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Ecoideare Maggio Giugno N29

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nano. Parlare di etica e di estetica come madre dell’etica, è non<br />

avere cattivo gusto nell’incontro con noi, dove la conoscenza di<br />

sé è anche una questione di giudizio estetico, cioè etico. Siamo<br />

invece di cattivo gusto quando il nostro stare-al-mondo è male-educato<br />

(e lo siamo tutti spesso, innanzitutto con noi stessi),<br />

cioè incapace assiduamente di portare-fuori, rivelare, nel mondo<br />

(prima di tutto davanti, al cospetto del nostro mondo interno) la<br />

nostra vera natura, non conoscendo le caratteristiche della natura<br />

della mente, della nostra natura culturale, plasmabile ed influenzabile<br />

dalle nostre abitudini e dalle nostre conclusioni, di volta<br />

in volta, prodotte.<br />

Potremmo così ignorare (abbastanza puntualmente) gli assunti,<br />

le motivazioni, i movimenti che ci fanno essere nei vari modi,<br />

che ci fanno reagire, che ci fanno concludere e credere, agiti da<br />

emozioni che ci prendono e ci conducono da qualche parte, non<br />

troppo nelle vicinanze e nei dintorni della nostra consapevolezza<br />

(dove abita [éthos] lo stupore, la meraviglia, che ci fa assistere<br />

alla scoperta di noi stessi, mentre si realizza, mentre si incarna).<br />

Quanto più siamo inconsapevoli della distanza, tra ciò che facciamo,<br />

pratichiamo davvero e quello che diciamo di fare e praticare,<br />

tanto più tendiamo a voler aver ragione delle nostre ragioni,<br />

e a volerle imporre agli altri, assentandoci dalla presenza, dalla<br />

persona che crediamo di essere. Volere aver-ragione, identificati<br />

con le ragioni che ci fanno pensare e dire cose (anche condivisibili),<br />

diviene eticamente, una pratica e un costume che determina,<br />

ulteriormente, ciò che pensiamo, come agiamo e quello che<br />

siamo. Occuparci di etica, essere etici è interessarci a quello che<br />

facciamo quando mettiamo in opera il nostro modo di essere,<br />

il nostro fare, le nostre abitudini, le nostre conoscenze. “È alle<br />

pratiche che bisogna guardare, non alle semplici intenzioni dei<br />

soggetti, perché queste sono le ultime ad arrivare. Ognuno di<br />

noi è anzitutto soggetto “alle pratiche” che esercita ed è da esse<br />

che ricava le sue intenzioni, la sua visione delle cose i suoi valori.<br />

In generale siamo ipnotizzati dalle nostre pratiche, che ci<br />

limitiamo a esercitare senza mai suscitare su di esse un dubbio<br />

o una domanda o una semplice richiesta di chiarimento… L’atteggiamento<br />

etico consiste appunto nel rendersi il più possibile<br />

consapevoli di quanto la pratica che esercitiamo determini il nostro<br />

modo di essere, di agire e di pensare… Soggetti incapaci di<br />

vera riflessione etica non sono soggetti liberi: essi, ancor prima<br />

di essere in mano ad altri soggetti o interessi,sono anzitutto in<br />

mano alle loro cieche pratiche..” (2)<br />

Se non diventiamo “soggetti capaci di liberarci progressivamente…dalla<br />

sudditanza alla pratica che di continuo [ci] conforma..”<br />

[ibidem], se non impariamo a distanziarci quanto basta<br />

da ciò che facciamo, per vederci e conoscerci, non approderemo<br />

a soluzioni etiche, cioè reali.<br />

I materiali mentali, i contenuti mentali in che modo li abbiamo<br />

costruiti e come li stiamo costruendo, qual è la loro provenienza?<br />

Cosa ne facciamo ogni giorno delle nostre parole, cosa succede<br />

(se pensiamo che succeda qualcosa) con quello che ci diciamo? I<br />

vocaboli che usiamo, i discorsi che facciamo, quello che pensiamo<br />

sono frutto di esperienze, di incontri, di frequentazioni non<br />

solo con uomini e donne ma con quello che vediamo, con quello<br />

che leggiamo, con quello che sentiamo, con gli strumenti del<br />

nostro sapere ed essere, che ci permettiamo di sperimentare, che<br />

ci portiamo dentro casa, dentro il nostro abitare, nei nostri costumi<br />

etici. Non siamo più (ormai da tempo) uomini della oralità.<br />

Sapere essere uomini della scrittura è un compito storico, non<br />

possiamo ignorarlo. Mentre usiamo l’alfabeto siamo in un certo<br />

ordine mentale o dovremmo esserlo. Scriviamo l’alfabeto anche<br />

quando parliamo. Ma la parola è da tempo lontana da noi, non<br />

la abitiamo adeguatamente. Proprio perché è in nostro possesso<br />

e ne siamo costituiti, occorre educarla, educare il nostro essere-nella-parola<br />

e con-la-parola, sapendo di essere costantemente<br />

nella possibilità di perderla. È la nostra casa da abitare e da custodire,<br />

ma ne facciamo, spesso, un uso eminentemente pratico,<br />

tecnico, lasciando sullo sfondo, rimosso e lontano, il parlante,<br />

che non viene fatto emergere con la parola, tenuto lontano, come<br />

un intruso che potrebbe disturbare, escluso o non consentendosi<br />

di emergere, quasi a protezione automatica della propria (presunta)<br />

integrità personale.<br />

La parola che ha da dire qualcosa è la parola che rende evidente<br />

ciò che in ogni momento riveliamo, siamo, anche come ciò che<br />

ancora non si è manifestato in noi. Siamo parola, siamo significato,<br />

siamo senso, siamo contenuto, siamo parola-di-verità-di-noi,<br />

siamo in costante rivelazione. Tutto ciò non può essere tralasciato<br />

nell’atto del pronunciamento delle parole che diciamo, che<br />

dicono sempre, immancabilmente di noi, intrise di corporeità<br />

fungente, di corpo pensante ed emozionale, di memorie condivise.<br />

E le nostre parole, parole verbali e corporee, parlano sempre<br />

di noi e dicono a noi, agli altri, al mondo. Non sapere e vedere<br />

questo è mettersi nelle condizioni di venire ricacciati (anche non<br />

potendolo fare del tutto) verso un destino di de-alfabettizzazione,<br />

come un tentativo forzato, innaturale, in-culturale, involutivo<br />

che ci conduce lontano dalla nostra umanità.<br />

Lontani dalle nostre stesse parole che pronunciamo, perlomeno<br />

poco vicini a co-sentire-con-noi quello che siamo, mentre<br />

parliamo (anche con poche cose da dire), ci affanniamo a dire<br />

cose, credendo di dire qualcosa. In realtà diciamo qualcosa, anche<br />

non dicendo nulla. Qualcosa parla sempre di noi. Questo<br />

parlare-di-noi dice a volte davvero poco, anche quando parliamo<br />

tanto. Dice anche che, spesso, non ci siamo, non siamo-con-noi,<br />

col nostro esser-ci, ci stiamo allontanando verso una deriva, che<br />

è nella nostra possibilità di uomini, di non essere propriamente<br />

umani, etici e liberi. L’umanità dell’uomo può essere (è nella<br />

possibilità di essere) disumana. “Bene” e “male” è affare drammaticamente<br />

soltanto umano, riservato agli uomini, che hanno la<br />

possibilità di essere nella “banalità del male”(3)<br />

Siamo banalmente malati, sofferenti di mancanza di umanità, di<br />

sensibilità, di eticità in ogni istante (e lo siamo tutti, nessuno<br />

escluso), quando non vediamo l’altro, nei suoi bisogni fondamentali,<br />

quando stando con noi ci sentiamo abbandonati, quando<br />

ci sentiamo nella mancanza, soprattutto di comprensione e benevolenza,<br />

verso noi stessi o verso chi diciamo di capire e considerare.<br />

L’altro lo incontriamo perlopiù anche disumanamente, non<br />

rispettando la sua particolarità, la sua necessità di ascolto, anzitutto<br />

quando ha qualcosa da dire, per poi pentirci (quando siamo<br />

fortunati) o far finta di farlo o non facendolo affatto (quando siamo<br />

particolarmente nella sofferenza), attribuendo a lui (o a qualcosa<br />

fuori di noi) la causa del nostro comportarci e del nostro<br />

agire. Il tempo trascorre, gli anni si susseguono e la possibilità di<br />

essere coscienti si può dissolvere sotto i nostri occhi cerchiati, a<br />

volte stanchi di assistere e vedere questo peccato originale, che<br />

si compie incessante, questa offesa alla nostra umanità: non mettersi<br />

nella possibilità di vedere. Non riusciamo a vedere, a volte,<br />

ciò che importa, prima di altro, proprio perché immersi e iperstimolati<br />

di cose da vedere, non rendiamo giustizia alla facoltà<br />

conoscitiva e illuminante della visione. Accecati, spesso, da troppo<br />

vedere, non guardiamo, siamo guardati, non leggiamo, siamo<br />

letti, rischiando di perdere facoltà esplorative e di apprendimento,<br />

che ci possono dare nuove opportunità pratiche, cioè etiche.<br />

L’uomo primitivo, l’uomo antico, l’uomo medioevale, l’uomo<br />

dell’ottocento era impegnato in gran parte a sopravvivere. Era<br />

un uomo pre-farmacologizzato. Ora viviamo l’età della tecnica e<br />

della prescrizione farmacologica. Siamo nell’era dell’abbronzatura<br />

e della puntura, della non-lettura e dell’estetica.<br />

Ecco un dei paradossi, non paradossali, che ci contraddistingue.<br />

L’affannosa rincorsa ad una bellezza estetizzante (tipica di un sapere<br />

diffuso, specialistico e non, che rientra nel capitolo dell’estetica,<br />

di cui si occupano varia figure e varie competenze, dalle<br />

estetiste ai medici estetici) è spesso lontana da una vera cultura<br />

estetica, sensibile ed etica, che sappia valorizzare ed educare al<br />

gusto del bello, di ciò che è antico, che si è stratificato nel tempo<br />

e conserva, custodisce il passato. Custodire il passato vuol dire<br />

essere consapevoli della sua intrinseca fragilità, non solo in sé,<br />

come trascorrere del tempo che consuma, come materia che si<br />

degrada, corrodendo le cose, ma anche come possibilità di perdita<br />

dello sguardo prospettico e sensibile su un mondo che può<br />

svanire in un istante, può ritornare nell’oblio, riportando anche<br />

noi nell’oscurità e nell’assenza di mondo. Un mondo a cui apparteniamo<br />

e ci appartiene costituiti e costruiti intorno a significati<br />

condivisi, per cui si ha un mondo. Difficile saperlo cogliere<br />

‘bene’, vedere, leggere, interpretare, rispettare, di cui riuscire ad<br />

avere, in questa rischiosa deriva estetica, capacità, competenza,<br />

facoltà di comprendere, contenere e quindi accogliere dentro le<br />

nostre categorie percettive, in grado di salvaguardarlo. Non riuscendo<br />

a salvare il nostro passato, il nostro retaggio comune (di<br />

precari abitanti della terra) siamo esposti alla perdita della nostra<br />

identità più intima e potremmo non salvare la nostra integrità.<br />

Nel momento in cui non sappiamo guardare quello che sta intorno<br />

a noi, l’ambiente e il mondo svaniscono, evaporano. Non<br />

c’è più un mondo di significato possibile. Possiamo procedere a<br />

lungo, ma con quale metodo, cioè con quale cammino, quando<br />

il percorso si svuota di senso? Crediamo, forse, di averne qualcuno<br />

da esporre cambiando faccia, nella modificazione costante<br />

del nostro volto, che ormai mutato cerca riferimenti instabili e<br />

finti. Possiamo anche mutare fino a non riconoscere più la nostra<br />

maschera riflessa nello specchio, ma nella maschera interna le<br />

persistenti abitudini e la sofferenza possono continuare. Nella<br />

persona e nella mente va incontrata, rivelata e risolta la rimozione<br />

alla visione e la difesa di maschere imposte.<br />

Portata alle estreme conseguenze, la pratica, estetizzante, dei<br />

cambiamenti estetici del volto, per apparire diversi, credendo di<br />

allontanare i segni del tempo, non fa che riportarci ad una assenza<br />

di gusto, soggiogarci e asservirci “agli incantesimi ritmici<br />

propri della demagogia politica in tutte le sue versioni” (1)<br />

Sfiduciati e delusi da molti dei nostri comportamenti anti-etici,<br />

poiché anti-estetici, potremmo, allora, fermarci un po’ “nell’alto<br />

ozio dei campi” (Leopardi), a riflettere sulla nostra ignoranza,<br />

sulle nostre non comuni possibilità di essere altro e sull’impermanenza<br />

delle cose, sull’essenza mutabile delle cose. Rischieremmo<br />

di capire che il tempo che passa, invecchia e consuma<br />

le cose, i corpi e i volti è il nostro alleato più vicino, quando<br />

lo viviamo come tempo opportuno per fare e non come tempo<br />

cronologico per invecchiare (inutilmente). Questo mutamento<br />

di paradigma, questo ampiamento di prospettiva visionaria e<br />

pensante, teoretica e pratica, da intendere, percepire e ricordare<br />

(ogni giorno possibile), in cui immergersi (come in un fiume<br />

nuovamente), è ciò per cui il futuro imprevisto e incombente<br />

possa divenire, ora e qui, possibile e reale, anticipazione etica.<br />

Ci nutriamo e nutriamo la vita quando riusciamo ad essere degni<br />

di questa parola.<br />

“[...] il mondo e la vita sono tutt’uno” (L.Wittgenstein, Tractatus<br />

logico-philosophicus (1921) ■<br />

NOTE<br />

(1) Viene qui riportato integralmente il discorso di Josif A.Brodskij (1940-1996),<br />

pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel per la Letteratura<br />

l’8 novembre 1987. Dissidente del regime sovietico, bandito dal suo Paese, costretto<br />

a lasciare i cari genitori, che non rivedrà mai più.<br />

(2) C.Sini, stampa inedita – Milano, 1997<br />

(3) Hannah Arendt, “La banalità del male” – Feltrinelli, 1963<br />

STILI DI VITA<br />

12 ecoIDEARE - <strong>Maggio</strong> / <strong>Giugno</strong> 2015<br />

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