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nano. Parlare di etica e di estetica come madre dell’etica, è non<br />
avere cattivo gusto nell’incontro con noi, dove la conoscenza di<br />
sé è anche una questione di giudizio estetico, cioè etico. Siamo<br />
invece di cattivo gusto quando il nostro stare-al-mondo è male-educato<br />
(e lo siamo tutti spesso, innanzitutto con noi stessi),<br />
cioè incapace assiduamente di portare-fuori, rivelare, nel mondo<br />
(prima di tutto davanti, al cospetto del nostro mondo interno) la<br />
nostra vera natura, non conoscendo le caratteristiche della natura<br />
della mente, della nostra natura culturale, plasmabile ed influenzabile<br />
dalle nostre abitudini e dalle nostre conclusioni, di volta<br />
in volta, prodotte.<br />
Potremmo così ignorare (abbastanza puntualmente) gli assunti,<br />
le motivazioni, i movimenti che ci fanno essere nei vari modi,<br />
che ci fanno reagire, che ci fanno concludere e credere, agiti da<br />
emozioni che ci prendono e ci conducono da qualche parte, non<br />
troppo nelle vicinanze e nei dintorni della nostra consapevolezza<br />
(dove abita [éthos] lo stupore, la meraviglia, che ci fa assistere<br />
alla scoperta di noi stessi, mentre si realizza, mentre si incarna).<br />
Quanto più siamo inconsapevoli della distanza, tra ciò che facciamo,<br />
pratichiamo davvero e quello che diciamo di fare e praticare,<br />
tanto più tendiamo a voler aver ragione delle nostre ragioni,<br />
e a volerle imporre agli altri, assentandoci dalla presenza, dalla<br />
persona che crediamo di essere. Volere aver-ragione, identificati<br />
con le ragioni che ci fanno pensare e dire cose (anche condivisibili),<br />
diviene eticamente, una pratica e un costume che determina,<br />
ulteriormente, ciò che pensiamo, come agiamo e quello che<br />
siamo. Occuparci di etica, essere etici è interessarci a quello che<br />
facciamo quando mettiamo in opera il nostro modo di essere,<br />
il nostro fare, le nostre abitudini, le nostre conoscenze. “È alle<br />
pratiche che bisogna guardare, non alle semplici intenzioni dei<br />
soggetti, perché queste sono le ultime ad arrivare. Ognuno di<br />
noi è anzitutto soggetto “alle pratiche” che esercita ed è da esse<br />
che ricava le sue intenzioni, la sua visione delle cose i suoi valori.<br />
In generale siamo ipnotizzati dalle nostre pratiche, che ci<br />
limitiamo a esercitare senza mai suscitare su di esse un dubbio<br />
o una domanda o una semplice richiesta di chiarimento… L’atteggiamento<br />
etico consiste appunto nel rendersi il più possibile<br />
consapevoli di quanto la pratica che esercitiamo determini il nostro<br />
modo di essere, di agire e di pensare… Soggetti incapaci di<br />
vera riflessione etica non sono soggetti liberi: essi, ancor prima<br />
di essere in mano ad altri soggetti o interessi,sono anzitutto in<br />
mano alle loro cieche pratiche..” (2)<br />
Se non diventiamo “soggetti capaci di liberarci progressivamente…dalla<br />
sudditanza alla pratica che di continuo [ci] conforma..”<br />
[ibidem], se non impariamo a distanziarci quanto basta<br />
da ciò che facciamo, per vederci e conoscerci, non approderemo<br />
a soluzioni etiche, cioè reali.<br />
I materiali mentali, i contenuti mentali in che modo li abbiamo<br />
costruiti e come li stiamo costruendo, qual è la loro provenienza?<br />
Cosa ne facciamo ogni giorno delle nostre parole, cosa succede<br />
(se pensiamo che succeda qualcosa) con quello che ci diciamo? I<br />
vocaboli che usiamo, i discorsi che facciamo, quello che pensiamo<br />
sono frutto di esperienze, di incontri, di frequentazioni non<br />
solo con uomini e donne ma con quello che vediamo, con quello<br />
che leggiamo, con quello che sentiamo, con gli strumenti del<br />
nostro sapere ed essere, che ci permettiamo di sperimentare, che<br />
ci portiamo dentro casa, dentro il nostro abitare, nei nostri costumi<br />
etici. Non siamo più (ormai da tempo) uomini della oralità.<br />
Sapere essere uomini della scrittura è un compito storico, non<br />
possiamo ignorarlo. Mentre usiamo l’alfabeto siamo in un certo<br />
ordine mentale o dovremmo esserlo. Scriviamo l’alfabeto anche<br />
quando parliamo. Ma la parola è da tempo lontana da noi, non<br />
la abitiamo adeguatamente. Proprio perché è in nostro possesso<br />
e ne siamo costituiti, occorre educarla, educare il nostro essere-nella-parola<br />
e con-la-parola, sapendo di essere costantemente<br />
nella possibilità di perderla. È la nostra casa da abitare e da custodire,<br />
ma ne facciamo, spesso, un uso eminentemente pratico,<br />
tecnico, lasciando sullo sfondo, rimosso e lontano, il parlante,<br />
che non viene fatto emergere con la parola, tenuto lontano, come<br />
un intruso che potrebbe disturbare, escluso o non consentendosi<br />
di emergere, quasi a protezione automatica della propria (presunta)<br />
integrità personale.<br />
La parola che ha da dire qualcosa è la parola che rende evidente<br />
ciò che in ogni momento riveliamo, siamo, anche come ciò che<br />
ancora non si è manifestato in noi. Siamo parola, siamo significato,<br />
siamo senso, siamo contenuto, siamo parola-di-verità-di-noi,<br />
siamo in costante rivelazione. Tutto ciò non può essere tralasciato<br />
nell’atto del pronunciamento delle parole che diciamo, che<br />
dicono sempre, immancabilmente di noi, intrise di corporeità<br />
fungente, di corpo pensante ed emozionale, di memorie condivise.<br />
E le nostre parole, parole verbali e corporee, parlano sempre<br />
di noi e dicono a noi, agli altri, al mondo. Non sapere e vedere<br />
questo è mettersi nelle condizioni di venire ricacciati (anche non<br />
potendolo fare del tutto) verso un destino di de-alfabettizzazione,<br />
come un tentativo forzato, innaturale, in-culturale, involutivo<br />
che ci conduce lontano dalla nostra umanità.<br />
Lontani dalle nostre stesse parole che pronunciamo, perlomeno<br />
poco vicini a co-sentire-con-noi quello che siamo, mentre<br />
parliamo (anche con poche cose da dire), ci affanniamo a dire<br />
cose, credendo di dire qualcosa. In realtà diciamo qualcosa, anche<br />
non dicendo nulla. Qualcosa parla sempre di noi. Questo<br />
parlare-di-noi dice a volte davvero poco, anche quando parliamo<br />
tanto. Dice anche che, spesso, non ci siamo, non siamo-con-noi,<br />
col nostro esser-ci, ci stiamo allontanando verso una deriva, che<br />
è nella nostra possibilità di uomini, di non essere propriamente<br />
umani, etici e liberi. L’umanità dell’uomo può essere (è nella<br />
possibilità di essere) disumana. “Bene” e “male” è affare drammaticamente<br />
soltanto umano, riservato agli uomini, che hanno la<br />
possibilità di essere nella “banalità del male”(3)<br />
Siamo banalmente malati, sofferenti di mancanza di umanità, di<br />
sensibilità, di eticità in ogni istante (e lo siamo tutti, nessuno<br />
escluso), quando non vediamo l’altro, nei suoi bisogni fondamentali,<br />
quando stando con noi ci sentiamo abbandonati, quando<br />
ci sentiamo nella mancanza, soprattutto di comprensione e benevolenza,<br />
verso noi stessi o verso chi diciamo di capire e considerare.<br />
L’altro lo incontriamo perlopiù anche disumanamente, non<br />
rispettando la sua particolarità, la sua necessità di ascolto, anzitutto<br />
quando ha qualcosa da dire, per poi pentirci (quando siamo<br />
fortunati) o far finta di farlo o non facendolo affatto (quando siamo<br />
particolarmente nella sofferenza), attribuendo a lui (o a qualcosa<br />
fuori di noi) la causa del nostro comportarci e del nostro<br />
agire. Il tempo trascorre, gli anni si susseguono e la possibilità di<br />
essere coscienti si può dissolvere sotto i nostri occhi cerchiati, a<br />
volte stanchi di assistere e vedere questo peccato originale, che<br />
si compie incessante, questa offesa alla nostra umanità: non mettersi<br />
nella possibilità di vedere. Non riusciamo a vedere, a volte,<br />
ciò che importa, prima di altro, proprio perché immersi e iperstimolati<br />
di cose da vedere, non rendiamo giustizia alla facoltà<br />
conoscitiva e illuminante della visione. Accecati, spesso, da troppo<br />
vedere, non guardiamo, siamo guardati, non leggiamo, siamo<br />
letti, rischiando di perdere facoltà esplorative e di apprendimento,<br />
che ci possono dare nuove opportunità pratiche, cioè etiche.<br />
L’uomo primitivo, l’uomo antico, l’uomo medioevale, l’uomo<br />
dell’ottocento era impegnato in gran parte a sopravvivere. Era<br />
un uomo pre-farmacologizzato. Ora viviamo l’età della tecnica e<br />
della prescrizione farmacologica. Siamo nell’era dell’abbronzatura<br />
e della puntura, della non-lettura e dell’estetica.<br />
Ecco un dei paradossi, non paradossali, che ci contraddistingue.<br />
L’affannosa rincorsa ad una bellezza estetizzante (tipica di un sapere<br />
diffuso, specialistico e non, che rientra nel capitolo dell’estetica,<br />
di cui si occupano varia figure e varie competenze, dalle<br />
estetiste ai medici estetici) è spesso lontana da una vera cultura<br />
estetica, sensibile ed etica, che sappia valorizzare ed educare al<br />
gusto del bello, di ciò che è antico, che si è stratificato nel tempo<br />
e conserva, custodisce il passato. Custodire il passato vuol dire<br />
essere consapevoli della sua intrinseca fragilità, non solo in sé,<br />
come trascorrere del tempo che consuma, come materia che si<br />
degrada, corrodendo le cose, ma anche come possibilità di perdita<br />
dello sguardo prospettico e sensibile su un mondo che può<br />
svanire in un istante, può ritornare nell’oblio, riportando anche<br />
noi nell’oscurità e nell’assenza di mondo. Un mondo a cui apparteniamo<br />
e ci appartiene costituiti e costruiti intorno a significati<br />
condivisi, per cui si ha un mondo. Difficile saperlo cogliere<br />
‘bene’, vedere, leggere, interpretare, rispettare, di cui riuscire ad<br />
avere, in questa rischiosa deriva estetica, capacità, competenza,<br />
facoltà di comprendere, contenere e quindi accogliere dentro le<br />
nostre categorie percettive, in grado di salvaguardarlo. Non riuscendo<br />
a salvare il nostro passato, il nostro retaggio comune (di<br />
precari abitanti della terra) siamo esposti alla perdita della nostra<br />
identità più intima e potremmo non salvare la nostra integrità.<br />
Nel momento in cui non sappiamo guardare quello che sta intorno<br />
a noi, l’ambiente e il mondo svaniscono, evaporano. Non<br />
c’è più un mondo di significato possibile. Possiamo procedere a<br />
lungo, ma con quale metodo, cioè con quale cammino, quando<br />
il percorso si svuota di senso? Crediamo, forse, di averne qualcuno<br />
da esporre cambiando faccia, nella modificazione costante<br />
del nostro volto, che ormai mutato cerca riferimenti instabili e<br />
finti. Possiamo anche mutare fino a non riconoscere più la nostra<br />
maschera riflessa nello specchio, ma nella maschera interna le<br />
persistenti abitudini e la sofferenza possono continuare. Nella<br />
persona e nella mente va incontrata, rivelata e risolta la rimozione<br />
alla visione e la difesa di maschere imposte.<br />
Portata alle estreme conseguenze, la pratica, estetizzante, dei<br />
cambiamenti estetici del volto, per apparire diversi, credendo di<br />
allontanare i segni del tempo, non fa che riportarci ad una assenza<br />
di gusto, soggiogarci e asservirci “agli incantesimi ritmici<br />
propri della demagogia politica in tutte le sue versioni” (1)<br />
Sfiduciati e delusi da molti dei nostri comportamenti anti-etici,<br />
poiché anti-estetici, potremmo, allora, fermarci un po’ “nell’alto<br />
ozio dei campi” (Leopardi), a riflettere sulla nostra ignoranza,<br />
sulle nostre non comuni possibilità di essere altro e sull’impermanenza<br />
delle cose, sull’essenza mutabile delle cose. Rischieremmo<br />
di capire che il tempo che passa, invecchia e consuma<br />
le cose, i corpi e i volti è il nostro alleato più vicino, quando<br />
lo viviamo come tempo opportuno per fare e non come tempo<br />
cronologico per invecchiare (inutilmente). Questo mutamento<br />
di paradigma, questo ampiamento di prospettiva visionaria e<br />
pensante, teoretica e pratica, da intendere, percepire e ricordare<br />
(ogni giorno possibile), in cui immergersi (come in un fiume<br />
nuovamente), è ciò per cui il futuro imprevisto e incombente<br />
possa divenire, ora e qui, possibile e reale, anticipazione etica.<br />
Ci nutriamo e nutriamo la vita quando riusciamo ad essere degni<br />
di questa parola.<br />
“[...] il mondo e la vita sono tutt’uno” (L.Wittgenstein, Tractatus<br />
logico-philosophicus (1921) ■<br />
NOTE<br />
(1) Viene qui riportato integralmente il discorso di Josif A.Brodskij (1940-1996),<br />
pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel per la Letteratura<br />
l’8 novembre 1987. Dissidente del regime sovietico, bandito dal suo Paese, costretto<br />
a lasciare i cari genitori, che non rivedrà mai più.<br />
(2) C.Sini, stampa inedita – Milano, 1997<br />
(3) Hannah Arendt, “La banalità del male” – Feltrinelli, 1963<br />
STILI DI VITA<br />
12 ecoIDEARE - <strong>Maggio</strong> / <strong>Giugno</strong> 2015<br />
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