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Tutti i colori del noir - Cineforum del Circolo

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Nel processo di significazione dell’immagine-cinema, il lavoro compiuto da Michael Mann rappresentaprobabilmente il discorso estetico più rigoroso e coerente svolto da un regista all’interno del cinema americanodegli ultimi venti anni. Anche dopo la separazione dal fido collaboratore alla fotografia DanteSpinotti - con cui non lavora dai tempi di Insider, il punto forse più alto della carriera di entrambi - il cineastaè comunque riuscito a portare avanti un’idea di cinema assolutamente precisa e riconoscibile, la cui cellulaprimaria e portante è proprio la composizione dell’immagine: un’inquadratura estrapolata da operecome Manhunter, Heat, o Alì contiene in sé un lavoro di sperimentazione e di significazione rigorosa difficilmenterintracciabili in altri registi con una tale consapevolezza e coerenza. Il taglio e l’angolazione dell’inquadratura,l’uso del fuoco o del grandangolo, oppure più semplicemente della sola luce: tutte questecomponenti, assemblate tra loro sempre secondo una stessa filosofia estetica, hanno portato alla composizionedi un mosaico di rara bellezza, che racchiude in sé più pellicole legate tra loro, ed il cui filo conduttoreè appunto la pregnanza e potenza del lavoro sull’immagine. Ora, la cosa assolutamente straordinariadel lavoro di Mann è che è riuscito a caricare talmente la sua visione cinematografica proprio sottraendoal resto delle componenti di cui un film è composto: un primo piano su Al Pacino, su Robert De Niro oRussell Crowe, su William Petersen o Will Smith contengono in sé già un così grande numero di informazionipsicologiche che allora l’autore si è potuto permettere di sottrarre spazio ala lungaggine della parola,del dialogo, procedendo così ad una sublimazione capace di alleggerire e slanciare tutti i suoi film. Nelleopere più riuscite di Mann il lavoro di sottrazione e stilizzazione visiva ha compiuto l’impresa di eliminarela parola; l’immagine, sempre più rarefatta e preziosa, è diventata il primo ed assoluto veicolo di racconto,comunque sempre diretta verso un processo di sintesi inaudito.Ora, perseguendo tale scelta stilistica, a noi pare assolutamente coerente che Mann arrivasse prima o poi atentare la strada del digitale, (non)formato capace di scarnificare al massimo l’immagine, ma allo stessotempo pronto a decretarne definitivamente l’importanza se usato secondo criteri coerenti e soprattutto voltia non considerarlo un “parente povero” della pellicola. Va da sé perciò che sotto questo punto di vistaCollateral è l’opera più rischiosa e sperimentale di Mann, e questo anche se il risultato estetico non fossestato così assolutamente straordinario. Finalmente, cosa che il cineasta ha sempre tentato di fare, ambientee personaggi riescono a fondersi in un unico marasma di colore e soprattutto di oscurità; sfruttando intutte le sue potenzialità l’appiattimento, la mancanza di profondità che il digitale fornisce all’immagine, ilregista è riuscito a condensare la sua triste e sfavillante Los Angeles in una serie di fotografie oseremmodire surreali, in cui si dipana la storia altrettanto borderline del tassista Jamie Foxx e del suo inquietantepasseggero Tom Cruise. Strade deserte, non-luoghi densi di colori saturati come la discoteca, soprattutto iltaxi in cui i due protagonisti-antagonisti si conoscono e si confrontano: tutti gli ambienti di Collateral sonoallo stesso tempo tangibili ed astratti, semplicemente riconoscibili ma non identificabili, e diventano a lorovolta attore di ruolo fondamentale nel processo di stilizzazione del film, che tocca vertici inusitati. Ed insie-34

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