppi<br />

<strong>di</strong> troppo fragorose sonorità.<br />

L’opera, nell’insieme, è fluida e piacevole. L’ascoltatore è continuamente richiamato ad essa, senza<br />

stanchezze e senza incomprensioni. C’è una bravura musicale che colora i quadri, ciascuno dei quali ha una nota<br />

particolare <strong>di</strong> rilievo. La banalità <strong>di</strong> qualche canto è sempre corretta o sfumata o nascosta in abili cadenze, come<br />

nel coro delle fanciulle. C’è un segno canoro in tutta l’opera che è ormai familiare del maestro e gli concilia<br />

subito l’attenzione del pubblico. E poiché l’esecuzione è piena ed efficace, il pubblico accorrerà ad ascoltarla.<br />

[...]<br />

251<br />

a[driano] b[elli], “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> ” al Costanzi, “Il Corriere d’Italia”, 31.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3 (con foto<br />

<strong>di</strong> Zandonai)<br />

Avviso ai critici!...<br />

Quando al secondo atto sta per iniziarsi la comme<strong>di</strong>a nel teatrino del Castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, Cristiano rivolto alla<br />

folla e agitando il corno che tiene in pugno grida: “Avviso a tutti i critici...”. E l’orchestra commenta con tre<br />

inarrivabili ragli <strong>di</strong> asino. Poi continua: “Chi ciancia ha una cornata!”, e giù, altra indovinatissima armonia<br />

imitativa da far venire i brivi<strong>di</strong>. Con questo avvertimento e con quel commento si rimane un po’ perplessi e... un<br />

po’ timorosi a scrivere intorno alla nuova opera <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, e per cominciare affrettiamoci a riferire<br />

la cronaca lietissima della serata che si riassume in sette chiamate al primo ed applausi a scena aperta al<br />

racconto <strong>di</strong> Giosta; sei al secondo ed applausi all’aria <strong>di</strong> Anna e al coro dei Cavalieri; cinque al primo quadro<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/11


del terzo, quattro al secondo quadro; sei chiamate alla chiusa dell’opera. Complessivamente dunque ben 29<br />

chiamate, che costituiscono un autentico successo <strong>di</strong> pubblico (e l’opera non si concede facilmente ad una prima<br />

au<strong>di</strong>zione), il che vale molto più del parere personale <strong>di</strong> questo o <strong>di</strong> quel critico.<br />

E dopo questa premessa, parliamo un poco della nuova opera <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, cominciando dal libretto<br />

<strong>di</strong> Arturo Rossato.<br />

Il libretto<br />

L’argomento, com’è noto, è tratto dal romanzo La leggenda <strong>di</strong> Gosta [sic]Berling <strong>di</strong> Selma Lagerlof [sic], la<br />

popolarissima scrittrice svedese premiata nel 1909 col premio Nobel per la letteratura e il cui libro è considerato<br />

come un vero poema nazionale. Dalla farraginosa narrazione <strong>di</strong> psicologia incerta [e] nebulosa, esuberante <strong>di</strong><br />

episo<strong>di</strong> e <strong>di</strong> particolari folkloristici Arturo Rossato è riuscito a compiere vera opera d’arte traendone un libretto<br />

scorrevole in relazione al romanzo e pieno <strong>di</strong> scene <strong>di</strong> colore come si ad<strong>di</strong>cevano alla peculiare attitu<strong>di</strong>ne del<br />

musicista. Manca certo <strong>di</strong> unità, e non pote[va] averne, ma non è esagerato affermare che data la narrazione<br />

della Lagerlof non poteva trarsi lavoro migliore <strong>di</strong> questo.<br />

Però tale libretto non è adatto per il nostro teatro, né per i nostri musicisti. Il soggetto nor<strong>di</strong>co punto si<br />

avvicina al gusto del nostro pubblico, che non riesce ad interessarsi a certi personaggi né a comprendere certe<br />

situazioni. L’unica figura alla quale si può un poco appassionare la nostra anima latina è quella <strong>di</strong> Anna, che con<br />

la sua femminilità e con la sua bontà re<strong>di</strong>me e trasforma Giosta, abbrutito dal vizio dell’alcool. Ma è fredda<br />

Anna, destinata a compiere l’alta missione <strong>di</strong> cui ogni donna dovrebbe andare orgogliosa, quella cioè <strong>di</strong><br />

purificare, guidare e sostenere con la femminile dolcezza e con spontanei sacrifici l’uomo amato – ed in questo<br />

Anna rassomiglia un poco a Minnie – [ma] non riesce, al contrario della creatura pucciniana, a farci passare un<br />

brivido <strong>di</strong> commozione. Essa è fredda come la neve che ovatta il suo paesaggio ed opaca come la pesante nebbia<br />

<strong>di</strong> quei paesi. Lassù si possono anche concepire, attraverso le copiose necessarie libagioni, le fantastiche storie<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>avoli e <strong>di</strong> fattucchiere e dar vita a chimere e realtà alle apparenze. Ma da noi ove sfolgora il sole e l’aria è<br />

tutta una vibrazione <strong>di</strong> fulgori si ama in altro modo e i nobili sacrifici e le alte missioni <strong>di</strong> donne si compiono<br />

con slancio e calore, così che da noi personaggi siffatti non possono appassionare né far nascere interesse.<br />

E se questa è la impressione per Anna, la più umana dei fantocci che l’altra sera abbiamo veduto agitarsi sul<br />

palcoscenico del Costanzi, è facile immaginare quale sia quella per gli altri. Il nostro pubblico passa in<strong>di</strong>fferente<br />

ed anzi si urta <strong>di</strong>nanzi alla Comandante, che ha perduto ogni femminilità e fuma e parla a forza <strong>di</strong> scu<strong>di</strong>scio, e a<br />

quel branco <strong>di</strong> sfaccendati che sembra che lavorino solo per procurarsi da che bere e ubbriacarsi, e<br />

all’incomprensibile Cristiano che dopo averne fatto <strong>di</strong> tutti i colori si fa <strong>di</strong> un tratto scrupolo fino a cacciare la<br />

sua padrona e protettrice.<br />

La musica<br />

A questo insieme <strong>di</strong> fantasioso, <strong>di</strong> superstizioso e <strong>di</strong> leggendario che forma l’essenza della letteratura<br />

nor<strong>di</strong>ca, insieme cerebrale e punto interessante, Riccardo Zandonai ha cercato <strong>di</strong> dar vita attraverso una vera<br />

fantasmagoria <strong>di</strong> suoni: tanto più che alcuni episo<strong>di</strong> ed alcune scene si prestavano magnificamente per la sua<br />

pro<strong>di</strong>giosa tavolozza orchestrale. E ci è riuscito, giacché l’attenzione [con la ] quale è stato seguito sino<br />

all’ultima nota il non breve spartito è dovuta esclusivamente alla magìa del musicista.<br />

Musica, questa dello Zandonai, più sostanziosa <strong>di</strong> intelligenza che non <strong>di</strong> cuore; musica in cui è tutto un<br />

succedersi <strong>di</strong> sensazioni <strong>di</strong>remmo quasi visive, ora abbaglianti, ora pallide, ora accese, ora smorte; un insieme <strong>di</strong><br />

colori svariatissimi <strong>di</strong>sposti con squisitissimo buon gusto, con efficacia <strong>di</strong> contrasti, con varietà <strong>di</strong> toni, con<br />

rilievo <strong>di</strong> chiaroscuri. Come colorista Zandonai non ha certo chi l’uguagli. Dalle scene in cui tutto sembra<br />

svanire in un’atmosfera <strong>di</strong> irrealtà e <strong>di</strong> sogno, <strong>di</strong> forme indefinite e iridescenti, passa a quelle in cui l’ar<strong>di</strong>tezza<br />

della forma e il cozzo dei colori più vivaci e <strong>di</strong>sparati giungono all’iperbolico, con un equilibrio mirabile. Arte,<br />

questa dello Zandonai, nella quale egli ha raggiunto la completa maturità.<br />

Nelle scene con le quali si apre l’opera quei suoni incerti e indefiniti dànno una nota così realistica che<br />

giungiamo quasi a vedere il quadro <strong>di</strong> un melanconico tramonto nell’ampia <strong>di</strong>stesa delle nevi; e così si [ ]nca<br />

della notte del Natale. Tanto le piccole scene in cui alcune pennellate <strong>di</strong> colore dànno a quel quadro<br />

in<strong>di</strong>menticabili iridescenze <strong>di</strong> colori, come ad esempio i soavissimi contrappunti della celesta all’[assolo] <strong>di</strong><br />

violino; quanto la strana e impressionante poderosa scena dei <strong>cavalieri</strong> al primo atto e quella magnifica della<br />

ripresa del lavoro alla chiusa dell’opera sono scritte da Grande. Ma quella che è riuscita un vero capolavoro <strong>di</strong><br />

ar<strong>di</strong>tezza è l’insuperabile commento del teatrino. Lo Zandonai è così padrone dell’arte sua che alle volte dà<br />

l’impressione <strong>di</strong> quegli acrobati che si <strong>di</strong>vertono a far rabbrivi<strong>di</strong>re gli spettatori <strong>di</strong>nanzi ai loro pericolosissimi<br />

esercizi. Egli infatti attacca quella scena che sembra quasi pazza per la sua ar<strong>di</strong>tezza e la svolge, l’[ ] fino al<br />

parossismo. Cammina come sopra un filo sospeso su paurosi baratri, e sembra non accorgersi <strong>di</strong> nulla. va avanti<br />

con una <strong>di</strong>sinvolta padronanza da sbalor<strong>di</strong>re. Le regole armoniche non esistono più. Il p. Martini che<br />

rabbrivi<strong>di</strong>va a due quinte <strong>di</strong> seguito si sarebbe suicidato! Eppure quella musica così veristicamente stonata<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/12


attraverso l’arte <strong>di</strong> questo Mago vi appare come la più intonata musica che possa esistere, e il quadro non solo<br />

non urta il vostro u<strong>di</strong>to ma vi prende e vi trascina.<br />

Oltre queste pagine inarrivabili che potrebbero davvero definirsi “musica per gli occhi”, i Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong><br />

contengono brani in cui lo Zandonai si è abbandonato alla melo<strong>di</strong>a larga e ampiamente svolta. Si è voluto a<br />

questo proposito osservare che egli, specie al secondo atto, si sia voluto avvicinare alla forma melo<strong>di</strong>ca<br />

mascagnana. Niente <strong>di</strong> più errato. Là Giosta improvvisa la parte della comme<strong>di</strong>a e il suo canto non poteva essere<br />

che quel declamato melo<strong>di</strong>co in cui la frase segue esattamente la musicalità della parola e del periodo. Ma v’è<br />

un abisso tra la melo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Mascagni e quella dello Zandonai. Certo dal lato lirico, almeno come intenzioni,<br />

Zandonai è in progresso.<br />

Il racconto <strong>di</strong> Giosta al primo atto è veramente umano e riboccante <strong>di</strong> passione. Diverso per condotta e<br />

sviluppo è il racconto che segue della Comandante, ma non per questo meno pregevole del primo. L’aria <strong>di</strong><br />

Anna al secondo è bella e <strong>di</strong> squisita fattura e così il duetto e così il canto della nostalgia al terzo; ma sono<br />

troppo poche pagine queste per una partitura così voluminosa. I <strong>di</strong>aloghi sono troppo frequenti e lunghi; la parte<br />

<strong>di</strong> Cristiano (ad eccezione della canzone che canta con i Cavalieri) ad esempio è tutto un declamato, e così<br />

quella <strong>di</strong> Sintram, e così via. Un effetto <strong>di</strong> commozione profonda che <strong>di</strong>laghi dalle scene nella sala, un lampo <strong>di</strong><br />

grande ispirazione, un fremito intenso e vibrante, un grido veramente umano che scuota e faccia provare il<br />

brivido, si attende invano durante le tre ore in cui durano i Cavalieri. In Francesca Zandonai trovò quei<br />

momenti, e così in Giulietta, ma in quest’ultimo lavoro non poteva trovarli perché l’azione non glie ne<br />

presentava l’occasione. Nei Cavalieri abbiamo una serie <strong>di</strong> scene e <strong>di</strong> quadri trattati con salda mano e con<br />

insuperabile abilità strumentale, ma mancano quell’equilibrio organico e quel calore che pur avevano Francesca<br />

e Giulietta ed anche Conchita.<br />

Si è parlato tanto in questi giorni <strong>di</strong> successioni, ebbene sia; ma occorre che il genialissimo maestro trentino<br />

ricor<strong>di</strong> in qual modo il suo predecessore sceglieva i libretti e come si maturavano le opere nel suo stu<strong>di</strong>o e con<br />

quale pazienza venivano limate. Il libretto deve contenere passione che si comunica nella sala, deve contenere<br />

un soggetto che commuova profondamente e senza artifici; e solo a questa con<strong>di</strong>zione si deve scrivere. Piuttosto<br />

che dare vita musicale a delle cose che lasciano il pubblico freddo e in<strong>di</strong>fferente è preferibile non scrivere,<br />

proprio come faceva quel grande scomparso. (113)<br />

I Cavalieri, come osservavamo in principio, non si concedono ad una prima au<strong>di</strong>zione, vanno ascoltati <strong>di</strong><br />

nuovo perché contengono pagine pregevolissime <strong>di</strong> colore e buoni slanci lirici. L’opera appare un po’ lunga.<br />

Una revisione e opportuni ma coraggiosissimi tagli alla seconda metà dell’opera si impongono per la vitalità e la<br />

fortuna dell’opera stessa.<br />

Date a Riccardo Zandonai un libretto umano, nostro, sentito, passionale; un libretto organico, non<br />

eccessivamente lungo, in cui vicino al colore degli episo<strong>di</strong> e dello sfondo vivano in primo piano creature che<br />

sentano e soffrano come soffriamo e sentiamo noi, e lo Zandonai ci darà il capolavoro.<br />

La esecuzione<br />

La esecuzione è stata veramente eccellente; sul palcoscenico è stata una vera gara fra gli artisti maggiori e<br />

minori perché l’opera nuovissima venisse posta nella sua giusta luce. Riccardo Zandonai non poteva sperare<br />

migliore collaborazione.<br />

Vogliamo porre in prima linea Edoardo Vitale che è stato un meraviglioso animatore <strong>di</strong> particolari. Niente ha<br />

trascurato perché la varia, ricca, <strong>di</strong>fficilissima partitura venisse posta in quel rilievo che meritava. Tutti gli effetti<br />

che alle volte nella musica dello Zandonai sono fine a se stessi sono stati dall’illustre <strong>di</strong>rettore curati con quello<br />

scrupolo artistico che è sua caratteristica e riusciva a rendere nel giusto equilibratissimo tono. E dove poi la<br />

frase si elevava con respiro più ampio o la scena assumeva slancio e vigorìa la bacchetta del Vitale sapeva trarre<br />

dall’orchestra e dalle voci sonorità piena senza abusi e senza asprità, con una comunicativa che è valore e vanto<br />

del grande <strong>di</strong>rettore. Il pubblico comprese tutto questo e salutò il grande <strong>di</strong>rettore con applausi ed ovazioni piene<br />

<strong>di</strong> entusiasmo.<br />

Maddalena Bugg nelle vesti della dolce e appassionata Anna fu <strong>di</strong> una toccante umanità. Cantò con voce<br />

bella, uguale, estesa, con una <strong>di</strong>zione <strong>di</strong> una chiarezza ammirabile, con una emissione ricca <strong>di</strong> risorse, con un<br />

calore pieno <strong>di</strong> efficacia. E nella scena seppe essere gaia e spensierata, dolorante e appassionata, guidando il suo<br />

canto e le sue controscene con un intuito artistico e con una intelligenza <strong>di</strong> cui ci ha dato sempre prova ma che<br />

più che mai ha messo in valore nella nuovissima sua interpretazione.<br />

Giosta Berling ha trovato nel tenore Merli un interprete superiore ad ogni elogio. Cantante che non conosce<br />

<strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> tessitura e <strong>di</strong> emissione, in possesso <strong>di</strong> una resistenza invi<strong>di</strong>abile, <strong>di</strong> una intelligenza superiore e <strong>di</strong><br />

grande calore comunicativo, ha avuto l’altra sera momenti felicissimi così che l’opera per merito suo si arricchì<br />

<strong>di</strong> un elemento veramente prezioso.<br />

Sara Sadun è tornata gra<strong>di</strong>tissima fra noi dopo una sua malattia, e per suo mezzo la parte della Comandante<br />

ha avuto un’interpretazione eccellente. Tutto quello che <strong>di</strong> rude, <strong>di</strong> forte, <strong>di</strong> maschio è contenuto in questa parte<br />

strana e lontana dal nostro temperamento è stato reso dalla valorosa artista in modo veramente reale. La Sadun,<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/13


che ha una <strong>di</strong>zione <strong>di</strong> una impareggiabile chiarezza ed una voce che nel registro basso si amplia con risonanze<br />

baritonali, è stata molto ammirata e festeggiata.<br />

Il baritono Parvis (a proposito, rallegramenti cor<strong>di</strong>alissimi per la meritata onorificenza <strong>di</strong> cui volle <strong>di</strong> motuproprio<br />

insignirlo S.M. il re) era Cristiano e, <strong>di</strong>ciamolo subito, il valoroso artista ha reso il personaggio con<br />

giusta rudezza ed ha cantato perfettamente, e non poteva essere <strong>di</strong>versamente.<br />

Teofilo Dentale sia con la voce sia col giuoco scenico sia con la sua non comune intelligenza ha dato al<br />

personaggio <strong>di</strong> Sintram il giusto rilievo.<br />

Il Nar<strong>di</strong> ha reso benissimo la parte <strong>di</strong> Licerona [sic], e la De Franco è stata una perfetta ostessa e madre.<br />

Ottimi i Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Marcotto, Pellegrino, Tega, e Petri [sic], Uxa, Giusti, Soffiantini, Pastocchi e<br />

Freitas; e così le fanciulle: Tesorieri, Lauri, Benincori, Gualda (1<strong>14</strong>) e oltre le tutte.<br />

Benissimo i cori <strong>di</strong>fficilissimi, istruiti dal M.o Consoli.<br />

Non dobbiamo <strong>di</strong>menticare Oscar Zuccarini che nei due <strong>di</strong>fficilissimi a solo <strong>di</strong> violino è stato pari alla sua<br />

grande fama per cavata, precisione e ritmo; e l’infaticabile M.o Luigi Ricci che ha preparato tutti gli artisti in<br />

modo da essere come sempre un vero, prezioso e insuperabile collaboratore dello spettacolo.<br />

Belli gli scenari eseguiti sui bozzetti del Carelli.<br />

[...]<br />

252<br />

M[atteo] Incagliati, Il successo de “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” al Costanzi, “Il Giornale d’Italia”, 31.3.1925 - p. 7,<br />

col. 2-3-4-5 (con un ritratto a matita <strong>di</strong> Zandonai)<br />

L’aspetto magnifico, imponente, sfolgorante che aveva assunto l’altra sera la sala del Costanzi – non un<br />

posto vuoto – conferiva da solo il tono all’avvenimento teatrale che è senza dubbio il più notevole dell’annata.<br />

Non mancava il Principe ere<strong>di</strong>tario, rivelatosi ormai sensibile a ogni nobile manifestazione d’arte e in particolar<br />

modo <strong>di</strong> quella musicale.<br />

Dinanzi a così eletto e numeroso u<strong>di</strong>torio la nuova opera <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, già accolta or son venti<br />

giorni alla Scala da un grande successo, fu riconsacrata alla benigna fortuna; e così, per una volta tanto, in<br />

questa nostra Italia che spesso pare <strong>di</strong>visa spiritualmente, il pubblico delle due maggiori metropoli si è trovato<br />

d’accordo nel giu<strong>di</strong>care un’opera d’arte, tanto d’accordo che la cronaca <strong>di</strong> Milano della prima rappresentazione<br />

dei Cavalieri è quasi simile a quella dell’altra sera al Costanzi.<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> seguono dunque la loro marcia con il loro inno giocondo e spavaldo, sorretti da una<br />

sorridente ed amica stella. Al Costanzi la cronaca segna ben trenta chiamate alla ribalta, alle quali parteciparono<br />

con Riccardo Zandonai il librettista Arturo Rossato, il maestro Edoardo Vitale e tutti gl’interpreti, e applausi a<br />

scena aperta lungo il corso della rappresentazione.<br />

L’opera d’arte<br />

Per quale fascino musicale i Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> conquistarono il pubblico della Scala, dove la nuova opera si<br />

continua a replicare <strong>di</strong>nanzi a pubblico affollato e plaudente, è troppo noto ai lettori del Giornale d’Italia – ché<br />

su queste colonne intorno alla geniale partitura fu in quell’occasione largamente, <strong>di</strong>ffusamente scritto (115) .<br />

Certo perché questo fascino abbia esercitato la stessa influenza sul pubblico romano bisogna che l’opera<br />

d’arte abbia insito in sé tali elementi <strong>di</strong> bellezza e tali fattori <strong>di</strong> teatralità da vincere ogni prova.<br />

Considerata così come un affresco dove campeggiano strane figure sullo sfondo <strong>di</strong> un nevoso triste<br />

paesaggio e dove si agita la folla, la nuova opera <strong>di</strong> Zandonai rivela con tipica ed espressiva rappresentazione<br />

musicale tre aspetti <strong>di</strong>versi, ai quali la fantasia dell’artista ha impresso una nota <strong>di</strong> suggestiva originalità:<br />

l’ambiente – il paesaggio della leggenda da cui il Rossato ha tratto il libretto –, l’amore <strong>di</strong> Anna e Giosta, il<br />

gruppo dei do<strong>di</strong>ci Cavalieri.<br />

L’ambiente. La facoltà coloritrice <strong>di</strong> Riccardo Zandonai si rivela con tratti <strong>di</strong> originalità in ogni sua opera e<br />

in particolar modo nella Conchita, nella Francesca, nella Giulietta e in ultimo nei Cavalieri. Gli è che il senso<br />

<strong>di</strong> espressione <strong>di</strong> una determinata epoca e <strong>di</strong> un determinato paesaggio è tratto artisticamente dalla propria<br />

fantasia, senza ricorrere al folklore. Nei Cavalieri era facile impresa ricorrere alla espressione dell’esotismo.<br />

Invece Zandonai ha creato un mondo caratteristico e poetico con la sua musica, per cui l’ambiente della nuova<br />

opera è stato descritto attraverso singolari motivi musicali, senza attingere ad altra fonte che alla fonte della sua<br />

genialità. E così il paesaggio boreale si delinea a chiari segni sin dall’inizio dell’opera con un movimento eguale<br />

dei bassi nei quali par che pianga la natura desolata e fredda su cui si scioglie un lento e spezzato <strong>di</strong>segno<br />

dell’oboe. E poi l’ambiente è ravvivato dal guizzo sinistro <strong>di</strong> una sonagliera e da un leggiadro canto <strong>di</strong> fanciulle.<br />

La nota nostalgica non s’interrompe mai come i due amanti, Anna e Giosta, popolano la scena, e si insinua poi<br />

nell’anima della Comandante quando la sciagura si abbatte su <strong>di</strong> lei, e vince perfino il gruppo dei <strong>cavalieri</strong><br />

quando la notte <strong>di</strong> Natale smorza ogni allegrezza. Ed è così con un intreccio <strong>di</strong> temi e attraverso una chiara<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/<strong>14</strong>


nitida trama sinfonica che il senso del paesaggio si rivela e si <strong>di</strong>segna e par quasi che si ripercuota nelle voci dei<br />

vari personaggi. È la nota indeterminata e vaga rievocante il contenuto poetico <strong>di</strong> un mondo lontano, un mondo<br />

che la fantasia <strong>di</strong> Zandonai ha tradotto con la fantasia.<br />

La parte descrittiva è costruita dunque non sulla facile e comoda falsariga della musica nor<strong>di</strong>ca a cui pure<br />

avrebbe potuto attingere l’operista, ma attraverso gli scatti e i guizzi della genialità dell’artista. E così la parte<br />

lirica e la parte caricaturale – i due aspetti fondamentali della nuova opera – non seguono che la stessa traccia,<br />

recanti i segni e gli accenti espressivi <strong>di</strong> una in<strong>di</strong>vidualità ormai ben delineata che la maturità dell’ingegno e<br />

dell’esperienza ha reso tipica. Onde lo stile <strong>di</strong> Zandonai può ormai considerarsi quale esso è: lo stile <strong>di</strong> un<br />

operista che parla con un suo linguaggio, con un’agile [e] potente fantasia. E in un’epoca nella quale l’opera<br />

<strong>di</strong>laga e <strong>di</strong>vaga negli stagni della più monotona esercitazione cerebrale, se pure spesso non rimanga ammorbata<br />

dai miasmi della imitazione esotica, è buona ventura per le sorti del melodramma che vi sia chi nella tra<strong>di</strong>zione<br />

ver<strong>di</strong>ana non si mostri né insensibile né tetragono.<br />

La vicenda d’amore. È un lirismo <strong>di</strong> schietta marca zandonaiana. Se Francesca e Paolo cantano una loro<br />

melo<strong>di</strong>a d’amore, e Giulietta e Romeo palpitano <strong>di</strong> una vita melica tutta illeggiadrita da un ideal sogno <strong>di</strong><br />

poesia, Anna e Giosta evocano dalle loro anime ritmi e motivi che la passione turba ed esalta. E l’amore qui –<br />

così nel secondo atto, come nel terzo, come nell’ultimo – ha una forma d’espressione con un insistente richiamo<br />

a quella melo<strong>di</strong>a che, per quanto facciano e scrivano gli anemici e i balbuzienti degli aspiranti a battere con i<br />

loro pie<strong>di</strong> clau<strong>di</strong>canti le tavole del palcoscenico, Zandonai non pare sia <strong>di</strong> parere <strong>di</strong> ripu<strong>di</strong>are.<br />

Altri può ormai averle dato l’ostracismo e può averle detto ad<strong>di</strong>o vistala in fuga dall’abbaino o dalla porta<br />

della propria fantasia sorda e muta: non così chi nei Cavalieri si è rivelato cantore con tutta la gioia e l’esultanza<br />

<strong>di</strong> un artista capace <strong>di</strong> inebbriarsi alle voci dell’umanità, allo spirito delle passioni, a quel pathos senza <strong>di</strong> cui<br />

l’opera teatrale rischia <strong>di</strong> essere un... poema sinfonico.<br />

I Cavalieri. Com’essi si preannunciano al finale del primo atto, con la gaia fanfara, l’ambiente si rischiara, si<br />

ravviva. È la nota gioconda del dramma posta a contrasto col grigiore dell’ambiente nor<strong>di</strong>co. E come essi<br />

appaiono sulla scena, l’inno: Vecchia terra <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, sorretto da un’idea melo<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> ampia sonorità, squillante,<br />

vivace, ben marcata, saldamente costruita, a larghi intervalli, si spande d’intorno e rispecchia tutta la festosità,<br />

tutta la pomposa rudezza mista al grottesco <strong>di</strong> questa piccola brigata <strong>di</strong> buontemponi. Ma, con un’intuizione<br />

felice, Zandonai – e in ciò si rivela la grande arte <strong>di</strong> lui – ha inserito in quest’inno un lieve senso <strong>di</strong> malinconia,<br />

quasi a preparare la trage<strong>di</strong>a che esploderà alla fine dell’opera. La visione dell’artista si è realizzata con una<br />

sintesi musicale <strong>di</strong> alto rilievo. In quest’inno è incluso tutto un dramma <strong>di</strong> allegrezza e <strong>di</strong> sciagura. Tutto il<br />

secondo atto – un atto <strong>di</strong> forte potente originalità, in cui è la trovata, la sorpresa <strong>di</strong> cui sono capaci solamente i<br />

gran<strong>di</strong> operisti – si riflette nella figurazione del gruppo dei Cavalieri. Arte senza dubbio grande questa <strong>di</strong><br />

Zandonai, <strong>di</strong> avere cioè impostato una scena sul comico, sul quale s’innesta la nota lievemente sentimentale.<br />

Quale spirito non anima la grottesca rappresentazione dei Cavalieri È un modello del genere in cui alla vocalità<br />

s’inserisce la pompa caricaturale strumentale. Com’è un modello <strong>di</strong> ben <strong>di</strong>versa fattura e <strong>di</strong> ben <strong>di</strong>versa<br />

ispirazione il canto <strong>di</strong> Natale nel primo quadro del terzo atto, un canto a quattro parti <strong>di</strong> tenori e bassi intrecciato<br />

dalle volute bizzarre e patetiche ad un tempo <strong>di</strong> un violino.<br />

I Cavalieri rappresentano l’anima, la luce, il palpito <strong>di</strong> questa opera. E tutto l’ultimo atto, così pieno <strong>di</strong><br />

commossa umanità, echeggia del canto del Cavalieri. Il dramma della folla si delinea e si <strong>di</strong>segna nettamente. Il<br />

coro <strong>di</strong>venta così personaggio e popola la scena con i suoi vari atteggiamenti musicali. Il senso della teatralità ha<br />

il suo risalto netto. Come l’opera volge alla fine questo personaggio, il coro e il gruppo dei Cavalieri, assume<br />

sempre più aspetto determinato. La musica ha tratti ben marcati. La gaia canzone dei Cavalieri riprende il suo<br />

ritmo, i fiati in orchestra urlano, esultano gli archi e gli strumentini, e tutta la sinfonia echeggia <strong>di</strong> suoni prodotti<br />

dai colpi <strong>di</strong> maglio e <strong>di</strong> martelli.<br />

Ma non passi inosservato questo: che la canzone dei Cavalieri, in ultimo, muta <strong>di</strong> consistenza espressiva,<br />

così come l’azione drammatica richiedeva, e par quasi che meno spavalderia, meno gaiezza la sorregga, sorretta<br />

com’è da un senso <strong>di</strong> pietà e <strong>di</strong> poesia per la morte della Comandante. E in ciò Zandonai ha ben risposto al<br />

consiglio della sua genialità se è riuscito ad ottenere questo effetto <strong>di</strong> verità teatrale pur conservando all’inno dei<br />

Cavalieri le note e il movimento.<br />

Tale, secondo i dettami del De Sanctis, l’opera considerata in blocco: avremo tempo e agio <strong>di</strong> notare qualche<br />

menda.<br />

L’opera d’arte che ha tali elementi <strong>di</strong> bellezza musicale giustifica l’accoglienza avuta l’altra sera al Costanzi,<br />

così come già l’ebbe alla Scala.<br />

Lo spettacolo<br />

Ed occorre <strong>di</strong>r subito che la riproduzione della nuova opera è riuscita al Costanzi quale le tra<strong>di</strong>zioni del<br />

massimo teatro della Capitale lasciavano prevedere. L’esecuzione è stata <strong>di</strong> quelle che non si <strong>di</strong>menticano.<br />

Il maestro Edoardo Vitale ha pro<strong>di</strong>gato per i Cavalieri tutte le sue eminenti doti <strong>di</strong> grande artista e <strong>di</strong><br />

versatile musicista. Questa sua interpretazione, questa sua nobile fatica non teme confronti. L’orchestra sotto la<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/15


sua guida ha suonato con una morbidezza, una nitidezza, una vivacità <strong>di</strong> suoni e <strong>di</strong> ritmi come la partitura<br />

richiedeva. La vita musicale della nuova opera si è sprigionata dall’orchestra in piena fulgida luce. Mirabili <strong>di</strong><br />

effetto le sonorità piene e vibranti, senza che mai il tono <strong>di</strong> esse fosse calcato su una facile volgarità per<br />

accrescere l’effetto <strong>di</strong>namico; soffusi <strong>di</strong> poesia tutti gli squarci lirici, e con tale espressività che il canto poté<br />

sempre sciogliersi in armonico <strong>di</strong>segno associato al comento orchestrale. Edoardo Vitale ha veramente sentita<br />

quest’opera e ne ha rivissuta l’intima essenza musicale con un’intelligenza e una sensibilità <strong>di</strong> cui mostrò<br />

intendere la portata, la significazione l’illustre autore, che volle al prezioso suo collaboratore <strong>di</strong>mostrare il vivo<br />

grato animo con parole che rappresentano la migliore critica, il migliore omaggio.<br />

Né da meno furono gli interpreti della scena. Maddalena Bugg, nelle vesti <strong>di</strong> Anna, cantò con una poesia<br />

accorata e con accenti deliziosi. La sua voce ebbe agilità e risonanze <strong>di</strong> così gradevole effetto che pareva<br />

l’anima del personaggio si confondesse con l’anima melica. Ogni suo canto si illeggiadrì del bel suono della sua<br />

voce, cui accresceva fascino un senso <strong>di</strong> accorata espressione. E con quelle sue modulazioni, con quella<br />

profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> sentimento ella rese <strong>di</strong> Anna ogni moto dell’anima, tutto lo spirito musicale. Dopo la romanza<br />

ebbe molti applausi.<br />

La Sadun fu una Comandante forte e rude e con le sue note basse conferì al personaggio un tono <strong>di</strong> fierezza.<br />

Nell’ultimo atto trovò accenti <strong>di</strong> accorata mestizia.<br />

Il tenore Merli può associare il clamoroso successo conseguito in quest’opera a quello dell’Aida. “Radamès”<br />

quale egli si rivelò senza emuli. Di Giosta intese il dramma e lo rivisse col canto e con la interpretazione<br />

mirabilmente. La sua voce così spontanea, così generosa, così educata e così insinuante ubbidì alle asperità<br />

dell’ardua tessitura docilmente, e ne trionfò. La espressività del suo canto non fallì mai e si cimentò<br />

vittoriosamente in tutti i brani, così in quelli lirici come in quelli drammatici. Espressività <strong>di</strong> patetico abbandono<br />

e <strong>di</strong> esultanza, che trovarono l’ugola preziosa sensibile e capace <strong>di</strong> spandere il canto in armonia dal suono. I suoi<br />

acuti magnifici pareva si spandessero con una facilità tanto pro<strong>di</strong>giosa da produrre un go<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> cui l’arte<br />

vocale da qualche tempo non è più pro<strong>di</strong>ga. E così è giustificato l’applauso clamoroso che l’interruppe dopo il<br />

racconto al primo atto, ch’egli rese con tutta l’anima e la possanza della gola; e dopo il duetto con Anna al terzo<br />

atto, nel quale la voce trovò accenti <strong>di</strong> largo ampio respiro.<br />

Un Cristiano <strong>di</strong> superbo rilievo fu il baritono Parvis, che come sempre rivelò <strong>di</strong> non sapere <strong>di</strong>ssociare l’arte<br />

del canto da quella dell’interpretazione. Egli scolpì il personaggio con tratti <strong>di</strong> tipica rappresentazione,<br />

conferendovi un che <strong>di</strong> rude e <strong>di</strong> forte. Il suo canto parve dare un tono <strong>di</strong> vivacità espressiva alla interpretazione.<br />

Non un segno, non una pausa, non un particolare sfuggì allo stu<strong>di</strong>o e all’intuizione <strong>di</strong> questo artista che onora la<br />

scena lirica col suo temperamento versatile e con il suo spirito <strong>di</strong> cantante.<br />

Di Sintram il basso Dentale rese la vivacità <strong>di</strong>abolica con intelligenza e misura. Tutti i tratti dello strano<br />

personaggio furono riprodotti con il canto e la mimica ottimamente. E del personaggio intese l’aspetto umano e<br />

quello fantastico.<br />

Olga De Franco, nella duplice veste <strong>di</strong> Ostessa e <strong>di</strong> Madre, si fece molto onore, artista <strong>di</strong> sensibilità e dalla<br />

intonata e morbida voce <strong>di</strong> mezzo soprano, eguale e armoniosa nei vari registri. Nella drammatica scena al terzo<br />

atto ella cantò con così commossi accenti che produsse un vero brivido, quel brivido <strong>di</strong> cui sono capaci le artiste<br />

che cantano con l’anima.<br />

Bene il basso Iulio.<br />

Caratteristico il gruppo dei Cavalieri, e cioè: Nar<strong>di</strong>, Marcotto, Pellegrino, Tegi [sic], De Petris, Uxa, Giusti,<br />

Soffiantini, Pastocchi, Freita [sic].<br />

Lodevoli: Dorina Tesorieri, Laura Lauri, Margherita Benincori, Gualda Caputo.<br />

Il coro, istruito dal maestro Consoli, cantò con un impeto e una intelligenza che suscitarono la più viva<br />

ammirazione. Il Consoli è stato un collaboratore prezioso del successo che ha arriso alla nuova opera.<br />

I due “a solo” per violino furono resi dal prof. Oscar Zuccarini con maestria e con penetrante spirito<br />

musicale zandonaiano e sovratutto con una purezza <strong>di</strong> suono e una perfetta intonazione che valsero all’insigne<br />

strumentista la più ampia lode. Né bisogna <strong>di</strong>menticare i maestri Ricci e De Fabritiis, che cooperarono [con] il<br />

maestro Vitale durante le prove.<br />

La messa in iscena fu curata, oltre che dalla signora Emma Carelli, dal comm. Carlo Clausetti, l’autorevole<br />

<strong>di</strong>rigente della Casa Ricor<strong>di</strong>. Il Clausetti, che alla vivida cultura musicale unisce buon gusto ed esperienza<br />

teatrale, è riuscito a far muovere le masse con una verità sorprendente e a non trascurare nessun particolare<br />

scenico perché l’opera avesse il risalto che il libretto consigliava.<br />

Le scene caratteristiche sono state ispirate dai bozzetti dell’illustre pittore comm. Augusto Carelli.<br />

La cronaca della serata<br />

Ed ecco poche note <strong>di</strong> cronaca sulla serata.<br />

Alle ore 20.35 il maestro Edoardo Vitale dà inizio allo spettacolo. Nella sala buia si fa un silenzio religioso.<br />

L’attenzione è viva ed intensa. I primi applausi scoppiano calorosi e si prolungano per qualche minuto dopo il<br />

racconto <strong>di</strong> “Giosta”, cantato dal tenore Merli con foga appassionata. Come l’atto si chiude, con la canzone dei<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/16


Cavalieri dal ritmo marcato e spavaldo, nella sala risuona l’acclamazione, che come appare il maestro Zandonai,<br />

evocato a gran voce, si eleva <strong>di</strong> tono, e le chiamate all’autore, al Rossato, al maestro Vitale e a tutti gli interpreti<br />

raggiungono il numero <strong>di</strong> sette.<br />

Il secondo atto interessa per la vivacità e per la originalità con cui è stato ideato. Dopo la scena della<br />

presentazione dei Cavalieri, alla chiusa del coro, vibrante e altisonante, la sala prorompe in un applauso; altro<br />

applauso dopo la romanza <strong>di</strong> “Anna”. Alla chiusa dell’atto Zandonai col Rossato, con Edoardo Vitale che vuole<br />

accanto a sé, [con] il maestro dei cori Consoli, un collaboratore prezioso del successo conseguito dalla nuova<br />

opera, e con tutti gl’interpreti, è evocato alla ribalta sei volte.<br />

Il terzo atto, come è noto, è <strong>di</strong>viso in due parti: in complesso si sono avute nove chiamate. Nella prima parte<br />

suscita viva commozione e profonda impressione il canto <strong>di</strong> Natale, reso dal gruppo dei Cavalieri con bella<br />

espressione e impeccabile intonazione. Nella seconda parte il duetto tra “Giosta” e “Anna”, cui il tenore Merli e<br />

la Bugg accrebbero fascino con la vivacità degli accenti e con tutta la passione delle loro voci.<br />

L’ultimo atto si inizia con un coro impetuoso che è applau<strong>di</strong>to, e si svolge poi con un duetto tra il tenore e il<br />

soprano che è tutto pervaso <strong>di</strong> una patetica mestizia. L’ad<strong>di</strong>o della “Comandante” impressiona per gli accenti<br />

pieni <strong>di</strong> abbandono e <strong>di</strong> angoscia, con melo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> schietto sapore italiano e dall’ampio respiro. Il finale<br />

dell’opera, colla canzone dei Cavalieri, i colpi <strong>di</strong> maglio, gli squilli dei martelli, impressiona per la sonorità e la<br />

genialità con cui il maestro Zandonai è riuscito a ideare, a costruire, a realizzare una scena che onorerebbe<br />

qualsiasi grande musicista.<br />

Gli applausi, le acclamazioni si prolungano e si intensificano: e Riccardo Zandonai con il Rossato e con tutti<br />

gli interpreti, a capo dei quali è il maestro Vitale, è indotto a presentarsi al proscenio otto volte.<br />

Un successo dunque che ha la sua schietta significazione nel numero delle chiamate alla ribalta: in<br />

complesso – a parte gli applausi a scena aperta – ben trenta.<br />

Il successo, dunque, <strong>di</strong> Milano alla Scala si è ripetuto al Costanzi.<br />

Dopo il secondo atto il Principe ere<strong>di</strong>tario ha fatto invitare nel suo palco il maestro Zandonai e Arturo<br />

Rossato. Il Principe ricordò al Maestro <strong>di</strong> aver parlato con lui dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> a <strong>Rovereto</strong>, compiacendosi<br />

<strong>di</strong> vederli ed ascoltarli ora, proprio così come Zandonai glieli aveva descritti. Osservò sorridendo che egli, il<br />

maestro, aveva pur dato un po’ <strong>di</strong> sole italiano tra le nebbie del Nord e gli chiese quanto tempo aveva impiegato<br />

per condurre a termine l’opera. Il maestro rispose che aveva impiegato quin<strong>di</strong>ci mesi, perché quando egli lavora<br />

è tenace come le sue montagne. Parlando dell’opera il Principe soggiunse che essa lo interessava molto e si<br />

congratulò vivamente anche col Rossato per il libretto che gli era piaciuto molto come gli era piaciuto il<br />

romanzo <strong>di</strong> Selma Lagerlof [sic].<br />

253<br />

m[atteo] i[ncagliati], “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” al Costanzi, “Il Piccolo”, 30.3.1925 - p. 6, col. 1-2-3<br />

Lo spettacolo - Zandonai e il Principe Ere<strong>di</strong>tario - Trenta chiamate<br />

La sala del Costanzi, per la prima dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> del maestro Riccardo Zandonai, su libretto <strong>di</strong><br />

Arturo Rossato, aveva l’altra sera l’aspetto delle occasioni solenni: non un posto vuoto, una vera moltitu<strong>di</strong>ne.<br />

Nei palchi, nelle poltrone, nelle poltroncine le più belle e leggiadre dame, fra cui un numero eccezionale <strong>di</strong><br />

straniere. Nel palco <strong>di</strong> Corte si notava il Principe ere<strong>di</strong>tario, in un palco <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne il Commissario senatore<br />

Cremonesi e in poltrona il sottosegretario <strong>di</strong> Stato on. Mattei-Gentili.<br />

Alle ore 20.35 il maestro Edoardo Vitale dà inizio allo spettacolo. Nella sala buia si fa un silenzio religioso.<br />

L’attenzione è viva e intensa. I primi applausi scoppiano calorosi e si prolungano per qualche minuto dopo il<br />

racconto <strong>di</strong> “Giosta”, cantato dal tenore Merli con foga appassionata. Come l’atto si chiude, colla canzone dei<br />

Cavalieri, dal ritmo marcato e spavaldo, nella sala risuona l’acclamazione, che come appare il maestro<br />

Zandonai, invocato a gran voce, si eleva <strong>di</strong> tono, e le chiamate all’autore, al Rossato, al maestro Vitale e a tutti<br />

gli interpreti raggiungono il numero <strong>di</strong> sette.<br />

Il secondo atto interessa per la vivacità e per la originalità con cui è stato ideato e che ha rivelato una tipica<br />

originalità della fantasia del musicista. La parte caricaturale si fonde alla parte lirica, soffusa questa <strong>di</strong> una<br />

tenera leggiadra melo<strong>di</strong>a erotica. Dopo la scena della presentazione dei Cavalieri, alla chiusa del coro, vibrante e<br />

altisonante, la sala prorompe in un applauso; altro applauso dopo la romanza <strong>di</strong> “Amia” [sic]. Alla chiusa<br />

dell’atto Zandonai con Rossato, con Edoardo Vitale che vuole accanto a sé il maestro dei cori Consoli, un<br />

collaboratore prezioso del successo conseguito dalla nuova opera e con tutti gl’interpreti, è evocato alla ribalta<br />

sei volte.<br />

Il terzo atto, come è noto, è <strong>di</strong>viso in due parti: in complesso si sono avute nove chiamate. Nella prima parte<br />

suscita viva commozione e profonda impressione il canto <strong>di</strong> Natale, reso dal gruppo dei Cavalieri con bella<br />

espressione e l’impeccabile intonazione. Nella seconda parte il duetto tra “Giosta” e “Amia”, cui il tenore Merli<br />

e la Bugg accrebbero fascino con la vivacità degli accenti e con tutta la passione delle loro voci.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/17


L’ultimo atto si inizia con un coro impetuoso che è applau<strong>di</strong>to, e si svolge poi con un duetto tra il tenore e il<br />

soprano che è tutto pervaso <strong>di</strong> una patetica mestizia. L’ad<strong>di</strong>o della “Comandante” impressiona per gli accenti<br />

pieni <strong>di</strong> abbandono e <strong>di</strong> angoscia, con melo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> schietto sapore italiano e dall’ampio respiro. Il finale<br />

dell’opera colla canzone dei Cavalieri, i colpi <strong>di</strong> maglio, gli squilli dei martelli impressiona per la sonorità e la<br />

genialità con cui il maestro Zandonai è riuscito a ideare, a costruire, a realizzare una scena che onorerebbe<br />

qualsiasi grande musicista.<br />

Gli applausi, le acclamazioni si prolungano e si intensificano: e Riccardo Zandonai con il Rossato e con tutti<br />

gli interpreti, a capo dei quali è il maestro Vitale, è indotto a presentarsi al proscenio otto volte.<br />

Un successo dunque che ha la sua schietta significazione nel numero delle chiamate alla ribalta: in<br />

complesso – a parte gli applausi a scena aperta – ben trenta.<br />

Il successo, dunque, <strong>di</strong> Milano alla Scala si è ripetuto al Costanzi.<br />

Dell’opera <strong>di</strong>remo stasera con miglior agio, per quanto della première svoltasi alla Scala in queste colonne si<br />

parlò con ampiezza.<br />

In queste affrettate e rapide note <strong>di</strong> cronaca basterà segnalare dopo il successo, cui si è fatto cenno più<br />

innanzi [!], alla vibrante esecuzione che fu quale non è facile immaginare per <strong>di</strong>ligenza e per genialità dei<br />

singoli interpreti, primo fra tutti l’illustre maestro Vitale, animatore vigoroso [e] appassionato dello spettacolo,<br />

collaboratore quale egli si rivelò fraterno dell’autore, e poi: il tenore Merli, la Bugg, la Sadun, il baritono Parvis,<br />

il basso Dentale, Olga De Franco. Caratteristico il gruppo dei Cavalieri, e cioè: Nar<strong>di</strong>, Marcotto, Pellegrino,<br />

Tega, de Petris, Uxa, Giusti, Soffiantini, Pastocchi, Freita [sic].<br />

Lodevoli: Dorina Tesorieri, Laura Lauri, Margherita Benincori, Gualda Caputo.<br />

Il coro, istruito dal maestro Consoli, cantò con un impeto e una intelligenza da suscitare la più viva<br />

ammirazione. Il Consoli è stato un collaboratore prezioso del successo che ha arriso alla nuova opera.<br />

I due “a solo” per violino furono resi dal prof. Oscar Zuccarini con maestria e con penetrante spirito<br />

musicale zandonaiano e sovratutto con una purezza <strong>di</strong> suono e una perfetta intonazione che valsero all’insigne<br />

strumentista la più ampia lode. Né bisogna <strong>di</strong>menticare i maestri Ricci e De Fabritiis, che cooperarono il<br />

maestro Vitale durante le prove.<br />

La messa in iscena fu curata, oltre che dalla signora Emma Carelli, dal comm. Carlo Clausetti, l’autorevole<br />

<strong>di</strong>rigente della Casa Ricor<strong>di</strong>. Il Clausetti è riuscito a far muovere le masse con una verità sorprendente e a non<br />

trascurare nessun particolare scenico perché l’opera avesse il risalto che il libretto consigliava.<br />

Le scene caratteristiche sono state ispirate dai bozzetti dell’illustre pittore comm. Augusto Carelli.<br />

Dopo il secondo atto il Principe ere<strong>di</strong>tario chiamò nel suo palco il maestro Zandonai e il Rossato. Con<br />

l’illustre operista il Principe parlò a lungo <strong>di</strong> musica e dei Cavalieri.<br />

Domani sera, in 2a d’abbonamento, i Cavalieri si replicheranno, a prezzi meno alti della première.<br />

L’autore assisterà alla rappresentazione.<br />

Allo spettacolo assisteva dal palco <strong>di</strong> Corte il Principe Ere<strong>di</strong>tario. Dopo il secondo atto il Principe ere<strong>di</strong>tario<br />

ha fatto invitare nel suo palco il maestro Zandonai e Arturo Rossato. Il Principe ricordò al Maestro <strong>di</strong> aver<br />

parlato con lui dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> a <strong>Rovereto</strong>, compiacendosi <strong>di</strong> vederli ed ascoltarli ora, proprio così come<br />

Zandonai glieli aveva descritti. Osservò sorridendo che egli, il maestro, aveva pur dato un po’ <strong>di</strong> sole italiano tra<br />

le nebbie del Nord e gli chiese quanto tempo aveva impiegato per condurre a termine l’opera. Il maestro rispose<br />

che aveva impiegato quin<strong>di</strong>ci mesi, perché quando egli lavora è tenace come le sue montagne. Parlando<br />

dell’opera il Principe soggiunse che essa lo interessava molto e si congratulò vivamente anche col Rossato per il<br />

libretto che gli era piaciuto molto come gli era piaciuto il romanzo <strong>di</strong> Selma Lagerlof [sic].<br />

254<br />

Alberto Gasco, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> R. Zandonai al Costanzi, “La Tribuna”, 31.3.1925 - p. 3, col. 2-3-4<br />

(con un ritratto a matita <strong>di</strong> Zandonai)<br />

La situazione nella quale Riccardo Zandonai si trova rispetto all’arte lirica italiana è singolare. Il fecondo,<br />

energico, abilissimo compositore trentino ha saputo guadagnarsi una meritata fama: comunque, sebbene il suo<br />

nome sia sulla bocca <strong>di</strong> tutti, la sua musica non può <strong>di</strong>rsi popolare. La folla canta e ricanta i motivi del<br />

Mascagni, del Puccini o del Giordano, ma quando vuol rievocare qualche melo<strong>di</strong>a della pre<strong>di</strong>letta Francesca da<br />

Rimini resta imbarazzata. Nessun frammento delle opere <strong>di</strong> Riccardo Zandonai apparisce nei programmi dei<br />

concerti or<strong>di</strong>nari. Orbene, nella nostra canora Italia, affinché una produzione lirica possa aspirare ad una vita<br />

rigogliosa, deve contenere qualche "pezzo" che il pubblico sia in grado <strong>di</strong> afferrare imme<strong>di</strong>atamente e <strong>di</strong>staccare<br />

dalla compagine del lavoro: legge curiosa ma rigida. Ci sono altresì opere che sono state per così <strong>di</strong>re rimesse a<br />

galla e rimorchiate da una semplice romanza: citiamo la Wally, che deve i nove decimi del suo successo all’aria<br />

Ebben, ne andrò lontana e la Madama Butterfly che, dapprima incompresa e maltrattata, è riuscita a vincere le<br />

generali <strong>di</strong>ffidenze in virtù della patetica romanza Un bel dì vedremo, trionfante nei salotti borghesi.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/18


Ciò premesso, non è da stupirsi se lo Zandonai – lottatore perspicace – abbia tentato nei suoi ultimi lavori <strong>di</strong><br />

contentare la massa dei frequentatori degli spettacoli lirici cambiando il tono del suo <strong>di</strong>scorso musicale,<br />

abolendo le fratture melo<strong>di</strong>che e rinunziando a quelle minuziose cesellature che rendevano molto caratteristiche<br />

le sue prime opere ma che stancavano e persino <strong>di</strong>sorientavano gli ascoltatori meno <strong>di</strong>ligenti e amorevoli. Per<br />

<strong>di</strong>ventare più gra<strong>di</strong>to alla folla, il musicista <strong>di</strong> Giulietta e Romeo non ha esitato a deviare risolutamente verso il<br />

melodramma e a valersi dell’elemento popolaresco: la sua melo<strong>di</strong>a, breve e piena <strong>di</strong> fremiti delicati, è <strong>di</strong>ventata<br />

a mano a mano ampia e alquanto enfatica, alla maniera mascagnana. C’è stato, in questo, un reale progresso<br />

d’arte Non oseremo affermarlo: però dobbiamo riconoscere che, mentre la gentilissima Conchita, abbandonata<br />

dal pubblico, era ridotta a menare una vita da crittogama, la Giulietta, fastosa ed anche ampollosa, passava da un<br />

palcoscenico all’altro e riscuoteva complimenti infiniti.<br />

Nei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> – che sabato sera il magnifico u<strong>di</strong>torio del “Costanzi” ha acclamato giocondamente –<br />

l’adesione dello Zandonai alle forme del melodramma italiano moderno (Fanciulla del West, Isabeau, ecc.) è<br />

ben chiara. Ci sono vari "pezzi" nitidamente configurati, conclusi da una cadenza à sensation e seguiti da una<br />

pausa per dare al pubblico il tempo <strong>di</strong> applau<strong>di</strong>re. Qualcuno <strong>di</strong> questi pezzi è realmente degno <strong>di</strong> essere assai<br />

applau<strong>di</strong>to e perciò si può vaticinare un giro fortunato alla nuova opera. La musica dei Cavalieri fluisce<br />

egregiamente: non ci sono, nella ponderosa partitura, ombre moleste o asperità irritanti. Il maestro vuol<br />

convincere, facendo mostra <strong>di</strong> una relativa semplicità e cantando l’amore e il dolore con accento esaltato. Ma<br />

più che nei brani lirici, ove l’influenza del Mascagni tende a <strong>di</strong>ventare preoccupante, noi lo amiamo in quelli<br />

descrittivi, nei “quadretti <strong>di</strong> genere”, che spesso sono assolutamente deliziosi. Riccardo Zandonai è un colorista<br />

originale e sapiente. La sua orchestra ha mille voci e passa senza fatica dalle violenze orgiastiche alle<br />

iridescenze i<strong>di</strong>lliache; la sua tavolozza armonica è ricca perché in essa si trova opportunamente mescolato<br />

l’antico al moderno ed anche all’ultra-moderno. Ad esempio, nella scena grottesca del teatrino al secondo atto,<br />

quando i Cavalieri improvvisano un’orchestrina a base <strong>di</strong> corni e violini miagolanti, ci sono <strong>di</strong>ssonanze<br />

temerarie come in qualche passo del Renard <strong>di</strong> Strawinski e – si noti bene – l’effetto, lungi dall’essere urtante,<br />

risulta singolarmente gradevole. Lo Zandonai, musicista <strong>di</strong> solida cultura e uomo <strong>di</strong> teatro dotato <strong>di</strong> finissimo<br />

intuito, sa risolvere quasi tutti i problemi tecnici con una <strong>di</strong>sinvoltura che sbalor<strong>di</strong>sce: soltanto <strong>di</strong> fronte al<br />

problema sentimentale egli resta talora esitante...<br />

In complesso, la partitura dei Cavalieri merita un profondo riguardo. Non tutto in essa è oro e neppure<br />

argento: non riluce ovunque la fiamma dell’ispirazione geniale, ma ci sono numerose pagine brillanti e<br />

melo<strong>di</strong>che. In qualche momento l’opera <strong>di</strong>venta ad<strong>di</strong>rittura maestosa per il <strong>di</strong>spiegamento delle massime forze<br />

corali e orchestrali.<br />

Prima <strong>di</strong> elencare i passi più felici dei Cavalieri accenneremo ai pregi e ai <strong>di</strong>fetti del libretto che il valoroso<br />

Arturo Rossato ha desunto dalla “Leggenda <strong>di</strong> Giosta Berling” <strong>di</strong> Selma Lagerlöf. Diciamo anzi tutto che l’aver<br />

tentato <strong>di</strong> condensare in quattro atti e cinque quadri alcuni degli episo<strong>di</strong> salienti <strong>di</strong> questo romanzo – alatamente<br />

poetico ma tremendamente caleidoscopico e farraginoso – è stata una impresa quasi <strong>di</strong>sperata. Il librettista, per<br />

raggiungere l’intento, non ha esitato a eliminare alcuni in<strong>di</strong>menticabili personaggi della Lagerlöf e a mutare i<br />

connotati <strong>di</strong> altri: l’unica figura che non abbia subìto alterazioni <strong>di</strong> sorta è quella della “Comandante”: invece<br />

“Anna”, costretta a compen<strong>di</strong>are in se stessa le varie donne amate da Giosta, finisce per non rassomigliare ad<br />

alcuna <strong>di</strong> esse. Peggio anche, Giosta ha perduto l’aspetto che aveva nel romanzo. Egli – il più forte e il più<br />

debole degli uomini –, eroico e triviale, superbo e pieno <strong>di</strong> abnegazione, beone e aggraziato seduttore, vizioso e<br />

pur capace <strong>di</strong> atti <strong>di</strong> suprema bontà, prete sconsacrato e poeta irresistibile, è <strong>di</strong>ventato nel libretto un semplice<br />

tenore che non si stanca mai <strong>di</strong> cantare in tono <strong>di</strong> elegia. Il “Sintram” del Rossato – che risulta dalla fusione <strong>di</strong><br />

“Sintram” e <strong>di</strong> “Melchiorre”, le due anime perfide della terra <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> – conserva per fortuna il suo carattere<br />

originario ed anche la combriccola degli spregiu<strong>di</strong>cati Cavalieri è resa con fedeltà ed evidenza. Ma questi<br />

Cavalieri usurpano gran parte del posto che spetterebbe alla “Comandante”, ad “Anna” e a “Giosta”. In effetto,<br />

la Comandante al secondo atto <strong>di</strong>venta una semplice comparsa. La padrona <strong>di</strong> casa, prima <strong>di</strong> essere<br />

materialmente cacciata fuori della porta (ciò che accade al terzo atto) è già esautorata. Nella Leggenda della<br />

scrittrice scan<strong>di</strong>nava la situazione è molto <strong>di</strong>versa...<br />

Comunque, può darsi che il Rossato non sia stato impari al <strong>di</strong>fficile compito assunto. Se il poema<br />

drammatico dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> manca <strong>di</strong> spina dorsale, non è povero viceversa <strong>di</strong> scene interessanti e <strong>di</strong><br />

scorci pittoreschi. L’azione non languisce mai e qualora il monotono secondo quadro del terzo atto – che ci<br />

mostra il vano ritorno <strong>di</strong> Anna alla casa paterna – fosse tolto o ridotto al minimo e per contro la scena della<br />

tragica partenza della Comandante potesse essere sviluppata sino ad acquistare quella solennità <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>fetta<br />

nella versione attuale, il libretto acquisterebbe un forte potere <strong>di</strong> seduzione.<br />

Lo Zandonai ha sfruttato con saggezza e circospezione quanto il testo drammatico gli offriva. La descrizione<br />

del triste paesaggio nor<strong>di</strong>co invernale è sobria e <strong>di</strong> ottimo gusto. Il coro delle fanciulle piace per l’onda <strong>di</strong><br />

benefica melo<strong>di</strong>a che riversa sugli ascoltatori sitibon<strong>di</strong>; il lungo racconto <strong>di</strong> Giosta, un po’ viziato <strong>di</strong> retorica,<br />

termina con una indovinata variante del Te Deum e quello della Comandante ha accenti <strong>di</strong> rude nobiltà. Ottima<br />

l’entrata dei Cavalieri: il motivo Vecchia terra d’<strong>Ekebù</strong> è più da operetta che da dramma lirico ma piace perché<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/19


plastico, vigorosamente ritmato e orecchiabilissimo. Lo Zandonai ne trae, più d’una volta nel corso del lavoro,<br />

effetti impressionanti.<br />

Nel secondo atto, a parte la ripresa del coro dei Cavalieri, presentato con lusso <strong>di</strong> sonorità, non c’è da notare<br />

che la scena del teatrino, prima umoristica e poi sentimentale. A parer nostro, l’inizio val meglio che la fine.<br />

Giosta ed Anna non riescono a <strong>di</strong>re nulla <strong>di</strong> peregrino. Invece i corni stonati dei Cavalieri e gli arabeschi del<br />

violino del rapsoda Liecrona si combinano in una sinfonia <strong>di</strong> acre sapore caricaturale.<br />

Il terzo atto comincia squisitamente. I Cavalieri cantano una tenera canzone sul Natale, mentre il violinista<br />

improvvisa una melo<strong>di</strong>a in cui si alternano accenti langui<strong>di</strong> e <strong>di</strong>segni capricciosi. Qui c’è del sentimento<br />

veritiero e perciò comunicativo. Il quadro, blandamente nostalgico, ha un sicuro valore d’arte: rare volte lo<br />

Zandonai è stato più ispirato e commosso. La venuta del mefistofelico Sintram, tolti alcuni guizzi orchestrali,<br />

non ci reca sorprese e la culminante scena della rivolta dei Cavalieri contro la Comandante e la partenza <strong>di</strong><br />

costei dalla fucina, per quanto ben condotta, non desta nello spettatore una particolare emozione. Della seconda<br />

metà dell’atto abbiamo detto che essa ci sembra superflua o, se non altro, prolissa. Però il motivo che l’orchestra<br />

svolge alle parole <strong>di</strong> Anna: Ad<strong>di</strong>o, vorrei tornar dolce e bambina deve esser colto come un asfodelo fiorito in<br />

una melanconica radura.<br />

L’ultimo atto è ben inquadrato e procede senza soste oziose. La morte della Comandante, mentre la fucina<br />

riprende il suo ritmo gagliardo, costituisce un episo<strong>di</strong>o teatrale <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne. Lo Zandonai ha messo in opera<br />

tutti i suoi mezzi <strong>di</strong> strumentatore. La canzone dei Cavalieri si ripercuote stentorea fra il rombo delle incu<strong>di</strong>ni e<br />

del maglio. Il brano è vivo, palpitante e <strong>di</strong> sostanziale originalità. Nessuno può resistere a tanto ardore<br />

drammatico e musicale. Infatti, calata la tela sull’ultima scena dell’opera, le ovazioni del pubblico che gremiva<br />

la sala del “Costanzi” sono state assai clamorose. Riccardo Zandonai, il librettista Rossato, il <strong>di</strong>rettore<br />

d’orchestra Vitale, il maestro Consoli, istruttore del coro e i principali artisti sono stati evocati sette od otto volte<br />

al proscenio. In tutto si sono avute circa trenta chiamate, <strong>di</strong> cui le più spontanee al primo e al quarto atto.<br />

Dunque un eccellente successo, che avrà una sicura influenza sul destino teatrale dei Cavalieri.<br />

***<br />

Esecuzione unamimemente elogiata per l’equilibrio, il brio e l’esattezza. Lo Zandonai ha espresso con<br />

infiammate parole la sua riconoscenza al maestro Edoardo Vitale che, <strong>di</strong>spensando tesori <strong>di</strong> ingegno e <strong>di</strong><br />

operosità, ha compiuto in modo esemplare la concertazione del nuovo lavoro. Il Vitale ha tratto il possibile<br />

dall’orchestra poderosa e <strong>di</strong>sciplinata; il primo violino Oscar Zuccarini, nei vari a solo dell’opera, si è<br />

comportato da vero maestro.<br />

Tra i cantanti, la Bugg ha emerso per la sua grazia soave e per il suo ottimo virtuosismo. Pieno <strong>di</strong> slancio e<br />

sempre invi<strong>di</strong>abilmente sicuro il tenore Merli, la cui voce ampia e <strong>di</strong> bellissimo timbro si è mantenuta fresca<br />

sino alla fine dello spettacolo, malgrado l’improba fatica sostenuta. Il Parvis è stato come sempre un cantante ed<br />

attore <strong>di</strong> rara potenza. Nella parte della “Comandante” la signora Matilde Blanco-Sadun ha avuto modo <strong>di</strong> dare<br />

novella prova della sua vivace intelligenza. Il Dentale è stato un “Sintram” genialmente malizioso. Lodevoli le<br />

parti minori dell’opera: il manipolo dei Cavalieri ha esilarato il pubblico con i suoi atteggiamenti faceti.<br />

Coro sontuoso, <strong>di</strong>retto dal valente e instancabile maestro Consoli; scenari <strong>di</strong> grande effetto, dovuti alla<br />

fervida fantasia del pittore Augusto Carelli e movimento scenico impeccabilmente regolato sotto l’alta guida del<br />

comm. Carlo Clausetti.<br />

Le repliche dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> saranno certamente numerose. La prima è fissata per domani, martedì.<br />

255<br />

Ferruccio Rubbiani, I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, “La Voce repubblicana”, 30.3.1925 - p. 3, col.<br />

1-2-3-4<br />

In un teatro gremito si è data sabato sera la prima rappresentazione della nuova opera <strong>di</strong> Riccardo Zandonai:<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>.<br />

La cronaca della serata è questa. Al primo atto: un applauso a scena aperta e sette chiamate alla fine, delle<br />

quali cinque all’autore e al librettista.<br />

Al secondo atto: due applausi a scena aperta e sei chiamate alla fine, delle quali cinque all’autore.<br />

Terzo atto: complessivamente nove chiamate, delle quali sei all’autore.<br />

Quarto atto: otto chiamate, delle quali quattro all’autore.<br />

Adempiuto così all’esattezza della cronaca proverò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re perché I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> siano un’opera<br />

mancata.<br />

Il libretto<br />

Arturo Rossato ha tratto l’argomento del libretto da una saga <strong>di</strong> Selma Lagerlöf intitolata “Gösta Berlings<br />

Saga”, un libretto che può non piacere per la nostra sensibilità <strong>di</strong>versa da quella dei popoli nor<strong>di</strong>ci – ma è poi<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/20


vero che la sensibilità sia <strong>di</strong>versa soltanto perché noi siamo più loquaci e quelli più taciturni – ma che ha un<br />

valore spirituale altissimo. Nientemeno che l’autrice, comprendendo nel suo significato una leggenda passante<br />

<strong>di</strong> bocca in bocca e immortalante con la saggezza del popolo una verità se non denegata misconosciuta dai<br />

cosidetti colti, ha preteso <strong>di</strong> giustificare una tesi <strong>di</strong> questo genere: non c’è peccato che non [si] re<strong>di</strong>ma con<br />

l’amore e con il lavoro. Ed è andata a pescare – o meglio il popolo che è saggio l’ha pescato – un peccatore<br />

eccezionale: un prete, Gösta è precisamente un prete scacciato dalla sua chiesa e dalla sua comunità per il suo<br />

peccato; peccato – notate come sia significativa questa ricerca – <strong>di</strong> gola ché egli non sa vincere il desiderio <strong>di</strong><br />

bere. Come si salva Ridonandosi all’amore <strong>di</strong> una dolce fanciulla che aveva abbandonata – nei paesi protestanti<br />

non è proibito, come è noto, ai preti <strong>di</strong> amare – e nella incapacità a muoversi <strong>di</strong> altri sacerdoti coraggiosamente<br />

continuatore <strong>di</strong> un lavoro fecondo malauguratamente interrotto.<br />

Il Rossato più che dalla significazione, in verità un po’ <strong>di</strong>fficile, della saga è stato tratto dalla drammaticità<br />

degli episo<strong>di</strong> ed ha costruito il suo libretto su questo <strong>di</strong>fetto iniziale, perché non è possibile in un argomento del<br />

genere scindere gli episo<strong>di</strong> dall’idea che li lega e legandoli li vivifica. Gösta, il prete, è rimasto, ma ahimè! altro<br />

che sconsacrato!... Infatti l’autore ha intitolato il libretto: I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. Se sono questi i protagonisti, il<br />

primo atto serve soltanto per introdurci nel loro regno. È nel primo atto tuttavia che noi veniamo a sapere – non<br />

avendo letto la saga <strong>di</strong> Selma Lagerlöf – come Gösta, ribattezzato in Giosta, sia stato scacciato per il suo peccato<br />

<strong>di</strong> gola dal presbitero, come abbia amata e poi abbandonata Anna e come sia costretto ad andare vagabondando,<br />

naufrago della fede, dell’amore e della vita. Caduto sulla neve, ubbriaco fra<strong>di</strong>cio, lo trova, mentre si reca al suo<br />

castello, la Comandante, padrona del castello e delle miniere <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. Lo solleva, lo ridesta, gli fa confessare la<br />

sua storia dolorosa e lo invita, per non morire, ad arruolarsi tra i <strong>cavalieri</strong> che la servono e la temono.<br />

Chi sono Dice la Comandante: “...Raccolgo da quel giorno i deboli e i perduti che Id<strong>di</strong>o mi manda intorno,<br />

dò loro la letizia, la fede ed i piaceri, li chiamo i Cavalieri. Sono i miei Cavalieri”; e più avanti si legge nel<br />

libretto, nel momento nel quale Giosta è consacrato cavaliere: “O<strong>di</strong> fratello Giosta: da prode Cavaliere - vuoi tu<br />

tutta la vita gozzovigliare e bere - e o<strong>di</strong>ar sempre il lavoro - sedurre le fanciulle e <strong>di</strong>sprezzare l’oro - e morire<br />

libero, lieto, ubbriaco e puro - lasciando il cielo al <strong>di</strong>avolo e il corpo ai lupi”.<br />

Tali sono i <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, la canzone dei quali fa crescere le rose sulle squallide miniere dalla bocca<br />

sgangherata, seduce le spose della vecchia terra, dà la giovinezza, dà le sonagliere dalla garrula risata. La<br />

regina Una donna che ha amato molto ed ha avuto in dono castello e miniere dal suo amante ed ora vive<br />

accanto al marito inconsapevole, fiera, strana e capricciosa. Nel secondo atto siamo dunque in questo regno <strong>di</strong><br />

lavoro, <strong>di</strong> orgia e <strong>di</strong> amore. Giosta è consacrato cavaliere e vi incontra Anna, la fanciulla abbandonata, lì<br />

presente per festeggiare il Natale. Trova così l’amore l’occasione per riprendere la sua tela, che troncata del<br />

resto non fu mai ad onta delle apparenze e della ostilità del vecchio padre <strong>di</strong> Anna, Sintram, il quale, irritato,<br />

minaccia burla per burla, pianto per pianto, pianto ai <strong>cavalieri</strong>, pianto alla Comandante.<br />

Nel terzo atto la minaccia del vecchio incomincia a realizzarsi. È la notte <strong>di</strong> Natale. I <strong>cavalieri</strong> banchettano,<br />

sono allegri e bevono, bevono da pro<strong>di</strong>. Uno <strong>di</strong> loro piange. Ha male al cuore, tanto male: pensa alla sua casetta<br />

laggiù tra le foreste e al suo piccino biondo che attende col Messia il ritorno del padre vagabondo. Invi<strong>di</strong>ato dai<br />

compagni che lo lasciano andar via. Ecco Sintram ad interrompere la scena patetica. Pianto alla Comandante, ha<br />

minacciato. È lì per farla piangere. Raccontando ai <strong>cavalieri</strong> la storia del suo amante, egli aggiunge aver stretto<br />

un patto con lei per il quale ogni anno, in cambio <strong>di</strong> fedeltà e <strong>di</strong> potere, gli viene ceduta l’anima <strong>di</strong> un cavaliere.<br />

Li aizza così contro la Comandante che è scacciata e piange perché vede avverarsi una pre<strong>di</strong>zione della vecchia<br />

madre che ella un giorno percosse e per cui fu da lei maledetta.<br />

Intanto Anna è ricondotta da Giosta alla casa paterna, dove la madre l’attende. Invano! ché Sintram non<br />

consente il suo ingresso. Scampata ai lupi – più buoni essi degli uomini o immune lei pel suo talismano d’amore<br />

– Anna non troverà scampo se non tra le braccia <strong>di</strong> Giosta.<br />

Cammineremo incontro al nuovo sole sempre così, tenendoci per mano... lontan lontano... e spunteranno<br />

viole su dalla terra tepida che odora. Sei la mia aurora, la mia dolce aurora ch’io porterò sempre nel cuore. La<br />

minaccia <strong>di</strong> Sintram si infrange così lungo la via No. Egli ha detto: Pianto ai <strong>cavalieri</strong>.<br />

Nel quarto atto infatti li troviamo piangenti. Tutti i <strong>cavalieri</strong>, Anna e Giosta. Che è avvenuto Poiché la<br />

Comandante ha lasciato <strong>Ekebù</strong> ecco quello che è rimasto. Canta la folla: Cavalieri della morte! Cavalieri del<br />

dolore! - Dove siete Non u<strong>di</strong>te Siamo il popolo che muore - Le fucine sono spente! La miseria è già alle porte<br />

- Non u<strong>di</strong>te, Cavalieri della morte - Strugge il vento il nostro grano! Strugge il pianto il nostro cuore! - Non<br />

u<strong>di</strong>te, non u<strong>di</strong>te, Cavalieri del dolore - Come voi sperdete i giorni, Dio vi sperda sull’istante - Torni qui la<br />

Comandante! Torni la Comandante! -<br />

La folla ha capito dunque perfettamente quello che manchi alla vita <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. Ma perché se la prende allora<br />

coi due poveri amanti, Anna e Giosta, facendoli responsabili del <strong>di</strong>sastro Perché c’è <strong>di</strong> mezzo il peccato.<br />

Sintram ride dunque ancora da lontano, bieco. Anna se n’andrà via da Giosta che vive tra l’amore e il male,<br />

sacrificandosi per gli altri. Ma i <strong>cavalieri</strong> hanno capito che senza la Comandante non valgono nulla e sono<br />

<strong>di</strong>sposti a richiamarla. Perché dunque Anna se n’andrà Ecco che il riso satanico <strong>di</strong> Sintram si spegne. Il segno<br />

che ha chiesto Giosta al cielo viene. L’amore ha redento il peccato. La Comandante ritorna. Stenne [], sfinita,<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/21


moribonda, ne ritorna. E perdonata dalla madre sua. Anche lei redenta ritorna strumento <strong>di</strong> redenzione. “Come<br />

mia madre, la mia vecchia madre - posò la mano - su questo capo, ecco la poso anch’io - sul capo vostro.<br />

benedetti i baci - nell’amore <strong>di</strong> Dio. Amate! Amate!”<br />

Nella gloria d’amore il lavoro riprende. Le fucine si infocano, il maglio cade, ritorna il ritmo delle opere<br />

feconde. <strong>Ekebù</strong> rivive, mentre la Comandante muore. Ere<strong>di</strong> del suo regno sono Anna e Giosta.<br />

La musica<br />

Mi sono sforzato <strong>di</strong> ridurre ad una certa unità <strong>di</strong> ispirazione il racconto così come è reso da Arturo Rossato<br />

nel suo libretto, per cercare <strong>di</strong> rendermi conto dell’opera d’arte <strong>di</strong> Zandonai e per offrire un criterio obbiettivo e<br />

sereno <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio. Non trovo che l’opera del musicista guadagni ad essere vista così. La frammentarietà del<br />

libretto è passata tale e quale nella musica con questa <strong>di</strong>fferenza: i frammenti che sono nel libretto valgono<br />

poco, quelli che sono nella musica hanno un valore infinitamente superiore. Ma sono frammenti; e come negli<br />

episo<strong>di</strong> ci sono frammenti <strong>di</strong> cose, nei personaggi ci sono frammenti <strong>di</strong> uomini.<br />

Io non ho l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> chiedere confessioni estemporanee ad alcun autore perché ritengo prima <strong>di</strong> tutto che<br />

non sia ad esso vantaggioso, in secondo luogo che sia suo compito confessarsi intieramente nella sua opera<br />

d’arte e non tra una tazza <strong>di</strong> thè ed un biscotto. Ma se avessi avuto la fortuna – si <strong>di</strong>ce così! – <strong>di</strong> incontrare<br />

Riccardo Zandonai per una <strong>di</strong> quelle strade della Roma antica che fanno <strong>di</strong>menticare la Roma degli hôtels e dei<br />

salotti, perché il silenzio ed i ricor<strong>di</strong> invitano ad una sincerità immacolata, avrei dovuto chiedergli: Ma voi<br />

l’avete letta, maestro, la saga <strong>di</strong> Selma Lagerlöf E avendola letta ci avete pensato su Avete pensato a quello<br />

che significhi Avete pensato che c’è lì dentro, attraverso la ingenuità della creazione popolare, una<br />

interpretazione originale del fenomeno, tutto spirituale, della redenzione Sapete che cosa voglia <strong>di</strong>re per un<br />

prete – e badate che il popolo nella sua leggenda l’ha assunto a simbolo – essere sconsacrato E sapendolo,<br />

avete pensato che Giosta, prete sconfessato per il suo peccato, deve essere riconsacrato dall’amore Che si tratta<br />

cioè veramente <strong>di</strong> far Dio l’amore E quel Liutram [sic] come ve lo figurate Demone o uomo O demone e<br />

uomo<br />

Non avendo avuto la fortuna <strong>di</strong> incontrare Riccardo Zandonai in luogo tanto propizio alle serene confessioni,<br />

ho cercato una risposta alle domande sopradette, ieri sera... No; non è neppure il caso <strong>di</strong> farlo. La sua<br />

comprensione dell’argomento non va oltre più in là <strong>di</strong> quella del librettista. Non c’è nel libretto il senso della<br />

collettività creatrice <strong>di</strong> ogni leggenda: neppure nella musica c’è. Nessun spiraglio sul mistero per il quale il<br />

popolo ha fatto camminare sulle nevi bianche e la figura <strong>di</strong> Giosta e quella <strong>di</strong> Anna e quella della Comandante, e<br />

quella dei <strong>cavalieri</strong>. Sintram cos’è Un padre irato soltanto o qualche cosa <strong>di</strong> più Mistero. In un momento egli<br />

ha un grido ed un riso satanici, gravi<strong>di</strong> <strong>di</strong> avvenimenti. È una lotta che s’inizia; lotta tra chi Fra un padre<br />

burlato ed una figlia caparbia La posta è sproporzionata, perché la posta è la rovina <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>. Allora è la lotta<br />

eterna tra il bene e il male che può assumere, come in questo caso, le forme più legalmente umane, tra la rigi<strong>di</strong>tà<br />

tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> una morte che non sa perdonare e la libertà dell’amore che perdona e re<strong>di</strong>me. Ebbene nella lotta<br />

egli perde. Chi si accorge che abbia lottato Sarebbe bella che quel grido e quel riso satanici fossero una trovata<br />

del bravo basso Dentale, che è del resto un artista intelligentissimo!<br />

Discorso non molto <strong>di</strong>verso si dovrebbe fare sul trionfatore che è Giosta. Intanto non è gran merito e non c’è<br />

proprio bisogno <strong>di</strong> chiamare in soccorso cielo e terra per vincere un nemico quale è Sintram... ma lasciamo<br />

andare!<br />

A sentire il librettista, Giosta beveva per confortarsi dalla solitu<strong>di</strong>ne e dalla tristezza della sua chiesetta e per<br />

rispondere a domande <strong>di</strong> questo genere: non ride il sole non fioriscono dunque le viole l’estate, calda <strong>di</strong><br />

frumenti d’oro, lieta <strong>di</strong> vento, ebra <strong>di</strong> stri<strong>di</strong> e d’ale, non canta più coi miei vent’anni in coro Non danza più per<br />

le sonanti sale, delle campagne, allegre <strong>di</strong> lavoro Non so quale pastore <strong>di</strong> Svezia o <strong>di</strong> Norvegia si porga tali<br />

domande. Ma supponiamo che qui veramente Giosta sia assunto a simbolo, con una significazione più ampia.<br />

Non essendogli conteso l’amore, per inserirsi nella vita non aveva che un mezzo: il lavoro, sostanza, nelle<br />

molteplicità dei suoi aspetti, della vita stessa. Soltanto in questo modo egli avrebbe potuto riattaccare la sua<br />

mistica e religiosa alla complessa esperienza umana. Trascina invece per tutto il dramma la sua vicenda d’amore<br />

che avrebbe potuto benissimo concludere nel piccolo presbitero. Al musicista non è parso vero <strong>di</strong> presentarlo<br />

così come glielo ha presentato il librettista. Un momento ha pensato <strong>di</strong> cambiargli sembiante. Accortosi che le<br />

ragioni per le quali il giovane prete si sentiva a <strong>di</strong>sagio nella chiesetta <strong>di</strong> Bro erano molto tenui, ha cercato <strong>di</strong><br />

dare al suo petto un più largo respiro, <strong>di</strong> trasportarlo in un’atmosfera <strong>di</strong> misticismo nella quale deve pure aver<br />

vissuto. Gli fa cantare l’inno alla vita nel ritmo del “Tedeum”. Ahimè! ché egli se n’è scordato in seguito!<br />

Giosta restando... Giosta <strong>di</strong> Rossato, quel “Tedeum”, trattandosi <strong>di</strong> un prete protestante, finisce con l’essere una<br />

stonatura artistica molto banale.<br />

***<br />

Opera allora mancata I Cavalieri <strong>di</strong> Ekebu Finché nel giu<strong>di</strong>care <strong>di</strong> un’opera d’arte varranno criteri estetici<br />

precisi, nessun dubbio che questa sia la peggiore delle opere <strong>di</strong> Zandonai. Se invece ci si affida a quella certa<br />

sod<strong>di</strong>sfazione superficiale per cui si concedono tutte le attenuanti possibili pur <strong>di</strong> non fare alcuna fatica a cercare<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/22


le aggravanti, l’opera potrà anche essere giu<strong>di</strong>cata la migliore <strong>di</strong> quante il musicista trentino abbia composte fin<br />

qui. Tutto sta ad intendersi sul criterio col quale giu<strong>di</strong>care. Io sono d’avviso che una propria logica interna<br />

debba guidare ogni opera d’arte. Avendo accennato in principio ai caratteri <strong>di</strong> frammentarietà de I Cavalieri <strong>di</strong><br />

<strong>Ekebù</strong> potrei <strong>di</strong>re senza timore <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>rmi che quasi tutti i frammenti possono piacere: il piccolo coro delle<br />

fanciulle nel primo atto, la canzone dei <strong>cavalieri</strong>, il racconto <strong>di</strong> Giosta, l’altro della Comandante, e i duetti<br />

d’amore tra Giosta e Anna, e il coro della folla nell’ultimo atto. La canzone del Natale che i <strong>cavalieri</strong> cantano<br />

nel terzo atto è certo una graziosissima cosa.<br />

Questo non vieta tuttavia <strong>di</strong> dare dell’opera d’arte un giu<strong>di</strong>zio negativo.<br />

L’esecuzione<br />

Sotto ogni riguardo ottima è stata l’esecuzione. Il maestro Vitale ha collaborato generosamente, con la sua<br />

esperienza consumata e la sua intelligenza, con l’autore. Il tenore Merli ha profuso magnificamente la sua voce<br />

in una parte <strong>di</strong> notevoli <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> tessitura. La Bugg è stata un’Anna piena <strong>di</strong> Passione e <strong>di</strong> candore, cantando<br />

scherzando e sospirando perfettamente. La Sadun, intelligentissima sempre, ha rivelate dolcezze alle quali la sua<br />

voce robusta non ci aveva abituati. Il Parvis ha riconfermato le sue doti <strong>di</strong> signore della scena e della voce,<br />

mentre del basso Dentale ho detto più sopra.<br />

Dopo aver lodati incon<strong>di</strong>zionatamente i cori e per essi il loro bravo istruttore maestro Consoli, darò una lode<br />

speciale ai <strong>cavalieri</strong> che erano Nar<strong>di</strong>, Manetto (116) , Pellegrino, Tega, De Petris, Nsca (117) , Giusti, Soffiantini,<br />

Pastocchi e Freitas. Oscar Zuccarini ha suonato gli a solo del violino con la perizia già nota e Augusto Carelli,<br />

con bel lavoro d’arte, ha <strong>di</strong>pinto le scene.<br />

Riccardo Zandonai non può certo rammaricarsi della e<strong>di</strong>zione romana dei suoi Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>!<br />

256<br />

Giulio Marchetti Ferrante, I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> - Il libretto <strong>di</strong> Arturo Rossato, “Il Popolo”, 29.3.1925 - p. 3, col.<br />

1-2-3-4<br />

M’accinsi a leggere la “Gösta Berlings Saga” <strong>di</strong> Selma Lagerlöf a Stoccolma, in una sera <strong>di</strong> alta neve che<br />

pareva in<strong>di</strong>cata per un tal libro.<br />

Il primo capitolo espone il dramma del giovane pastore luterano Gösta Berling che, in una piccola parrocchia<br />

lontana, ha cercato nell’acquavite un farmaco alla propria malinconia e, denunziato il vescovo pel suo vizio,<br />

deve in presenza <strong>di</strong> questi, nella chiesa ove s’affollano i suoi accusatori, pronunciare un’omilia, l’ultima, dopo<br />

la quale, com’egli presente, sarà pronunciata la sua condanna.<br />

Già si vede vergognosamente scacciato, ban<strong>di</strong>to dal seno della chiesa e pur comincia a parlare. In quell’ora<br />

<strong>di</strong>sperata è colto da un’esaltazione inattesa, la sua parola <strong>di</strong>viene eloquente, il suo pensiero ispirato. Egli si sente<br />

sollevato in una sfera trascendentale, il soffitto opprimente del tempio si <strong>di</strong>schiude offrendogli la visione del<br />

cielo, e <strong>di</strong>mentico <strong>di</strong> tutto Gösta Berling favella come un veggente. Poi l’estasi <strong>di</strong>legua e l’oratore torna a<br />

<strong>di</strong>scendere a poco a poco dalle nubi alla regione della realtà, per scoprire innanzi a sé la folla dei suoi giu<strong>di</strong>ci<br />

penetrata, commossa, decisa al perdono.<br />

Non dura però a lungo la conversione <strong>di</strong> Gösta Berling. Il demone dell’ubbriachezza non tarda qualche<br />

settimana dopo a riafferrarlo, ed allora la <strong>di</strong>fferita condanna si abbatte più severa sul suo capo. Espulso dalla sua<br />

parrocchia perché sconsacrato, egli è ridotto alle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> quei vagabon<strong>di</strong> che vivono al margine della<br />

società, finché una sera – la sera <strong>di</strong> Natale – batte affranto alla porta <strong>di</strong> un’osteria sulla strada che conduce al<br />

castello <strong>di</strong> Ekeby, e abbrutitosi con un ultimo bicchiere <strong>di</strong> liquore, si lascia cadere sulla neve, attendendo la<br />

morte.<br />

Vedremo in seguito da chi e come Gösta fu salvato, poiché a questo punto comincia l’azione che Arturo<br />

Rossato ha rappresentato nel suo dramma lirico, posto in musica da Riccardo Zandonai.<br />

Voglio invece ricordare come, alla lettura <strong>di</strong> quel primo capitolo della “Saga”, Selma Lagerlöf mi apparisse<br />

come una figlia pre<strong>di</strong>letta <strong>di</strong> Dostoiewsky.<br />

L’incanto non fu però <strong>di</strong> lunga durata: ho dovuto riprendere il libro non so quante volte, in epoche <strong>di</strong>verse, e<br />

raccogliere tutta la mia perseveranza per giungere alla fine.<br />

Una “Saga” non è un romanzo ma una specie <strong>di</strong> poema in prosa e, come avviene per le epopee, più che <strong>di</strong><br />

seguito deve esser letta poco alla volta, in episo<strong>di</strong>. Ne basta uno per accompagnare le lunghe notti iperboree. Pur<br />

stabilita una cosiffatta <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> spirito, essa non toglie che il genere letterario prescelto da Selma Lagerlöf<br />

in questa ed in altre sue opere – cito ad esempio quella che passa per il suo capolavoro, “Jerusalem” – riesca a<br />

noi Latini invincibilmente te<strong>di</strong>oso. La prolissità, le <strong>di</strong>vagazioni <strong>di</strong> abbellimento, l’estenuante metodo analitico,<br />

quel voler esporre tutto, pedantemente, sino all’ultima sillaba senza lasciare alcun compito all’immaginazione<br />

del lettore può corrispondere, anzi corrisponde certamente, alla psicologia del lettore nor<strong>di</strong>co, il quale si lascia<br />

condurre attraverso le pagine come un docile fanciullo, non alla nostra.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/23


È una delle principali ragioni per cui gli scrittori scan<strong>di</strong>navi come Selma Lagerlöf non sono adatti alla<br />

mentalità italiana, ed anche più <strong>di</strong>fficilmente possono esser gustati in una traduzione, rimanendo in tal caso<br />

spogliati anche <strong>di</strong> quei pregi <strong>di</strong> forma che costituiscono un’attrattiva per chi può conoscerli nella lingua<br />

originale. Pur trovandomi in questo caso fortunato, non sono riuscito, come <strong>di</strong>ssi, a interessarmi eccessivamente<br />

alla “saga <strong>di</strong> Gösta Berling”.<br />

Selma Lagerlöf mi piace nelle cose brevi come il suo volumetto delle “Cristus legender”, però se devo<br />

leggere per <strong>di</strong>vertirmi un libro in lingua svedese preferisco lo stile nervoso e moderno <strong>di</strong> Heidestamm.<br />

***<br />

Mi cagionò pertanto non poca sorpresa l’apprendere che da un lavoro come la “Gösta Berlings Saga” uno<br />

scrittore italiano aveva tratto il soggetto <strong>di</strong> un libretto ed un compositore della notorietà <strong>di</strong> Riccardo Zandonai<br />

l’ispirazione per un’opera lirica.<br />

Né le mie perplessità erano infondate.<br />

Della “saga” dell’autrice svedese – conosciuta evidentemente <strong>di</strong> seconda mano, cioè in una me<strong>di</strong>ocre<br />

versione – il librettista Arturo Rossato ha rafforzato in modo ingenuo ed arbitrario qualche episo<strong>di</strong>o, svisandola,<br />

togliendole quasi ogni rilievo originale.<br />

Ha cominciato collo stroppiare i nomi del titolo e dei protagonisti: Ekeby è <strong>di</strong>ventato un <strong>Ekebù</strong> sonoro come<br />

un rullo <strong>di</strong> tamburi (“by”, pronunciato coll’u francese significa in svedese villaggio), pertanto come chi <strong>di</strong>cesse<br />

Frescoti invece <strong>di</strong> Frascati.<br />

La proprietaria del castello e delle miniere <strong>di</strong> Ekeby porta secondo l’uso svedese il titolo del marito, il<br />

maggiore Samzelius. È la “majorskan”. Questo titolo legittimo, grammaticale nella lingua <strong>di</strong> Svezia, è tramutato<br />

abusivamente in quello buffonesco della “comandante”, Gösta è <strong>di</strong>venuto Giosta, e così via.<br />

La scarsa curiosità del Rossato pei particolari della vita svedese, per citare un esempio fra i tanti, arriva al<br />

punto che egli ci ammannisce un agape dei Cavalieri a base <strong>di</strong> ponce fumante, mentre il ponce svedese, il<br />

liquore nazionale altrettanto comune nel paese <strong>di</strong> Gustavo Adolfo come da noi il vino <strong>di</strong> Chianti, è una specie <strong>di</strong><br />

rosolio che si sorseggia freddo, alternandolo con acqua gazzosa gelata.<br />

Questi spropositi non costituendo che particolari d’importanza del tutto secondaria, sarei <strong>di</strong>sposto a<br />

perdonare al librettista le sue fantastiche falsificazioni del costume, se egli non avesse altro sì rimaneggiato a<br />

suo modo l’essenza stessa del soggetto, alterando gli episo<strong>di</strong> che gli è piaciuto prendere dell’opera originale,<br />

con un proce<strong>di</strong>mento che a me sembra artisticamente illecito, poiché v’introduce elementi e situazioni cui<br />

l’autore dell’opera originale medesima non ha mai pensato.<br />

E ciò è <strong>di</strong>mostrato dallo svolgimento ch’egli ha dato al suo dramma lirico.<br />

***<br />

Abbiamo lasciato Gösta all’osteria presso Ekeby, mentre egli chiede insistentemente altra acquavite.<br />

S’odono le sonagliere <strong>di</strong> una slitta ed entra Sintram, un proprietario dei <strong>di</strong>ntorni, padre <strong>di</strong> Anna (118) , la fanciulla<br />

che Gösta amò, riamato, ciò che è concesso – com’è noto – ad un pastore luterano.<br />

Per la sua bruttezza <strong>di</strong>abolica, Sintram è comunemente scambiato per Belzebù. Anche Gösta cade<br />

nell’errore, e l’altro finge <strong>di</strong> comprare l’anima sua per poche monete; poi, mentre il presunto demonio si<br />

allontana, l’ex prete cade sfinito sulla neve. Ed ecco sopraggiungere uno sciame <strong>di</strong> fanciulle che si recano al<br />

castello per festeggiarvi il Natale. Cantano madrigali, intrecciano carole, perdono le babbucce sulla neve, come<br />

se fosse una notte italiana <strong>di</strong> primavera. Fa parte del gruppo Anna, la quale riconosce Gösta, scambia con lui<br />

brevi parole <strong>di</strong> obblio e prosegue il suo cammino. Allo sciagurato non resta davvero che morire.<br />

Per sua fortuna si trova a passare la Comandante <strong>di</strong> Ekeby. Il Rossato ce la presenta così: “ha una pipa <strong>di</strong><br />

terra in bocca, indossa una corta pelliccia <strong>di</strong> montone, calza grossi stivali; il manico del coltello le spunta fuori<br />

del corpetto, i capelli bianchi coronano il suo volto <strong>di</strong> bella vecchia”. Le cammina al fianco il tetro Samzelius,<br />

suo marito.<br />

La Comandante fa accogliere Gösta, mezzo assiderato, nell’osteria e gli domanda la sua storia. A sua volta,<br />

narra la sua, e in tutto questo non vi sarebbe <strong>di</strong> criticabile che l’espe<strong>di</strong>ente scenicamente infelice <strong>di</strong> due racconti<br />

che si susseguono. Senonché la Comandante rivela a Gösta – ch’è per lei il primo venuto – il terribile segreto<br />

del suo onore e della sua vita. Amò un uomo che era povero e dovette partire. Fu costretta a sposare il maggiore<br />

Samzelius; l’altro tornò ricco. Ella ne <strong>di</strong>venne l’amante e ne accettò in ere<strong>di</strong>tà il castello e le miniere <strong>di</strong> Ekeby.<br />

Inoltre commise anche un altro peccato: schiaffeggiò sua madre che le rimproverava la sua vergogna, e fu da lei<br />

maledetta.<br />

Nella “Gösta Berlings Saga” tale segreto, su cui si basa una delle scene culminanti, non è conosciuto che<br />

assai più tar<strong>di</strong>, ma nel libretto la Comandante prova il bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>vulgarlo immantinente, scontando in anticipo<br />

l’effetto <strong>di</strong> una interessante situazione ulteriore, e tutto ciò allo scopo... <strong>di</strong> cantare la sua aria del primo atto.<br />

Terminate le sue compromettenti confidenze, la Comandante propone a Gösta <strong>di</strong> entrare nel novero dei suoi<br />

<strong>cavalieri</strong>. Ella raccoglie i deboli e i perduti che Dio le manda attorno, dà loro la letizia, la fede ed i piaceri, li<br />

chiama Cavalieri, i suoi Cavalieri.<br />

Gösta rifiuta ma al nome <strong>di</strong> Anna, che la Comandante gli rammenta, cangia pensiero ed accetta.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/24


Irrompe a questo punto sulla scena la gaia schiera dei Cavalieri che intonano la loro caratteristica canzone:<br />

Vecchia terra <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong><br />

chi fa crescere le rose<br />

sulle squallide miniere<br />

dalla bocca sgangherata<br />

La canzon dei <strong>cavalieri</strong><br />

sempre gaia e <strong>di</strong>sperata.<br />

Heissan! Heissan!<br />

E tutti insieme si avviano al castello.<br />

Nel secondo atto ci troviamo appunto in una sala del Castello <strong>di</strong> Ekeby, ove si prepara una rappresentazione.<br />

Gösta ed Anna saranno i protagonisti della comme<strong>di</strong>a. La folla attende impaziente, e mentre le fanciulle<br />

finiscono <strong>di</strong> adornare Anna, Sintram se ne scende per la cappa del camino su cui arde un gran ceppo –<br />

inverosimile <strong>di</strong>scesa – e tenta invano <strong>di</strong> condur via la figlia. Entrano la Comandante, i Cavalieri, gl’invitati.<br />

Gösta è presentato solennemente ai suoi un<strong>di</strong>ci scioperati e spensierati colleghi, poi è lasciato solo con Anna per<br />

preparare la rappresentazione, e ne segue naturalmente un duetto <strong>di</strong> contrastato amore. Tornano gli altri e la<br />

rappresentazione incomincia, accompagnata dall’orchestra grottesca dei <strong>cavalieri</strong>. Similmente a quanto era<br />

accaduto in precedenti melodrammi da “Amleto” ai “Pagliacci”, la comme<strong>di</strong>a si muta però in realtà. Il duetto<br />

d’amore – il secondo nello stesso atto – <strong>di</strong>viene appassionato e incalzante, senonché compare il solito<br />

guastafeste Sintram e scaglia minaccie e male<strong>di</strong>zioni. Tutti si allontanano. Rimangono soltanto Anna, Gösta e la<br />

Comandante, la quale, non avendo avuto quasi nulla da fare durante quest’atto, invita Gösta a ricondurre la<br />

ragazza presso suo padre.<br />

Il terzo atto è <strong>di</strong>viso in due quadri. Ci troviamo dapprima nella fucina <strong>di</strong> Ekeby, ove i Cavalieri hanno<br />

celebrato con larghe libazioni il Natale. Presi da malinconia, cantano una “Ninna-nanna” ed uno <strong>di</strong> essi, invaso<br />

dalla nostalgia della casa abbandonata, chiede ai compagni che lo lascino andar via per farvi ritorno. Mentre gli<br />

altri lo <strong>di</strong>ssuadono, presso il fornello sorge la solita figura <strong>di</strong> Sintram. Questa volta egli ha preso davvero il<br />

costume del <strong>di</strong>avolo, venuto com’egli assicura a rinnovare colla Comandante il contratto me<strong>di</strong>ante il quale<br />

quest’ultima gli garantisce annualmente l’anima <strong>di</strong> uno dei Cavalieri. A tale rivelazione gli ubbriachi <strong>di</strong>vengono<br />

furiosi. Chiamano la Comandante, la coprono <strong>di</strong> insulti e, in presenza del marito, le rinfacciano la storia del suo<br />

amante e del dono <strong>di</strong> Ekeby, storia che gli spettatori conoscono sino dal primo atto ma il consorte della<br />

Comandante ignora... perché non si trovava in scena. Costui scaccia allora la moglie, la quale, senza proteste, si<br />

rassegna al suo destino e parte.<br />

Il secondo quadro raffigura lo spiazzo <strong>di</strong> una foresta bianca <strong>di</strong> neve, ove sorge la casa <strong>di</strong> Anna.<br />

Una delle pagine palpitanti della “saga” descrive la corsa notturna <strong>di</strong> Gösta ed Anna (119) nella notte gelida,<br />

mentre una torma <strong>di</strong> lupi affamati insegue la loro slitta ed essi sono sul punto <strong>di</strong> esser sbranati. Non era possibile<br />

rendere liricamente la scena. Assistiamo soltanto al ritorno <strong>di</strong> Sintram, che trova la moglie sulla porta in attesa<br />

<strong>di</strong> Anna e brutalmente le impone <strong>di</strong> rientrare nella casa, <strong>di</strong> cui spranga la porta, annunziando che Anna non<br />

tornerà più perché è morta.<br />

Anna giunge invece col suo amato e, mentre la logica vorrebbe che si precipitasse, nel suo orgasmo, contro<br />

quella porta chiusa impetrando <strong>di</strong> esser accolta e perdonata, ella si trattiene all’aperto per scambiare con Gösta<br />

ancora un duetto d’amore a base <strong>di</strong> ricor<strong>di</strong> fanciulleschi. Finalmente si decide a battere. Ahimè, la porta rimane<br />

inesorabilmente serrata. Invano ella invoca – ed è questo il punto veramente drammatico dell’opera –,<br />

scongiura. Una finestra s’illumina e s’affaccia la madre. Sintram non vuole che ella apra, se vedesse la figlia<br />

l’ucciderebbe. Il padre brutale compare infatti, trascina via la moglie e la casa ricade nelle tenebre.<br />

Anna sarebbe perduta se Gösta non avesse atteso in <strong>di</strong>sparte. Corre a sollevarla; la porterà con sé:<br />

Apri i begli occhi ancora,<br />

o della vita mio piccolo fiore.<br />

È la grande ora<br />

invocata da Dio<br />

E Dio ti dona a me.<br />

Guarda è l’aurora.<br />

***<br />

Il quarto atto ci trasporta nella corte del castello <strong>di</strong> Ekeby, <strong>di</strong> cui i <strong>cavalieri</strong> sono rimasti padroni. Anna pure<br />

è là, insieme a Gösta. Tuttavia dalla partenza della Comandante ogni cosa è caduta nell’abbandono e nello<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/25


squallore. Le fucine son mute, la gente intorno al castello muore <strong>di</strong> fame e attribuisce tanta jattura al fatto che<br />

Anna vive in peccato con Gösta. S’affollano questi miserabili nella corte <strong>di</strong> Ekeby imprecando, ed anche in<br />

questa scena, ch’è una delle più vibranti <strong>di</strong> umanità, non mi par dubbio che Selma Lagerlöf abbia inteso<br />

l’influenza degli scrittori russi. Il Rossato l’ha facilmente riassunta nel suo libretto.<br />

Gösta cerca <strong>di</strong> placare la folla, i Cavalieri non veggono che un rime<strong>di</strong>o a tanta sventura: il ritorno della<br />

Comandante. Anna vuole anch’essa separarsi dal suo amato, il quale dolorosamente invoca il Signore:<br />

Signore! Ascolta! Toglimi la vita<br />

o dammi un segno della tua bontà.<br />

Il miracolo avviene. Voci confuse e liete annunziano il ritorno della Comandante. Ella entra sorretta dai<br />

<strong>cavalieri</strong>. È sfinita, è morente, ma ha ottenuto il perdono <strong>di</strong> sua madre e viene a chiuder gli occhi nel suo<br />

vecchio Ekeby.<br />

Le sue ultime parole sono tutta una invocazione alla pace, al lavoro, all’amore. Ella bene<strong>di</strong>ce Gösta ed Anna,<br />

poscia domanda perché le fucine non lavorino più.<br />

Per uno <strong>di</strong> quei pro<strong>di</strong>gi riservati ai libretti d’opera, all’istante medesimo si riaccendono le vampe gioiose nei<br />

fornelli, il maglio torna a percuotere l’incu<strong>di</strong>ne, il lavoro festoso a cantare il suo ritmo. Mentre la canzone dei<br />

<strong>cavalieri</strong> riprende solenne, s’ode un grido: la Comandante <strong>di</strong> Ekeby è spirata.<br />

Così termina il quarto atto che è senza dubbio il più efficace dell’opera.<br />

***<br />

Chi ha letto la complessa “Gösta Berlings Saga” può intendere quale pallido riflesso il Rossato, ad onta dei<br />

suoi sforzi, sia riuscito a fissarne in questi suoi “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”. Il suo torto è stato, a parer mio, <strong>di</strong> aver<br />

tentato l’impossibile: i personaggi del suo libretto rimangono ombre scolorite. Solo del gruppo dei Cavalieri, <strong>di</strong><br />

questi gaudenti e lacrimevoli déracinés, il poeta ci ha presentato uno scorcio fedele, sentito e vigoroso.<br />

L’opera era così ardua che non si può essere severi con lui, tanto più che ad onta delle lacune, a <strong>di</strong>spetto <strong>di</strong><br />

qualche verso clau<strong>di</strong>cante, egli ha trovato forme molto più colorite ed eleganti <strong>di</strong> quelle che solitamente ci offre<br />

la pedestre me<strong>di</strong>ocrità dei libretti d’opera contemporanei. Auguriamo ad Arturo Rossato <strong>di</strong> de<strong>di</strong>care<br />

prossimamente il suo ingegno ad un soggetto che risponda alle sue aspirazioni d’artista meglio che i “Cavalieri<br />

<strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”.<br />

Giu<strong>di</strong>cheremo questa sera l’espressione musicale che ha dato loro Riccardo Zandonai.<br />

257<br />

Giulio Marchetti Ferrante, I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, “Il Popolo”, 31.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3<br />

La carriera <strong>di</strong> Riccardo Zandonai non fu facile né coronata <strong>di</strong> molte rose. Tralasciando i penosi tentativi<br />

della sua giovinezza, può <strong>di</strong>rsi che anche negli anni più fervi<strong>di</strong> della sua affermazione d’artista abbiano prevalso<br />

le spine.<br />

È che Riccardo Zandonai è uno spirito irrequieto, uno <strong>di</strong> quei musicisti che si sentono attirati verso la luce<br />

della perfetta creazione ma devono lottare <strong>di</strong>uturnamente contro gli ostacoli del volo.<br />

Anima sensibile, piena <strong>di</strong> delicatezze e <strong>di</strong> gusto, lo Zandonai non ha potuto ancora <strong>di</strong>spiegare mai queste ali<br />

in tutta la loro ampiezza, sia che gli manchino le penne maestre o, come sarei incline a ritenere, la pienezza del<br />

respiro. I suoi tentativi, tutti nobilissimi, rivelano il tormento delle aspirazioni <strong>di</strong> lui. Ma la sfera sublime, quella<br />

ove il genio trova la sua piena consacrazione, egli non l’ha ancora raggiunta.<br />

L’inizio della sua maturità <strong>di</strong> operista non avrebbe potuto essere più promettente. I due primi atti della sua<br />

“Conchita” (1911), troppo presto <strong>di</strong>menticata, racchiudono pur sempre la più felice manifestazione del suo<br />

estro. E se il primo atto <strong>di</strong> “Francesca” (19<strong>14</strong>), per quanto <strong>di</strong> genere <strong>di</strong>verso, sta in pari altezza con quelli <strong>di</strong><br />

“Conchita”, il suo ingegno non si è sollevato <strong>di</strong> più né si è sensibilmente accostato a quella vetta che sembrava<br />

vicina.<br />

La colpa, o la fatalità, <strong>di</strong> questa stasi è insita nell’errore o nella <strong>di</strong>fficoltà dei compositori moderni <strong>di</strong> saper<br />

scegliere un soggetto corrispondente al proprio temperamento.<br />

Zandonai non si accorse che la peccatrice crudele e perversa del romanzo <strong>di</strong> Pierre Louys [sic] “La femme et<br />

le pantin” o la morbida e svenevole “Francesca” del dramma dannunziano non corrispondevano, per eccesso<br />

l’una e per <strong>di</strong>fetto l’altra, alla sua in<strong>di</strong>vidualità creatrice. Pertanto egli non riuscì a produrre due opere omogenee<br />

e complete ma si esaurì in “Conchita” nel perseguire forme eccessivamente vigorose per il suo mite ingegno.<br />

In “Francesca”, abbandonato il concitato polifonismo della prima opera, si perdé invece in sdolcinature<br />

melo<strong>di</strong>che alla Tosti o in un preziosismo settecentesco, privo però <strong>di</strong> quella freschezza e flui<strong>di</strong>tà che ha<br />

guadagnato in questo ultimo genere così vivo successo al Wolff-Ferrari [sic].<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/26


Terzo tentativo, e tentativo <strong>di</strong> nuovo stile, l’opera “Giulietta e Romeo”, costruita tutta artificiosamente,<br />

cerebralmente, senza una vera polla sorgiva d’ispirazione e pertanto, a <strong>di</strong>spetto della perizia tecnica sempre più<br />

raffinatasi nel maestro, assai più scarsa <strong>di</strong> contenuto musicale delle due precedenti sue creature.<br />

Quanto abbia contribuito a <strong>di</strong>minuire l’esito <strong>di</strong> queste tre prove la mancanza <strong>di</strong> <strong>di</strong>scernimento nell’adozione<br />

dei tre libretti, non è chi non veda. Se a quello <strong>di</strong> “Conchita” e <strong>di</strong> “Francesca” può rimproverarsi un’esuberanza<br />

<strong>di</strong> elementi drammatici che lo Zandonai non è stato capace <strong>di</strong> afferrare ed esprimere, il libretto <strong>di</strong> “Giulietta e<br />

Romeo” è invece, nella sua vacua pretenziosità verbale, spoglio <strong>di</strong> ogni vibrazione lirica.<br />

Lo Zandonai non seppe pertanto in queste opere che plasmare in parte, <strong>di</strong> scorcio, i suoi personaggi o ridurli,<br />

nell’ultimo caso, a pallide e scolorite parvenze cui nessun espe<strong>di</strong>ente poteva dare contorni e sostanza.<br />

La musica<br />

Era da attendersi che, ammaestrato dall’esperienza, il compositore cercasse una materia più adatta per un<br />

nuovo tentativo. Chi mi ha usato la cortesia <strong>di</strong> leggere l’analisi che sabato sera feci su questo foglio del libretto<br />

dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” si chiederà perché mai un artista del valore dello Zandonai sia andato a perdersi in un<br />

simile labirinto.<br />

Nello scarno libretto che il Rossato ha cercato <strong>di</strong> trarre dalla prolissa e complicata “saga” <strong>di</strong> Selma Lagerlöf,<br />

per quanto ridotte a pochi accenni, rimangono tuttavia tre <strong>di</strong>verse situazioni drammatiche che il musicista si<br />

trovava costretto a seguire ed a svolgere parallelamente, pure conglomerandole in un unico sfondo: il dramma<br />

del prete sconsacrato Giosta Berling colla sua alternativa d’ombre e <strong>di</strong> luci alla Dostoiewsky, complicato dalla<br />

passione dello stesso Giosta e <strong>di</strong> Anna; il dramma segreto che arrovella il cuore pieno <strong>di</strong> rimorsi e <strong>di</strong> coraggiose<br />

volontà della Comandante <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>; il dramma, non meno imponente nella sua lacrimevole varietà umana, degli<br />

un<strong>di</strong>ci Cavalieri, naufraghi della società, ridotti allo stato <strong>di</strong> parassiti, i quali cercano <strong>di</strong> <strong>di</strong>menticare nei sollazzi<br />

la ferita interna <strong>di</strong> ciascuno, la ruina vergognosa della propria esistenza.<br />

In verità era troppo per un estro così tenue come quello <strong>di</strong> Riccardo Zandonai.<br />

Eppertanto egli non è pervenuto che a darci il senso <strong>di</strong> uno solo <strong>di</strong> questi drammi, quello dei Cavalieri<br />

ch’egli ha espresso in un senso collettivo ma efficace, robusto, originale. I Cavalieri, anzi il gruppo dei<br />

Cavalieri, sono i soli personaggi dell’opera che esistano plasticamente, musicalmente. Quando essi intonano la<br />

loro caratteristica canzone “Vecchia terra <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”, un fremito passa nell’u<strong>di</strong>torio, il pubblico prova la<br />

sensazione <strong>di</strong> trovarsi finalmente <strong>di</strong> fronte a qualche cosa <strong>di</strong> vivo immezzo al te<strong>di</strong>o crepuscolare onde il<br />

linguaggio degli altri personaggi pervade il resto dell’opera. Nella frase dei Cavalieri squillante con accento<br />

vigoroso su quel “sol naturale” fortissimo che scende all’ottava e, con larghe pause, risale e torna a scendere<br />

come una ostentazione della fittizia gioia e confessione del buio dolore <strong>di</strong> quegli spaval<strong>di</strong> e pur tristi gaudenti, lo<br />

Zandonai ha raggiunto tale espressione del suo valore <strong>di</strong> musicista che basterebbe quel brano – quello solo – a<br />

darci la misura della sua potenzialità. Del resto tutta la parte dei Cavalieri si mantiene costantemente vigorosa,<br />

spiccata, omogenea.<br />

Pertanto s’accresce in noi lo stupore allorché la raffrontiamo alle altre parti manchevoli dell’opera, poiché<br />

non si concepisce come un musicista capace <strong>di</strong> tanto possa peccare d’ineguaglianze così gravi.<br />

Tolta la figurazione musicale dei Cavalieri non rimane nella partitura che qualche episo<strong>di</strong>o pregevole, che<br />

attesta qua e là l’eleganza personale del compositore.<br />

Quello che anzitutto fa <strong>di</strong>fetto nei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” è l’elemento emotivo.<br />

Nei prolissi quattro atti non s’incontra una frase che riesca a toccare le nostre fibre. Anche nei rari punti in<br />

cui la drammaticità della situazione è posta in qualche rilievo nel libretto, la musica non perviene ad esprimerla.<br />

Cito a caso. Nella scena in cui Anna, innanzi all’uscio inesorabilmente chiuso della casa paterna, invoca la<br />

madre, la frase “Mi piegherò sopra il tuo cuore” è tenera ma non straziante.<br />

La stessa morte della Comandante all’ultimo atto risulta imponente per l’insieme degli elementi, specie il<br />

frastuono della fucina e le grida del coro e dei Cavalieri, fusi in esso in modo stupendo, tuttavia non commuove.<br />

E come potrebbe[ro] commuovere quelle ombre evanescenti che sono i personaggi dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”<br />

Eccettuati, come <strong>di</strong>ssi, i Cavalieri e considerando a parte il convenzionalismo della figura <strong>di</strong>abolica <strong>di</strong><br />

Sintram, questi personaggi cantano tutti sullo stesso accento. Basta considerare per persuadercene qualche<br />

spunto preso a caso nella riduzione per canto e pianoforte che ho appunto sotto gli occhi (complimenti alla Casa<br />

Ricor<strong>di</strong> per la nitida e bella e<strong>di</strong>zione).<br />

Giosta è un tenore innamorato, come potremmo incontrarne in qualsiasi spartito romantico. Dove è la lotta <strong>di</strong><br />

quest’uomo che celebrò i misteri della fede sull’altare e fu pastore <strong>di</strong> anime, fra le sue aspirazioni al bene e il<br />

suo vizio ripugnante<br />

La virago raffigurata da Selma Lagerlöf nelle sembianze della Comandante è ridotta ad una fugace, pedestre<br />

apparizione cui è affidata una parte relativamente secondaria. Nell’atto secondo non si sa che cosa ella stia a<br />

fare sulla scena; nel terzo si lascia scacciare con mansueta rassegnazione. Solo nell’ultimo, al momento della<br />

morte, acquista un qualche risalto.<br />

Anna non offre nulla <strong>di</strong> caratteristico, né drammaticamente né musicalmente.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/27


Al compositore è mancata persino la malizia: avrebbe altrimenti compreso la poca simpatia che dovevano<br />

destare sulla scena le figure <strong>di</strong> un beone e <strong>di</strong> una vecchia.<br />

Dei duetti d’amore è meglio parlare il meno possibile: l’uno è più scialbo, insignificante dell’altro. Nel<br />

secondo atto siamo costretti ad u<strong>di</strong>rne due <strong>di</strong> seguito, ed in essi il plagio ingenuo e certo involontario – ho<br />

troppo considerazione per la probità artistica dell’Autore per pensare altrimenti – risulta continuo, poiché<br />

l’alterazione <strong>di</strong> alcune cadenze non basta a mutare il carattere intrinseco <strong>di</strong> una frase.<br />

Ver<strong>di</strong>, Puccini, Ponchielli, Giordano, Denza, Tosti, Wolff-Ferrari [sic] vi sono profusi a piene mani.<br />

Lo stile <strong>di</strong> Mascagni (Arioso del tenore al primo atto) vi è riprodotto con una identità sorprendente.<br />

Le sviolinate dolciastre, le “ninna-nanna” insipide, le <strong>di</strong>ssonanze ricercatamente originali dell’orchestra dei<br />

Cavalieri, le leziosaggini delle danze delle “Fanciulle” al primo atto, la banalità del coro <strong>di</strong> esse al secondo e<br />

certi insopportabili lenocini come nella presentazione dei Cavalieri, nella canzone del Diavolo, infine in<br />

mezzucci vecchi, stantii delle campane, delle sonagliere, degli arpeggi <strong>di</strong> “Celeste”, pesano inesorabilmente sul<br />

bilancio passivo dell’opera.<br />

Scarsissime compaiono in essa le frasi <strong>di</strong> un lungo respiro.<br />

Dalla tenuità <strong>di</strong> poche battute melo<strong>di</strong>che si passa continuamente ad accenni frammentari che non hanno<br />

carattere definito, che non costituiscono neppure il cosidetto declamato musicale. Dànno l’impressione <strong>di</strong> una<br />

ininterrotta ricerca <strong>di</strong> qualche cosa che il compositore non trova. Ne porge un esempio il quadro dell’agape<br />

nell’officina <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> ove il lavoro notevolissimo della tecnica non riesce a <strong>di</strong>ssimulare la povertà del pensiero.<br />

Di quando in quando uno sprazzo <strong>di</strong> luce, come nel coro superbo degli affamati all’ultimo atto, come al<br />

finale gran<strong>di</strong>oso, impressionante dell’opera.<br />

Quel coro, qual finale, la canzone dei Cavalieri ci <strong>di</strong>cono che, se neppure questa volta la battaglia è stata<br />

vinta, Riccardo Zandonai può accingersi con coraggio ad affrontarne un’altra.<br />

Egli possiede la capacità necessaria per compiere un’opera degna del suo ingegno.<br />

L’esecuzione<br />

È una singolare fortuna per un operista il poter affidare la sua creazione all’ingegno <strong>di</strong> un <strong>di</strong>rettore come<br />

Edoardo Vitale. Oltre la sua perizia gran<strong>di</strong>ssima e riconosciuta, egli reca nell’interpretazione <strong>di</strong> ogni nuovo<br />

lavoro – ch’è sempre un’ardua battaglia – una preziosa qualità: le doti generose del suo cuore. Edoardo Vitale<br />

cerca con cura fraterna, con paziente stu<strong>di</strong>o nell’opera altrui quanto vi può essere <strong>di</strong> più pregevole perché non<br />

rimanga nascosto. Infonde in quest’opera, per quanto è possibile, un calore <strong>di</strong> vita, una <strong>di</strong>gnità d’arte, in modo<br />

da far tesoro <strong>di</strong> ogni elemento <strong>di</strong> successo. Conoscitore perfetto degli stili e dei temperamenti musicali, egli<br />

indovina per così <strong>di</strong>re il linguaggio appropriato <strong>di</strong> ogni composizione: intuito geniale che fu il maggior pregio<br />

dei gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>rettori d’orchestra italiani, da Mariani a Faccio a Mancinelli.<br />

Chi ha assistito sabato sera alla prima rappresentazione dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” può essere testimone <strong>di</strong><br />

quanto Riccardo Zandonai debba ad Edoardo Vitale. E accanto al maestro vanno ricordati, come è giusto, i suoi<br />

collaboratori: il De Angelis (120) , il Consoli, che istruì la massa dei cori, il Ricci, preparatore infaticabile, il quale<br />

stabilì l’affiatamento perfetto dei Cavalieri e delle Fanciulle. Infine la meravigliosa orchestra del Costanzi, in<br />

seno alla quale si fece notare particolarmente nei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” il violinista Zuccarini.<br />

Fra i singoli interpreti il successo principale della serata fu senza dubbio quello riportato dal tenore<br />

Francesco Merli, la cui dolce, duttile voce ha infuso nel personaggio <strong>di</strong> “Giosta Berling” tutto l’accento <strong>di</strong><br />

passione che esso comportava, data la sua configurazione musicale. Artista intelligente e colto, il Merli si è poi<br />

stu<strong>di</strong>ato <strong>di</strong> riprodurre scenicamente l’aspetto del prete sconsacrato cui tormenta il contrasto fra il vizio, l’amore<br />

e le migliori aspirazioni. Fu nel primo atto un ubriaco misurato, senza esagerazioni <strong>di</strong> volgarità; negli atti<br />

seguenti l’ardente innamorato che nella passione profonda del suo cuore cerca la redenzione. Dei due applausi a<br />

scena aperta che si u<strong>di</strong>rono risonare nella serata, uno andò a lui alla fine del racconto del primo atto, l’altro al<br />

coro pieno, impetuoso del secondo.<br />

Accanto al Merli <strong>di</strong>ede una nuova prova del suo valore artistico il Parvis, che impersonava “Cristiano”, il<br />

duce dei Cavalieri. Il Parvis cercò <strong>di</strong> mostrarci più che una delle solite figure convenzionali della scena un<br />

personaggio caratteristico, vivente. E vi riuscì e, a sua volta, il pubblico apprezzò il suo sforzo.<br />

Sara Sadun, in<strong>di</strong>sposta, non si trovava sabato nella pienezza dei suoi mezzi. Doveva inoltre sentirsi<br />

sacrificata in una parte così scarsa <strong>di</strong> risorse come quella della “Comandante”, parte che non le permetteva<br />

neppure <strong>di</strong> far valere la venustà della sua figura. Fece quanto può un’artista del suo valore in un’opera non<br />

adatta alla sua voce.<br />

Il continuo alternarsi <strong>di</strong> due registri in ottava senza, per così <strong>di</strong>re, note interme<strong>di</strong>e non poteva risultare a suo<br />

favore. Però anche in tali con<strong>di</strong>zioni la Sadun riuscì a farsi applau<strong>di</strong>re.<br />

Non mi sembra <strong>di</strong> aver trovato in Maddalena Bugg l’interprete ideale della parte dei “Anna”. La sua voce<br />

bianca e fredda è risultata in armonia col paesaggio invernale, ma non ha vibrato in corrispondenza al caldo<br />

amore <strong>di</strong> Giosta. L’arte <strong>di</strong> questa bionda e rosea bambola alsaziana rivela l’artificiosità della scuola scenica<br />

francese; noi italiani amiamo più naturalezza e spontaneità.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/28


Ciò non significa che la Bugg non meriti elogio, e in particolare per il modo in cui cantò al terzo atto.<br />

Il Dentale volle imitare il Parvis, e non a torto. Egli <strong>di</strong>ede anzi troppo rilievo al sinistro personaggio <strong>di</strong><br />

Sintram. La De Franco si <strong>di</strong>simpegnò bene nella doppia parte a lei affidata. Né il Julio poteva far <strong>di</strong> più che<br />

mostrarsi in quella del tetro Samzelius.<br />

Rammentate le quattro fanciulle, Dorina Tesorieri, Laura Lauri, Margherita Benincori, Gualda Caputo,<br />

tributiamo un caloroso elogio ai Cavalieri, impersonati nei signori Nar<strong>di</strong> (che fu però alquanto lamentoso),<br />

Marcotto, Pellegrino, Tega, De Petris, Uxa, Giusti, Soffiantini, Pastocchi, Freitas.<br />

Pittoresche le scene per quanto riproducessero, piuttosto che la terra <strong>di</strong> Svezia, paesaggi <strong>di</strong> fantasia. Il<br />

castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> appariva al primo atto somigliante ad un grande albergo svizzero. Anche meno svedesi i<br />

costumi.<br />

La cronaca della serata, messa la descrizione della sala gremita e sfolgorante, si riassume in poche righe.<br />

Alla fine <strong>di</strong> ciascun atto parecchie chiamate agl’interpreti, al Vitale, allo Zandonai. Il pubblico volle anche<br />

salutare i maestri Consoli e Ricci ed il librettista Arturo Rossato.<br />

Piacquero soprattutto il finale del primo atto, il coro “in pieno” del secondo, quello degli affamati al quarto<br />

ed il finale dell’opera. Complessivamente un successo <strong>di</strong> stima e <strong>di</strong> simpatia.<br />

258<br />

Ettore Montanaro, Il successo dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> R. Zandonai, “Musica” XIX/7, 15.4.1925 - p. 2, col.<br />

2-3-4 / p. 3, col. 1<br />

Il romanzo che sotto il nome <strong>di</strong> Leggenda <strong>di</strong> Giosta Berling corre il mondo dal 1891 vorrebbe essere una<br />

specie <strong>di</strong> epopea nazionale svedese, ed ha come tale tutte le caratteristiche speciali <strong>di</strong> quel popolo.<br />

Ambiente: nebbia, caligine densa, lunghissime notti, tristezza infinita, neve che attutisce i rumori e<br />

intorpi<strong>di</strong>sce gli animi. L’ubriachezza che per noi, ricchi <strong>di</strong> sole, è sor<strong>di</strong>do vizio, per quel popolo è sorgente <strong>di</strong><br />

calore per il corpo, <strong>di</strong> fiamma per la fantasia.<br />

Le leggende s’intrecciano, si avviluppano alla realtà; realtà ed immaginazione sono talmente fuse da non<br />

<strong>di</strong>stinguerle più.<br />

Il compito <strong>di</strong> Arturo Rossato, <strong>di</strong> togliere cioè da quel groviglio <strong>di</strong> motivi lirici e drammatici, da quel fluttuare<br />

delle narrazioni e delle immagini, situazioni drammatiche che manifestassero forze in conflitto per tesserne un<br />

libretto, è stato arduo.<br />

Come e perché Riccardo Zandonai abbia poggiato le ra<strong>di</strong>ci della sua ispirazione su questi elementi per farne<br />

sorgere un dramma musicale a noi poco può interessare; interessa solo il fatto che il dramma è sorto<br />

rapidamente, e rapidamente parla al pubblico.<br />

Questi Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> ci rivelano a priori uno Zandonai tranquillo, sereno e sicuro.<br />

Serenità e sicurezza che derivano precisamente da quel processo <strong>di</strong> maturazione a cui l’artista è giunto, in<br />

quest’opera, attraverso un coscienzioso lavoro <strong>di</strong> riflessioni e <strong>di</strong> rassodamenti.<br />

Con questa ultima e nobile fatica, il M° Zandonai, muovendo spe<strong>di</strong>tamente verso una forma <strong>di</strong><br />

chiarificazione nell’opera, ha saputo raggiungere effetti <strong>di</strong> squisito sapore lirico, che rivelano in lui l’artista <strong>di</strong><br />

gusto e l’uomo dotato <strong>di</strong> un vero senso <strong>di</strong> teatro.<br />

Diciamo uomo <strong>di</strong> teatro poiché (è dolorosa la constatazione) la schiera degli operisti veri va assottigliandosi<br />

sempre più, non so se per fatale deca<strong>di</strong>mento del nostro melodramma che consiglia ai giovani <strong>di</strong> volgere altrove<br />

i loro sforzi o se per un eccesso <strong>di</strong> ossequi a sistemi cerebro-sentimentali importati da paesi lontani che nulla<br />

finora, o quasi, ci <strong>di</strong>cono – non <strong>di</strong>scuto qui tali idee, saranno magari nobilissime; certo si è che talvolta<br />

assistiamo a fenomeni veramente strani se non ad<strong>di</strong>rittura pietosi!<br />

Né inten<strong>di</strong>amo affatto pensare che scrivendo oggi per il teatro si debbano fedelmente ricalcare le linee<br />

dell’antico melodramma e rimanere imprigionati in tutti i suoi convenzionalismi: non siamo dei reazionari!<br />

Molto cammino si è fatto da allora fino ad oggi, e molto ancora – siamo certi – se ne farà; ma chi questo<br />

cammino crede <strong>di</strong> affrettarlo fino al punto <strong>di</strong> sconvolgere ogni cosa, praticando d’improvviso sistemi del tutto<br />

inusitati e mal tollerati per il solo capriccio <strong>di</strong> volere ad ogni costo fare del nuovo, negando così all’opera <strong>di</strong><br />

teatro le sue esigenze, per introdurre sul palcoscenico fardelli <strong>di</strong> elementi estranei, compirà, secondo il nostro<br />

modesto parere, fatica vana.<br />

Ad un artista dunque quale lo Zandonai, che in questi “Cavalieri” ha saputo con fervida fantasia ideare,<br />

<strong>di</strong>segnare e realizzare con mano esperta quadri densi <strong>di</strong> situazioni vive, <strong>di</strong>stribuendo laddove si rendeva<br />

necessario momenti musicali <strong>di</strong> tale squisita fattura che lasciano del tutto <strong>di</strong>menticare l’irrealismo <strong>di</strong> cui è<br />

manierata l’azione, non si può non riconoscere qualità eminenti che fanno insieme l’uomo <strong>di</strong> teatro e l’artista<br />

nobilissimo.<br />

***<br />

Molto lungo sarebbe seguire le vicende <strong>di</strong> tutta l’opera. Ci limitiamo solo a una rapida ricapitolazione.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/29


Al primo atto siamo in una radura nevosa. È sera. Giosta Berling, prete sconsacrato perché de<strong>di</strong>to al vino,<br />

erra vagabondo, accasciato dai fumi dell’alcool e moralmente <strong>di</strong>sfatto per essere stato scacciato dalla chiesa.<br />

Deliberato a finirla con la vita, si arresta a spendere le ultime sue monete chiedendo ancora dell’acquavite. Dopo<br />

un breve <strong>di</strong>alogo con l’ostessa, sopraggiunge, annunziato dalle sonagliere, Sintram, essere strano che molti<br />

credono sia il <strong>di</strong>avolo. Giosta, mezzo ubbriaco, lo scambia per Belzebù, vuol vendergli l’anima; Sintram gli<br />

getta alcune monete perché beva ancora e si danni e si ammazzi. Scompare. Salgono la collina le fanciulle che<br />

vanno al Castello per la festa della notte <strong>di</strong> Natale, guidate da Anna, la bella figlia <strong>di</strong> Sintram, la quale<br />

scorgendo Giosta buttato in mezzo alla neve vorrebbe indugiarsi presso <strong>di</strong> lui, ma è condotta via dalle<br />

compagne.<br />

Qui il M° Zandonai schizza un quadretto lirico <strong>di</strong> una freschezza sinuosa che rompe l’atmosfera caliginosa.<br />

Entra la Comandante delle miniere e del Castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, energica e maschia figura <strong>di</strong> vecchia che,<br />

scorgendo Giosta condannato a morire sulla neve, decide <strong>di</strong> salvarlo ad ogni costo. Ella racconta le vicende<br />

buone e cattive della sua vita, mentre Giosta racconta la triste sua storia per cui è deciso a morire. Ma la<br />

Comandante, rievocando la figura <strong>di</strong> Anna che egli potrebbe rivedere la stessa notte nel suo castello, lo persuade<br />

a vivere.<br />

Il duetto tra i due procede vivo e serrato, avvolto da un’onda lirica scorrevole che si eleva in certi punti in<br />

frasi melo<strong>di</strong>che <strong>di</strong> ampio respiro attraverso le quali il maestro vuole e riesce a delineare i due caratteri.<br />

Sopraggiunge la matta compagnia dei Cavalieri cantando la loro spensierata canzone, <strong>di</strong> ottimo sapore<br />

popolare.<br />

La Comandante presenta loro Giosta, il poeta del Warmland, nuovo cavaliere. Essi lo salutano con il loro<br />

grido <strong>di</strong> esultanza: “Heissan! Heissan!” mentre da lontano traversa la strada Sintram lanciando la sua risata<br />

sarcastica.<br />

***<br />

Al secondo atto siamo nella sala del Castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> in festa.<br />

Si prepara la recita <strong>di</strong> una comme<strong>di</strong>a. Anna triste si abbiglia circondata dalle fanciulle. La scena è resa<br />

maggiormente spigliata da un fresco motivo, semplicissimo, in tempo tre ottavi sulla luminosa tonalità <strong>di</strong> mi<br />

maggiore.<br />

Si ode il rumoreggiare della folla che attende fuori del Castello e, da lungi, la canzone dei Cavalieri che<br />

stanno per giungere.<br />

Dopo <strong>di</strong> che le fanciulle, fattesi coraggio, strappano Anna a Sintram, lo spingono via ed aprono le porte alla<br />

folla ed ai Cavalieri, i quali irrompendo nella sala accolgono poi gioiosamente il nuovo cavaliere Giosta, che<br />

entra al braccio della Comandante.<br />

L’effetto corale, con il rincorrersi dei vari motivi affidati ai singoli gruppi, è ottimo e rivela nell’autore una<br />

perizia non comune senza cacciarsi, per questo genere polifonico vocale, nei banchi della scuola.<br />

Interessante la musica della presentazione dei Cavalieri, fatta dal Capitano Cristiano a Giosta, con la quale il<br />

M° Zandonai sottolinea e caratterizza assai felicemente i vari personaggi.<br />

Il nuovo cavaliere è designato a recitare nel teatrino del castello la comme<strong>di</strong>a con Anna, che contiene una<br />

scena d’amore. Anna è riluttante, ma è lasciata alcuni momenti sola con Giosta il quale le ripete il suo antico<br />

amore che può solo re<strong>di</strong>merlo. Ella piangente lo respinge: è un maledetto! Tutti ora rientrano e la<br />

rappresentazione incomincia.<br />

Siamo al momento più saliente dell’atto: il duetto d’amore che l’autore ha costruito solidamente affidando ai<br />

due protagonisti frasi <strong>di</strong> alata fattura, armonizzate magistralmente con la musica grottesca eseguita dai <strong>cavalieri</strong> i<br />

quali con i loro strumenti <strong>di</strong>sposti in orchestrina accompagnano il canto sulla scena.<br />

La scena tra i due finisce con un lungo bacio: Anna ammaliata dalle infocate parole d’amore dette da Giosta<br />

cede e si abbandona tra le sue pagine [!]; qui scoppia l’uragano: Sintram, entrato silenzioso nella sala, balza su<br />

un tavolo e giura, urlando, vendetta contro la Comandante e contro i Cavalieri.<br />

La Comandante colpita da un triste presagio impone a Giosta <strong>di</strong> ricondurre quella notte stessa Anna alla casa<br />

paterna.<br />

***<br />

Il terzo atto è <strong>di</strong>viso in due quadri: nel primo siamo nella fucina del Castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>; si fa baldoria dai<br />

Cavalieri, riuniti a cena per celebrare la notte <strong>di</strong> Natale. Un punto qui ci piace segnalare: il canto del <strong>cavalieri</strong>:<br />

una nenia nor<strong>di</strong>ca, che è fatta <strong>di</strong> nostalgia e <strong>di</strong> aspirazione alla bontà.<br />

È un canto semplice, schietto, denso <strong>di</strong> colorito con interlu<strong>di</strong> <strong>di</strong> violino: una delle pagine più belle scritte<br />

dallo Zandonai.<br />

***<br />

L’opera si chiude con un quadro su uno sfondo denso <strong>di</strong> umanità.<br />

Le fucine sono deserte; la folla affamata per la carestia che regna in paese dopo la cacciata della<br />

Comandante, implora che questa torni a dare lavoro e prosperità. Appare Giosta il quale giura che la<br />

Comandante tornerà. Eccola, sorretta dai Cavalieri che l’hanno trovata morente per via. Essa vuole che la vita<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/30


torni, e come per incanto i fuochi si riaccendono, il maglio riprende il suo ritmo pesante, e mentre i Cavalieri<br />

intuonano <strong>di</strong> nuovo il loro canto, la Comandante muore.<br />

L’autore fa qui appello al suo talento <strong>di</strong> forte operista e riesce a costruire un momento denso <strong>di</strong> suggestione<br />

che desta grande interesse; così l’opera si chiude trionfalmente.<br />

***<br />

In linea generale, la musica dello Zandonai si è semplificata rispetto alle sue opere precedenti. Gli spunti<br />

descrittivi, le ricercatezze del suo tecnicismo – interessante – hanno lasciato il campo a un <strong>di</strong>scorso melo<strong>di</strong>co e<br />

dritto. Egli lascia scorrere l’onda musicale senza frenarla. Forse gli è rimasta in alcuni punti una certa maniera<br />

solenne ed accademica nei declamati e certi accenti forzati drammatici. Ma qui tagliamo corto con le<br />

osservazioni e gli appunti. L’autore ha salutato i critici con un triplice raglio d’asino in orchestra all’aprirsi del<br />

teatrino al secondo atto! È un avviso <strong>di</strong> cui bisogna tener conto.<br />

Zandonai è un grande compositore già da qualche lustro.<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> sono un’altra nobile manifestazione della sua arte e da lui altre ancora ne atten<strong>di</strong>amo.<br />

***<br />

Lo spettacolo è stato allestito con ogni cura e sfarzo.<br />

Il M° Zandonai dovrà essere molto grato al M° Vitale che ha concertato e <strong>di</strong>retto l’opera pro<strong>di</strong>gandovi<br />

affettuosamente tutto il suo altissimo valore, realizzando, nella sua giusta misura da grande <strong>di</strong>rettore quale egli<br />

è, tutti gli effetti contenuti nella <strong>di</strong>fficilissima partitura.<br />

Il movimento scenico è stato personalmente curato in maniera brillante dal Comm. Clausetti della Casa<br />

Ricor<strong>di</strong>.<br />

Agli artisti tutti, che hanno lodevolmente cantato con slancio e impegno l’opera, chie<strong>di</strong>amo scusa se lo<br />

spazio ci obbliga a rinunziare ad una singola segnalazione.<br />

259<br />

Vice, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” al Costanzi, “Il Tevere”, 30.3.1925 - p. 3, col. 1-2 (con un bozzetto <strong>di</strong> scena e, in<br />

sovrimpressione, un ritratto <strong>di</strong> Zandonai)<br />

Della nuova opera <strong>di</strong> Zandonai che un pubblico compatto ha voluto accogliere lietamente la parte che<br />

maggiormente secca è il libretto.<br />

La leggenda <strong>di</strong> Giosta Berling che ha inspirato questi Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> è tutta vaporosa e tenue: i<br />

personaggi hanno una inconsistenza fiabesca e le azioni si svolgono come nei libri delle fate, in una atmosfera<br />

tutta nebbie che sfalda i contorni e dà ai più inverosimili incontri ed alle più strambe avventure un sapore<br />

veramente poetico. Arturo Rossato ha voluto trasformare la leggenda in un episo<strong>di</strong>o qualunque <strong>di</strong> vita, senza<br />

pensare che tutto quel mondo trasportato dal regno dei sogni nella ben definita cerchia <strong>di</strong> una <strong>Ekebù</strong> storica<br />

sarebbe apparso, nella migliore delle ipotesi, per lo meno ri<strong>di</strong>colo. E <strong>di</strong>fatti i 12 Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> con quel loro<br />

particolare attaccamento agli strumenti musicali ed il grande amore per il vino e l’acquavite assomigliano<br />

terribilmente ad uno qualsiasi dei circoli <strong>di</strong> <strong>di</strong>vertimento che fioriscono nei quartieri popolari <strong>di</strong> Roma; la<br />

Comandante per quanto si sforzi <strong>di</strong> fumare la pipa e <strong>di</strong> assumere un tono autoritario non si comprende bene cosa<br />

ci stia a fare sulla scena; Sintram ha un brutto e bilioso carattere; Giosta ed Anna poi sono tormentati da una<br />

curiosa tristezza e spesso pronunziano parole cupe e <strong>di</strong>sperate.<br />

Quale azione possa nascere da simili personaggi non si comprende bene ed infatti le vicende cui assistiamo<br />

non hanno nessuna ragione <strong>di</strong> essere, ché seguono a cause e premesse assolutamente arbitrarie. Per questo<br />

allorché sentiamo parlare <strong>di</strong> morte non riusciamo a prendere la cosa molto sul serio, né ci impressionano le<br />

molte parole e le troppe frasi che sentiamo pronunziare durante i quattro atti. Diremo a conclusione che tutto<br />

quanto ve<strong>di</strong>amo svolgersi appare così esterno e voluto da non interessare affatto e da apparire anzi terribilmente<br />

noioso.<br />

La musica che Zandonai ha posto intorno al libretto <strong>di</strong> Arturo Rossato non si allontana da quei canoni che<br />

sono stati <strong>di</strong>chiarati, non si sa bene da chi, caratteristica del melodramma italiano. Per seguire questi canoni che<br />

sono la salvaguar<strong>di</strong>a del nostro più puro tra<strong>di</strong>zionalismo (così <strong>di</strong>cono alcuni), Riccardo Zandonai si è lanciato a<br />

capofitto nel recitativo più aperto e spampanato che si possa immaginare; quando rimangono soli in scena<br />

soprano e tenore le urla arriveranno al cielo, gli acuti saranno brillanti e seduttori ma la musica non apparirà mai<br />

con i suoi caratteri più veri quali il ritmo e la melo<strong>di</strong>a.<br />

Gran<strong>di</strong> suoni, un grande affaccendarsi lungo le scale <strong>di</strong>atoniche e cromatiche, un arrampicarsi ed un<br />

<strong>di</strong>scendere continuo, così, senza nessuna ragione attraverso tutte le possibilità canore, mai il nascere <strong>di</strong> una<br />

espressione che richiami intorno a sé interesse e simpatia. Questa, a detta <strong>di</strong> alcuni, è la vera musica italiana, a<br />

noi essa appare invece una brutta corruzione del recitativo continuo wagneriano.<br />

Nei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> dominano due elementi: quello cui abbiamo già accennato ed un altro più vivo e<br />

meno informe che accompagna i movimenti <strong>di</strong> masse, gli scherzi delle fanciulle, tutto quello insomma che<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/31


vorrebbe avere un carattere gaio e spensierato. In questi elementi Zandonai pur non arrivando mai ad assumere<br />

un carattere ed uno spirito personale fa pensare alle sue cose migliori quali Conchita ed alcune parti della<br />

Francesca: nuoce però la preoccupazione <strong>di</strong> seguire la vicenda che fa deviare la musica dalla via che dovrebbe<br />

percorrere <strong>di</strong>ritta e sicura. Non staremo ad illustrare uno per uno gli episo<strong>di</strong> musicali del melodramma: <strong>di</strong>remo<br />

solo che ve<strong>di</strong>amo affiorare qualche attimo <strong>di</strong> vera vita musicale in quei momenti dove dominano gli elementi <strong>di</strong><br />

colore.<br />

E così il coro dei <strong>cavalieri</strong> nei primo atto ha qualche buon accenno ed il coretto sopra la melo<strong>di</strong>a del violino<br />

sa dare una certa commozione musicale; il finale dell’opera invece appare retorico e manierato.<br />

A conclusione <strong>di</strong>remo che “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” ci appaiono nella stessa atmosfera della Giulietta e non<br />

segnano certo un passo avanti nell’arte del maestro Zandonai.<br />

***<br />

L’esecuzione è stata ottima e tale da essere ascritta a lode dell’impresa del Costanzi. Il maestro Vitale ha<br />

curato con grande amore e coscienza la concertazione dell’opera aiutato dal maestro Consoli che ha istruiti i cori<br />

con grande perizia e buon gusto.<br />

I Cavalieri hanno costituito un gruppo straor<strong>di</strong>nario per affiatamento ed abilità. Loro capo era Taurino<br />

Parvis che ha come sempre <strong>di</strong>mostrata gran<strong>di</strong>ssima abilità ed intelligenza, ed i suoi colleghi Nar<strong>di</strong>, Marcotto,<br />

Pellegrino, Tega, De Petris, Uxa, Giusti, Soffiantini, Pastocchi e Freitas hanno ben tenuto il loro posto.<br />

La Comandante era la Blanco Sadun che ha fatto <strong>di</strong> tutto per dare vita ad un personaggio <strong>di</strong> stoppa,<br />

affermandosi come sempre ottima cantante.<br />

Giosta ed Anna erano impersonati dal tenore Merli e da Maddalena Bugg e può <strong>di</strong>rsi che esecutori migliori<br />

non era possibile trovarli: i due artisti hanno curato con grande amore la loro parte ed hanno sfoggiato una voce<br />

capace <strong>di</strong> infinite possibilità.<br />

Bene la De Franco ed il basso Dentale che era Sintram.<br />

Il violinista Zuccarini ha sfoggiato come sempre le sue ottime virtù nella canzona <strong>di</strong> Liliecrona (121) .<br />

Belle le scene ed i costumi dovuti ad Augusto Carelli.<br />

Il successo è stato non molto caloroso ma ha procurato all’autore ed agli interpreti circa venticinque<br />

chiamate.<br />

260<br />

I “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” n’ajoutent rien à la renommée du maestro Zandonai, styliste prestigieux, “L’Italie”,<br />

31.3.1925 - p. 4, col. 5-6<br />

Nous commencerons une fois par la fin, puisque c’est de l’inspiration des décors que nous partirons pour<br />

parler du nouvel opéra du maestro Zandonai.<br />

Le créateur des scènes a essayè en effet de donner à son œuvre une valeur purement lyrique à travers des<br />

jeux de lumières et des rayons bleus, verts et violets. C’est par ces moyens qu'il a réalisé la nuit ne Norvège [!],<br />

cette nuit que les livres de écoles élémentaires appellent la "nuit blanche". Ainsi l’atmosphère est saccagée<br />

malgré un effort sérieux et la Norvège n’y gagne rien. C’est seulement dans la seconde partie du troisième acte<br />

que l’effet semble un peu mieux saisi, mais il est trop tard. Il en est de même des autres scènes (celle du château<br />

qui rappelle trop Moncalieri, qui n’est précisement pas la Norvège).<br />

La musique nous a laissé la même impression. La riche instrumentation dont Zandonai a toujours embelli<br />

son œuvre est portée ici à ses limites extrèmes et atteint une rare perfection technique: éblouissante pour les<br />

technisiens mais qui ne <strong>di</strong>t rien à l’oreille du profane. L’ensemble en souffre et devient monotone et sans<br />

expression, même si de nombreux détails harmoniques peuvent vous intéresser et vous émerveiller.<br />

C’est une "stylisation" orchestrale, mais qui n’a qu'un canavas trop mesquin pour s’imposer – ce qui<br />

n’empêche pas certains fresques tableaux d’égayer l’esprit. Les sensations parfaitement traduites par la riche<br />

sensibilité musicale de Zandonai ont souvent des effets éclatants, mais sans profondeur d’émotion: telle les<br />

harmonies imitatives vigorousement fouillées, le sentiment du grotesque rendu par l’opposition des violons et<br />

des cors, l’étincelant tableau des forges, qui dans les cadences rythmiques fait surgir les étincelles du marteau<br />

aussi bien à travers l’orchestre que sur la scène, voilà tant de réels bijoux de cet opéra.<br />

Mais tout ces éléments se perdent dans la grande ligne de la partition qui ne brise jamais le cadre purement<br />

technique. Il faut être des compétents de musique pour s’intéresser à cette partition, pour suivre avec curiosité<br />

les étranges combinations des flûtes et des instruments profonds, pour prendre en examen avec un intérêt<br />

purement scientifique cette instrumentation mécanique et complexe. Le public ne peut goûter cet effort.<br />

Evidemment le maestro Zandonai a accompli un travail des plus <strong>di</strong>fficiles; mais son tort est d’avoir choisi un<br />

livret aussi vide et sans âme que les Cavalieri d’<strong>Ekebù</strong>, dont la réduction (tirée du roman de Selma Lagerloff)<br />

nous fait perdre tout respect pour le Prix Nobel accordé à cette œuvre.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/32


Ce choix nous étonne d’autant plus que l’histoire italienne offre tant de sujets gran<strong>di</strong>oses à un musicien (et<br />

Zandonai l’a vu lui-même avec la Francesca da Rimini, Giulietta e Romeo, Conchita [!], etc.). Quel besoin de<br />

recourir à des légendes sans signification, telle que celle de la commandante<br />

L’effort du maestro Zandonai (de même que celui du metteur en scène) a été énorme, mais sans résultats.<br />

Son talent n’en est pas moins éclatant et plein de possibilités étincelantes.<br />

–––––-<br />

L’exécution a été excellente de la part de tous les interprètes, qui ont donné à cet opéra toutes les resources<br />

de leur talent.<br />

Le maestro Vitale, mis aux prises avec une partition si âpre et si longue, a su s’en tirer avec son habituelle<br />

compétence et sa fine intuition musicale.<br />

M. Merli a dessiné avec une grande vigueur musicale le rôle de Giosta ed Mme Bugg a chanté avec une<br />

ravissante souplesse. Excellente Mme Sadun dans le rôle de la Comandante et plein d’intuition M. Dentale qui a<br />

realisé un Sintram réussi. Tous les autres rôles ont trovés des interprètes vigoreux et saisissants.<br />

Très fêté aussi le Maestro Consoli qui a <strong>di</strong>rigé les chœurs avec une grande vigueur.<br />

Le succès a été chalereux et le maestro Zandonai a dû se présenter maintes fois à la rampe entouré de ses<br />

vaillants interprètes.<br />

–––––-<br />

Assistait S.A.R. le prince héritier, qui a vivement félicité l’auteur.<br />

Dans les loges de la Cour nous avons remarqué: amiral Bonal<strong>di</strong>, marquise Campanari, don Giuseppe et don<br />

Alighiero Giovanelli.<br />

Dans la salle on notait de nombreuses personnalités, entre autres le baron Acerbo. On remarquait aussi:<br />

marquise Spinola, comte et comtesse Taverna, marquis et marquise Carrega, prince et princesse Borghese,<br />

duchesse et Mlle <strong>di</strong> Roccapiemonte, comte et comtesse Sommi, M. et Mme Masier, Mme Dettori, si élégante<br />

dans sa vaporeuse toilette blanc et rose, Mme Arrivabene, comte Piccolomini, Mme Sleiter très fêtée, aussi que<br />

la comtesse [R]olli, princesse Ruspoli, comtesse Rossi, Mme Carrettoni, Mme Martinez, princesse<br />

Aldobran<strong>di</strong>ni, comte Macchi <strong>di</strong> Cellere, Mme Zarii, comm. Ravasini, etc. etc.<br />

261<br />

La seconda de “I Cavalieri” al Costanzi, “Il Piccolo”, 1.4.1925 - p. 6, col. 2<br />

Iersera, al Costanzi, <strong>di</strong>nanzi ad una sala affollata <strong>di</strong> pubblico sceltissimo, si è avuta la seconda dei Cavalieri<br />

<strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, la nuova opera del maestro Zandonai. Assisteva allo spettacolo anche Umberto Giordano che si<br />

associava agli applausi con vivo fervore.<br />

Il successo si è rinnovato nella recita <strong>di</strong> iersera con lo stesso fervore e con la stessa unanimità <strong>di</strong> consensi<br />

della première; anzi spesso è stato più caloroso e alla fine dell’opera entusiastico.<br />

Dopo il racconto del tenore Merli si sono avuti i primi applausi. Alla fine del primo atto che si conclude con<br />

il gaio e spavaldo coro dei Cavalieri, tutto il pubblico si abbandona al più schietto entusiasmo. Il maestro Vitale<br />

e gli interpreti sono evocati alla ribalta. S’invoca a gran voce l’autore. E Zandonai apparve al proscenio tra il<br />

maestro Vitale, la Bugg, il tenore Merli e il baritono Parvis. Si sono avute sette chiamate.<br />

Il secondo atto interessa per la vivacità e l’originalità della musica e per la costruzione della scena intonata al<br />

grottesco, in cui s’insinua una lieve onda melo<strong>di</strong>ca col duetto tra tenore e soprano. La cronaca segna un vivo<br />

applauso dopo il potente e fastoso coro a metà dell’atto – e dopo la romanza della Bugg. In fine il maestro<br />

Zandonai col Vitale e tutti gli interpreti deve presentarsi alla ribalta sei volte.<br />

Del terzo atto il primo quadro, che contiene le più belle e geniali pagine <strong>di</strong> questa forte e ispirata partitura,<br />

impressiona per lo spirito musicale e suscita profonda commozione. Alla fine molti applausi con tre chiamate<br />

agl’interpreti e al violinista Oscar Zuccarini che ha reso l’a solo con vera maestria e sommo spirito musicale. Il<br />

secondo quadro interessa vivamente per la vicenda drammatica e suscita consenti <strong>di</strong> ammirazione fra il teenore e<br />

il soprano. Alla fine Zandonai ha otto chiamate.<br />

L’ultimo atto, costruito così saldamente e pervaso da un senso <strong>di</strong> umanità, è seguito con intensa attenzione.<br />

Dal coro iniziale tutto impeti, attraverso il duetto tra i due amanti e l’ad<strong>di</strong>o dolente della Comandante, fino al<br />

finale in cui la canzone dei Cavalieri si eleva come un inno mentre la fucina riprende il ritmo del lavoro tra i<br />

colpi formidabili <strong>di</strong> maglio e il festoso battere dei martelli, in una sinfonia <strong>di</strong> suoni – non una scena passò senza<br />

che fosse accolta con favore.<br />

Chiusosi il velario, tutta la sala scatta in un’acclamazione che non tende a terminare, tanto che Zandonai è<br />

indotto a presentarsi alla ribalta ben sette volte. In ultimo un’ovazione saluta l’operista illustre.<br />

L’esecuzione è stata mirabile per valentia dei singoli interpreti e per fusione <strong>di</strong> tutti gli elementi vocali e<br />

orchestrali. Furono perciò ammirati e applau<strong>di</strong>ti la Bugg, la Casazza (122) , la De Franco, il tenore Merli, il<br />

baritono Parvis, il basso Dentale e tutto il gruppo dei Cavalieri. Superbo per slancio e impeccabile per<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/33


intonazione il coro. Il maestro Edoardo Vitale fu il trionfatore dello spettacolo per la genialità con cui <strong>di</strong>resse e<br />

animò ogni scena.<br />

Con il successo <strong>di</strong> iersera I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> hanno ormai saldamente e definitivamente assicurata la loro<br />

fortuna. [...]<br />

262<br />

Gaffurius, [Vita musicale romana], “Rivista nazionale <strong>di</strong> musica” VI/187, 3.4.1925 - p. 1035<br />

Il bilancio della prima rappresentazione de I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> al Costanzi è costituito da 26 o 27 chiamate<br />

alla ribalta – oltre 3 applausi a velario levato durante lo spettacolo – all’autore Zandonai, al librettista Rossato e<br />

agli interpreti, fra i quali sono stati applau<strong>di</strong>tissimi il tenore Merli, il soprano Bugg, il baritono Parvis, il<br />

violinista Oscar Zuccarini, la massa corale ben preparata dal Consoli, la magnifica orchestra e, primo e al<br />

<strong>di</strong>sopra <strong>di</strong> tutti, l’illustre <strong>di</strong>rettore Edoardo Vitale, che ha penetrato e <strong>di</strong>retto l’opera con sensibilità, sapienza e<br />

fraternità artistica tali che qui a Roma si è potuto giu<strong>di</strong>carla ancora più avvedutamente della Scala, ove<br />

Toscanini non era riuscito a dare al secondo atto tutto il rilievo dovuto e possibile, emerso invece con piena<br />

efficacia al Costanzi. La Sadun, che può fare sfoggio ancora <strong>di</strong> belle note centrali e basse, non ci è apparsa a suo<br />

agio nella parte della “Comandante”, che richiede il possesso <strong>di</strong> acuti squillanti e a cui non ha dato il carattere <strong>di</strong><br />

figura rigorosamente in predominio su tutti gli altri personaggi della leggenda drammatizzata.<br />

[...]<br />

263<br />

Adriano Lual<strong>di</strong>, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, “Il Giornale d’Italia”, 7.1.1938 - p. 3, col. 3-4<br />

Riascoltata dopo <strong>di</strong>eci o do<strong>di</strong>ci anni dalla sua prima e<strong>di</strong>zione scaligera, l’opera <strong>di</strong> Riccardo Zandonai<br />

riconferma, in generale, le impressioni già prodotte.<br />

Ad esprimere con maggiore fedeltà il senso <strong>di</strong> lontananza leggendaria, <strong>di</strong> sogno vicino alla realtà e <strong>di</strong> realtà<br />

vicina al sogno che son proprii della Leggenda <strong>di</strong> Giosta Berling <strong>di</strong> Selma Lagerlöf, sarebbe stata utile, nel<br />

congegnare il libretto, una maggiore libertà rispetto alle buone regole tra<strong>di</strong>zionali della struttura<br />

melodrammatica, più coraggio nel tracciare lo schema della vicenda scenica, meno timore <strong>di</strong> correre qualche<br />

rischio.<br />

Nel romanzo della Lagerlöf, l’amore ha certamente una larga parte; ma più nel senso dello spazio che in<br />

quello della profon<strong>di</strong>tà. Non sono i fatti amorosi che, nel libro, più ci hanno preso e interessato e commosso. Ci<br />

ha colpito, bensì, il forte odore <strong>di</strong> acquavite – “l’odore ambiente” –, le credenze popolari, gli intermezzi lirici, i<br />

costumi paesani, quei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> che sono zingari ma attaccati alla loro terra; guasconi ma incapaci <strong>di</strong><br />

generosità e <strong>di</strong> eroismo; scavezzacolli ma pieni <strong>di</strong> scrupoli; “avventurieri, ragazzacci da frustare”, come li<br />

considera la Comandante, ma non indegni <strong>di</strong> perdono. Gli episo<strong>di</strong> d’amore sono molti, ma non <strong>di</strong> grande rilievo:<br />

sembrano narrati più per <strong>di</strong>mostrare un fondo <strong>di</strong> rettitu<strong>di</strong>ne in tutti questi personaggi dalle apparenze<br />

spregiu<strong>di</strong>cate che per magnificare l’onnipotente forza della passione amorosa. Nella Leggenda, gli affetti<br />

familiari hanno quasi più importanza, a giu<strong>di</strong>care dai fatti. E tutto in essa si svolge in un mondo fantasmagorico,<br />

vicino, più che al romanzo, al poema.<br />

Al teatro fuori della tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> cui, dato l’ingegno del compositore e quello del librettista, avremmo forse<br />

potuto avere un bel saggio; al teatro più lontano dalle abitu<strong>di</strong>ni del pubblico ma più prossimo alle ragioni<br />

dell’arte e più vicino allo spirito della leggenda, lo Zandonai ha preferito il teatro della tra<strong>di</strong>zione e degli schemi<br />

e dei motivi scenici più comuni. Alcuni episo<strong>di</strong> sono stati scelti da lui e dal Rossato come base dell’azione; i<br />

personaggi ridotti notevolmente nel numero e alcuni fusi in uno solo; l’amore <strong>di</strong> Giosta e Anna eretto a nucleo e<br />

legame della vicenda teatrale. Quanto ai Cavalieri, essi ci appaiono quasi soltanto dal lato festaiolo, sì che<br />

quando la Comandante invita Giosta ad entrare nella decurie dei suoi protetti parlando <strong>di</strong> “redenzione” non si<br />

capisce bene <strong>di</strong> quale redenzione parli. Sinclair e Sintram del romanzo <strong>di</strong>vengono, nel libretto, una persona sola:<br />

Sintram, il quale però è Mefistofele per due; la Comandante rimane, nel trapasso dal libro alla scena, molto<br />

fedele all’originale; Cristiano e Anna sono, tra le figure secondarie, le più vive.<br />

***<br />

Il senso del teatro, l’estro decorativo, la ricerca della chiarezza e della semplicità nel modo <strong>di</strong> esprimersi<br />

musicalmente sono le qualità che meglio risaltano in questo spartito <strong>di</strong> Riccardo Zandonai.<br />

Tolto molto opportunamente il secondo quadro del terzo atto, che nella prima e<strong>di</strong>zione milanese era apparso<br />

del tutto pleonastico sia dal punto <strong>di</strong> vista drammatico che da quello musicale; alleggerita qualche altra scena,<br />

l’opera mantiene desto l’interesse dello spettatore, sia per la varietà e quel che c’è <strong>di</strong> colorito nel suo tessuto<br />

musicale che per la relativa spe<strong>di</strong>tezza del suo procedere: relativa perché non giova ad essa quel molto che c’è<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/34


<strong>di</strong> retorico e <strong>di</strong> enfaticamente stantio in più <strong>di</strong> una scena e in più <strong>di</strong> una situazione. La cosa più notevole della<br />

partitura è, a mio modo <strong>di</strong> vedere, la scena iniziale del terzo atto, <strong>di</strong> Liecrona con i Cavalieri. Liecrona suona sul<br />

violino una canzone nostalgica e i Cavalieri rispondono in coro, sommessamente. Il brano, e specialmente<br />

quello corale che ha l’andamento e il potere suggestivo <strong>di</strong> un antico canto <strong>di</strong> popolo, è non solo d’effetto ma<br />

veramente bello. Il più bello <strong>di</strong> tutto lo spartito. Negli altri atti c’è da ricordare la scena delle fanciulle, nel<br />

primo, convenzionale ma non priva <strong>di</strong> grazia, il racconto della Comandante, l’arrivo dei Cavalieri, <strong>di</strong> sicuro<br />

effetto. Nel secondo, il fresco e grazioso inizio della rappresentazione nel teatrino e la scena dell’apparizione <strong>di</strong><br />

Sintram, condotte con molta abilità. Nell’ultimo, la prima scena e quella che segue, fra Cristiano e i Cavalieri, e<br />

la fine dell’opera, quando la Comandante muore tra il frastuono dell’officina nella quale ricomincia a pulsare il<br />

ritmo del lavoro: pagina <strong>di</strong> poesia e <strong>di</strong> indubbia efficacia.<br />

***<br />

Ottima è stata l’esecuzione <strong>di</strong> insieme offertaci da Tullio Serafin <strong>di</strong> quest’opera. L’orchestra ha suonato<br />

magnificamente sotto la sua bacchetta animata e vibrante: è stata potente nelle gran<strong>di</strong> sonorità, delicatissima<br />

nelle pieghe liriche. L’insieme dello spettacolo ha recato ancora una volta il segno della grande aristocrazia<br />

artistica del suo primo animatore. Benissimo ha cantato il coro istruito dal M.o Canca [sic], bene si sono portati<br />

gli artisti nel loro complesso: più lodevoli come insieme però, per la sicurezza e la cura e la serietà dello stu<strong>di</strong>o<br />

<strong>di</strong> cui hanno dato prova, che per le qualità in<strong>di</strong>viduali che alcuni hanno mostrato. La signorina Giuseppina Sani,<br />

la Comandante, a parte l’impostazione gutturale che toglie volume e metallo alla voce e chiarezza e forza alla<br />

<strong>di</strong>zione, ha eseguito come meglio ha potuto la sua parte; ma certo non le ha dato quella autorità e quella energia<br />

<strong>di</strong> accenti che sarebbero state necessarie. Al polo opposto, il baritono Benvenuto Franci, Cristiano, che <strong>di</strong>spone<br />

<strong>di</strong> quei ricchi e sicuri mezzi vocali che da tempo ammiriamo, ha forse ecceduto in violenza. bene ha reso, però,<br />

il carattere del personaggio. Lodevole è stato José Luccioni nella lunga faticosa parte <strong>di</strong> Giosta Berling. Egli ha<br />

<strong>di</strong>mostrato ricchezza e forza <strong>di</strong> mezzi vocali, ha avuto una <strong>di</strong>zione abbastanza chiara, è stato scenicamente assai<br />

efficace. Molto bene anche la signorina Pia Tassinari nella parte <strong>di</strong> Anna, alla quale, sia col canto che con la<br />

scena, ha conferito un appropriato carattere <strong>di</strong> poesia. Benissimo il Romito nel personaggio <strong>di</strong> Sintram, per voce<br />

e scena; eccellente Alessio De Paolis, Liecrona, che nella prima scena del terzo atto è stato, oltre che pregevole<br />

cantante, attore perfetto nell’episo<strong>di</strong>o della violinata. Benissimo tutti gli altri: il Pacini, la Dubbini, il Marucci, il<br />

Bianchi, il Titta, il Giusti, il Mazziotti, il Romano, lo Sbalchiero, il Conti, il Taddei.<br />

Discrete le scene su bozzetti <strong>di</strong> Giorgio Quaroni <strong>di</strong>pinte da E. Polidori, ma specialmente la prima e l’ultima<br />

<strong>di</strong> un carattere novecento che legava male coi costumi <strong>di</strong> Veniero Colasanti pretto 1930: precisazione <strong>di</strong> epoca<br />

che, dato il libretto, sarebbe forse stato meglio non sottolineare.<br />

Il successo dello spettacolo è stato molto caloroso, con cinque o sei chiamate alla fine <strong>di</strong> ogni atto a tutti gli<br />

artisti, al M.o Serafin, all’autore, al regista Piccinato e al Colasanti.<br />

264<br />

Mario Rinal<strong>di</strong>, I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> al Teatro Reale dell’Opera, “La Tribuna”, 7.1.1938 - p. 3, col. 2-3<br />

Il dramma lirico I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> fu tratto, da Arturo Rossato, dalla Leggenda <strong>di</strong> Gösta Berling <strong>di</strong> Selma<br />

Lagerlöf, vincitrice del premio Nobel per l’anno 1909. Sarebbe nostro dovere esaminare se tanto il Rossato<br />

quanto lo Zandonai abbiano interpretato a dovere il pensiero della illustre scrittrice; ma il lavoro non è nuovo.<br />

Ci limiteremo perciò a fare poche considerazioni <strong>di</strong> carattere generale.<br />

Zandonai, lo si è detto mille volte, è un romantico, ma il romanticismo, nel Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, non si<br />

manifesta tanto nel lato amoroso quanto in quello fantastico. La leggenda originale esigeva questo. In<br />

Francesca e in Giulietta tutto è avvolto nell’amore, in quest’opera invece tutto è pervaso <strong>di</strong> mistero. La<br />

Comandante è soltanto apparentemente l’animatrice dell’azione; ma sopra <strong>di</strong> lei, nell’ombra, c’è il genio<br />

malefico <strong>di</strong> Sintram. E questi ha una certa parentela con Samiel, il “Cacciatore nero” del Freischutz [sic].<br />

Romanticismo...<br />

Nei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> le parti d’assieme sono nettamente superiori agli a soli e ai duetti. Basterebbe citare,<br />

per convincersene, l’allegra masnada dei buontemponi ospitati e sfamati dalla Comandante. L’amore tra Anna e<br />

Giosta può interessare, ma non appassiona e non avvince. Chiunque altro avrebbe portato in primo piano questa<br />

coppia sfortunata e felice. Zandonai invece ha preferito dare un carattere ad ogni singolo personaggio,<br />

imprimere un colore ad ogni atto. La prova evidente <strong>di</strong> questa affermazione ce la forniscono principalmente la<br />

figura della Comandante e tutto il terzo quadro. Senza l’aiuto <strong>di</strong> temi e <strong>di</strong> astruserie orchestrali il musicista ha<br />

impresso alla parte della donna un carattere <strong>di</strong> superiorità che la leggenda originale esigeva. Nell’assistere al<br />

terzo atto – compatto, organico, ar<strong>di</strong>to nella concezione – ci sono venuti alla mente i nomi <strong>di</strong> Velasquez e <strong>di</strong> van<br />

Tilborgh: così Boro<strong>di</strong>ne, nel descriverci nel suo Principe Igor le orgie <strong>di</strong> Galinski, non ha attinto da <strong>di</strong>versa<br />

fonte.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/35


Dovremmo ancora ricordare l’entrata delle donne al primo quadro, l’apparizione dei <strong>cavalieri</strong> con il loro<br />

festoso inno, l’appassionata rappresentazione del secondo atto, la morte della Comandante, ma lo spazio ce lo<br />

vieta.<br />

L’opera ha certamente i suoi <strong>di</strong>fetti, qua e là manca d’ispirazione, al primo atto procede un po’ indecisa, ma<br />

nel complesso appare quale produzione d’un musicista esperto, padrone dell’orchestra e conoscitore del teatro.<br />

Abbiamo ragione <strong>di</strong> ritenere, inoltre, che Zandonai sarebbe stato ancora più convincente se il Rossato avesse<br />

saputo cogliere con più grande evidenza le parti <strong>di</strong> maggior effetto del testo originale.<br />

L’interpretazione dell’opera da parte del maestro Tullio Serafin è stata felicissima: coloriti perfettamente<br />

impastati, sonorità ben dosate, slanci sicuri ed efficaci. La massa orchestrale ha secondato il suo <strong>di</strong>rettore con<br />

encomiabile accortezza. Nella <strong>di</strong>fficile parte della Comandante si è fatta ben notare, per la sua intensa<br />

drammaticità, Giuseppina Sani, la quale ha suscitato emozione ed impressione nei due quadri della partenza dal<br />

castello e della morte. Gentile e amorosa si è rivelata ancora una volta Pia Tassinari (Anna) che ha avuto<br />

momenti <strong>di</strong> estrema dolcezza, particolarmente nel duetto del secondo atto. Il tenore José Luccioni ha dato tutto<br />

se stesso nella parte <strong>di</strong> Giosta: ci è molto piaciuto, nella bella scena del primo quadro, sia come cantante che<br />

come attore. Benvenuto Franci conosce a meraviglia la parte <strong>di</strong> Cristiano: ieri sera attirò più volte su <strong>di</strong> sé<br />

l’attenzione del pubblico; il suo canto è sempre generoso e la sua <strong>di</strong>zione è sempre chiarissima. Nella<br />

terrificante parte <strong>di</strong> Sintram abbiamo applau<strong>di</strong>to Filippo Romito, artista non troppo noto a Roma, ma che<br />

qualcuno ricorderà in una avvincente esecuzione del Boris al Teatro Quirino. Il Romito – beato lui – sta sul<br />

palcoscenico come in casa propria e vanta una voce forte e ben timbrata. Una parola <strong>di</strong> lode va anche <strong>di</strong>retta ad<br />

Alessandro [sic] de Paolis che è stato cantante e... violinista <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne: molti spettatori hanno avuto la<br />

precisa sensazione che fosse lui a suonare l’istrumento <strong>di</strong> Paganini, ma <strong>di</strong>etro le quinte, invece, c’era il professor<br />

Rovere che... pensava al resto. Ricor<strong>di</strong>amo inoltre il Pacini e la Dubbini e il gruppo dei Cavalieri.<br />

Ottimo il coro <strong>di</strong>retto dal Conca e suggestivi, con caratteri <strong>di</strong> sana novità, i bozzetti scenici <strong>di</strong> Giorgio<br />

Quaroni, realizzati dal Polidori; ad<strong>di</strong>tiamo in modo particolare la desolante scena del primo atto e il colorito<br />

quadro della fucina al terzo. Ricchi, vari e pittoreschi i costumi <strong>di</strong> Veniero Colasanti. Efficace e brillante la regìa<br />

del Piccinato, il quale ha impresso un carattere <strong>di</strong> personalità al bellissimo quadro della notte <strong>di</strong> Natale.<br />

Tullio Serafin e i suoi collaboratori sono stati fatti segno a numerose chiamate alla ribalta; si è anche<br />

presentato Riccardo Zandonai che il pubblico romano ha riveduto e applau<strong>di</strong>to con vero piacere.<br />

265<br />

Notte d’Epifania<br />

“... Appena si spensero le luci in sala per l’inizio del quarto atto, le signore incominciarono nel buio a<br />

manovrare cautamente le mani sotto gli abiti preziosi, senza <strong>di</strong>stogliere l’interesse dallo spettacolo. Si u<strong>di</strong>va un<br />

fruscio <strong>di</strong> sete e <strong>di</strong> rasi che sembrava un mormorio <strong>di</strong> primavera.<br />

Mancavano pochi minuti alla mezzanotte: le signore pian piano si sfilarono una calza che con una spilla od<br />

un fermaglio <strong>di</strong> brillanti venne assicurata al davanzale del palco o al bracciolo della poltrona. Poi, nella sala,<br />

si stabilì un’aria <strong>di</strong> trepida attesa.<br />

Quando si riaccesero le lampade, era mezzanotte e un quarto: la Befana era passata a cavallo alla sua<br />

scopa e le calze erano colme <strong>di</strong> gioielli, <strong>di</strong> conti della sarta pagati, <strong>di</strong> buoni per ascoltare gratuitamente le voci<br />

<strong>di</strong> Gigli e <strong>di</strong> Lauri Volpi, della Cigna o della Tassinari... Era la befana offerta dai <strong>cavalieri</strong>, non <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, ma<br />

dai <strong>cavalieri</strong> e commendatori che avevano accompagnato iersera al Reale le rispettive splendenti consorti, la<br />

befana offerta dalla <strong>di</strong>rezione del magico Teatro alle sue belle fedeli. Con piccole grida <strong>di</strong> gioia, le calze<br />

ricolme vennero ritirate dalle proprietarie che giubilando e applaudendo si affrettarono all’uscita con una<br />

calza alla gamba e l’altra in mano come se avessero fatto la spesa al mercato delle meraviglie.<br />

Belle e luccicanti come fate, le signore iersera meritavano simili doni e avevan <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> credere ancora al<br />

sogno nutrito in una non troppo lontana fanciullezza...”.<br />

Invece non è stato così. Non è accaduto nulla <strong>di</strong> tutto ciò: <strong>cavalieri</strong>, commendatori e <strong>di</strong>rezione del teatro<br />

non hanno riempito nessuna calza.<br />

Chi crede più alle favole ed ai miti dell’infanzia<br />

Chi.<br />

266<br />

m[atteo] i[ncagliati], I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, “Il Messaggero”, 6.1.1938 - p. 5, col. 3-4<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Riccardo Zandonai non venivano riprodotti sulle nostre massime scene da<br />

<strong>di</strong>ciassette (123) anni. Nel farne ritorno, è parso che la lunga assenza sia da addebitarsi a un errore <strong>di</strong> miopia.<br />

Perché un’opera come questa, <strong>di</strong> tale e tanta spiccata originalità, meritava <strong>di</strong> essere tenuta d’occhio.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/36


I quattro atti – e duole che in questa e<strong>di</strong>zione sia stato soppresso quello del Natale, <strong>di</strong> così profonda e sentita<br />

nostalgia – rappresentano tanti <strong>di</strong>stinti ambienti, ché in ognuno <strong>di</strong> essi l’autore ha saputo trovare un clima <strong>di</strong><br />

evidente suggestione, clima che è generato da una sensibilità in stato <strong>di</strong> commozione, <strong>di</strong> grazia. Appunto, per<br />

ciò, tutta l’opera è segnata da uno spirito e da una fantasia <strong>di</strong> schietta profon<strong>di</strong>tà espressiva e figurativa. V’ha in<br />

essa un tale slancio drammatico e una tale effusione <strong>di</strong> lirismo che può ben <strong>di</strong>rsi che tutta l’opera si elevi a un<br />

grado <strong>di</strong> eccellenza psicologica e teatrale. Ed era compito codesto ben <strong>di</strong>fficile a tradurre in forma, se si pensa<br />

che la favola si svolge in terra straniera, nella Svezia, in un’epoca lontana. Ora con i ritmi e il colore,<br />

opportunamente ideati e sviluppati, i Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> hanno un vibrante risalto sia nella struttura sia nelle<br />

oasi <strong>di</strong> profonda incisione sulle fonti o sulle tenere emozioni suggerite dalla vicenda. E sono incisioni <strong>di</strong> schietta<br />

[e] ar<strong>di</strong>ta fantasia. Nella scena del “teatrino” al secondo atto, il lirismo zandonaiano culmina nella maggiore<br />

espansività; ed è forse, dei quadri con il richiamo della musica antica, sottolineata da tutto un substrato <strong>di</strong><br />

modernità, il più caratteristico. Senza <strong>di</strong>re degli altri quadri, è da mettere in chiaro questo: che nei Cavalieri <strong>di</strong><br />

<strong>Ekebù</strong> Zandonai ha raggiunto il giusto equilibrio tra gli elementi della scena e quelli dell’orchestra, e, secondo le<br />

opportune incidenze sceniche, con tale misura che emerge ora l’uno ora l’altro. Sotto l’aspetto dei vivaci<br />

contrasti si notano, egualmente <strong>di</strong>sciplinati, il pittoresco, lo spirito drammatico, quello descrittivo, quello lirico.<br />

A un’opera così complessa, Tullio Serafin, che già l’aveva <strong>di</strong>retta al Metropolitan <strong>di</strong> New York, ha<br />

pro<strong>di</strong>gato tutta l’energia della sua maestria, tutto lo spirito della sua fantasia, tutta l’effusione della sua tempra<br />

d’artista. Si è riconosciuto iersera una vigorosa commossa de<strong>di</strong>zione nel nobile intento <strong>di</strong> portare al successo<br />

l’opera, un tale equilibrato slancio drammatico e un tale abbandono <strong>di</strong> verace lirismo, che è parso suo scopo<br />

precipuo d’infondere ai Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> una risorgente vita scenica.<br />

Primeggiò sulla scena il baritono Benvenuto Franci che al finale primo sfoggiò con ar<strong>di</strong>ta espressività le<br />

ampie folgoranti note del registro alto; e poi nel secondo atto modulò il canto a dolcezza <strong>di</strong> mezza voce,<br />

attraverso una incisività <strong>di</strong> sillabazione in particolar modo lodevole. Ché questo grande artista segue i precetti<br />

del suo glorioso maestro, Toto Cotogni, che gl’insegnò che a ben cantare bisogna mettere in valore la parola,<br />

l’accento, la espressività. Senza <strong>di</strong> che è come cantare in un imbuto. Facendo onore al prezioso insegnamento il<br />

Franci <strong>di</strong>segnò e animò la figura <strong>di</strong> Cristiano con tocchi <strong>di</strong> potente rilievo e con gradassi atteggiamenti.<br />

Nella figura complessa e ar<strong>di</strong>tamente espressiva della Comandante, Giuseppina Sani cantò con tutti i moti <strong>di</strong><br />

un’anima in tumulto: bella, armoniosa voce, squillante e <strong>di</strong> bel colore nelle note acute, e sillabazione incisiva. È<br />

da aggiungere che all’efficacia del canto, ella associò uno spirito interpretativo <strong>di</strong> eccezionale rilievo. Fu dunque<br />

una Comandante che scolpì il personaggio, e con la voce <strong>di</strong> questo concorse a esprimere con potente risalto i<br />

vari agitati stati d’animo.<br />

Pia Tassinari cantò nel secondo atto con dolcezza e effusione <strong>di</strong> caldo lirismo. Il tenore José Luccioni<br />

s’infervorò, emettendo forti acuti, nei punti drammatici, ma la sua voce <strong>di</strong>fetta <strong>di</strong> quei chiaroscuri che valgono a<br />

dar varietà <strong>di</strong> colori al canto. Il basso-baritono Filippo Romito conferì alla sua parte incisività d’accenti.<br />

Con responsabilità assolsero il compito loro tutti gli altri: Adolfo Pacini, Alessio de Paolis, Agnese Dubbini,<br />

Millo Marucci, Mario Bianchi, Enzo Titta, Blando Giusti, Nino Mazziotti, Salvatore Romano, Bruno<br />

Sbalchiero, Gino Conti e Giuseppe Taddei.<br />

Il coro, istruito dal valoroso infaticabile maestro Giuseppe Conca, cantò con intonazione e con bell’accento,<br />

e con fusione colorita, recando all’opera il concorso <strong>di</strong> una efficace collaborazione. La messa in scena, affidata a<br />

Carlo Piccinato, fu intonata all’ambiente; e ben <strong>di</strong>stribuite, pittoresche apparvero le figurazioni della massa<br />

corale. Pericle Ansaldo, con quella sua versatilità così pronta e agile, parve assurgere a un deus ex machina della<br />

complessità dell’allestimento scenico. Il maestro Luigi [parte illeggibile] festa <strong>di</strong> colori, i costumi, su figurini<br />

del Colasanti.<br />

Cronaca lieta: molti intensi applausi a fine <strong>di</strong> ogni atto con circa venticinque chiamate complessive al<br />

Serafin, agli interpreti <strong>di</strong> canto e all’autore, festeggiato e acclamato.<br />

267<br />

L[uigi] C[olacicchi], “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, “Il Popolo <strong>di</strong> Roma”, 6.1.1938 - p. 5, col. 6-<br />

7<br />

Fra gli operisti italiani viventi, per così <strong>di</strong>re, a grande tiratura, Riccardo Zandonai è il più giovane ma non il<br />

meno quotato. Non lo battono in popolarità che i maestri della “giovane scuola” Mascagni e Giordano, e, fino a<br />

un certo punto, Cilèa. Ma Zandonai sembra a molti il più “moderno” <strong>di</strong> tutti, il più aggiornato tecnicamente, e<br />

insieme il continuatore <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione che, partendosi da Wagner e dai veristi, giunge fino a noi senza urtare<br />

negli scogli dell’“avanguar<strong>di</strong>a” contemporanea. Zandonai ha insomma un suo pubblico che vede in lui il<br />

genuino rappresentante della modernità bene intesa.<br />

Ecco, per l’appunto: la “Sana modernità”. Zandonai è precisamente l’operista della “sana modernità”; che sa<br />

trattare con scaltrezza l’orchestra, arricchendola <strong>di</strong> tutti i ritrovati della più avanzata strumentazione, nel mentre<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/37


sa esprimersi melo<strong>di</strong>camente me<strong>di</strong>ante un linguaggio fra passionale e sensuale, fra enfatico e raffinato, che<br />

ricorda in qualche modo il verismo e il wagnerismo, senza che sia né l’uno né l’altro, e senza tuttavia che riesca<br />

a definirsi con caratteri fortementi personali. È esso un linguaggio, comunque, non privo <strong>di</strong> commozione, che è<br />

quanto <strong>di</strong>re <strong>di</strong> facoltà liriche; specie quando descrive sentimenti torbi<strong>di</strong> o repressi o in<strong>di</strong>stinti, oppure certe<br />

atmosfere grige e malsane. Non è il linguaggio della gioia e del luminoso amore, come c’insegnano<br />

“Francesca”, “Giuliano” e “Giulietta e Romeo”; e ben lo definì il Rossi Doria allorché trovò che “anche<br />

l’accordo perfetto <strong>di</strong> do maggiore non suona gioioso o compiutamente sereno. Vi si ha sempre il dubbio <strong>di</strong><br />

sottintesi...”. Quando infatti questa musicalità si schiarisce e si alleggerisce, ossia nella “Farsa amorosa”, si ha<br />

un altro Zandonai, meno autentico anche se più fresco e grazioso.<br />

Da quanto si è detto, è facile immaginare che il soggetto tra fiabesco e allucinato dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”,<br />

che ben potrebbero chiamarsi <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> Belzebù per quel clima <strong>di</strong>abolico che alita intorno ad essi e alla loro<br />

Comandante, è un soggetto tipicamente zandonaiano. E invero ci sembra che il nostro compositore vi abbia<br />

trovato materia sufficiente per farvi risaltare la sua natura; una materia così fosca opaca pesante, che al<br />

musicista non ha concesso che raramente <strong>di</strong> abbandonarsi a quei voli melo<strong>di</strong>ci violenti quanto esteriori che si<br />

notano invece <strong>di</strong> frequente in “Giulietta e Romeo” e più ancora in “Giuliano”. In “<strong>Ekebù</strong>” la vena sarà forse<br />

meno ricca e densa che in queste opere e in “Francesca”; ma nei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” ci pare <strong>di</strong> scorgere una<br />

maggiore nobiltà <strong>di</strong> linea, un composto equilibrio <strong>di</strong> tutti i suoi elementi teatrali e musicali.<br />

Per certi motivi <strong>di</strong> ambiente, per certa compattezza <strong>di</strong> forza descrittiva, per certi interventi corali, per certo<br />

martellamento ritmico scoperto o sotterraneo, i “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” ci fanno pensare un poco al “Dibuk” (124) ,<br />

meno realizzato. Vogliamo <strong>di</strong>re che ci troviamo pressappoco sullo stesso piano operistico con personaggi dalla<br />

psicologia complessa e insondabile, avvolta nelle nebbie dell’alcool o nelle brume <strong>di</strong> un passato procelloso. Si<br />

tratta naturalmente <strong>di</strong> impressioni fugaci, suscitate più che altro da analogie momentanee, e alle quali non<br />

vorremmo si desse troppo peso. Resta comunque il fatto che, pur con mezzi musicali più modesti delle altre sue<br />

opere, vale a <strong>di</strong>re con minore ricchezza e slancio <strong>di</strong> melo<strong>di</strong>a, i “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” sprigionano egualmente un<br />

certo potere emotivo: più sensibile, ben inteso, quando siano valori <strong>di</strong> pura musicalità ad assorbire e dominare il<br />

dramma.<br />

In questi casi la felice impressione che può destare il buon taglio d’una scena, l’accostamento <strong>di</strong> due episo<strong>di</strong><br />

contrastanti, l’abile <strong>di</strong>stribuzione del colore ambientale, è fatta più viva e imme<strong>di</strong>ata dal riflesso che tali<br />

coefficienti <strong>di</strong> teatralità hanno nella musica. Come avviene, ad esempio, nel finale corale del primo atto in cui il<br />

tema ritmico dei Cavalieri si afferma imperiosamente, nel finale lirico del secondo, tenero, sentito e notturno<br />

come i più toccanti momenti <strong>di</strong> “Francesca”, nel coro a voci sole del terzo, trapunto dagli svolazzi d’un violino,<br />

nel duetto <strong>di</strong> Giosta e Anna dell’ultimo atto e nel ritorno della Comandante, pure <strong>di</strong> quest’atto. Il finale<br />

dell’opera, con la ripresa del lavoro al ritmo delle incu<strong>di</strong>ni, è invece alquanto esteriore, e ci sembra che non<br />

adempia nemmeno alla sua funzione teatrale.<br />

Opera complessa e <strong>di</strong>fficile, i “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” offrono numerose possibilità <strong>di</strong> spettacolo. E<br />

l’allestimento che ne ha curato ieri il Teatro Reale dell’Opera è stato dei più adeguati che si potesse desiderare, e<br />

senza dubbio uno dei più attraenti dell’attuale stagione. Efficientissima la realizzazione musicale, affidata a<br />

Tullio Serafin, che ha penetrato a fondo lo spirito della partitura, mettendone in luce ogni elemento vocale o<br />

strumentale che avesse una sua ragione <strong>di</strong> particolare rilievo. Efficientissima anche per la partecipazione <strong>di</strong><br />

cantanti valorosi e appropriati quali Giuseppina Sani, che è stata una Comandante <strong>di</strong> risorse ragguardevoli, dalla<br />

voce adatta a quel personaggio e in ispecie dal gioco scenico plastico, possente, efficacissimo, che denota<br />

un’intelligenza interpretativa <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne; Pia Tassinari, in Anna, che è il personaggio lirico femminile,<br />

aderente e commovente; José Luccioni, Giosta, ieri sera in pieno possesso dei suoi robusti mezzi canori come<br />

non mai; e Benvenuto Franci, il sempre possente Franci dalla voce <strong>di</strong> bronzo, semplicemente perfetto nel<br />

Capitano dei Cavalieri.<br />

Assai bene anche Filippo Romito. A una simile efficienza musicale ha infine portato il suo contributo il coro<br />

istruito dal maestro Conca: un coro che ha molto da lavorare, ed ha assolto egregiamente il suo compito,<br />

risultando intonato e vigoroso.<br />

Quanto alla parte scenica dello spettacolo, vi hanno cooperato il regista Carlo Piccinato, che ha trovato nella<br />

molteplicità dei quadri d’insieme, <strong>di</strong> cui l’opera abbonda, materia adatta alla sua sensibilità e alle sue possibilità<br />

<strong>di</strong> affreschista pittoresco; lo scenografo Giorgio Quaroni i cui bozzetti realizzati dal Polidori sono parsi<br />

indovinati soprattutto nel primo e nell’ultimo atto: questo, che rappresenta l’officina e il cortile del castello <strong>di</strong><br />

<strong>Ekebù</strong> immerso in una luce livida da miniera nor<strong>di</strong>ca; e finalmente il <strong>di</strong>rettore dell’allestimento Pericle Ansaldo,<br />

che ha offerto un’ennesima prova della sua fertilità in fatto <strong>di</strong> trovate sceniche e <strong>di</strong> “meccanismi” d’ogni sorta.<br />

Lo spettacolo, al quale assisteva un pubblico numerosissimo, è stato accolto da crescente successo,<br />

concretatosi in venti chiamate complessive all’autore, ai cantanti, al maestro Serafin e al regista.<br />

268<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/38


Vice, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> R. Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, “Il Tevere”, 6-7.1.1938 - p. 3, col. 4-5<br />

La leggenda <strong>di</strong> Gösta Berling <strong>di</strong> Selma Lagerlow [sic] che nell’adattamento librettistico <strong>di</strong> Arturo Rossato<br />

ispirava l’estro <strong>di</strong> Riccardo Zandonai (1925) subito dopo Giulietta e Romeo (1922), è tornata dopo tre<strong>di</strong>ci anni a<br />

rivivere sulle scene del Teatro Reale, sotto la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> Tullio Serafin. La strana Comandante delle miniere <strong>di</strong><br />

<strong>Ekebù</strong> con lo scu<strong>di</strong>scio in mano e la pipa in bocca, l’amore <strong>di</strong> un ex-prete sognatore e bevitore <strong>di</strong> acquavite per<br />

la bionda figlia <strong>di</strong> un uomo-demonio, il fare grottesco dei Cavalieri minatori, gli urli <strong>di</strong> una folla fanatica<br />

imprecante contro il pastore evangelico amante, possono attrarre ed entusiasmare il popolo svedese che<br />

attraverso quelle figure rivede i personaggi tipici delle leggende nazionali, non noi me<strong>di</strong>terranei che dallo spirito<br />

<strong>di</strong> quelle leggende siamo molto lontani, pronti ad entusiasmarci invece per ben altri episo<strong>di</strong>, in cui la passione<br />

umana, innanzi tutto, trovi motivi più adeguatamente realistici per esplodere e giustificarsi, sia pure in tema <strong>di</strong><br />

leggenda. Facendo dunque astrazione dall’episo<strong>di</strong>o romanzesco e fermando l’attenzione sulla parte musicale,<br />

bisogna riconoscere che il maestro trentino ha intuìto perfettamente lo spirito drammatico del libretto e l’ha<br />

ritratto con mano sicura, dando ad un’azione così frammentaria una unità <strong>di</strong> costruzione che la sorregge ed<br />

inquadra nei confini dell’opera in musica. La stessa scena romantica della comme<strong>di</strong>a – teatro nel teatro – che si<br />

svolge nel castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> è incastonata così meravigliosamente nel secondo atto dell’opera da formare con<br />

quello un tutto organico. È questa, senza dubbio, la pagina più bella dello spartito, nella quale, attraverso<br />

l’amore dei giovani amanti, lo Zandonai rivela il suo temperamento caldo e appassionato quale era già apparso<br />

in Francesca e in Giulietta. Il contrasto tra la musica dei Cavalieri – la parte finta della comme<strong>di</strong>a – e la musica<br />

dei protagonisti – la parte reale della comme<strong>di</strong>a stessa – è reso con tale potenza espressiva e con tale unità <strong>di</strong><br />

stile da far pensare ad un vero miracolo <strong>di</strong> tecnicismo musicale.<br />

Se la parte episo<strong>di</strong>ca dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> e l’assenza <strong>di</strong> una vicenda drammatica più intensamente umana<br />

– e quin<strong>di</strong> musicale – potrebbe consentire un’attenuante sulla rarità delle rappresentazioni dell’opera nei teatri<br />

nazionali, non così invece il lato artistico dell’opera medesima, che rivela una costruzione solida e vitale per una<br />

chiara impronta <strong>di</strong> originalità che il compositore ha saputo dare alla sua melo<strong>di</strong>a.<br />

***<br />

Tullio Serafin ha condotto l’orchestra con robusta animazione, penetrando la partitura con animo sempre<br />

aderente allo spirito caricaturale, poetico e drammatico della nor<strong>di</strong>ca leggenda. Pia Tassinari ha interpretato la<br />

parte <strong>di</strong> Anna con appassionato fervore e con voce sicura e pieghevole ad ogni effetto. José Luccioni ha dato<br />

molta enfasi alla parte del pastore evangelico (Gösta) supplendo così alla debolezza del registro me<strong>di</strong>o della sua<br />

voce. Ha espresso il racconto al primo atto con esuberanza passionale e la <strong>di</strong>chiarazione amorosa nel duetto del<br />

secondo atto con impeto drammatico. Giuseppina Sani nella <strong>di</strong>fficile parte della Comandante si è rivelata<br />

un’artista ricca <strong>di</strong> risorse interpretative, benché la voce non possegga potenti vibrazioni sonore. Superiore ad<br />

ogni elogio Benvenuto Franci che nella veste <strong>di</strong> Cristiano ha sostenuto la duplice parte caricaturale e<br />

drammatica dando ad ognuna un potente efficace risalto. Anche Filippo Romito nella veste <strong>di</strong> Sintram si è fatto<br />

molto ammirare per la chiara <strong>di</strong>zione e la voce ampia e sicura. Una lode ad Alessio De Paolis che, oltre a<br />

confermare le sue notevoli qualità <strong>di</strong> cantante, ci ha dato l’illusione perfetta <strong>di</strong> un abile violinista. Al coro<br />

istruito dal maestro Conca spetta un particolare elogio. Gli applausi numerosi alla fine <strong>di</strong> ogni atto, rivolti al<br />

maestro Serafin e agli interpreti, sono <strong>di</strong>venuti più intensi e calorosi quando al proscenio è comparso il maestro<br />

Zandonai.<br />

269<br />

Giorgio Prosperi, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> Zandonai al Teatro dell’Opera, “Il Piccolo”, 6.1.1938 - p. 3, col. 7<br />

Il maggior titolo <strong>di</strong> merito <strong>di</strong> quest’opera è senza dubbio quello d’aver imposto trionfalmente in vari paesi il<br />

nome <strong>di</strong> un musicista italiano; da Riga a Stoccolma, dove essa è considerata ormai come opera nazionale. Sotto<br />

questo punto <strong>di</strong> vista la nostra gratitu<strong>di</strong>ne verso lo Zandonai è veramente vivissima; l’illustre maestro tuttavia<br />

non ce ne vorrà se continuiamo a preferire la sua Francesca e la sua Giulietta, le quali assieme ad una quantità<br />

innegabilmente superiore <strong>di</strong> invenzione musicale realizzano un clima secondo noi più affine allo spirito<br />

dell’autore.<br />

La leggenda nor<strong>di</strong>ca, con la uniformità dei suoi ghiacci e delle sue nebbie e il fuoco nascosto dei suoi<br />

<strong>di</strong>avoli, si fonde dolcemente al tepore me<strong>di</strong>terraneo, senza crolli e senza sussulti; più d’una volta il dramma<br />

prende il sopravvento sulla musica, scendendo più in giù del recitativo fino al declamato: e qui certo niente <strong>di</strong><br />

male; ma il gelo del fiordo assidera i contrasti sentimentali fino a risolverli per naturale liquefazione.<br />

Tuttavia, se non proprio l’unghia del genio, senti qua e là l’esperienza e la classe: il finale del maglio è uno<br />

strumento scenico <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne. Il primo coro dei <strong>cavalieri</strong> non manca <strong>di</strong> potenza e <strong>di</strong> effetto. Occorrerebbe<br />

forse, per valutare tutto nella sua giusta misura, una esecuzione eccezionale sotto ogni punto <strong>di</strong> vista; quella <strong>di</strong><br />

iersera fu purtroppo solo normale, che non è poco date le <strong>di</strong>fficoltà della partitura; ma non è nemmeno<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/39


moltissimo. Il tenore Luccioni, attore eccellente <strong>di</strong>sciplinato, volonterosissimo, possiede una voce <strong>di</strong> ottimo<br />

timbro ma <strong>di</strong> eccessiva uniformità: i suoi interventi si somigliano tutti, senza <strong>di</strong>stensione []; Pia Tassinari e<br />

Benvenuto Franci furono le due figure più a posto: ottima voce, ottima scena specie il Franci che la dominò in<br />

lungo e in largo col canto e coi movimenti; Giuseppina Sani, che <strong>di</strong>spone <strong>di</strong> mezzi senza dubbio adattissimi alla<br />

figura <strong>di</strong> Comandante, attese gran parte del primo e del secondo atto per metterli totalmente in valore; Filippo<br />

Romito, Sintram, alternò momenti <strong>di</strong> pieno convincimento a qualche ritardo dell’azione sul canto. Eccellente<br />

sotto ogni punto <strong>di</strong> vista fu la compagine dei Cavalieri e delle Fanciulle. In compenso <strong>di</strong> qualche perdonabile<br />

incertezza nella schiera dei protagonisti, registriamo invece stavolta con piena sod<strong>di</strong>sfazione il perfetto<br />

allestimento dello spettacolo. Eccellenti le scene del Quaroni, specie quelle del primo ed ultimo atto, d’un<br />

lievissimo senso fiabesco; ben inquadrata ed equilibrata la regìa <strong>di</strong> Piccinato; il maestro Tullio Serafin fu il<br />

consueto forte trascinatore del complesso vocale e orchestrale. In complesso uno spettacolo più che<br />

sod<strong>di</strong>sfacente, che il pubblico mostrò <strong>di</strong> gra<strong>di</strong>re sinceramente, se si considerano i numerosissimi applausi e le<br />

calorose manifestazioni <strong>di</strong> simpatia tributate personalmente all’autore.<br />

270<br />

Francesco Mecheri, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” triomphent au Royal dans une admirable é<strong>di</strong>tion, “L’Italie”,<br />

7.1.1938 - p. 1, col. 1-2-3-4<br />

Devant un public d’exception, la Direction du Royal nous a présenté hier une é<strong>di</strong>tion superbe de ces<br />

“Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” du maestro Riccardo Zandonai, opéra qu'on avait le tort d’oublier pendant trop de temps,<br />

puisq'il ne parissait plus sur nos scènes depuis dex-sept (125) années.<br />

Certes, le livret que l’illustre compositeur de <strong>Rovereto</strong> a choisi pour l’enrichir de notes suggestives – et que<br />

le poète Arturo Rossato a tiré avec un sens aigu d’une légende norvégienne [!] de Selma Lagerlöf – présente des<br />

<strong>di</strong>fficultés insurmontables, tellement il reste loin de notre sensibilité latine.<br />

Car les personnages qui vivent cette espèce de "saga", même s’ils sont campés avec une vigueur puissante,<br />

nous laissent en général in<strong>di</strong>fférents pour tout ce qu'ils font, et bien rarement arrivent à nous émouvir.<br />

Comment pourrait-on admettre chez nous qu’un ivrogne tel que ce malhereux Gösta Berling puisse frapper<br />

le cœur d’une âme câline et douce, de cette Anna – la figure la mieux réussie du drame C’est vrai qu'avant<br />

d’arriver à un tel état de compréhension, il y a entre les deux – au deuxième acte, dans la scène du "teatrino" –<br />

un <strong>di</strong>alogue dont il serait injuste de ne pas reconnaître la ravissante chaleur. Et puis, dans cet acte nous trouvons<br />

un Gösta admirablement transformé par les soins de cette curieuse heroïne qu'est la “Commandante”. Mais tout<br />

cela est-il suffisant pour enflammer d’amour une jeune fille si pure et rêveuse Nous nous permettons de ne pas<br />

le croire. Et ces drôles de types que sont ces chevaliers, ne vous paraissent-ils pas assez ingrats envers leur<br />

bénéficatrice – car, au fond, ils sont des râtés – lorsq'ils l’insultent et la menacent de mort, jusqu'au point de la<br />

forcer à abandonner le champ<br />

Nous estimons vivement à cet égard que l’œuvre de rédemption entreprise par cette Commandante – qui,<br />

d’ailleurs, est une femme dans le vrai sens du mot, et non pas une sainte – ne peut pas avoir fait d’eux des êtres<br />

séraphiques, capables de la renier au moment où ils connaissent l’origine de toutes ses richesses. Nous ne voyon<br />

en eux que des ingrats! Et pour l’admiration que nous avons pour le réalisme sur la scène, nous préférons de ne<br />

pas vous parler de cette ignobile figure de Sintram, le père d’Anna – le personnage le plus pbscur que nous<br />

ayons jamais vu – qui nous fait tout simplement rire, tellement son apparition soudaine en <strong>di</strong>able nous laisse au<br />

troisième acte incrédules.<br />

L’unique belle scène du drame – nous entendons le drame en prose, non le livret de M. Rossato, qui d’une<br />

matière si âpre a tiré un vrai "miracle" d’adaptation lyrique – reste à notre avis la mort de la Commandante. Ici,<br />

enfin, nous nous trouvons en présence de personnages humains: ici nous commençons à comprendre la beauté<br />

trop cachée de cette œuvre. Un peu tard, si l’on veut!<br />

Le sujet donc est d’une froideur glaciale. Tout autre musicien que M. Zandonai n’y aurait pas vu son affaire.<br />

Mais notre illustre compositeur s’est senti plus sûr que les autres, a fait la tentative et avec ses mélo<strong>di</strong>es<br />

harmonieuses et fougueses en même temps a sauvé l’opéra.<br />

Il y a, en effet, dans cette partition, des pages d’une beauté supérieure, où vous pouvez facilement vous<br />

apercevoir jusqu'à quel haut degré peut arriver la veine inépuisable d’un musicien de génie.<br />

En M. Zandonai – nous sommes hereux de le constater une fois de plus – plusiers talents sont réunis<br />

ensemble. Car non seulement ce maestro a une sensibilité particulière au point de vue mélo<strong>di</strong>que, mais il est<br />

aussi un symphoniste d’une puissance unique et de même un savant polyphoniste.<br />

En outre, il connait à la perfection l’orchestre et sait quels miracles on peut avoir de tour instruments, soit<br />

seul soit à l’unisson.<br />

Quelques pages, telles que la “Chanson des Chevaliers” au premier acte, le duo d’amour entre Gösta et Anna<br />

au deuxième, l’invective des Chevaliers et la réponse de la Commandante au troisième, et enfin la sublime scène<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/40


le ma Mort de celle-ci, ne peuvent d’aucune façon laisser in<strong>di</strong>fférent tout esprit doué d’un minimum de<br />

sensibilité, mais au contraire enthousiasment ceux qui comprennent les vraies beautés d’une musique originale<br />

et toujours chaude ed émouvante.<br />

L’exécution que le Royal nous a offerte nous a parue <strong>di</strong>gne de son nom. Mme Giuseppina Sani a été une<br />

Commandante douée d’une énergie virile et a chanté constamment avec un équilibre propre de sa haute classe;<br />

Mme [!] Luccioni a été de son côté un Gösta efficace et riche en expressions romanesques et dramatiques. Mme<br />

Pia Tassinari a donné une nouvelle preuve de son talent multiforme d’artiste consciente de sa noble mission.<br />

Nous ne pouvons absolument <strong>di</strong>re aucun bien de M. Franci, qui n’a fait que crier et gesticuler d’une façon<br />

horrible, sans jamais donner l’impression d’avoir pénetré le rôle qu'on lui avait confié.<br />

M. Tullio Serafini [sic] a <strong>di</strong>rigé les “Cavalieri” avec le zéle qui lui est habituel et qui fait de lui la meilleure<br />

baguette que nous ayons désormais chez nous.<br />

M. Carlo Piccinato a été un régisseur qui a bien mérité nos louanges.<br />

Dignes d’éloges sont aussi les décors de M. Polidori et les costumes sur manchettes de M. Colasanti.<br />

L’auteur a été évoqué plusieurs fois à la rampe avec les interprètes et les autres organisateurs de cette belle<br />

soirée.<br />

[...]<br />

271<br />

Mario Rinal<strong>di</strong>, [La musica a Roma - Teatro Reale dell’Opera], “Rassegna dorica” IX/4, 20.2.1938 - p. 69<br />

Riccardo Zandonai è tornato al Teatro Reale con i Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, opera che non si rappresentava a<br />

Roma da vario tempo ma che possiede pagine <strong>di</strong> valore come quella della recita al 2° atto e come tutto il 3° atto<br />

che, nel suo complesso, forma un quadro <strong>di</strong> interesse musicale non comune. Il romanticismo dello Zandonai si<br />

palesa in questo lavoro più nel lato fantastico che in quello sentimentale e questo va a onore dell’autore il quale<br />

avrebbe certamente meglio espresso musicalmente il romanzo originale se il Rossato avesse compiuto una<br />

rifusione più fedele. Ottima l’esecuzione <strong>di</strong>retta con calore dal Serafin. Sono stati applau<strong>di</strong>ti la Sani, la<br />

Tassinari, il Luccioni e il Franci.<br />

272<br />

Renzo Rossellini, I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, “Il Messaggero”, 15.1.1954 - p. 3, col. 7-8-9 (con una foto <strong>di</strong> Gianna<br />

Pederzini in costume <strong>di</strong> scena)<br />

Esiste anche il “caso Zandonai”: quello <strong>di</strong> un compositore, ossia, che aveva tutti i titoli e tutte le qualità per<br />

essere uno dei provvi<strong>di</strong> continuatori della tra<strong>di</strong>zione operistica italiana. A venticinque anni era già un autore<br />

noto: con il “Grillo del focolare”, sua prima fatica, più ancora con “Conchita”, si era rivelato musicista<br />

agguerrito, <strong>di</strong> idee personali, d’un fiuto teatrale infallibile. A ventotto anni Zandonai già dava il suo capolavoro:<br />

la “Francesca da Rimini”, che è una grande opera, una delle più belle dei nostri tempi. Poi, pur con alterna<br />

fortuna ma sempre con maestria <strong>di</strong> linguaggio, vennero altri spartiti a testimoniare la ricchezza inventiva del<br />

compositore. Ebbe sostenitori autorevoli, amici fervi<strong>di</strong>, un e<strong>di</strong>tore che credette in lui; le sue opere stavano già<br />

entrando nella coscienza e nel gusto del pubblico, quando, a poco a poco, ogni cosa rientrò nell’ambito della<br />

normalità, si andò sbiadendo il nome che aveva suscitato sicure speranze, vivaci interessi.<br />

Ecco il “caso Zandonai”: rientra come un modellino, aderisce come uno stampo a tutti gli aspetti della crisi<br />

teatrale italiana. La decadenza <strong>di</strong> Zandonai cominciò <strong>di</strong> colpo appena si mo<strong>di</strong>ficarono le strutture organizzative<br />

del nostro teatro, quando dalla iniziativa privata si passò a forme <strong>di</strong>fferenti <strong>di</strong> amministrazione, dove gli<br />

interventi presero altra fisionomia, nuovi criteri si sostituirono a quelli esistenti e l’in<strong>di</strong>viduo soggiacque alla<br />

collettività. Da allora, nel nostro teatro, la confusione dei valori, con la conseguenza – che proprio gli autori<br />

contemporanei maggiormente soffrirono – <strong>di</strong> livellare ogni nome, ogni opera, <strong>di</strong> rendere tutto in<strong>di</strong>fferente al<br />

pubblico e molte cose spesso intollerabili. Il fatto più deprecabile nel campo dell’arte è la politica del<br />

contentino, quella politica che, attraverso la "rotazione" in<strong>di</strong>scriminata <strong>di</strong> opere e <strong>di</strong> autori, senza tenere in<br />

debito conto il valore, è <strong>di</strong>venuta la pericolosa regola dei nostri teatri.<br />

Lunga premessa per venire a parlare dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” e che varrebbe per non poche opere del<br />

repertorio moderno italiano. Perché, appunto, uno spartito come questo, che dovrebbe normalmente<br />

familiarizzare col pubblico, rappresenta invece un avvenimento <strong>di</strong> carattere spora<strong>di</strong>co, sul quale si possono<br />

ancora accendere delle <strong>di</strong>scussioni. Da un consuntivo tanto magro il critico è costretto a trarre argomento per la<br />

sua azione <strong>di</strong>vulgatrice, nella speranza sempre che le cose finiscano per mo<strong>di</strong>ficarsi nel senso in<strong>di</strong>cato dalla<br />

giustizia. Ed eccoci dunque a parlare <strong>di</strong> un lavoro che ha una lunga ed anche gloriosa storia, ormai ignorata.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/41


Settimo dei lavori teatrali <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, lo spartito dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” vide la luce al Teatro<br />

alla Scala nel 1925, sotto la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> Arturo Toscanini che ne fu il primo, genialissimo interprete.<br />

L’argomento dell’opera, ricavato da un famoso romanzo <strong>di</strong> Selma Lagerlof [sic] – la “Leggenda <strong>di</strong> Gösta<br />

Berling” – se presentava da un lato alcune lacune nella caratterizzazione e fisionomia dei personaggi, a volte<br />

contrad<strong>di</strong>ttori nei loro sentimenti, offriva al musicista larghe possibilità per cementare, in una partitura <strong>di</strong> grande<br />

impegno coloristico, la somma delle sue esperienze <strong>di</strong> uomo <strong>di</strong> teatro e <strong>di</strong> sinfonista.<br />

I “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” furono per il loro autore una cosciente prova delle proprie forze, un tentativo<br />

ponderato e risoluto <strong>di</strong> dare un nuovo impulso, pur conservando le linee tra<strong>di</strong>zionali <strong>di</strong> una espressione fondata<br />

sul canto, al melodramma italiano. La volontà <strong>di</strong> allargare gli orizzonti delle vedute teatrali è evidente: la<br />

scrittura si fa intensa e complessa <strong>di</strong> elementi fioriti dalle più certe esperienze della musica del tempo. Una<br />

coralità che quasi potrebbe <strong>di</strong>rsi alla Moussorgsky, alimentata da un sinfonismo che sembra <strong>di</strong>stillato dalle<br />

migliori vinacce straussiane, prepara il tessuto sonoro sul quale va ad impiantarsi il canto, d’una coerenza e <strong>di</strong><br />

una schiettezza tipicamente nostrane. Gli aspetti salienti e vari del teatro musicale moderno sono dunque<br />

riassunti nel tentativo estremo <strong>di</strong> cementarli attraverso una concezione unitaria dell’opera lirica. Impresa degna<br />

<strong>di</strong> un musicista che preferiva ai facili successi del conformismo i rischi e le incognite <strong>di</strong> un cammino solitario,<br />

da percorrere con passo ar<strong>di</strong>to fino alla mèta.<br />

Il valore dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” è tutto qui: possono i personaggi dell’opera, attenuati dalle poetiche<br />

nebbie <strong>di</strong> questa saga nor<strong>di</strong>ca, essere più o meno conseguenti, <strong>di</strong>ciamo anche più o meno simpatici, quin<strong>di</strong><br />

comunicativi al gran pubblico, può l’azione risultare <strong>di</strong>stante dalla sensibilità realistica del nostro mondo, ma la<br />

musica si afferma e si espande con un vigore straor<strong>di</strong>nario, esprime la certezza dei sentimenti, il calore <strong>di</strong> un<br />

umano, sentito linguaggio. Trascorrono le ore dello spettacolo piacevoli e rapide: l’interesse non langue mai,<br />

l’emozione arricchisce le suggestioni che scaturiscono dalla coloritissima partitura. E poi bastano la scena del<br />

“Teatrino”, il Natale dei Cavalieri, la morte della Comandante a garantire la ricchezza dell’opera, il suo <strong>di</strong>ritto<br />

alla vita.<br />

Esecuzione amorevole, appassionata, convinta: a cominciare dal maestro Oliviero De Fabritiis, che è stato un<br />

concertatore stupendo della complessa partitura, un animatore intelligente, sensibile ed ispirato dello spettacolo,<br />

tutti gli interpreti hanno sod<strong>di</strong>sfatto la complessità dei ruoli loro affidati. Gianna Pederzini nella parte della<br />

“Comandante” che è figura preminente dell’opera, ha offerto un’altra suggestiva prova del suo talento<br />

drammatico, della sua de<strong>di</strong>zione all’arte: è stata felice in ogni gesto e per ogni accento. La giovane Rina<br />

Malatrasi ha cantato con calorosa emozione ed ha avuto emissioni <strong>di</strong> bello smalto e sicura musicalità. Pieno <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>gnità vocale il tenore Mirto Picchi; efficaci per la gustosa caratterizzazione dei personaggi il Malaspina ed il<br />

Cassinelli. Il coro ha magistralmente cantato: il merito del suo vigoroso intervento va anche all’autorevole<br />

istruttore maestro Giuseppe Conca. Successo caloroso, con applausi a scena aperta, numerose chiamate al<br />

termine <strong>di</strong> ciascun atto.<br />

273<br />

Guido Pannain, I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, “Il Tempo”, 15.1.1954 - p. 3, col. 8-9<br />

Nella vita artistica <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, il periodo che segue imme<strong>di</strong>atamente la Francesca da Rimini<br />

segna un momento <strong>di</strong> particolare <strong>di</strong>sagio. L’artista, che nel teatro lirico aveva mostrato <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>re una sua<br />

parola schietta, avrebbe dovuto raccogliersi, attendere, me<strong>di</strong>tare. Invece fu trascinato ad operare da interessi<br />

pratici e professionali che sono, per definizione, contrastanti con quelli dell’arte. Così che, d’allora in poi, egli si<br />

trovò in perenne conflitto con se stesso: l’anima d’artista ch’era in lui, tolta alla tranquillità della<br />

contemplazione e spinta ad attingere méte a cui repugnava; l’uomo <strong>di</strong> teatro, il professionista del teatro, vòlto<br />

alla ricerca <strong>di</strong> risultati utilitari, in ogni caso estranei alla sfera dell’arte.<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> risentono <strong>di</strong> questo interiore e drammatico <strong>di</strong>sagio. È un’opera sostanzialmente mancata<br />

perché manca d’interiore necessità, ma è insieme ricca <strong>di</strong> pregi musicali. E questa non sembri una<br />

contrad<strong>di</strong>zione, perché l’artista ch’era nel fondo, pur sonnecchiando (quandoque bonus...) non poteva mancare<br />

<strong>di</strong> essere vigile e presente ad attingere, a tratti, risultati considerevoli.<br />

Nel modo in cui fu ridotta a opera <strong>di</strong> teatro, la Leggenda <strong>di</strong> Giosta Berling <strong>di</strong>venta un dramma incoerente. I<br />

personaggi e le situazioni che hanno luogo per loro hanno una vita scenica priva <strong>di</strong> nessi e <strong>di</strong> spirituale<br />

consistenza. Ognuno va per conto suo e nessuno trova la via <strong>di</strong> un’adeguata rappresentazione. La Comandante<br />

ha un suo dramma, che è un dramma morale, e Anna e Giosta anche ne hanno uno proprio, che è un dramma <strong>di</strong><br />

amore. Tra questi due drammi, messi l’uno accanto all’altro senza ragione estetica, non c’è rapporto: o meglio<br />

ce n’è uno, ma in superficie, artificioso e <strong>di</strong>staccato, che non incide sull’anima onde il personaggio rimane<br />

sospeso nel vuoto, senza vita, come un manichino. Le faccende della Comandante non interessano Anna e<br />

Giosta e viceversa; e non interessano, cioè non commuovono, lo spettatore e neppure il musicista. Anzi, meno <strong>di</strong><br />

tutti il musicista; come altra volta, invece, lo avevano interessato e commosso il travaglio nevropatico <strong>di</strong><br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/42


Conchita e “la pietà dei duo cognati” che, grazie alla musica, si configurarono in dramma. E andrei anche un<br />

tantino in<strong>di</strong>etro perché del buono c’è anche nella <strong>di</strong>menticata Melenis.<br />

Ora è appunto il musicista, nei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, che, più avveduto dell’uomo <strong>di</strong> teatro, non si lascia<br />

fuorviare dalla falsa retorica librettistica e, abilmente aggirandola, volge la sua attenzione al particolare e<br />

all’episo<strong>di</strong>o e se lo lavora con innamorata raffinatezza <strong>di</strong> artefice. Così elabora un tessuto orchestrale <strong>di</strong> tale<br />

efficace sobrietà e colorita varietà da valere <strong>di</strong> modello e d’insegnamento. E venne fuori un canovaccio <strong>di</strong><br />

episò<strong>di</strong> deliziosi quali l’inizio dell’opera, degno della tavolozza <strong>di</strong> Rimsky-Korsakof; la pittoresca scena della<br />

rappresentazione nel Castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, con la stupenda intuizione timbrica d’un violino che s’inserisce<br />

armonicamente fra timbri eterogenei; il Coro del Natale, anch’esso cullato al suono del violino <strong>di</strong> Liecrona<br />

(pensare che il librettista l’aveva chiamato “il suon delle budella conce”!); il tragico coro del derelitto popolo <strong>di</strong><br />

<strong>Ekebù</strong> al quarto atto, sorretto da uno svolgimento sinfonico <strong>di</strong> singolare ampiezza. Invece quanta retorica<br />

nell’amoroso sgolarsi <strong>di</strong> Giosta e Anna, quanta precarietà <strong>di</strong> atteggiamenti nella parte della Comandante, quale<br />

vacuità d’accenti nell’esibirsi <strong>di</strong> un preteso <strong>di</strong>avolo che né meno nel cuore dell’indulgentissimo Papini, credo,<br />

troverebbe clemenza.<br />

L’opera <strong>di</strong> Zandonai ha avuto, al Teatro dell’Opera, un’accuratissima e forbita esecuzione soprattutto per<br />

quanto riguarda la concertazione e la <strong>di</strong>rezione del maestro Oliviero De Fabritiis che, secondato dalla valorosa<br />

orchestra, ha presentato la mirabile partitura in tutta la sua cesellata raffinatezza. Gianna Pederzini è stata, nella<br />

parte della Comandante, la vigorosa attrice che abbiamo sempre ammirata. Sempre opportuna <strong>di</strong> atteggiamento e<br />

<strong>di</strong> pronunzia, guardatela, al finale, <strong>di</strong>sfatta e morente, come ella appare trasfigurata. La parte <strong>di</strong> Giosta ha<br />

trovato nella voce <strong>di</strong> Mirto Picchi accenti puri e generosi, e il basso Antonio Cassinelli ha fatto il possibile per<br />

dare consistenza al <strong>di</strong>abolico Sintram, con robustezza vocale <strong>di</strong> raro pregio. Esuberante Cristiano il baritono<br />

Malaspina; opportunamente intonato Mariano Caruso nella parte <strong>di</strong> Liecrona. Per non turbare l’armonia delle<br />

lo<strong>di</strong> dovrei tacere della parte <strong>di</strong> Anna, affidata a Rina Malatrasi, un sopranino dalla voce <strong>di</strong>seguale e sgradevole.<br />

Del coro basterà <strong>di</strong>re che è stato istruito dal maestro Conca.<br />

274<br />

Nino Piccinelli, Nevi <strong>di</strong> Svezia sulle avventure dei “Cavalieri” - L’opera <strong>di</strong> Riccardo Zandonai ha avuto sulle<br />

scene romane la superba interpretazione <strong>di</strong> Gianna Pederzini, “Momento Sera”, 16.1.1954 - p. 3, col. 6-7-8-9<br />

(con un <strong>di</strong>segno che ritrae G. Pederzini nel ruolo della Comandante)<br />

Dal romanzo della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, La Saga <strong>di</strong> Gösta Berling, Arturo Rossato trasse il<br />

libretto dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, mentre Riccardo Zandonai <strong>di</strong>ede espressione musicale alla poesia nostalgica<br />

della poetessa svedese.<br />

L’eroe della vicenda, Gösta Berling, è l’uomo che incarna tutta la fantasia sbrigliata: pronto in un momento<br />

d’oblio, sotto l’impulso delle libazioni, della musica e della danza, a sfrenarsi e ad essere vittima delle<br />

tentazioni, per soffrire poi <strong>di</strong> tutta la tristezza e <strong>di</strong> tutti gli scrupoli che le brume invernali nor<strong>di</strong>che sanno destare<br />

nell’anima svedese dai multipli aspetti, nelle ore <strong>di</strong> riflessione.<br />

Il filo che unisce l’azione è costituito dagli avventurosi Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, galanti e spensierati, armoniosa<br />

coincidenza <strong>di</strong> “simbolismo e <strong>di</strong> lirismo, <strong>di</strong> attaccamento al suolo della patria e nello stesso tempo <strong>di</strong> spirito <strong>di</strong><br />

avventura, il tutto dominato da quell’indolenza e noncuranza incorreggibile che fu la causa maggiore della<br />

devastazione <strong>di</strong> tanti patrimoni <strong>di</strong> famiglie aristocratiche svedesi”.<br />

La leggenda è dominata dalla figura <strong>di</strong> una donna, vera <strong>di</strong>scendente delle eroine delle antiche Saghe, fatta <strong>di</strong><br />

forza, <strong>di</strong> spirito <strong>di</strong> organizzazione e nello stesso tempo dama e donna: vera incarnazione <strong>di</strong> un personaggio<br />

nazionale che ha il suo posto nella storia della Svezia. Vestita <strong>di</strong> pelliccia <strong>di</strong> montone, stivali e frustino, energica<br />

Comandante, Signora delle ferriere, quin<strong>di</strong> donna benefica e donna <strong>di</strong> società festosamente banchettante: capace<br />

oggi <strong>di</strong> o<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> <strong>di</strong>sprezzo, capace domani <strong>di</strong> mettere a nudo il pentimento del suo cuore.<br />

Il trasparente tessuto che fa da sfondo all’azione dei personaggi è un intreccio delle pittoresche Saghe della<br />

nevosa Svezia: racconti dove l’anima svedese, inquieta, silenziosa, allucinata da chimere, impasto <strong>di</strong> fantasia e<br />

<strong>di</strong> realtà, vi è espressa in tutta la sua complessità.<br />

L’umanità <strong>di</strong> Gösta, con tutti i suoi errori e le sue follie, la bizzarria dei Cavalieri, bohémiens <strong>di</strong>seredati e<br />

sperduti, l’amore <strong>di</strong> Gösta e <strong>di</strong> Anna e soprattutto l’imponente ed energica figura della Comandante – “creatura<br />

mai doma, che un bel giorno, scacciata dalle sue officine, vi ritornerà morente, portando ancora in sé il fuoco<br />

sacro che ridarà calore e vita alle miniere deserte, e riaccenderà la speranza nel cuore dei Cavalieri” – hanno<br />

particolarmente interessato la fantasia musicale <strong>di</strong> Riccardo Zandonai; e non avendo potuto attingere dal<br />

folklore la sostanza musicale per ambientare la vicenda, egli tentò – e in parte vi riuscì – <strong>di</strong> creare la necessaria<br />

atmosfera dove potessero respirare tutti i complessi personaggi della Saga.<br />

L’elemento lirico pervade e agita tutta la partitura e i pezzi d’assieme sono quelli che maggiormente<br />

predominano. Il <strong>di</strong>scorso musicale è chiaro, anche se talvolta tende alla esaltazione melo<strong>di</strong>ca. Di bell’effetto la<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/43


soave nenia <strong>di</strong> Natale e <strong>di</strong> giusto equilibrio sonoro l’invocazione collettiva che precede il ritorno della<br />

Comandante morente: un inno gran<strong>di</strong>oso che si eleva e prende forza al ritmo del maglio sull’incu<strong>di</strong>ne ed al<br />

rianimarsi delle officine ed al moto delle macchine.<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> furono rappresentati per la prima volta, sotto la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> Toscanini, alla Scala la sera<br />

del 7 marzo 1925, e nella stagione successiva vennero dati a Roma (126) .<br />

In occasione della recente riesumazione dell’opera fatta a Trento per celebrare il geniale musicista, in una<br />

nostra nota (127) consigliavamo gli Enti lirici a togliere dall’immeritato ed ingiusto oblìo un lavoro tuttora vitale.<br />

Il ritorno dei Cavalieri sulle scene del Teatro dell’Opera è stato salutato ieri sera dal vivo consenso del<br />

pubblico.<br />

Sotto la <strong>di</strong>rezione vigile e sensibile del maestro Oliviero De Fabritiis, la partitura zandonaiana ha trovato la<br />

sua adeguata e chiara potenza espressiva.<br />

Gianna Pederzini, nelle vesti della Comandante, ci ha offerto un altro saggio del suo eccezionale<br />

temperamento <strong>di</strong> cantante-attrice, trasfondendo nel complesso personaggio l’inesauribile ed inconfon<strong>di</strong>bile<br />

gamma espressiva della sua sensibilità artistica e musicale: potente e prepotente nell’atteggiamento del<br />

comando, ardente e accorata nell’invettiva, dolce, suadente, sofferente nel pentimento e trasfigurata nella morte.<br />

Il lirismo del linguaggio zandonaiano ha trovato nella bella voce <strong>di</strong> Rina Malatrasi (Anna) piena rispondenza<br />

<strong>di</strong> calore e <strong>di</strong> colore. Ecco un’artista che vorremmo riascoltare sulle nostre scene. Mirto Picchi è stato un<br />

efficace Giosta, anche se un poco <strong>di</strong>scontinuo nel canto. Esuberante più nell’azione scenica che nella voce<br />

Giampiero Malaspina; abbastanza composti Antonio Cassinelli, Vito Susca, Gianna Borelli e Mariano Caruso.<br />

Buona in complesso la regìa <strong>di</strong> Riccardo Moresco; ma nel finale, quando, all’arrivo della Comandante<br />

morente, le officine e il maglio si rianimano, e al canto dell’incu<strong>di</strong>ne si eleva l’inno alla vita, al lavoro, il<br />

movimento delle masse non ha certo assecondato l’esplosione sonora dell’orchestra. Ottimo il coro istruito dal<br />

maestro Conca. Molti applausi a scena aperta e alla fine <strong>di</strong> ogni atto.<br />

275<br />

Luigi Pizzuti, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”, “Il Paese”, 15.1.1954 - p. 3, col. 6-7-8<br />

Gli epigoni wagneriani nostrani, fra i quali indubbiamente è Zandonai, non hanno mai saputo separarsi<br />

completamente dalle ra<strong>di</strong>ci del melodramma ottocentesco. Il melodramma, per intenderci, che Wagner con<br />

malanimo soleva chiamare “Donizetti & C”. Si sono mossi così in un permanente equivoco, fra un sistema male<br />

acquisito e peggio adottato, <strong>di</strong>fforme alla natura loro e l’amarezza <strong>di</strong> chi guarda alla cosa ripu<strong>di</strong>ata con<br />

nostalgia. In fondo, ma non per tutti o almeno in vario grado fra i tanti della schiera, una insufficienza si<br />

denuncia quale origine del loro <strong>di</strong>sorientamento ed è quella <strong>di</strong> non saper cantare con abbandono ben educato,<br />

con stile. A complicare vieppiù le cose, Zandonai, questo Zandonai dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”, per aspirazione a<br />

modernizzare i proce<strong>di</strong>menti compositivi a specchio con quello che si mostrava altrove con ben altra vali<strong>di</strong>tà,<br />

introduce nuovi elementi nella miscela che se ne raffredda e insipisce.<br />

Che cosa ci <strong>di</strong>ce lo Zandonai dei “Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” Parole, parole, parole. Alla fine dell’opera nulla<br />

rimane se non una gran noia. La leggenda <strong>di</strong> Giösta [sic] Berling <strong>di</strong> Selma Lagerlöf, spoglia <strong>di</strong> quella sua<br />

misteriosa poesia nor<strong>di</strong>ca, presta una trama banale per una mera successione <strong>di</strong> episo<strong>di</strong>, unica evidente<br />

aspirazione dell’operista. La musica dovrebbe almeno colorire, sottolineare gli episo<strong>di</strong> cruciali del dramma,<br />

creare l’ambiente lirico, invece si pregia in una stagnante minuteria <strong>di</strong> suoni in preziosità <strong>di</strong> moda, con una<br />

inesorabile e compunta continuità da mortificare la pazienza del più rassegnato degli spettatori. È inutile<br />

attendere il momento culminante, un risveglio purchessia, un elemento <strong>di</strong> rilievo, qualcosa insomma che ti<br />

scuota dal sopore col quale sei impegnato in una strenua lotta.<br />

Ora si <strong>di</strong>rà: ma perché il Teatro dell’Opera mette in scena tali opere Noi non lo sappiamo. Non è la prima<br />

né l’ultima: altre se ne annunciano. Congetture se ne fanno tante, ma chi può affermare qualcosa Viene notato<br />

solo che la Direzione dell’Opera sembra essere animata da una pietosa mania soccorrevole verso le cose <strong>di</strong> poco<br />

conto, che è lodevole <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> animo, ma solo per il fine caritatevole. Non finirà il Teatro dell’Opera per<br />

<strong>di</strong>ventare un Pio Istituto per il soccorso dei minori La rappresentazione, costosa rappresentazione <strong>di</strong> molti<br />

milioni, ha avuto come concertatore e <strong>di</strong>rettore Oliviero de Fabritiis, ben noto al pubblico <strong>di</strong> Roma perché si<br />

debba spendere parole in favore della sua accortezza; maestro del coro, che si è ben <strong>di</strong>stinto, Giuseppe Conca, e<br />

regista Moresco, il quale non sempre si è sforzato <strong>di</strong> rendere quella possibile elementare verosimiglianza che<br />

sempre occorre raggiungere per non mettere a dura prova l’amore per il melodramma con il buon senso. Dalle<br />

scene, curate dal Cruciani, abbiamo riportato la sola ammirazione della serata, quella che ci è venuta dalla scena<br />

della fucina del castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, abbozzata da G. Giacomo Colombo nella visione <strong>di</strong> una pittura fiamminga del<br />

seicento. No, bisogna aggiungere che anche Gianna Pederzini si è fatta ammirare per quella sua capacità scenica<br />

<strong>di</strong>sinvolta e appropriata, talvolta un po’ cachet ma indubbiamente efficace per stile, vivacità e prontezza,<br />

specialmente se si riferisce ai mo<strong>di</strong> comuni degli altri attori, che tuttavia, occorre <strong>di</strong>rlo, in questo caso sono stati<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/44


in un livello abbastanza <strong>di</strong>gnitoso. Citiamo dunque Mirto Picchi che è stato un ottimo Giösta Berling e Rina<br />

Malatrosi [sic] nella dolce parte <strong>di</strong> Anna, ambedue generosi per ren<strong>di</strong>mento vocale e tutti gli altri dal Cassinelli<br />

al Malaspina, dal Susca al Caruso e alla Borelli nelle parti <strong>di</strong> fianco.<br />

L’opera ha riscosso un successo <strong>di</strong> stima che si è manifestato con applausi al Direttore e agli interpreti.<br />

276<br />

G. Sciacca, “I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”, “Il Quoti<strong>di</strong>ano”, 15.1.1954 - p. 5, col. 6-7<br />

Si <strong>di</strong>rebbe che il Teatro dell’Opera abbia voluto, quest’anno, giocare dei brutti tiri ai nostri musicisti da poco<br />

scomparsi.<br />

Dopo il cattivo servizio reso a Wolf-Ferrari con la rappresentazione de “I gioielli della Madonna”, la sua<br />

unica opera veramente fallita fra le tante graziosissime da lui composte – anche prescindendo dal suo<br />

capolavoro “I quattro rusteghi” –, ecco che ora è la volta <strong>di</strong> Riccardo Zandonai, con la ripresa de “I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>Ekebù</strong>”.<br />

Riccardo Zandonai non fu certo un musicista <strong>di</strong> talento quanto Wolf-Ferrari ma anch’egli, tuttavia, fra le<br />

<strong>di</strong>verse opere scritte, ne ha alcune che, pur non potendosi definire capolavori del teatro lirico, sono pur sempre<br />

rappresentabili per una certa <strong>di</strong>gnità <strong>di</strong> mestiere che in esse traspare.<br />

Se, per ovvie ragioni, si è a volte costretti a mettere in scena opere <strong>di</strong> dubbio successo <strong>di</strong> compositori viventi,<br />

ciò non ha più ragione <strong>di</strong> essere quando il compositore sia, purtroppo, morto. Allora ci si domanda: perché<br />

andare volontariamente incontro ad un sicuro, già sperimentato, inutile insuccesso<br />

Certe imprese sono dannose, soprattutto, alla memoria degli stessi musicisti che si vogliono ricordare;<br />

dannose al buon nome del nostro teatro in particolare, e dell’opera italiana in generale.<br />

Anche volendo mettersi coscienziosamente alla ricerca dei pregi musicali che appaiono qua e là nella<br />

partitura de “I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>”, mai tali pregi potranno essere sufficienti per giustificarne l’intera<br />

rappresentazione. In ogni caso si tratta <strong>di</strong> qualità più sinfoniche che drammatiche o liriche. Tutte le creature<br />

della leggenda, infatti, appaiono come fantocci <strong>di</strong> stracci, nessuno ha una sua vera voce, anche quando<br />

l’orchestra riesce a sollevarsi dal fondo <strong>di</strong> un quasi costante, rumoroso nulla.<br />

Tutti gli interpreti hanno fatto del loro meglio per rendere sopportabili le rispettive ingrate parti. Gianna<br />

Pederzini con le sue eccellenti qualità drammatiche e la giovane Rina Malatrasi con la purezza del suo canto.<br />

Così Mirto Picchi, il Cassinelli e gli altri. Bene istruiti, come sempre, i cori del Conca; vigile la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong><br />

Oliviero De Fabritiis.<br />

277<br />

R. F., I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, “Il Momento”, 15.1.1954 - p. 3, col. 9<br />

Riccardo Zandonai fu uno dei nostri ultimi operisti <strong>di</strong> valida tempra. Come tutti gli artisti, pur nella sua<br />

breve esistenza, creò un capolavoro: la Francesca da Rimini. Fatta questa premessa, è chiaro che poter<br />

conoscere altri frutti della sua invenzione è certamente interessante, soprattutto per i cultori <strong>di</strong> cose musicali, ma<br />

è anche a priori scontato che niente più si potrà scoprire <strong>di</strong> peculiarmente e<strong>di</strong>ficante nell’ambito della<br />

personalità zandonaiana, tanto meno in quello della produzione operistica <strong>di</strong> questo ultimo periodo.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> (ultimo lavoro <strong>di</strong> teatro <strong>di</strong> Zandonai [], Scala 1925) è una leggenda nor<strong>di</strong>ca<br />

genericamente affibbiata a “un’epoca lontana” in terra <strong>di</strong> Svezia. Ma è una leggenda che <strong>di</strong> leggendario ha, sì e<br />

no, l’in<strong>di</strong>spensabile zampino guastafeste <strong>di</strong> Belzebù; ma ha più della vicenda terrena, per non <strong>di</strong>re terra-terra,<br />

con il <strong>di</strong>fetto <strong>di</strong> non essere stata raccontata con il crisma <strong>di</strong> una sofferta umanità. Probabilmente Zandonai,<br />

imbarcatosi nel lavoro, a un certo punto dovette sentire che dei fatti della Comandante, <strong>di</strong> Giosta Berling e<br />

compagnia non gli importava un gran che. E allora è venuta fuori l’opera ragguardevole per taluni aspetti, ben<br />

costruita, molto elegante specie nello strumentale per non piacere, ma poco spontanea e sentita per poter<br />

suscitare entusiasmo. Un guizzo genuino si accende al secondo atto al duetto della duplice rappresentazione al<br />

castello <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> tra il pastore protestante Giosta e la giovane Anna. Molto riuscito e <strong>di</strong> felice esito teatrale<br />

l’intreccio comico-sentimentale tra i <strong>cavalieri</strong> che commentano la scena, ironici, con i corni, e il dolce <strong>di</strong>alogo<br />

del violino che sostiene l’ardente <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> amore dei due. La cerimonia dell’investitura e tutti i cori<br />

scritti per i <strong>cavalieri</strong>; l’assolo del violino al terzo atto; e il ritorno alle fucine al quarto atto, vanno segnalate<br />

come le pagine più vive che mantengono desto l’interesse del pubblico.<br />

Gianna Pederzini è un’attrice sempre molto sicura del suo prestigio scenico e quin<strong>di</strong> è stata una autorevole<br />

Comandante. Mirto Picchi, Giosta Berling, affinato nel canto, generoso nel volume; fresca e corretta la voce <strong>di</strong><br />

Rina Malatrasi, Anna. Bravo Antonio Cassinelli, Sintram e a posto Giampiero Malaspina, Vito Tusca [sic],<br />

Mariano Caruso e Nella Borelli. Ha <strong>di</strong>retto con fermezza Oliviero De Fabritiis.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/45


278<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, “L’Unità”, 16.1.1954 - p. 3, col. 2-3<br />

Accolta da applausi a scena aperta e alla fine <strong>di</strong> ogni atto, l’opera I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> che Riccardo<br />

Zandonai, il valoroso musicista trentino, scrisse una trentina d’anni orsono valendosi <strong>di</strong> un soggetto tratto dal<br />

romanzo La saga <strong>di</strong> Gösta Berling <strong>di</strong> Selma Lagerlöf, ha rivisto ier l’altro, dopo tempo, le scene del Teatro<br />

dell’Opera. Pur non essendo una delle creazioni più riuscite <strong>di</strong> Zandonai, come la Francesca da Rimini per<br />

esempio, questo lavoro è una chiara <strong>di</strong>mostrazione del gusto e delle nobili aspirazioni del compositore, oggi<br />

relegato in una zona d’ombra che non merita. Musicalmente l’opera non è certo tutta <strong>di</strong> prima mano; si<br />

avvertono qua e là varie influenze, assorbite magari, ma sempre evidenti. Ciò porta naturalmente a <strong>di</strong>scontinuità<br />

le quali nuocciono alla narrazione. Il clima stesso poi nel quale si trovano a muoversi i personaggi è talvolta<br />

<strong>di</strong>spersivo, anche se le intenzioni che stanno <strong>di</strong>etro le sagome dei protagonisti vorrebbero significare più <strong>di</strong><br />

quanto non si veda. Non mancano però pagine nelle quali la mano <strong>di</strong> Zandonai ha trovato un ritmo felice,<br />

aderente alla sua sensibilità, pagine che suonano in maniera piacevole ed efficace.<br />

Tra gli interpreti va ricordata per prima Gianna Pederzini, la quale ha animato anche scenicamente la figura<br />

della Comandante. Mirto Picchi ha sostenuto la parte <strong>di</strong> Gösta brillantemente. Buoni nelle loro parti Antonio<br />

Cassinelli, il Malaspina e Mariano Caruso. Rina Malatrasi, nella parte <strong>di</strong> Anna, ha <strong>di</strong>mostrato le sue possibilità<br />

vocali. Oliviero De Fabritiis ha guidato lo spettacolo con l’esperienza teatrale che ben sappiamo.<br />

279<br />

E[ttore] Montanaro, “I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” <strong>di</strong> Zandonai riaccolti festosamente dal pubblico romano, “Il<br />

Popolo”, 15.1.1954 - p. 2, col. 2-3-4-5-6<br />

Il Teatro dell’Opera ha ricordato il maestro Riccardo Zandonai con una pregevole esecuzione de “I <strong>cavalieri</strong><br />

<strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” che tornano fra noi dopo lunga assenza. Il pubblico romano si è mostrato lieto <strong>di</strong> questo nuovo<br />

incontro con l’opera del maestro trentino ed ha applau<strong>di</strong>to con entusiasmo ad ogni atto. Accoglienza festosa<br />

dunque, che rende impenetrabile il fitto mistero sull’ostinato oblio cui è stata tenuta per lungo tempo la<br />

partitura.<br />

Il suo lento cammino per i teatri nazionali sembra quasi l’espiazione <strong>di</strong> una colpa che può ravvisarsi nella<br />

ricchezza dei valori espressivi che l’opera racchiude.<br />

A <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tanti anni dalla sua nascita, la partitura conserva inalterati tali valori con la vitalità, la<br />

freschezza melo<strong>di</strong>ca e l’impeto drammatico. Quel linguaggio zandonaiano del quale molto si è parlato e<br />

<strong>di</strong>scusso, ancora oggi tende i fili <strong>di</strong> una curiosa polemica.<br />

“I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” segna una svolta importante nella produzione lirica <strong>di</strong> Zandonai.<br />

Il lavoro <strong>di</strong> rinobilitamento del melodramma verista, così felicemente iniziato dal maestro con la “Conchita”<br />

– e che in “Francesca da Rimini” assume aspetti <strong>di</strong> singolare significazione – trova ne “I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” la<br />

più brillante affermazione. L’opera perviene a una nuova e significativa conquista. Il raggiungimento degl’ideali<br />

fortemente e appassionatamente sognati dall’artista, premiano la sua nobile fatica.<br />

Inseritosi nella scala dei valori dei gran<strong>di</strong> operisti italiani senza allontanarsi dal solco tracciato, Zandonai, nel<br />

tradurre personali concezioni, procede ar<strong>di</strong>tamente verso la méta desiderata, con una musicalità pulsante, satura<br />

<strong>di</strong> emozioni, ricca <strong>di</strong> fioriture suggestionanti.<br />

Con “I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>” la produzione melodrammatica <strong>di</strong> Zandonai riceve nuovo impulso, prende più<br />

ampio respiro umano e, collocatosi in una linea <strong>di</strong> grande nobiltà, segna – si è detto – nuovi confini sul piano<br />

dell’opera lirica.<br />

Gli schemi in uso apparivano ormai logori: bisognava sostituirli con mezzi modernizzati. Il vecchio<br />

“mannequin” balbuziava: occorreva mo<strong>di</strong>ficarne la <strong>di</strong>segnatura e rinvigorirne il linguaggio.<br />

L’ansia <strong>di</strong> scoprire un mondo nuovo s’era fatta bruciante.<br />

Incappato nella lettura delle avventure romantiche <strong>di</strong> “Giosta Berling”, singolare tipo <strong>di</strong> libero pensatore, il<br />

maestro si sentì preso come in una rete <strong>di</strong> lusinghe.<br />

I pittoreschi luoghi nor<strong>di</strong>ci lo esaltarono. Le figure simboliche che vagano per questi luoghi eccitarono la sua<br />

fantasia. Il desiderio <strong>di</strong> dare palpito umano a queste figure costituiva il tema assillante, la prevalente ragione<br />

della vita del compositore. Il suo spirito si placò quando dalla rinver<strong>di</strong>ta fantasia scaturirono nuove creazioni.<br />

Zandonai seppe, con felici proce<strong>di</strong>menti, fondere e armonizzare il sentimento e il carattere nor<strong>di</strong>co con il<br />

gusto e la sensibilità latina. Senza formalizzarsi nella documentazione <strong>di</strong> un folclore <strong>di</strong> maniera, è riuscito a dare<br />

alla sua musica un vigore lirico <strong>di</strong> ampio respiro umano.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/46


Scavando nelle intimità dell’animo del popolo nor<strong>di</strong>co, Zandonai ha portato nel campo musicale un mondo<br />

lontano e ricco <strong>di</strong> suggestioni. La particolare sensibilità dell’artista ha consentito al compositore insigne <strong>di</strong><br />

esprimere l’ambiente della Svezia leggendaria scaldata dalla fiamma tra<strong>di</strong>zionale del nostro teatro lirico.<br />

Il Teatro dell’Opera ha obbe<strong>di</strong>to a questa celebrazione come a un sacro rito, allestendo lo spartito con<br />

paterna premura senza nulla lesinare alle esigenze della partitura.<br />

Guidato dal gesto animoso del maestro Oliviero De Fabritiis – la cui profonda esperienza <strong>di</strong>rettoriale e il<br />

grande amore che sa porre in tutte le cose gli hanno consentito <strong>di</strong> mettere in giusto rilievo tutti i particolari della<br />

<strong>di</strong>fficile partitura – un gruppo <strong>di</strong> artisti ha recato un apporto considerevole.<br />

Gianna Pederzini, nelle vesti della “Comandante”, che è al centro dell’azione, è stata una interprete<br />

stupenda. La reincarnazione del personaggio ha trovato nella Pederzini un’artista vibrante, sensibile, magnifica.<br />

Pieno <strong>di</strong> espressione e ricco <strong>di</strong> sentimento il canto <strong>di</strong> Rina Malatrasi, nella parte <strong>di</strong> “Anna”. Umberto [sic]<br />

Picchi, alle prese con un ruolo non facile (Giosta Berling), si è <strong>di</strong>simpegnato con onore. Efficacissimo Sintram il<br />

basso Cassinelli. Preparato dall’abile maestro Conca, il coro ha collaborato bravamente. L’esito è stato – si è<br />

detto – vivo e copioso.<br />

280<br />

Vice (RC), I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>, “La Voce repubblicana”, 17.1. 1954 - p. 3, col. 2-3-4<br />

I Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> è un’opera che si riallaccia alla tra<strong>di</strong>zione melodrammatica dell’ultimo ottocento. Il<br />

testo poetico è stato tratto da A. Rossato dalla famosa opera La leggenda <strong>di</strong> Gösta [sic] della scrittrice svedese<br />

Gelma [sic] Lagerlöf, composizione che appartiene a quel mondo romantico fantastico leggendario, a tinte<br />

fosche e denso <strong>di</strong> drammaticità, così caratteristico della letteratura nor<strong>di</strong>ca. La trama <strong>di</strong> questo dramma giuoca<br />

sugli eterni temi e vicende dell’animo umano: sublimazione e purificazione attraverso la sofferenza e il dolore in<br />

un’atmosfera <strong>di</strong> velato misticismo ove a tratti incombe, come una macchia oscura, il pauroso senso dell’ignoto.<br />

L’opera <strong>di</strong> Zandonai non si <strong>di</strong>scosta, come si è detto, dai modelli tra<strong>di</strong>zionali. Essa risulta, infatti, da un ben<br />

congegnato susseguirsi <strong>di</strong> recitativi, ariosi, cori, duetti, ecc. Il sistema musicale è pur sempre quello <strong>di</strong>atonicotonale,<br />

con qualche spora<strong>di</strong>co impiego della scala esafonica, <strong>di</strong> cui l’A. si serve per dare un carattere al<br />

personaggio <strong>di</strong> Sintram. Tra<strong>di</strong>zionali le armonie, se si eccettua qualche accordo <strong>di</strong>ssonante un po’ complesso<br />

che risulta dall’aggiunta <strong>di</strong> note estranee ad armonie comuni.<br />

L’opera è concepita melo<strong>di</strong>camente. Zandonai tende con tutte le forze verso il canto puro e verso<br />

un’originalità <strong>di</strong> canto, ma l’adesione (o imprigionamento) a vecchie formule melo<strong>di</strong>che ed un’ispirazione che<br />

non si eleva mai a gran<strong>di</strong> altezze gl’impe<strong>di</strong>scono <strong>di</strong> realizzare il suo sogno. Nei momenti <strong>di</strong> maggiore intensità<br />

lirica (racconto <strong>di</strong> Gösta al primo atto, duetti fra Gösta ed Anna al secondo, terzo e quarto atto, ecc.) sembra a<br />

volte che il canto prenda quota, s’innalzi, ma sono sprazzi <strong>di</strong> luce per ricadere assai spesso.<br />

I recitativi sono invece quasi sempre <strong>di</strong> un’efficacia espressiva e <strong>di</strong> un’incisività notevole, specie quelli della<br />

Comandante. Notevoli i cori: ben caratteristico quello della canzone dei <strong>cavalieri</strong>, con un tema incisivo, forte,<br />

ben ritmato, virilmente imponente, e <strong>di</strong> una efficace potenza drammatica i cori della folla, soprattutto quelli<br />

nella scena della miseria e dell’invocazione al ritorno della Comandante (ultimo atto). Lo strumentale vivo,<br />

esuberante, colorito, ben aderente alla scena ed al canto, crea spesso un’atmosfera suggestiva a colori oscuri.<br />

Preciso il taglio dei singoli pezzi. Si sente in tutto il ferrato mestiere <strong>di</strong> un musicista <strong>di</strong> buona tempra.<br />

Il personaggio meglio espresso è quello della Comandante nella sua dolorosa solitu<strong>di</strong>ne e sotto il peso <strong>di</strong> un<br />

triste passato che né l’abitu<strong>di</strong>ne ad una pratica <strong>di</strong> altruismo né le <strong>di</strong>strazioni <strong>di</strong> una laboriosa e forte occupazione<br />

valgono a soffocare, [...] Coerenza stilistica, incisività dei temi che ne caratterizzano la psicologia, aderenza<br />

della musica al testo poetico. Musicalmente scialbe ed anonime invece le figure <strong>di</strong> Gösta (il personaggio<br />

principale) e <strong>di</strong> Anna, e troppo simili l’uno all’altra. Il loro canto tuttavia, sebbene imbrigliato da vecchie<br />

formule melo<strong>di</strong>che, non è privo <strong>di</strong> coloriture ed inflessioni romantiche e <strong>di</strong> dolci e delicate espressioni i<strong>di</strong>lliache<br />

e simpatiche risonanze. Ben caratterizzata la tenebrosa, sghignazzante figura <strong>di</strong> Sintram con uno strumentale<br />

efficace poggiante su formule esafoniche. Anche il personaggio <strong>di</strong> Cristiano ha buon rilievo.<br />

Citiamo alcune fra le migliori parti dell’opera: primo atto: all’inizio un movimento cupo ai bassi a cui si<br />

aggiunge il lampeggiamento nel registro me<strong>di</strong>o <strong>di</strong> una quarta <strong>di</strong>scendente, creano un’atmosfera pesante e<br />

misteriosa che ben c’introduce al dramma della <strong>di</strong>sperazione <strong>di</strong> Gösta. Ben delineata sotto lo sfondo <strong>di</strong> accor<strong>di</strong><br />

aspri <strong>di</strong>ssonanti e me<strong>di</strong>ante l’impiego <strong>di</strong> formule melo<strong>di</strong>che esafoniche la figura sghignazzante, lugubre <strong>di</strong><br />

Sintram.<br />

Non trascurabile è il coro delle fanciulle su un motivo fresco e vivace <strong>di</strong> carattere popolaresco. Efficace lo<br />

strumentale che accompagna il racconto <strong>di</strong> Gösta, movimentato, denso, con dolci mormorii e cinguettanti note<br />

ribattute <strong>di</strong> una freschezza primaverile. Ben caratteristica la Cantata del Natale, con un bel tema <strong>di</strong> carattere<br />

dolce e agreste <strong>di</strong> una toccante semplicità.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/47


Notevole il coro della Canzone dei Cavalieri <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong> (tema gagliardo, incisivo, che si ripete spesso durante<br />

il corso dell’opera, sostenuto da uno strumentale nutrito, pieno <strong>di</strong> slancio ma in alcuni tratti anche strepitoso,<br />

effettistico). Secondo atto: simpatico l’inizio con un tema fresco, vivace, ben ritmato, ritornante, che crea<br />

un’atmosfera festosa. Caratteristiche la presentazione dei <strong>cavalieri</strong> a Giosta (pochi tocchi che abbozzano assai<br />

bene le grottesche figure) e la sviolinata <strong>di</strong> Liecrona sopra il gustoso e bizzarro motivetto dell’orchestrina dei<br />

<strong>cavalieri</strong>. Terzo atto: armonioso, dolce, pervaso <strong>di</strong> tristezza il coro dei Cavalieri, a cui fa da efficace controcanto<br />

o si alterna il patetico violino <strong>di</strong> Liecrona. Ben concitata e drammatica la scena dell’espulsione della<br />

Comandante in un crescendo efficace e vigoroso; commovente l’ad<strong>di</strong>o della stessa che si conclude<br />

efficacemente con il melo<strong>di</strong>co singhiozzo lugubre <strong>di</strong> Samzelius. Quarto atto: efficace inizio con il coro della<br />

folla che invoca il ritorno della Comandante con sempre crescente drammaticità, sopra un ondeggiante,<br />

tumultuoso, irrequieto movimento dei bassi. Di una certa potenza la scena della ripresa del lavoro dei <strong>cavalieri</strong>,<br />

<strong>di</strong>etro l’incitamento della Comandante: un coro robusto, incalzante verso il fortissimo, sostenuto da uno<br />

strumentale nutrito e prorompente, finché si ode il tonfo possente del maglio. Ben segue la canzone dei<br />

<strong>cavalieri</strong>, mentre l’orchestra è sempre agitata (quartine rapide <strong>di</strong> violini, persistenza del suono metallico del<br />

maglio, strappate vigorose ai bassi. Crescen<strong>di</strong> impressionanti sulle parole sciogli! tuoni! Giù!). E sotto il<br />

martellante infuriare dell’orchestra che ricanta una tragica frase in minore, muore la Comandante.<br />

La presente e<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> quest’opera si può definire molto sod<strong>di</strong>sfacente. Buono il complesso dei cantanti:<br />

efficace Gösta Mirto Picchi, ben intonato alla parte e stilisticamente a posto (voce <strong>di</strong> buon timbro ma piuttosto<br />

povera <strong>di</strong> risonanze). Una dolce e gentile Anna Rina Malatrasi (piccola voce, dolce, simpatica, ben impostata).<br />

Ben scolpito il personaggio della Comandante dalla Pederzini, sia per la incisività e drammaticità della<br />

recitazione che per la straor<strong>di</strong>naria espressività del suo canto, solo un tantino turbata negli acuti da oscillazioni<br />

della voce. Ottimi il Cassinelli nella parte <strong>di</strong> Sintram e G. Malaspina in quella <strong>di</strong> Cristiano. Commovente<br />

Liecrona il Caruso. Abbastanza bene gli altri. Magnifici i cori <strong>di</strong>retti da G. Conca. Sobrie, ben fatte le scene e<br />

con una tonalità <strong>di</strong> colori <strong>di</strong> buon gusto e ben appropriata. Ha <strong>di</strong>retto con molto impegno e calore Oliviero De<br />

Fabritiis. Molti calorosi applausi alla fine <strong>di</strong> ciascun atto.<br />

Un appunto: nella presente e<strong>di</strong>zione offerta dal Teatro dell’Opera è stata eliminata la seconda parte del terzo<br />

atto, la quale contiene alcune fra le pagine più belle e commoventi dell’opera, come quelle dell’inutile e triste<br />

tentativo <strong>di</strong> Anna <strong>di</strong> far ritorno alla madre. Tale taglio non ci sembra sia giustificato.<br />

I <strong>cavalieri</strong> <strong>di</strong> <strong>Ekebù</strong>/48

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