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Ecoideare Maggio Giugno N29

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VIVIR BIEN<br />

O VIVIR MEJOR?<br />

di Dario Sonetti<br />

Da quando il sistema nervoso si è evoluto nella nostra<br />

specie in un cervello che ha permesso di esprimere<br />

l’autocoscienza, la consapevolezza del primo uomo fu<br />

di essere parte di qualcosa molto più grande di lui. Da<br />

qui la meraviglia ma anche la paura che ha cercato di dominare<br />

con l’idea e la conseguente azione che tutto fosse sottomettibile<br />

a lui, compresi i suoi simili.<br />

Questa è la storia meravigliosa e tragica dell’uomo.<br />

Sicuramente non siamo un fine ma la conseguenza di una casualità<br />

e di una necessità che una visione biologica ha oggi ben chiara.<br />

Dall’epoca di Galileo la scienza ha ridimensionato la presenza<br />

ed il ruolo dell’uomo nell’universo ma ciò non è bastato a toglierci<br />

l’illusione di poter essere i padroni e dominatori, almeno<br />

sul nostro pianeta. Chi spadroneggia e domina lo può fare solo<br />

a detrimento di altri e l’uomo l’ha fatto nei confronti dei diversi<br />

esseri e del suo oikos, la casa comune.<br />

Perché una specie autocosciente, forse l’unica sul nostro pianeta,<br />

non è in grado prevedere e agire conseguentemente per evitare<br />

alcuni esiti nefasti delle sue azioni?<br />

Sembra che nel nostro cervello abbiano avuto successo evolutivo<br />

due tendenze, entrambe con un importante significato adattativo<br />

di sopravvivenza, ma purtroppo in contrasto tra di loro.<br />

La prima escogita il modo per far sopravvivere al meglio il<br />

singolo individuo, che per avere successo e quindi sopravvivere<br />

e procreare deve “egoisticamente” pensare a sé stesso in una<br />

visione temporale a breve termine.<br />

Questa tendenza dà sicuramente dei vantaggi immediati al singolo<br />

ma può penalizzare fortemente la sua stessa sopravvivenza<br />

e quella della sua specie nel lungo termine. Vi è poi la tendenza<br />

in contrasto alla precedente, presente anch’essa in tutti noi, perché<br />

adattativamente vantaggiosa, ma in altri termini, di essere<br />

individui che devono “condividere con altri”,e in senso lato,<br />

partecipare con tutto ciò che li circonda. Questo può essere non<br />

premiante in prima istanza, ma lo diventa sicuramente nel lungo<br />

termine garantendo l’esistenza nel futuro almeno della specie,<br />

ma con l’imprescindibile condizione di garantire la vita anche<br />

a tutti gli esseri viventi e all’ecosistema che li ospita. Se abbiamo<br />

sviluppato i sentimenti dell’amore, della compassione,<br />

dell’altruismo, del rispetto è perché, oltre a farci star bene, ci<br />

offrono un vantaggio di sopravvivenza. Ecco allora la dicotomia<br />

che “cova” in tutti noi: essere egoisti garantendoci il meglio per<br />

le nostre singole brevi vite o essere capaci di concretizzare nei<br />

fatti la tendenza spontanea che abbiamo a tener conto degli altri<br />

e delle risorse limitate del sistema chiuso in cui viviamo in modo<br />

che tutti ne possano trarre giovamento e stare bene, comprese le<br />

future generazioni? Questa due tendenze venivano già espresse<br />

in qualche forma nella filosofia greca come ricerca del benessere<br />

edonistico, legato al soddisfacimento dei piaceri principalmente<br />

materiali e come benessere “eudemonico” in cui lo star<br />

bene è la capacità di realizzare sé stessi tenendo conto degli altri<br />

e del mondo in cui si vive, producendo su questi effetti benefici.<br />

In altra forma questa bivalenza viene espressa nella cosmovisione<br />

indigena latinoamericana che contrappone un virtuoso “bien<br />

vivir” al più deleterio “vivir mejor” che loro additano a nostra<br />

scelta di uomini occidentali che ha portato il mondo sull’orlo di<br />

una possibile catastrofe.<br />

Dovremmo essere coscienti di questa convivenza difficile che<br />

battaglia con un carico diverso entro ciascuno di noi. La selezione<br />

naturale sicuramente premia alla fine ciò che garantisce un<br />

successo di sopravvivenza nel lungo termine e quindi potremmo<br />

ottimisticamente pensare che stiamo evolutivamente muovendoci<br />

verso l’”uomo nuovo” auspicato da tanti, ma la peculiarità del<br />

cervello umano ha introdotto una nuova variabile, la tecnologia,<br />

un potentissimo strumento per lo sviluppo della sua società ma<br />

che ha premiato nella realtà dei fatti, la parte egoistica dell’uomo<br />

e che ha tempi tanto rapidi da non permettere una corretta<br />

assimilazione e suo controllo dal nostro alter ego virtuoso. In<br />

altre parole, la fatidica pistola nelle mani di un bambino. Questa<br />

è la tremenda minaccia che pende su di noi a mò di spada di<br />

Damocle.<br />

Una scelta che vada in una direzione o un’altra possiamo attuarla<br />

concretamente ogni giorno della nostra vita introducendo la<br />

consapevolezza nel valore delle cose e dei sentimenti. Se più<br />

persone lo faranno, si potrebbe raggiungere la famosa “massa<br />

critica” che determinerà il cambiamento, auspicabilmente prima<br />

che sia troppo tardi. ■<br />

CONSAPEVOLEZZA E<br />

RESPONSABILITÀ DEL PROGETTARE<br />

E DEL PRODURRE<br />

di Rodrigo Rodriquez<br />

Si, come mi ha detto Nicoletta Cova,<br />

è l’uomo nuovo che può salvare il pianeta.<br />

Dunque, forse le prossime generazioni?<br />

Annoto qui un piacevole episodio che sembrerebbe confermarlo.<br />

Sabato 7 Dicembre, Campus della Facoltà di Ingegneria e Tecnologia<br />

della St. Joseph University, Dar es Salaam, Tanzania,<br />

Cerimonia della GRADUATION. Sono invitato come honour<br />

guest, in quanto presidente dell’Associazione Ruvuma Trust<br />

che ha realizzato un Ospedale in quel Paese.<br />

617 studenti (circa metà cattolici e metà musulmani) ricevono:<br />

● la Laurea, 4 anni di studio, 415 (341 ragazzi e 74 ragazze);<br />

● il Diploma, 2 anni di studio, 112 (95 ragazzi e 17 ragazze);<br />

● il Certificato, 1 anno di studio, 41 (31 ragazzi e 10 ragazze):<br />

Gli studenti sono chiamati uno per uno e, ordinatamente, si pongono<br />

in file, attentamente rispettando le crocette in gesso sul pavimento<br />

di asfalto. Ad alta voce - 617 voci giovani e forti danno<br />

luogo ad un armonioso boato - recitano il Giuramento di Fedeltà<br />

(Oath of Allegiance), articolato in tre capitoli: professione e Patria,<br />

ordine e sviluppo sociale, impegno ecologico;<br />

trascrivo questo:<br />

In quanto cittadini istruiti ci impegniamo a proteggere Madre<br />

Terra dal riscaldamento globale, dalla deforestazione, dalla<br />

contaminazione delle risorse naturali, e a mantenere questo<br />

mondo come un luogo abitabile per le generazioni future.<br />

Cito ora due fatti che mostrerebbero come si stia diffondendo<br />

(mi si lasci essere ottimista) la consapevolezza che chi ha la responsabilità<br />

del progettare – i designers - e del produrre – le<br />

aziende - devono darsi carico di proteggere la natura.<br />

I designers. La Dichiarazione degli Industrial Designers al Congresso<br />

ICSID, Seoul 2001 contiene questa solenne affermazione:<br />

Noi, in quanto industrial designers globali, cercheremo la<br />

via dello sviluppo sostenibile coordinando i diversi aspetti che<br />

influiscono sul suo conseguimento quali economia, cultura,<br />

tecnologia e ambiente.<br />

Le aziende. Nel Febbraio del 2013 la FLOS, produttrice dal 1991<br />

di un prodotto di successo, la lampada Miss Sissi disegnata da<br />

Philippe Starck, fino ad allora realizzata in policarbonato, plastica<br />

che in acqua marina impiega circa 400 anni per decomporsi, ha<br />

proposto al mercato in una co-produzione con la bio-on (azienda<br />

produttrice di polimeri PLA) la commercializzazione della stessa<br />

lampada realizzata in plastica biodegradabile in acqua, un biopolimero<br />

ricavato dagli scarti della barbabietola da zucchero, che ha<br />

il grande pregio di decomporsi in 10 giorni.<br />

Ai rapporti tra design e sviluppo sostenibile sono attento sin da<br />

quando, membro dell’Advisory Committee della piccola nobile<br />

Arango Design Foundation, avendo contribuito alla mostra Re(f)<br />

use lanciata a Miami, ne organizzai nel Novembre 1997, ospitata<br />

in la Triennale, di Milano, la versione mostra Ri-usi, Curatrice<br />

Tamara Molinari, progetto dell’allestimento Marco Ferreri,con il<br />

patrocinio del Ministero dell’Ambiente.<br />

Nell’introduzione scrivevo Ri-usi si propone di mostrare come<br />

il design – inteso come processo che dall’idea arriva al prodotto<br />

– sappia creare dal vecchio una generazione di nuovi beni di<br />

consumo durevoli, di stimolare il progetto della metamorfosi, di<br />

darsi carico della conservazione dell’energia, di assumere l’ecologia<br />

come variabile centrale del progettare. Ma, anche, Ri-usi<br />

”omaggio alla tradizione italiana, che dalla limitatezza delle risorse,<br />

quando non dalla povertà traeva stimolo per recuperare,<br />

per conservare ridando valore, grazie all’italico miscuglio tra<br />

opportunismo e genialità.”<br />

Sono ottimista, anche perchè i messaggi che leggo sulla rivista<br />

<strong>Ecoideare</strong> edita da Rinenergy, sono, oltre che pieni di energia,<br />

positivamente contagiosi. ■<br />

STILI DI VITA<br />

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ecoIDEARE - <strong>Maggio</strong> / <strong>Giugno</strong> 2015<br />

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