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LO SFRUTTAMENTO DEL MARCHIO IN COMUNIONE E ALL ...

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<strong>LO</strong> <strong>SFRUTTAMENTO</strong> <strong>DEL</strong> <strong>MARCHIO</strong> <strong>IN</strong><br />

<strong>COMUNIONE</strong><br />

<strong>ALL</strong>’<strong>IN</strong>TERNO <strong>DEL</strong>L’IMPRESA DI GRUPPO<br />

E<br />

1


<strong>IN</strong>TRODUZIONE<br />

Gli obiettivi di questo studio sono quelli di analizzare la disciplina della<br />

comunione di marchio e di comprendere i problemi connessi all‟uso<br />

plurimo del medesimo segno distintivo cui dà luogo la contitolarità del<br />

marchio nonché di proporre una soluzione per questi ultimi. La necessità<br />

di questo approfondimento deriva dal fatto che il legislatore del Codice<br />

della Proprietà Industriale ha affrontato in modo poco approfondito il<br />

tema della comproprietà dei diritti di proprietà industriale. Per la<br />

regolamentazione di quest‟ultima ipotesi, infatti, il legislatore, all‟art. 6<br />

del predetto codice, rinvia semplicemente alla disciplina della comunione<br />

civilistica in quanto compatibile e salvo convenzioni in contrario, senza<br />

tener conto delle peculiarità della comunione dei diritti immateriali. Si<br />

analizzeranno inoltre, per completezza, altri casi in cui un diritto di<br />

proprietà intellettuale appartiene a più soggetti, cioè la comunione del<br />

diritto di brevetto e la comunione del diritto d‟autore.<br />

Per meglio comprendere i problemi connessi all‟uso plurimo del<br />

medesimo segno distintivo, nella seconda parte di questa trattazione, si<br />

esaminerà un‟altra situazione in cui si verifica il couso dello stesso<br />

marchio, l‟istituto del marchio di gruppo, cioè del marchio che è nella<br />

titolarità della società capogruppo o holding ed è utilizzato anche o<br />

soltanto dalle società o imprese affiliate. Lo sfruttamento del marchio in<br />

comunione e del marchio all‟interno di un‟impresa di gruppo, pur<br />

presentando delle differenze di fondo (perché solo nel primo caso si<br />

verifica una situazione di contitolarità e di couso dello stesso marchio,<br />

mentre nel secondo si verifica solo un‟ipotesi di couso) hanno in comune<br />

il fatto che ad entrambi è sottesa la medesima esigenza di tutela del<br />

pubblico dei consumatori da usi decettivi del marchio. Quale strumento<br />

per evitare il pericolo di uso ingannevole del marchio co-usato, si<br />

2


propone di regolamentare l‟uso plurimo attraverso gli accordi di<br />

coesistenza.<br />

3


Capitolo 1 LA <strong>COMUNIONE</strong> DI <strong>MARCHIO</strong><br />

1.1Definizione e funzioni del marchio d‟impresa<br />

1.2Art 6 CPI e individuazione della fattispecie<br />

1.2.1Comunione di marchio originaria<br />

1.2.2Comunione di marchio derivata e convalidazione ex art.28 CPI<br />

1.2.3Comunione di marchio derivata e cessione parziale del marchio<br />

1.3Ammissibilità della comunione<br />

1.4Limiti e condizioni della fattispecie<br />

1.5.Il couso del marchio<br />

1.6Disciplina civilistica della comunione: analisi dell‟applicabilità alla<br />

comunione di marchio degli artt.1100 c.c. ss<br />

1.6.1Art.1101 c.c. (Quote dei partecipanti)<br />

1.6.2Art. 1102c.c. (Uso della cosa comune)<br />

1.6.3Art. 1103c.c. (Disposizione della quota)<br />

1.6.4Art. 1104c.c. (Obblighi dei partecipanti)<br />

1.6.5Art. 1105c.c.(Amministrazione) e Art. 1108c.c. (Innovazioni e<br />

altri atti eccedenti l‟ordinaria amministrazione)<br />

1.6.6Art. 1106c.c.(Regolamento della comunione e nomina di<br />

amministratore)<br />

1.6.7Art.1111c.c.(Scioglimento della comunione)<br />

1.7Decadenza del marchio<br />

4


Capitolo 2 ACCORDI DI COESISTENZA<br />

2.1Definizione e funzioni degli accordi di coesistenza<br />

2.1.1Accordi relativi al medesimo marchio<br />

2.1.2Accordi relativi a marchi interferenti:il caso Apple<br />

2.2Validità e fondamento giuridico<br />

2.3Efficacia degli accordi di coesistenza<br />

2.4Contenuto degli accordi di coesistenza<br />

2.5Durata degli accordi di coesistenza<br />

2.5.1Accordo di coesistenza e convalidazione<br />

2.6Accordi di coesistenza e contratti di licenza di marchio: differenze e<br />

similitudini<br />

2.7Compatibilità degli accordi di coesistenza con il diritto antitrust<br />

Capitolo 3 LA <strong>COMUNIONE</strong> DI ALTRI DIRITTI<br />

DI PROPRIETA’ <strong>IN</strong>TELLETTUALE<br />

3.1I vari tipi di creazione intellettuale suscettibili di tutela<br />

3.2La comunione di diritto d‟autore<br />

3.2.1Le opere in comunione<br />

3.2.2Le opere composte<br />

3.2.3Le opere collettive<br />

3.3La comunione di brevetto<br />

3.3.1Il diritto al brevetto<br />

3.3.2Il diritto di brevetto<br />

5


Capitolo 4 IL <strong>MARCHIO</strong> DI GRUPPO<br />

4.1 Introduzione<br />

4.2Il gruppo: analisi della sua struttura e dei rapporti di controllo e di<br />

collegamento tra la capogruppo e le varie affiliate<br />

4.2.1Il controllo<br />

4.2.2Controllo e direzione unitaria<br />

4.3Nozione del marchio di gruppo e funzione<br />

4.3.Titolarità del marchio di gruppo<br />

4.4Ammissibilità del marchio di gruppo<br />

4.4.1Ammissibilità del marchio comunitario di gruppo<br />

4.5Disciplina<br />

4.5.1Cessione e Licenza del marchio di gruppo<br />

4.5.2Decadenza del marchio di gruppo<br />

4.5.3Altre cause di estinzione del marchio di gruppo<br />

4.6Tutela del marchio di gruppo<br />

4.7Marchio di gruppo e tutela dei consumatori<br />

4.8Altri casi di utilizzazione plurima dello stesso segno:analisi delle<br />

differenze.<br />

4.9Marchio di gruppo e accordi di coesistenza<br />

4.10I marchi del gruppo<br />

6


Capitolo 1 La comunione di marchio<br />

1.1Definizione e funzioni del marchio d’impresa<br />

Il marchio d‟impresa è, innanzitutto, un segno distintivo, cioè un mezzo<br />

di espressione “idoneo a soddisfare il bisogno di identificare soggetti e<br />

oggetti di diritto” 1 , bisogno di identificare all‟interno di un genus di<br />

prodotti e servizi la species rappresentata dai prodotti e servizi che, oltre<br />

ad appartenere alla classe designata dal linguaggio comune, sono<br />

contraddistinti dalla presenza del marchio e dal bisogno del titolare dello<br />

stesso di essere riconosciuto sul mercato dai consumatori quale unico<br />

soggetto autorizzato a mettere in commercio beni contrassegnati con quel<br />

marchio.<br />

Questo segno distintivo, quindi, può essere definito come un simbolo che<br />

instaura un collegamento ideale, esclusivo e costante tra sé e i prodotti e<br />

servizi che con lo stesso vengono identificati, un simbolo che comunica<br />

un “messaggio” ai consumatori circa la specie, la qualità, il valore, la<br />

fonte di origine e altre caratteristiche delle entità così identificate. A<br />

questo proposito un Autore afferma che “sul piano economico, il<br />

marchio è infatti oggi lo strumento fondamentale della comunicazione<br />

d‟impresa, poiché viene impiegato (e valorizzato) non soltanto per<br />

informare il pubblico della provenienza dei prodotti o servizi per cui è<br />

utilizzato da una determinata impresa e quindi dell‟esistenza di<br />

un‟esclusiva di questa impresa sull‟uso di esso in un determinato settore<br />

(la tradizionale “funzione di indicazione di provenienza” del marchio),<br />

ma anche come simbolo di tutte le altre componenti del “messaggio” che<br />

il pubblico ricollega, appunto attraverso il marchio, ai prodotti o ai<br />

servizi per i quali esso viene utilizzato: messaggio che comprende sia i<br />

dati che i consumatori hanno desunto dall‟esame e dall‟uso di questi<br />

1 GUGLIELMETTI, Il marchio. Oggetto e contenuto, Milano,1968, p.240<br />

7


prodotti o servizi; sia - e soprattutto - le informazioni e le suggestioni<br />

diffuse direttamente dall‟imprenditore attraverso la pubblicità”. 2<br />

Questo sistema di comunicazione e informazione che si stabilisce tra<br />

impresa e consumatori presuppone che la prima, titolare dell‟esclusiva<br />

attribuita su di un marchio, sia la sola, nell‟ambito al quale l‟esclusiva si<br />

estende, a comunicare con il pubblico attraverso il segno che ne forma<br />

oggetto, e che il flusso informativo sia veritiero e tale da non indurre in<br />

inganno il pubblico. In alcuni casi i consumatori possono avere più<br />

interlocutori (mi riferisco alle ipotesi in cui l‟impresa titolare<br />

dell‟esclusiva stipuli uno o più contratti di licenza non esclusiva o ceda<br />

parzialmente il marchio per una parte dei prodotti per i quali è stato<br />

registrato oppure a quelle ipotesi in cui più soggetti siano contitolari di<br />

un medesimo marchio) e allora emerge con più forza l‟esigenza di<br />

tutelare i consumatori dall‟inganno sulla natura, provenienza e qualità dei<br />

prodotti. Riguardo allo “statuto di non decettività” 3 l‟Autore in<br />

precedenza citato, sostenitore della tesi del marchio come “messaggero”<br />

evidenzia che “al riconoscimento del ruolo svolto dal marchio come<br />

strumento di comunicazione fa da contraltare un‟articolata posizione di<br />

responsabilità in ordine alle informazioni e agli altri elementi del<br />

messaggio percepiti dal pubblico come collegati a quel marchio, che<br />

viene posta a carico del titolare di esso, il quale deve garantire la<br />

2G<strong>ALL</strong>I, Il marchio come segno e la capacità distintiva nella prospettiva del diritto<br />

comunitario, in Il dir. ind. n. 5/2008, p. 426.<br />

Di marchio come strumento di comunicazione parlano anche G<strong>ALL</strong>I, Funzione del marchio e<br />

ampiezza della tutela, Milano,1996, p. 109ss.; SENA, Il nuovo diritto dei marchi, Milano,<br />

2001, p.15 ss. e la decisione della Commissione di Ricorsi UAMI del 25 aprile 2001, n.<br />

283/1999, reperibile sul sito UAMI www.oami.europa.eu:<br />

“Therefore the trade mark is not only a sign affixed to a product to indicate its business<br />

origin, but is also a vehicle for communicating a message to the public, and itself rapresents<br />

financial value. This message is incorporated into the trade mark through use, essentially for<br />

advertising purposes, which enables the trade mark to assume the message itself.”<br />

“Pertanto il marchio non è solo un segno apposto su un prodotto per indicare la propria origine<br />

commerciale, ma è anche un veicolo per comunicare un messaggio al pubblico, e esso stesso<br />

rappresenta valore economico. Questo messaggio è incorporato nel marchio attraverso l'uso,<br />

essenzialmente per scopi pubblicitari, che consente al marchio di assumere il messaggio stesso.<br />

3 L‟espressione è di FRASSI, Lo statuto di non decettività del marchio tra diritto interno,<br />

diritto comunitario ed alla luce della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, in Riv.<br />

dir. ind., 2009, p.29.<br />

8


conformità a questo messaggio dei prodotti o servizi contrassegnati dal<br />

marchio.” 4<br />

Chiarita la natura del marchio d‟impresa è opportuno soffermarsi<br />

brevemente su quali siano le funzioni di questo e sui riflessi che la<br />

riforma introdotta dal D. Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 5 ha avuto su<br />

questo tema. A parere si chi scrive, è utile individuare in primo luogo le<br />

funzioni economiche del marchio, e, poi, controllare quale attenzione la<br />

normativa vigente riservi a ciascuna di esse e se è possibile evidenziare<br />

una o più “funzioni giuridicamente protette.” 6 Possono ravvisarsi tre<br />

distinte funzioni economiche del marchio: funzione di garanzia<br />

qualitativa, intesa quale aspettativa da parte del consumatore di una<br />

costanza qualitativa dei prodotti distinti con il medesimo marchio<br />

(mantenimento nel tempo di identiche caratteristiche merceologiche);<br />

funzione distintiva, intesa quale “funzione di garantire al consumatore<br />

l‟identità di origine del prodotto contrassegnato dal marchio,<br />

consentendogli di distinguere senza rischio di confusione questo prodotto<br />

da quelli di provenienza diversa” 7 ; funzione attrattiva che si evidenzia<br />

quando “il marchio non è solo un nome (cioè un segno di collegamento<br />

ideale tra parola e cosa) ma costituisce, in presenza di determinate<br />

condizioni, una “qualità” del prodotto cioè quando esso è in se stesso<br />

visto come un pregio del prodotto.” 8<br />

4 G<strong>ALL</strong>I, op. cit., p.426<br />

5 Il D. Lgs. n.480/1992 è attuativo della Direttiva n.89/104/CE sul riavvicinamento delle<br />

legislazioni degli stati membri in materia di marchi d‟impresa.<br />

6 G<strong>ALL</strong>I, op. cit., p.52, dove chiarisce che cosa debba intendersi per “funzione giuridicamente<br />

protetta”del marchio; funzione che non si identifica con la funzione economica che il marchio<br />

di fatto adempie sui mercati, bensì è la funzione economico-sociale tipica che gli è attribuita<br />

dalle norme di un ordinamento giuridico dato e che tale ordinamento intende tutelare con<br />

l‟attribuire a determinate condizioni un diritto assoluto all‟uso di un marchio.<br />

7 In tal senso Corte di Giustizia Ce, caso SAT 1 del16 settembre 2004,C-329/02, in Raccolta<br />

della giurisprudenza, 2004 p. I-08317; PETTITI, Il marchio di gruppo, Milano, 1996, p.89<br />

“Per funzione distintiva deve intendersi quella capacità del marchio di individuare e<br />

rappresentare il prodotto e l‟impresa produttrice del bene contrassegnato dal marchio”.<br />

8 DI CATALDO, I segni distintivi, Milano,1993, p.25<br />

9


Il testo originale del regio decreto del 21 giugno 1942, n. 929 9 induceva<br />

ad affermare che solo la funzione di indicazione di provenienza, la<br />

funzione, per così dire, di “stato civile” 10 potesse essere considerata<br />

funzione giuridicamente protetta 11 perché essa prevedeva un forte<br />

collegamento tra marchio e impresa: legittimazione esclusiva<br />

dell‟imprenditore alla registrazione del marchio, ex art 22 l.m.; divieto di<br />

cessione del marchio senza l‟azienda o un ramo di essa, ex art. 15 l.m.;<br />

decadenza del marchio per cessazione definitiva dell‟impresa, ex art. 43,<br />

2° comma l. m.. Il D. Lgs. 480/1992, prevedendo la libera circolazione<br />

del marchio indipendentemente dall‟azienda di riferimento (art.15 l. m,<br />

ora art. 23 CPI 12 ), ha sicuramente allentato il suddetto collegamento e<br />

quindi ha accordato alla funzione di garanzia qualitativa e alla funzione<br />

attrattiva nuova attenzione. A mio parere 13 , nonostante nei<br />

“considerando” che introducono la Direttiva 14 della quale la legge<br />

vigente è attuazione si dica che la tutela accordata al marchio “mira in<br />

particolare a garantir(ne) la funzione d‟origine”, non è più possibile<br />

attribuire al marchio esclusivamente una funzione giuridicamente tutelata<br />

di indicazione di provenienza perché il CPI contempla diverse ipotesi di<br />

coesistenza sul mercato di marchi uguali usati da soggetti diversi (nel<br />

prosieguo della trattazione esaminerò l‟art. 6 CPI relativo alla comunione<br />

di marchio) ergo non è più possibile, attraverso il marchio, risalire ad<br />

un‟unica origine imprenditoriale perché il legislatore tutela anche altri<br />

interessi oltre a quelli tutelati dalla funzione distintiva del marchio, quali<br />

quelli dei consumatori a non essere ingannati da un uso scorretto del<br />

marchio. Mi riferisco al rischio che può profilarsi a seguito<br />

9 R. D. 21 Giugno 1942, n.929 da ora in avanti legge marchi (l.m.)<br />

10 L‟espressione è di GUGLIELMETTI, op. cit., p. 9<br />

11 Di opinione contraria è GUGLIELMETTI, op. cit., p.10ss., sostenitore della tesi della<br />

funzione del marchio come segno distintivo del prodotto in sé e per sé, secondo la quale,<br />

funzione essenziale del marchio è quella di individuare dei prodotti e non l‟organismo che li<br />

produce o commercia.<br />

12 Codice della Proprietà Industriale, D. Lgs. 10 febbraio 2005, n.30<br />

13 In tal senso VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p.<br />

150; DI CATALDO, op. cit., p.20<br />

14 Direttiva n.89/104/CE cit.<br />

10


dell‟abrogazione della circolazione vincolata del marchio, cioè<br />

all‟eventualità che le aspettative del pubblico dei consumatori in<br />

relazione ad un prodotto marcato siano deluse, infatti, “se un<br />

consumatore confida che un prodotto che reca un certo marchio provenga<br />

dallo stesso imprenditore, nel quale aveva fiducia, che ieri o un anno fa<br />

produceva quel prodotto con quel marchio, il fatto che a sua insaputa il<br />

marchio sia stato trasferito ad altro imprenditore fa sì che egli sia<br />

ingannato” 15 ; mi riferisco, inoltre, al pericolo insito nella coesistenza sul<br />

mercato di marchi dei quali siano titolari soggetti diversi: “coesistenza<br />

che, a sua volta, può determinare l‟ inganno del pubblico che acquisti un<br />

prodotto che è marcato come quello già soddisfacentemente sperimentato<br />

e proveniente da un determinato imprenditore ma che invece proviene<br />

da un imprenditore diverso” 16 .<br />

Concludendo questo breve excursus sulle funzioni del marchio<br />

d‟impresa, ad avviso di chi scrive, il marchio continua ad avere anche<br />

una funzione di indicazione d‟origine e che il “considerando” che<br />

introduce la Direttiva suddetta prevedendo che la tutela del marchio<br />

“mira in particolare a garantire la funzione di origine” in realtà non<br />

esclude che altre funzioni siano tutelate 17 ad esempio la funzione<br />

pubblicitaria del marchio. 18<br />

15 L‟esempio è tratto da VANZETTI- DI CATALDO, op. cit., p. 151<br />

16 L‟esempio è tratto da VANZETTI- DI CATALDO, op. cit., p.151<br />

17 In questo senso anche VANZETTI, La funzione distintiva del marchio oggi, in AA.VV.,<br />

Segni e forme distintive, Milano, 2001, p.8<br />

18 Sulla funzione pubblicitaria del marchio si veda RICOLFI, in AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-<br />

MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, Diritto industriale. Proprietà intellettuale e<br />

concorrenza,Torino, 2009, p.62ss.<br />

11


1.2 Art. 6 CPI e individuazione della fattispecie<br />

L‟art. 6 del CPI prevede che “Se un diritto di proprietà industriale<br />

appartiene a più soggetti, le facoltà relative sono regolate, salvo<br />

convenzioni in contrario, dalle disposizioni del codice civile relative alla<br />

comunione in quanto compatibili”. La norma in commento trova il suo<br />

archetipo nell‟art. 20 del R.D. 29 giugno 1939, n. 1127. 19 Sebbene tra le<br />

due disposizioni ci siano delle differenze, quali ad esempio 20 , l‟<br />

estensione del rinvio codicistico a tutte le ipotesi di contitolarità di diritti<br />

relativi a titoli di proprietà industriale e la precisazione che la disciplina<br />

civilistica della comunione è applicabile nella misura in cui sia<br />

compatibile con la natura dei diritti di proprietà industriale, la norma in<br />

esame non risolve le numerose questioni poste dalla fattispecie della<br />

comunione dei diritti di proprietà industriale anzi “lo schema codicistico<br />

sembra quasi preoccuparsi di creare più problemi di quanti aiuti a<br />

risolvere”. 21 A parere di che scrive, il legislatore, nell‟emanare il CPI nel<br />

2005, avrebbe potuto prevedere una disciplina specifica che tenesse<br />

conto delle peculiarità dei diritti sui beni immateriali oppure, sulla scia<br />

della valorizzazione dell‟autonomia privata (l‟art. 6 CPI consente che i<br />

contitolari del diritto scelgano una disciplina diversa da quella della<br />

comunione civilistica), avrebbe potuto dettare delle linee guida per<br />

regolare i rapporti interni tra i contitolari del marchio, ad esempio, circa<br />

la forma, il contenuto dell‟accordo tra le parti oppure prevedere, ai fini<br />

della prova del contratto tra le parti, una forma di registrazione presso<br />

l‟UIBM 22 . Non si può procedere alla trattazione della comunione di<br />

marchio se non si individua prima la fattispecie, se non si chiarisce che<br />

cosa debba intendersi per marchio a questi fini, infatti, “solo ricorrendo<br />

19 R.D. 29 giugno 1939, n. 1127, (cd. legge invenzioni, di seguito l. inv.) abrogato dal CPI, in<br />

materia di brevetti per invenzioni, disponeva: “Se l‟invenzione industriale è dovuta a più<br />

autori, i diritti derivanti dal brevetto sono regolati, salvo convenzioni in contrario, dalle<br />

disposizioni del codice civile relative alla comunione”.<br />

20 Come si evince dal commento dell‟ art. 6 di SCUFFI- FRANZOSI – FITTANTE, Il codice<br />

della proprietà industriale, Padova, 2005, pp. 79 ss.<br />

21 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p.81<br />

22 Ufficio italiano brevetti e marchi<br />

12


ad una definizione di marchio che tenga conto, oltre che delle<br />

caratteristiche sensibili del marchio, anche di altri elementi<br />

giuridicamente rilevanti quali i prodotti o servizi contraddistinti e<br />

l‟ambito territoriale in cui questo è usato o per il quale è registrato, solo<br />

allora potrà dirsi che un marchio potrà o meno essere il medesimo. In tale<br />

prospettiva non potrà mai aversi comunione di marchio nel caso in cui<br />

due imprenditori utilizzino uno stesso segno per identificare prodotti o<br />

servizi diversi ovvero stessi prodotti o servizi, ma commercializzati su<br />

diversi territori. In sostanza solo quando due soggetti vanteranno un<br />

legittimo diritto di esclusiva avente il medesimo contenuto potrà parlarsi<br />

di comunione di marchio” 23 . Secondo un orientamento dottrinale 24<br />

esistono tre ipotesi principali di comunione di marchio: la prima, ritenuta<br />

la più frequente, in cui più soggetti, titolari di un unico marchio e di<br />

imprese diverse, utilizzano il marchio per contrassegnare prodotti che<br />

ciascuno fabbrica e/o mette in commercio con la propria azienda; la<br />

seconda, in cui un marchio, appartenente a più soggetti (ad esempio<br />

perché registrato su domanda congiunta di più soggetti), venga usato da<br />

un‟ impresa gestita da uno dei contitolari del marchio o da un terzo; la<br />

terza, in cui più soggetti sono contitolari di un‟ unica impresa comune e<br />

di un marchio che viene utilizzato per i prodotti di questa. Secondo un<br />

Autore “quest‟ultima ipotesi da un lato risulta condizionata dal noto<br />

problema della ammissibilità di una comunione d‟impresa, e che<br />

comunque, ove si desse a tale problema risposta positiva, avrebbe di fatto<br />

uno spazio sicuramente marginale; dall‟altro che in caso di comunione<br />

d‟impresa si avrebbe un‟impresa unica ed un unico utilizzatore del<br />

marchio, così che non si presenterebbero i problemi tipici della<br />

23 RAMPONE, Appunti in tema di comunione di marchio d’impresa, in Riv. dir. ind., 2009,<br />

p.104<br />

24 DI CATALDO, Note in tema di comunione di marchio, in Riv. dir. ind.,1997, pp.5 ss.<br />

13


comunione di marchio, non essendovi couso di marchio da parte di<br />

soggetti distinti.” 25<br />

Considerando il profilo della fattispecie costitutiva della comunione di<br />

marchio, ritengo che la stessa può essere originaria o derivata. “La<br />

contitolarità originaria si realizza per i diritti titolati ove la privativa sia<br />

stata richiesta da più soggetti con un‟unica domanda; per i diritti non<br />

titolati quando una pluralità di soggetti ne realizzi congiuntamente la<br />

fattispecie costitutiva (e realizzi dunque l‟uso che comporta notorietà).<br />

La contitolarità derivata si realizza qualora il diritto sia stato acquistato<br />

per quota , da più persone per atto tra vivi, o a causa di morte.” 26<br />

25 AUTERI, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotti “originali”, Milano,<br />

1973, p.415; In merito alla posizione di Auteri, DI CATALDO, op. ult. cit., condivide<br />

pienamente la seconda osservazione ma relativamente alla prima afferma che “impresa in<br />

comune” si avrebbe anche nel caso di impresa esercitata da una società in nome collettivo,<br />

della quale siano soci i condomini del marchio.<br />

26UBERTAZZI,Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza,Padova,<br />

2007, p.182<br />

14


1.2.1Comunione di marchio originaria<br />

Si ha comunione di marchio originaria quando più soggetti, ab<br />

origine separati e indipendenti, procedono a domandare,<br />

congiuntamente o singolarmente, ma nell‟interesse di entrambi,<br />

la registrazione di un marchio per contrassegnare i loro prodotti<br />

o servizi. Ciò avviene, per esempio, “quando più imprese<br />

commercino prodotti fabbricati in base ad un unico brevetto<br />

industriale di prodotto o di procedimento, che pure sia comune ,<br />

o posti in essere con caratteristiche uguali o analoghe in base a<br />

scambi di assistenza o informazioni” 27 (anche se “ quando più<br />

operatori progettano un‟utilizzazione comune dello stesso<br />

marchio si tende a preferire il ricorso a strumenti diversi dalla<br />

contitolarità del marchio stesso 28 ).<br />

“Si configura una contitolarità originaria anche nell‟ipotesi di<br />

rinomanza del marchio e conseguente protezione<br />

ultramerceologica” 29 . La categoria del marchio che gode di<br />

rinomanza “è individuata facendo riferimento a quei segni che,<br />

oltre a godere per l‟appunto di rinomanza, sono dotati di<br />

carattere distintivo o notoriètà tali che il loro uso in autorizzato<br />

da parte dei terzi conferirebbe un “indebito vantaggio” ai terzi<br />

medesimi o, in alternativa, comporterebbe un “pregiudizio” alle<br />

caratteristiche di distintività o notorietà del marchio che gode di<br />

rinomanza”. 30 La protezione ultramerceologica fa riferimento al<br />

potere invalidante di tale categoria di segni distintivi nei<br />

confronti di marchi posteriori registrati anche per prodotti o<br />

27 L‟esempio è tratto da FRANCESCHELLI, Saggio sulla cessione del marchio in Studi riuniti<br />

di diritto industriale, Milano,1959, p. 144<br />

28 AUTERI, op. cit., p.377, nota 22<br />

29 RAMPONE, op. cit., p. 105<br />

30AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, Diritto industriale<br />

Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2009, p.127<br />

15


servizi non affini 31 . Secondo un‟opinione dottrinale “La legittima<br />

espansione della privativa può sconfinare e sovrapporsi alla<br />

privativa altrui. Da quel momento in poi il marchio sarà lo<br />

stesso, ma i titolari saranno diversi, saranno quindi contitolari.<br />

(…) Il riferimento è al graduale ampliamento dell‟esclusiva<br />

dovuto alla notorietà acquisita (protezione ultramerceologica) o<br />

a nuove iniziative imprenditoriali (apposizione del marchio su<br />

nuovi prodotti): potrebbe così accadere che due imprenditori<br />

registrino un identico segno per differenti prodotti. Si tratterebbe<br />

in tal caso di due marchi diversi essendo diverso un elemento<br />

dell‟esclusiva: i prodotti contraddistinti. In seguito, del tutto<br />

legittimamente, uno dei due marchi in questione potrebbe<br />

gradualmente acquisire una protezione ultramerceologica<br />

sovrapponendo il diritto di esclusiva dei rispettivi titolari. In tal<br />

caso, i due marchi originari, si fonderebbero tra loro costituendo<br />

un unico bene giuridico soggetto ad un unico diritto di<br />

esclusiva”. 32 A parere di chi scrive un‟ipotesi di tal genere è<br />

astrattamente ipotizzabile ma in concreto difficilmente<br />

configurabile dal momento che nella maggior parte dei casi, i<br />

titolari di segni distintivi interferenti tra loro, si difendono dalla<br />

costituzione di una comunione incidentale attraverso la<br />

stipulazione di accordi di coesistenza per mezzo dei quali<br />

regolano l‟uso dei marchi in questione.<br />

31 A questo proposito si vedano gli artt.12.1 f) e 20.1 c) CPI<br />

32 RAMPONE, op. cit., p.112<br />

16


1.2.2 Comunione di marchio derivata e convalidazione ex art.28<br />

CPI<br />

La comunione di marchio sopravvenuta è conseguenza di una<br />

successione mortis causa o inter vivos; un‟ipotesi del primo tipo<br />

si realizza, ad esempio “nel caso del decesso del titolare di<br />

un‟unica azienda, che era titolare di un certo marchio, seguito da<br />

divisione dell‟azienda tra gli eredi, i quali diventano così titolari<br />

di aziende distinte, che vengono progressivamente ad<br />

allontanarsi nel tempo l‟una dall‟altra, e tutti<br />

contemporaneamente utilizzano, per i propri prodotti, il marchio<br />

già del de cuius” 33 ; un‟ipotesi del secondo tipo può discendere,<br />

ma non necessariamente, da atti negoziali.<br />

Con la precisazione “non necessariamente” intendo fare<br />

riferimento alla comunione di marchio che deriva da un‟ipotesi<br />

di convalidazione ex art.28 CPI 34 , secondo il quale “Il titolare di<br />

un marchio d‟impresa anteriore ai sensi dell‟articolo 12 e il<br />

titolare di un diritto di preuso che importi notorietà non<br />

puramente locale, i quali abbiano, durante cinque anni<br />

consecutivi, tollerato, essendone a conoscenza, l‟uso di un<br />

marchio posteriore registrato uguale o simile, non possono<br />

domandare la dichiarazione di nullità del marchio posteriore né<br />

opporsi all‟uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai<br />

quali il detto marchio è stato usato sulla base del proprio marchio<br />

anteriore o del proprio preuso, salvo il caso in cui il marchio<br />

posteriore sia stato domandato in mala fede. Il titolare del<br />

33 L‟ esempio è tratto da DI CATALDO, op. ult. cit., p.6<br />

34 Il testo dell‟art. 28 CPI riprende con modifiche di nessun rilievo quello art. 48 l.m., nella<br />

versione susseguente al D. Lgs. n.480/1992.Il testo dell‟art 48 l.m. previgente alla novella<br />

recitava: “La validità del brevetto, quando il marchio sia stato pubblicamente usato in buona<br />

fede per cinque anni senza contestazioni, dopo la pubblicazione, non può essere impugnata per<br />

il motivo che la parola, figura o segno che lo costituisce può confondersi con una parola, figura<br />

o segno altrui, già conosciuto alla data della domanda, come distintivo di prodotti o merci dello<br />

stesso genere, o perché esso contiene un nome o ritratto di persona”.<br />

17


marchio posteriore non può opporsi all‟uso di quello anteriore o<br />

alla continuazione del preuso. La disciplina del comma 1° si<br />

applica anche al caso di marchio registrato in violazione degli<br />

artt. 8 e 14, comma 1, lettera c)”.<br />

Francesco Rampone è stato il primo a sottolineare come la<br />

convalidazione porti ad un‟ipotesi di costituzione ex lege di<br />

comunione di marchio; egli ritiene che: “la convalidazione è una<br />

sorta di usucapione del secondo registrante con la differenza che<br />

con l‟usucapione il proprietario originario viene spogliato del<br />

proprio diritto nel momento in cui questo sorge a titolo<br />

originario in capo all‟usucapiente, con la convalidazione, invece,<br />

il titolare originario resta tale e decadrà solo dal diritto di<br />

domandare la dichiarazione di nullità della registrazione<br />

posteriore. Alla fine si avranno due soggetti con un diritto di<br />

esclusiva sullo stesso marchio. Su uno stesso marchio e non su<br />

due marchi: coinciderà infatti il segno, il territorio e i prodotti<br />

contraddistinti.” 35 E‟ da ricordare che sulla natura giuridica<br />

dell‟istituto della convalidazione vi sono opinioni dottrinali<br />

contrastanti. In merito a questo dibattito dottrinale, un Autore 36<br />

ricorda che “secondo una dottrina esso integra una forma di<br />

usucapione fondata sul possesso pacifico e di buona fede del<br />

marchio protratto per cinque anni; altri autori criticano la tesi<br />

testé esposta in quanto l‟uso di un bene immateriale non<br />

costituisce possesso ed in quanto l‟acquisto del marchio da parte<br />

di chi ne fa uso non porta ad una corrispondente perdita a carico<br />

del preutente, anche se ravvisano nella convalida un fatto<br />

preclusivo in fondo non dissimile all‟usucapione; altra dottrina<br />

inquadra il fenomeno della convalida del marchio in istituti<br />

tradizionali quali la prescrizione o la decadenza. Si afferma<br />

35 RAMPONE,op. cit.,p.111<br />

36 UBERTAZZI, op. cit.,p.327<br />

18


infatti che il contenuto della norma in esame rispecchierebbe un<br />

principio generale di prescrizione estintivo dell‟azione di nullità<br />

del marchio per mancanza di novità o che essa darebbe luogo ad<br />

una forma particolare di decadenza; non manca infine chi<br />

sostiene che la convalida del marchio non ha nulla in comune<br />

con alcun altro istituto, presentandosi nel nostro ordinamento<br />

come fenomeno del tutto originale, legato a condizioni proprie e<br />

autonome.” 37<br />

Fatte queste precisazioni sulla natura della convalidazione, è<br />

opportuno chiarire i presupposti in presenza dei quali essa può<br />

essere invocata: in primo luogo l‟art 28 CPI non si limita, come<br />

faceva l‟art 48 l.m. prima della la novella 1992 38 , a richiedere<br />

l‟uso pubblico quinquennale del marchio anteriore, infatti<br />

“richiede un particolare atteggiamento psicologico del titolare<br />

del segno anteriore, consistente nella vera e propria tolleranza<br />

dell‟uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile. Il<br />

concetto di tolleranza deve essere interpretato in senso rigoroso:<br />

questa non è quindi esclusa da una qualsiasi manifestazione di<br />

volontà del titolare del marchio anteriore, quale l‟invio di una<br />

diffida, ma solo dalla proposizione dell‟azione di nullità.” 39 In<br />

secondo luogo, è necessario che il marchio posteriore non sia<br />

stato “domandato in mala fede.” 40<br />

37 UBERTAZZI, op. cit.,p.327<br />

38 Si veda nota 31<br />

39 UBERTAZZI, op. cit., p.330, in questo senso vedi anche SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE,<br />

op. cit., p. 179: “La tolleranza viene interrotta con un atto di citazione (o con un‟azione<br />

penale). Non mi pare invece che una lettera di diffida, o una diffida stragiudiziale, siano<br />

sufficienti. Esse non mostrano una volontà inequivoca di opporsi all‟uso del segno successivo.<br />

Anche se formulate in modo severo possono sempre dar luogo ad accordi”; in questo senso,<br />

inoltre,vedi Cass. Sez. Un., 1 luglio 2008, n. 17927, in Riv. dir. ind. 2009, p.254: “La<br />

contestazione deve manifestarsi con un‟iniziativa giudiziaria (una causa di nullità o di<br />

contraffazione o un ricorso cautelare per l‟inibitoria dell‟uso del marchio) nei confronti del<br />

titolare del marchio posteriore, non sono sufficienti contestazioni manifestate in altro modo, ad<br />

esempio tramite diffide”.<br />

40 VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.197 “Tale espressione deve essere interpretata nel<br />

senso che “il legislatore abbia voluto in particolare attirare l‟attenzione sulla necessità, perché<br />

la sanatoria operi, che al momento del deposito della domanda del marchio successivo il<br />

19


La ratio della norma può essere individuata nella tutela<br />

dell‟affidamento consapevolmente generato nel terzo,<br />

affidamento di cui si è reso responsabile il titolare originario del<br />

marchio attraverso una cosciente inerzia nel reagire. Infatti,<br />

trascorsi cinque anni dal momento della conoscenza dell‟uso<br />

illegittimo altrui del proprio marchio, la tardiva reazione del<br />

registrante anteriore viene considerata come manifestazione della<br />

volontà di impadronirsi del valore di avviamento insito nel<br />

marchio posteriore.<br />

Ritornando al rapporto tra convalidazione e comunione di<br />

marchio, a parere di chi scrive, l‟intuizione di Francesco<br />

Rampone è pienamente condivisibile perché, effettivamente,<br />

dopo la consolidazione del marchio, potranno vantare un‟<br />

esclusiva sul medesimo segno distintivo due diversi soggetti,<br />

ambedue legittimi titolari, cioè il titolare del marchio convalidato<br />

e il titolare originario del segno distintivo. Si ritiene che un<br />

limite alla configurabilità della fattispecie sia rappresentato dal<br />

divieto di uso decettivo del marchio, infatti, se il marchio diventa<br />

idoneo ad indurre in inganno il pubblico, esso decade ai sensi<br />

dell‟art. 14.2 lett. a) CPI.<br />

richiedente non conoscesse l‟esistenza del marchio o del preuso anteriore, ovvero, pur<br />

essendone a conoscenza, ritenesse senza sua colpa che fra i due segni non sussistesse<br />

confondibilità o che fra i rispettivi prodotti o servizi non vi fosse affinità. La prova della mala<br />

fede sarà a carico di chi agisca per la nullità del marchio successivo; e sembra che una mala<br />

fede sopravvenuta dopo il deposito della domanda, e durante il quinquennio d‟uso, non sia di<br />

ostacolo alla convalida.”<br />

20


1.2.3Comunione di marchio derivata e cessione parziale del<br />

marchio<br />

“Un caso di contitolarità incidentale è dato dall‟ipotesi di<br />

cessione parziale per territorio di un marchio registrato. Sebbene<br />

qualcuno abbia escluso la legittimità di tali trasferimenti perché<br />

intrinsecamente decettivi, identificando due fonti produttive<br />

autonome con lo stesso segno, tali trasferimenti non<br />

condurrebbero necessariamente alla nullità del marchio se solo si<br />

considerasse che non di titolarità plurima si tratta, quanto di<br />

contitolarità, ovvero costituzione volontaria di comunione.<br />

Naturalmente una tale ricostruzione è possibile solo quando la<br />

cessione parziale riguardi gli stessi prodotti o servizi sui quali il<br />

cedente si riserva la contitolarità, e non quando la cessione<br />

investa prodotti o servizi diversi. In quest‟ultimo caso l‟effetto<br />

della cessione non sarebbe la contitolarità, ma un frazionamento<br />

dell‟originario diritto del cedente.” 41 Anche altra dottrina ragiona<br />

in termini di contitolarità e non di titolarità plurima. 42 Prima di<br />

analizzare la tesi di Rampone si ritiene opportuno delineare<br />

brevemente i contorni dell‟istituto della cessione del marchio<br />

partendo dal disposto dell‟art 23 CPI, soprattutto per valutare<br />

l‟ammissibilità del trasferimento parziale del marchio avente ad<br />

oggetto beni affini o del trasferimento territoriale parziale 43 .<br />

L‟art. 23 CPI recita: “1. Il marchio può essere trasferito per la<br />

41 RAMPONE, op. cit., p.112<br />

42 VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.256 “Se dunque la cessione parziale avrà per oggetto<br />

il marchio con riferimento a prodotti affini a quelli per i quali il cedente ne conserva la<br />

titolarità, si determinerà una situazione analoga a quella di una contitolarità di uno stesso<br />

marchio da parte di imprenditori diversi”; UBERTAZZI, op. cit., p.306 “Non necessariamente<br />

il frazionamento determina il sorgere di diritti autonomi e quindi potenzialmente confliggenti,<br />

ma si può anche ipotizzare il sorgere di una comunione di uno stesso diritto e quindi il sorgere<br />

di facoltà d‟uso necessariamente armonizzate”.<br />

43 UBERTAZZI, op. cit., p.307,”La cessione territoriale parziale del marchio non può essere<br />

accolta poiché il sistema economico è caratterizzata da forme pubblicitarie a diffusione<br />

nazionale, poiché la mobilità dei consumatori la renderebbe sicuramente fonte di confusione e<br />

poiché il frazionamento territoriale ammesso dalla legge per disciplinare i rapporti tra marchio<br />

registrato e di fatto rappresenta un‟ eccezione al sistema”.<br />

21


totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato<br />

registrato. (…) 4. In ogni caso, dal trasferimento e dalla licenza<br />

del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei<br />

prodotti o servizi che sono essenziali nell‟apprezzamento del<br />

pubblico”. Non ci sono dubbi sulla legittimità del trasferimento<br />

parziale che ha ad oggetto beni non affini, invece ci sono<br />

contrastanti opinioni nel caso in cui lo stesso si riferisca a beni<br />

affini. Secondo un orientamento dottrinale, 44 il tipo di cessione<br />

in questione darebbe luogo ad una divisione estrema del<br />

marchio, operazione che se fosse realizzata attraverso contratti<br />

di licenza sarebbe considerata legittima in quanto il licenziante<br />

manterrebbe la titolarità del marchio e con essa la possibilità di<br />

controllare che i licenziatari si attengano a regole comuni, ma se<br />

fosse posta in essere attraverso un contratto di cessione parziale,<br />

avente ad oggetto beni affini, o per territorio sarebbe illegittima<br />

perché il cedente perderebbe ogni forma di controllo sul<br />

cessionario e si verificherebbe un uso decettivo del marchio che<br />

conduce alla decadenza. Per l‟orientamento prima citato “Nel<br />

caso del trasferimento ciascuna impresa diviene titolare del<br />

marchio risultante dal frazionamento limitatamente alle classi di<br />

sua pertinenza e può quindi sfruttarlo in piena autonomia dalle<br />

altre. Se il trasferimento parziale avesse ad oggetto un marchio<br />

registrato per prodotti affini, esso non rispetterebbe la condizione<br />

di esclusività e pertanto dovrebbe ritenersi illegittimo – e, quindi,<br />

invalido- l‟atto di disposizione del marchio registrato per<br />

prodotti affini a quelli che restano registrati a nome del cedente<br />

oppure vengano trasferiti ad altro soggetto. Inoltre, l‟uso del<br />

medesimo marchio per prodotti affini ad opera di soggetti<br />

economicamente indipendenti può ritenersi vietato dall‟art. 23.4<br />

44 RICOLFI, in AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit.,<br />

p141ss<br />

22


CPI e condurre alla decadenza. Per la stessa ragione è da<br />

ritenersi che il trasferimento del marchio non possa concernere<br />

una zona geografica territorialmente limitata all‟interno dello<br />

Stato italiano” 45 . Anche altri sono d‟accordo nel negare la<br />

legittimità della cessione parziale per prodotti affini ma<br />

contemperano questa conclusione “ con una nozione di affinità<br />

fra i prodotti che tenga conto della crescente specializzazione<br />

produttiva, nota al pubblico,e che può indurre a ritenere fra loro<br />

non affini prodotti che da un punto di vista soltanto<br />

merceologico potrebbero dirsi tali.” 46<br />

Secondo un‟ altra posizione dottrinale, invece, “la cessione deve<br />

avere ad oggetto un‟intera categoria di prodotti affini per<br />

escludere la coesistenza, in capo a soggetti diversi, di marchi fra<br />

loro interferenti”. 47<br />

A parere di chi scrive, la cessione del marchio può essere<br />

considerata fatto costitutivo di una comunione derivata se, dopo<br />

aver ammesso la liceità del trasferimento del marchio avente ad<br />

oggetto beni affini o del trasferimento territoriale parziale, si<br />

pensa ai diritti autonomi che nascono dal frazionamento del<br />

segno distintivo non come “potenzialmente confliggenti tra loro<br />

ma come facoltà d‟uso necessariamente armonizzate” 48 cioè se si<br />

interpreta il risultato del frazionamento “in termini di comunione<br />

45 RICOLFI, in AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit.,<br />

p141ss; nello stesso senso, inoltre, SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p.166,<br />

“Nell‟ipotesi di cessione parziale, la titolarità del marchio si sdoppia tra il cedente (per i<br />

prodotti o servizi per i quali il segno non è stato ceduto) e il nuovo titolare. Si pone, però, un<br />

problema di limitazione della frazionabilità del marchio: a rigore , la cessione dovrebbe avere<br />

ad oggetto solo prodotti tra loro non omogenei: in caso contrario,si avrebbero due titolari del<br />

medesimo marchio per gli stessi prodotti, con ovvi problemi di confondibilità.<br />

46 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.257<br />

47 SENA,op. cit., p174<br />

48 Vedi nota 39<br />

23


e non di titolarità plurima che si pone in contrasto con la facoltà<br />

di far uso esclusivo del marchio ex art. 20 CPI.” 49<br />

49 RAMPONE, op. cit., p.114<br />

24


1.3 Ammissibilità della comunione<br />

Parlare di ammissibilità della comunione di marchio significa parlare<br />

della “possibilità di ritenere conforme al sistema normativo che un<br />

unico marchio d‟impresa sia proprietà di imprenditori diversi, titolari<br />

di imprese diverse, che lo utilizzano ciascuno per i prodotti della<br />

propria azienda,” 50 significa rispondere all‟ interrogativo se la<br />

disciplina della comunione possa considerarsi adeguata a garantire il<br />

rispetto degli interessi collettivi (il diritto dei consumatori ad una<br />

scelta consapevole e a non essere ingannati), consentendo comunque<br />

il legittimo godimento del bene da parte dei titolari. La<br />

configurabilità della suddetta possibilità ha dato luogo ad un intricato<br />

nodo interpretativo che analizzeremo tenendo distinti i periodi<br />

antecedente e successivo l‟entrata in vigore del D. Lgs. n.480/1992 e<br />

le correlate posizioni della giurisprudenza e della dottrina. Per<br />

quanto riguarda le posizioni della giurisprudenza e della dottrina<br />

prima della riforma del 1992, tra le prima pronunce giurisprudenziali<br />

che ammettono la contitolarità del marchio ricordiamo la sentenza 4<br />

aprile 1941 attraverso la quale la Corte di Cassazione affermava che<br />

“Il marchio può costituire l‟oggetto di concorrenti facoltà di<br />

godimento, in un regime di comproprietà, regolato dal rapporto<br />

stesso che la istituisce, o eventualmente dal giudice; né osta a tale<br />

regime di comproprietà l‟indivisibilità del marchio, quando le<br />

rispettive facoltà di uso siano regolate in modo che quelle riservate<br />

ad uno dei condomini non ledano agli interessi dell‟altro.” 51 La Corte<br />

ammetteva pacificamente la comunione del marchio e faceva<br />

rimando alla disciplina della comunione civilistica sic et simpliciter,<br />

trattando il “bene marchio” alla stregua di un bene materiale comune<br />

che, con l‟unica limitazione di non ledere il diritto degli altri<br />

comunisti, doveva e poteva essere nella libera disponibilità del<br />

50 DI CATALDO, op. cit., p.7<br />

51 Cass., 4 aprile 1941, in Giur. it., 1941,I, p.385ss.<br />

25


titolare della quota, il quale non decadeva in alcun modo dal proprio<br />

diritto anche qualora ne avesse fatto un uso lesivo del diritto altrui.<br />

L‟ orientamento della giurisprudenza mutò sotto la vigenza del<br />

nuovo codice civile e, soprattutto, della legge marchi del 1942, che<br />

prevedeva la circolazione del marchio vincolata al trasferimento<br />

dell‟azienda o di un ramo di essa. Le sentenze di merito che<br />

seguivano la pronuncia del 1941 escludevano l‟ammissibilità della<br />

comunione del marchio perché ritenuta in contrasto, vuoi con la<br />

funzione distintiva e con l‟esclusività dell‟uso per prodotti<br />

provenienti da un‟ unica impresa considerata essenziale alla prima,<br />

vuoi con il divieto di inganno del pubblico. 52 “Nei primi anni ‟70, la<br />

giurisprudenza nuovamente mutava il proprio convincimento sulla<br />

problematica. 53 Rifacendosi all‟antico orientamento della<br />

Cassazione, essa si ispirava ad una maggiore autonomia contrattuale<br />

delle parti contitolari del segno. Vi è da dire che scarsi erano i casi in<br />

cui la questione si delineava e, quindi, difficilmente si poteva<br />

assistere ad una maturazione delle posizioni che tenessero conto<br />

dell‟evoluzione della realtà sociale. Tuttavia, come se non fossero<br />

passati decenni, la contitolarità del marchio veniva sempre ritenuta<br />

ammissibile e regolabile come se si trattasse di un bene materiale in<br />

comunione tra più proprietari. Successivamente ed a ridosso della<br />

riforma del 1992, la giurisprudenza affinava le proprie convinzioni<br />

avvicinandosi maggiormente all‟interesse espresso della tutela del<br />

pubblico dei consumatori. “La Direttiva 89/104/CE (della quale la<br />

52 Cfr. App. Milano, 24 ottobre 1958, in Riv. dir. ind., 1959, II,p.291; Trib. Milano 18 gennaio<br />

1962, in Riv. dir. ind, 1963, II, p274; secondo la prima delle sentenze citate “Una comunione<br />

del diritto di marchio non è concepibile altrimenti che nel senso tradizionale, come<br />

utilizzazione collettiva del segno da parte di una pluralità di soggetti in una comunione<br />

d‟impresa.” Per la seconda delle sentenze citate, non sembra concepibile “una comunione o<br />

contitolarità su brevetti per marchi d‟impresa, sembrando questa una contraddizione in termini,<br />

se si considera appunto che il marchio è destinato a contraddistinguere i prodotti di una singola<br />

impresa per la qualità che essi hanno e per la fiducia che il pubblico dei consumatori vi<br />

attribuisce e verrebbe meno appunto nella sua funzione se potesse contraddistinguere prodotti<br />

di un numero indefinito di imprese”.<br />

53 Ammette la comunione di marchio Trib. Napoli, 26 febbraio 1973, in Riv. dir. ind., 1977, II,<br />

p.229ss.<br />

26


iforma del 1992 è attuazione) era già nota da tre anni, sicché i<br />

giudici, non si limitavano ad affermare l‟ammissibilità della<br />

comunione di marchio e la contemporanea salvaguardia dei diritti<br />

degli altri comunisti e del singolo contitolare, bensì si preoccupavano<br />

di specificare anche la modalità di fondo del couso.” 54 La sentenza<br />

del Tribunale di Milano dell‟ 11 giugno 1992 disponeva: “La<br />

contitolarità in capo a più soggetti dello stesso marchio, di per sé,<br />

non è incompatibile con la tipica funzione distintiva del marchio. Per<br />

l‟ammissibilità di una comunione di questo genere occorre la<br />

sussistenza di una gestione concertata della cosa comune (marchio),<br />

che sia tale da evitare inganni nei confronti dei consumatori. Fra le<br />

imprese contitolari deve esistere una forma di adeguato collegamento<br />

ed i prodotti realizzati devono essere fabbricati con un procedimento<br />

analogo e risultare provvisti di caratteristiche uguali, sulla base di<br />

scambi di assistenza o informazioni.” 55 Per quanto riguarda la<br />

dottrina, ad un estremo si ponevano quegli Autori che non<br />

sembravano vedere ostacolo alcuno né limite alla possibilità che un<br />

marchio appartenesse in comunione a più imprenditori 56 ; all‟altro<br />

estremo si collocava chi negava in modo assoluto tale possibilità; 57<br />

su posizioni intermedie, invece, la maggioranza della dottrina<br />

riteneva possibile la comunione del marchio, ma a condizione che i<br />

contitolari gestissero in comune anche l‟impresa o esercitassero<br />

imprese economicamente collegate. 58 Secondo un Autore, “la<br />

contemporanea utilizzazione di un marchio da parte di più imprese<br />

economicamente collegate era riconosciuta già dall‟art.5 C 3 del<br />

54DONATO, La contitolarità del marchio. Uso plurimo dei segni distintivi, autonomia privata<br />

e tutela del consumatore, , Avellino, 2007,p.50<br />

55 Cfr. Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995.p. 921ss<br />

56GRECO, I diritti sui beni immateriali,Torino, 1948,p.104; GUGLIELMETTI, op. cit., p.185<br />

57 SCHEGGI, Concorrenza, trust, crisi,Napoli, 1954, p.96<br />

58 FRANCESCHELLI, Utilizzazione di marchi identici da parte di imprese collegate, in Studi<br />

riuniti di diritto industriale, Milano, 1959,p.190ss<br />

27


testo di Londra (1934) della Convenzione di Unione di Parigi” 59<br />

secondo il quale “l’ emploi simultané de la même marque sur des<br />

produits identiques ou similaires, par des établissements industriels<br />

ou commerciaux considérés comme copropriétaires de la marque d’<br />

après les dispositions de la loi nationale du pays où la protection est<br />

réclamée, n’empêchera pas l’ enregistrement” 60 . L‟ Autore citato<br />

afferma che “ l‟ oggetto del diritto al marchio si presenta come una<br />

cosa immateriale, analoga a quella che forma oggetto del diritto<br />

d‟autore o d‟inventore (e per le quali la possibilità di una comunione<br />

è espressamente sancita: art. 20 R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 per le<br />

privative industriali, art. 10 della l. 22 aprile 1941, n. 633 per il<br />

diritto d‟autore) e per di più indivisibile, sicché l‟ipotesi di una<br />

titolarità plurima contemporanea, che non si può a priori escludere, si<br />

realizza necessariamente sottoforma di comunione.” 61 L‟intricato<br />

nodo interpretativo cui abbiamo fatto riferimento all‟inizio di questo<br />

paragrafo, inizia a sciogliersi dopo la riforma del 1992, cioè dopo<br />

l‟abrogazione del regime di circolazione vincolata del marchio che<br />

“aveva costituito (o, quanto meno, che era stato visto come) il più<br />

serio ostacolo all‟ammissibilità di comunione e couso di marchio.” 62<br />

La contitolarità di marchio non veniva più soltanto ammessa ma<br />

affermata con maggiore vigore: “Pare opportuno precisare, per<br />

escludere il dubbio adombrato di un vuoto di normativa ed altresì in<br />

considerazione della funzione nomofilattica della Corte Suprema,<br />

che non può dubitarsi della possibilità di una comunione sul<br />

marchio, analogamente a ciò che la giurisprudenza ha chiarito in<br />

tema di brevetto per invenzione. Ciò (…) anche in considerazione di<br />

59FRANCESCHELLI, Saggio sulla cessione del marchio, in Studi riuniti di diritto industriale,<br />

Milano,1959, p. 142<br />

60 L‟uso simultaneo dello stesso marchio su prodotti identici o simili, da parte di stabilimenti<br />

industriali o commerciali, considerati come comproprietari del marchio secondo le disposizioni<br />

della legge nazionale del paese in cui è richiesta la protezione, non deve impedirne la<br />

registrazione.<br />

61 FRANCESCHELLI, op. cit., p.143<br />

62 DI CATALDO,op. cit., p.8<br />

28


iferimenti positivi nella disciplina del marchio europeo.<br />

Espressamente, infatti, l‟art. 1 punto 4) del regolamento di<br />

esecuzione del marchio europeo prevede la presentazione della<br />

domanda di registrazione da parte di più titolari e la possibilità della<br />

nomina di un rappresentante, mentre l‟ art. 16 punto 3) del<br />

regolamento menziona la contitolarità per la iscrizione di più persone<br />

nel registro apposito.” 63 La dottrina affermava quindi la sicura<br />

ammissibilità di comunione e couso di marchio. 64<br />

63 Cfr. Cass., 9 marzo 2001, n. 3444, in Giur. It., 2001<br />

64 In questo senso: SENA,op. cit.,p.88; DI CATALDO,op. cit., p8; PETTITI, op. cit., p.52<br />

29


1.4 Limiti e condizioni della fattispecie<br />

Risolto positivamente il problema dell‟ammissibilità della comunione di<br />

marchio è necessario riflettere sul fatto se il diritto vigente ponga alla<br />

fattispecie limiti o condizioni. “In assenza di regole e limiti dettati<br />

specificatamente per la comunione di marchio, si deve porre a confronto<br />

la fattispecie con le regole e i limiti di carattere generale. E‟ certo anche<br />

che l‟uso del marchio comune dovrà rispettare quello che, nel nuovo<br />

sistema è il dato centrale del diritto di marchio: il divieto di uso<br />

ingannevole del marchio (…) L‟uso del marchio comune dovrà svolgersi<br />

in modo che il pubblico non venga a trovare segnati con lo stesso<br />

marchio prodotti merceologicamente identici, ma sostanzialmente<br />

differenti, e cioè prodotti la cui qualità presenti sbalzi che il pubblico, per<br />

quel tipo di prodotto, considera rilevanti. La fattispecie della comunione<br />

del marchio sarà perciò legittima se (e soltanto se ) l‟uso del marchio<br />

comune si svolge nel rispetto di questo principio.” 65 Secondo un<br />

indirizzo dottrinale “la tutela del pubblico è un principio cardinale in<br />

tutta la dottrina dei marchi, sia considerati nella loro funzione, sia nel<br />

momento dinamico del loro trasferimento pieno o no. Un principio (…)<br />

che non potrà mai venir meno ove non si voglia trasformare i marchi da<br />

segni distintivi in segni di confusione di prodotti. (…) Così, la<br />

convenzione di Parigi, nel testo di Londra, là dove ammette l‟impiego<br />

simultaneo del marchio da parte di più imprese collegate (art. 5 c.3), lo<br />

condizione al fatto que ledit emploi n’ait pas pour effet d’ induire le<br />

public en erreur”. 66<br />

Concorde sull‟ importanza degli interessi dei consumatori nell‟ipotesi di<br />

contitolarità del marchio e uso plurimo dello stesso è un Autore, secondo<br />

il quale “poiché, infatti, il marchio può appartenere a più soggetti e,<br />

almeno in linea di principio, i contitolari possono egualmente far uso del<br />

65 DI CATALDO, op. cit., p. 10<br />

66 FRANCESCHELLI, op. cit., p. 146<br />

30


medesimo segno contemporaneamente, ci si potrà bene rendere conto di<br />

come questa ipotesi, ben più sensibilmente di altre, si presta a violare le<br />

norme poste a salvaguardia del diritto dei consumatori ad una scelta<br />

consapevole ed a non essere ingannati. 67 Ciò, naturalmente, non vuol dire<br />

che lo stato di contitolarità del marchio- sia esso originario o successivo<br />

rispetto alla registrazione- di per sé determini confusione presso il<br />

pubblico, bensì, ad avviso di chi scrive, rivela che la contitolarità del<br />

segno necessita di un più alto livello di guardia”. 68 Posto che il problema<br />

è quello di conciliare la possibile contitolarità del marchio con il rispetto<br />

del principio che vieta l‟uso ingannevole del marchio, 69 occorre<br />

individuare degli strumenti che garantiscano il corretto uso del marchio,<br />

ad esempio, un “regolamento” imperativo per i condomini, il quale fissi<br />

67Non essendo questa la sede per un‟ampia trattazione dell‟argomento della decettività<br />

richiamiamo in nota, per maggiore completezza, il pensiero di TRIGONA, Il marchio, la ditta,<br />

l’insegna, Padova, 2002, p. 150 “Nella decettività sopravvenuta giocano diversi fattori: il<br />

riconoscimento da parte del consumatore del messaggio incorporato nel segno; un<br />

deterioramento della qualità del prodotto , che non sia stato in qualche modo comunicato<br />

all‟esterno (l‟elemento oggettivo della fattispecie), accoppiato a modalità ingannevoli nell‟<br />

utilizzo del segno da parte del titolare (elemento soggettivo). E‟proprio tale sopravvenuta<br />

frattura nella trasparente continuità del messaggio qualitativo del marchio a costituire un danno<br />

potenziale nei confronti del consumatore (…) Sotto l‟aspetto del verificarsi dell‟elemento<br />

soggettivo costitutivo della fattispecie, si ritiene che sia sufficiente che il titolare del marchio si<br />

limiti: a sfruttare un inganno in cui il pubblico è caduto senza esservi stato indotto da<br />

particolari artifici o macchinazioni: la legge infatti dà rilievo anche all‟inganno generatosi dal<br />

contesto in cui il marchio è utilizzato. L‟elemento soggettivo della fattispecie si conferma, a<br />

contrario, nel fatto che un‟adeguata informazione del pubblico, attraverso la comunicazione<br />

commerciale e la pubblicità è in grado di eliminare la potenzialità ingannevole delle variazioni<br />

qualitative del prodotto”.<br />

68 DONATO, op. cit., p.45<br />

69 La violazione di questo principio è sanzionata con la decadenza del marchio ai sensi dell‟art.<br />

14.2 lett. a) , secondo il quale,“ il marchio d‟impresa decade se sia divenuto idoneo ad indurre<br />

in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o dei<br />

servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo<br />

consenso, per i prodotto o servizi per i quali è registrato”; prima dell‟ emanazione del CPI,<br />

l‟ipotesi dell‟uso ingannevole del marchio era contemplata dall‟art.11 l.m. “ Non è consentito<br />

di usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in ispecie, in modo da ingenerare un<br />

rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti<br />

o servizi altrui , o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura ,<br />

qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo o del contesto in cui viene<br />

utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo<br />

di terzi”. Secondo GUSTAVO GHID<strong>IN</strong>I e BIANCA MANUELA GUTIERREZ, Marchio<br />

decettivo e uso decettivo del marchio, in Il dir. ind., n.2/1994 “Anche se l‟art. 11 è sfornito di<br />

sanzione specifica, comunque l‟ipotesi prevista può fondare pur sempre un‟ azione inibitoria ai<br />

sensi delle norme in materia di concorrenza sleale”.<br />

31


convenzionalmente le modalità dell‟uso comune del marchio 70 . Una<br />

parte della dottrina 71 , ritiene questa idea solo in parte corretta, sostenendo<br />

che “quel che occorre, perché vi sia un uso non ingannevole del marchio,<br />

è che l‟uso comune si svolga di fatto in un certo modo: che i prodotti dei<br />

condomini, pur provenienti da imprese diverse, siano privi di differenze<br />

qualitative rilevanti, si presentino cioè al mercato come prodotti<br />

provenienti da una stessa impresa. Non importa, per contro, se vi sia, e<br />

che forma abbia, un regolamento pattizio di tale attività. (…) L‟ esistenza<br />

di un regolamento potrà solo costituire un indice della concertazione<br />

nell‟uso del marchio, dovendosi tuttavia sempre verificare la realtà<br />

fattuale della sua esecuzione”. 72 Secondo un‟altra parte 73 , invece,<br />

“attraverso il richiamo sistematico all‟art. 15, 2° comma, l.m., che<br />

prevedeva espressamente il couso da parte di più licenziatari esclusivi,<br />

purché essi si obbligassero ad utilizzare il marchio per contraddistinguere<br />

prodotti aventi caratteristiche uguali e predeterminate, ammette la<br />

comunione di marchio fra imprese indipendenti purché la domanda di<br />

registrazione sia accompagnata da un accordo di cooperazione, in base al<br />

quale i contitolari del marchio si impegnino ad utilizzarli per prodotti<br />

vincolati a un determinato disciplinare comune.” 74 Gli orientamenti<br />

dottrinali citati, concordi sulla necessità dell‟uso concertato del marchio,<br />

sostengono opinioni contrastanti sul grado di formalità dell‟accordo: il<br />

primo guarda alla realtà fattuale della sua esecuzione, il secondo ritiene<br />

necessario un accordo formale. A parere di chi scrive, l‟ inesistenza di un<br />

quadro pattizio formale non esclude che in concreto vi sia un uso<br />

concertato del marchio che consente ai contitolari di rispettare la qualità<br />

della merce già conosciuta, lo standard qualitativo della produzione ergo<br />

gli interessi dei consumatori.<br />

70 In questo senso le sentenze del caso “Fioravanti,” Trib. Milano, 11giugno 1992 e App.<br />

Milano, 20 giugno 1995, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />

71 DI CATALDO, op. cit., p. 10<br />

72 DI CATALDO, op. cit., p. 10<br />

73 SENA, op. cit., p. 126ss<br />

74 SENA, op. cit., p. 126ss<br />

32


1.5 Il couso del marchio<br />

L‟esame della fattispecie della comunione di marchio è stato finora<br />

condotto analizzando l‟aspetto della contitolarità, è ora opportuno<br />

soffermarsi su quello del couso e dei potenziali conflitti che potrebbero<br />

derivare dall‟uso del marchio da parte di più soggetti. Già a proposito dei<br />

limiti della comunione ho chiarito che vige il divieto dell‟uso decettivo<br />

del segno e che per evitare l‟uso ingannevole del marchio in comunione i<br />

contitolari possono adottare un regolamento il quale fissi le modalità di<br />

uso comune del marchio. L‟ art. 6 CPI prevede l‟applicabilità alla<br />

comunione di marchio delle disposizioni del codice civile relative alla<br />

comunione in quanto compatibili; quindi, per quello che qui interessa, si<br />

deve valutare la compatibilità dell‟ art. 1102 c.c., rubricato “Uso della<br />

cosa comune”. La norma in esame prevede che: “1. Ciascun partecipante<br />

può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e<br />

non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il<br />

loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni<br />

necessarie per il miglior godimento della cosa. 2. Il partecipante non può<br />

estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri<br />

partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo<br />

possesso”. Relativamente alla disciplina civilistica della comunione,<br />

Vincenzo Di Cataldo ritiene che: “la ragione di fondo che rende tale<br />

disciplina incapace di regolare la comunione di marchio sia proprio il<br />

fatto che essa non contiene alcuna regola che precisi come ciascun<br />

condomino debba usare il bene comune; laddove, per la comunione di<br />

marchio, l‟imperativo fondamentale è proprio questo, è che l‟uso di<br />

ciascun condomino si svolga in un certo modo, che i condomini svolgano<br />

le proprie distinte attività in modo coordinato. L‟art. 1102 c.c., infatti,<br />

non detta regole di ordine sostanziale, non precisa in alcun modo le<br />

modalità dell‟uso. Viceversa, la comunione di marchio esige una<br />

disciplina materiale dell‟attività comune, che non è l‟attività di uso del<br />

33


marchio, ma è, invece, l‟attività d‟impresa; esige che i condomini<br />

procedano in un certo modo (non all‟uso del marchio in sé, ma) alla<br />

propria attività di fabbricazione e commercializzazione del prodotto.” 75<br />

Circa l‟uso della cosa comune, un altro Autore osserva che “nel caso del<br />

marchio, l‟utilizzazione indipendente da parte di ciascun titolare (…)<br />

interferirebbe con l‟uso dello stesso marchio da parte degli altri<br />

partecipanti alla comunione; non può quindi trovare applicazione nella<br />

nostra materia il principio della libera utilizzazione plurima della cosa<br />

comune. L‟uso del marchio in comunione deve essere unitario, cioè<br />

limitato ad un solo soggetto, od eventualmente un uso plurimo, ma<br />

coordinato, quasi si trattasse della sua utilizzazione da parte di un‟unica<br />

impresa”. 76 Secondo altra dottrina,“lo sfruttamento da parte di ciascun<br />

contitolare deve essere condotto secondo uno standard qualitativo, che<br />

eviti l‟ inganno circa i caratteri (essenziali nell‟apprezzamento del<br />

pubblico) dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio comune e che<br />

presuppone una concertazione, quantomeno implicita, tra i medesimi<br />

partecipanti alla comunione, finendo così per rendere ciascuno di questi<br />

controllore dell‟attività degli altri. Occorre che i prodotti o servizi, pur<br />

provenendo da imprese diverse , siano privi di differenze qualitative<br />

rilevanti, a pena di decadenza.” 77<br />

Personalmente condivido l‟orientamento di Di Cataldo e, quindi, l‟idea<br />

che l‟art. 1102 c.c. sia inadatto ad indirizzare i contitolari del marchio<br />

sulle modalità di uso del segno dal momento che “il punto nodale della<br />

comunione di marchio attiene alla precisazione delle modalità di<br />

fabbricazione e/o commercializzazione del prodotto, operazioni che in<br />

senso proprio non sono modalità di uso del bene comune marchio.” 78 In<br />

questo senso si esprimono anche la sentenza del Tribunale di Milano<br />

dell‟ 11 giugno 1992, a mente della quale,“Fra le imprese interessate<br />

75 DI CATALDO, op. cit.,p. 12<br />

76 SENA, op. cit., p. 127<br />

77 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE,op. cit., p. 88<br />

78 DI CATALDO,op. cit., p. 12<br />

34


(dalla comunione di marchio) deve esistere una forma di adeguato<br />

collegamento, ed i prodotti realizzati devono essere fabbricati con un<br />

procedimento analogo e risultare provvisti di caratteristiche uguali o<br />

analoghe, sulla base di scambi di assistenza e informazioni” 79 e una parte<br />

della dottrina secondo la quale “poiché non è possibile un‟ utilizzazione<br />

del marchio che sia indipendente dall‟attività produttiva, ne consegue che<br />

la comunione del marchio in tanto è ammissibile in quanto esistano dei<br />

rapporti tra i comunisti che regolino lo svolgimento di tale attività.(…)<br />

Certamente bisogna escludere che il regime della comunione sia idoneo<br />

da solo a dar vita a quella regolamentazione dell‟uso del marchio e della<br />

relativa attività produttiva che è necessaria per fare del marchio il<br />

simbolo di un‟attività produttiva unitaria.” 80<br />

79 Cfr. Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />

80 AUTERI, op. cit., p. 392 ss<br />

35


1.6 Disciplina civilistica della comunione :analisi dell’applicabilità alla<br />

comunione di marchio degli artt. 1100 c.c. ss.<br />

Chiarito che cosa debba intendersi per marchio in comunione, occorre<br />

individuare le modalità di sfruttamento dello stesso, ossia la sua<br />

disciplina regolatrice. A questo fine l‟art. 6 CPI rinvia alle disposizioni<br />

del codice civile relative alla comunione in quanto compatibili senza<br />

fornire alcuna indicazione da seguire in questo giudizio sulla<br />

compatibilità. Nel trattare quest‟ultimo tema intendo analizzare gli<br />

orientamenti dottrinali antecedenti e successivi all‟ entrata in vigore nel<br />

2005 del CPI, ossia al formale riconoscimento legislativo della<br />

comunione di marchio e del rinvio alla disciplina civilistica della<br />

comunione per la regolamentazione del nuovo istituto 81 . Proprio perché i<br />

due orientamenti studiano l‟istituto della comunione di marchio in due<br />

momenti storici diversi, essi si collocano su due fronti contrapposti, ma<br />

entrambi ricchi di spunti di riflessione. In merito all‟applicabilità alla<br />

comunione di marchio degli artt. 1100 c.c. ss., la dottrina antecedente<br />

all‟entrata in vigore del CPI ritiene che gli artt. 1100 c.c. ss. siano del<br />

tutto inapplicabili ai segni distintivi, mentre quella successiva, sebbene<br />

ritenga che “la disciplina della comunione di marchio necessiti, più di<br />

qualsiasi altro caso di comunione, che i condomini adottino un<br />

regolamento per supplire alle carenze del codice civile” 82 non propende<br />

per la totale inapplicabilità della disciplina civilistica. La trattazione in<br />

questione sarà condotta analizzando articolo per articolo le norme del<br />

codice civile, evidenziando le particolarità della comunione di un bene<br />

immateriale, 83 quale è quella di marchio, rispetto a quella avente ad<br />

81 Per l‟analisi della comunione di marchio prima del 2005 vedi Di Cataldo, “Note in tema di<br />

comunione di marchio,” in Riv. dir. ind.,1997, pp.5 ss, mentre per la dottrina successiva al<br />

2005 si rinvia a RAMPONE, “Appunti in tema di comunione di marchio d’impresa,” in Riv.<br />

dir. ind., 2009, p.104<br />

82 RAMPONE, op. cit., p.105 nota 9<br />

83 Secondo l‟opinione prevalente la disciplina civilistica è applicabile anche ai diritti su beni<br />

immateriali. Vedi BRANCA, Della Comunione, in Commentario del Codice Civile, a cura di<br />

Antonio Scialoja e Giuseppe Branca, Bologna - Roma, 1972,p.43 ss.; GRECO, I diritti sui beni<br />

36


oggetto una cosa materiale, sulla quale è strutturato l‟istituto recepito dal<br />

codice civile, al fine di individuare le modalità di sfruttamento del<br />

marchio in comunione.<br />

immateriali, Torino, 1948, p.219 ss.; ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni<br />

immateriali, Milano, 1960, p. 597; di opinione contraria è FE<strong>DEL</strong>E, La comunione, in Tratt. di<br />

dir. civ., Milano, 1967, p. 76 ss.<br />

37


1.6.1 Art. 1101 c.c.(Quote dei partecipanti)<br />

L‟art. 1101 c.c. dispone che “1. Le quote dei partecipanti alla<br />

comunione si presumono uguali 84 . 2. Il concorso dei partecipanti,<br />

tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione, è in<br />

proporzione delle rispettive quote.”<br />

Il concetto di quota è legato al fatto che “la consistenza, sulla<br />

medesima cosa, dell‟uguale diritto di più persone si realizza<br />

mediante l‟ideale scomposizione della cosa in una pluralità di<br />

quote. Considerata idealmente la cosa comune si scompone in<br />

tante quote quanti sono i partecipanti: la quota è una sua frazione<br />

ideale, determinata aritmicamente. (…) Essa segna la misura<br />

della partecipazione di ciascuno alla comunione.” 85 Ha senso<br />

parlare di quota per la comunione di marchio? Secondo un<br />

Autore, “la risposta più ragionevole dovrebbe rapportare le quote<br />

alle percentuali di prodotto marcato che ciascun titolare mette in<br />

commercio (anche se non crede che la si possa davvero<br />

proporre). Secondo questa idea, infatti, le quote non sarebbero<br />

mai fisse; la regola che le fissasse sarebbe, o potrebbe essere, in<br />

conflitto con la normativa antitrust; e l‟entità di ciascuna quota<br />

sarebbe esposta a variazioni per effetto del comportamento degli<br />

altri contitolari. (…) Se questo ordine di idee viene condiviso, si<br />

può negare che si tratti di comunione, o affermare che di<br />

84 Secondo BRANCA, op. cit., p. 47 “Il 1° comma è sostanzialmente immutato rispetto al<br />

codice civile del 1865. Le parole “fino a prova contraria", che figuravano in questo, non sono<br />

state riprodotte per brevità e perché erano superflue. Che la cosiddetta presunzione di<br />

uguaglianza delle quote sia ancora iuris tantum e perciò ammetta la prova contraria, è principio<br />

intuitivo”.<br />

85 GALGANO, op. cit., p.552; Secondo SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p. 87 “La<br />

quota è la partecipazione ad un diritto comune, che può fornire un criterio oggettivo per la<br />

ripartizione del godimento solo in quanto i partecipanti alla comunione lo abbiano<br />

espressamente e volontariamente stabilito (e regolato): dunque, quando il godimento rimane<br />

indifferenziato o promiscuo la quota di partecipazione offre un‟indicazione quantitativa a<br />

specificazione del criterio che impone a tutti di servirsi della cosa civiliter, criterio di reciproco<br />

rispetto la cui inosservanza concreta un abuso verso gli altri partecipanti”.<br />

38


comunione si tratta, ma comunione “a mani unite” 86 ; e però in<br />

entrambi i casi la disciplina della comunione civilistica (che<br />

certo non è “a mani unite”) non sarebbe direttamente<br />

applicabile.” 87 Per un altro Autore 88 , l‟indirizzo dottrinale prima<br />

citato, “benché condivisibile, non comporta necessariamente<br />

l‟abbandono delle norme codicistiche le quali, sebbene in tema<br />

di comunione adottino per lo più una prospettiva romanistica,” 89<br />

dopo essere state filtrate dall‟interprete, possono essere applicate<br />

alla comunione di marchio; infatti, a suo avviso, “la quota è la<br />

misura del diritto spettante a ciascuno ed è tradotta in termini di<br />

volume o tipo di prodotti ed estensione del territorio.” 90<br />

A parere di chi scrive, si può parlare di quota a proposito di<br />

comunione di marchio e, pensando ad una comunione originaria,<br />

questa potrebbe essere calcolata facendo riferimento all‟apporto<br />

di ciascun contitolare alla creazione del marchio per quanto<br />

riguarda il contenuto creativo dello stesso (l‟idea), il valore<br />

estetico (la grafica), le spese di registrazione ecc. La percentuale<br />

calcolata in questo modo, rappresenterebbe la misura della<br />

partecipazione di ciascuno “nei vantaggi quanto nei pesi della<br />

comunione”. Per quanto riguarda invece la comunione derivata<br />

mortis causa, la quota di partecipazione alla comunione<br />

corrisponderebbe a quella testamentaria o legittima; nella<br />

86 DONATO, op. cit., p.65 nota 102 “E‟ pacifico in dottrina e in giurisprudenza che la<br />

comunione disciplinata dagli artt. 1100 e ss. è la comunione di tipo romanistico, caratterizzata<br />

dalla presenza di quote di appartenenza individuali, in cui ciascuno può disporre della propria<br />

quota così come il creditore personale di quest‟ultimo può far espropriare la cosa nei limiti di<br />

tale quota, in quanto elemento del patrimonio individuale del comunista- debitore. a questa<br />

comunione si contrappone la c.d. comunione a mani riunite (Gemeinschaft zur gesamten hand),<br />

istituto tipico del diritto germanico caratterizzato proprio dalla mancanza di quote di<br />

appartenenza individuale del bene comune: in tale forma di contitolarità, di conseguenza, non è<br />

riconosciuto ai singoli compartecipi un diritto suscettibile di disposizione che sia anche oggetto<br />

di responsabilità patrimoniale”.<br />

87 DI CATALDO, op. cit., p.14<br />

88 RAMPONE, op. cit., p. 106, nota 11<br />

89RAMPONE, op. cit., p. 106, nota 11<br />

90 RAMPONE, op. cit., p. 123<br />

39


comunione derivata per atto inter vivos, corrisponderebbe al<br />

valore del corrispettivo pagato dal cessionario.<br />

40


1.6.2 Art. 1102 c.c.(Uso della cosa comune)<br />

Ai sensi dell‟art. 1102 c.c. “1. Ciascun partecipante può servirsi<br />

della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non<br />

impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il<br />

loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le<br />

modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. 2.<br />

Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune<br />

in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a<br />

mutare il titolo del suo possesso”. 91 La norma in questione<br />

sembra far riferimento unicamente all‟uso individuale da parte di<br />

ciascun comproprietario, tralasciando il fatto che il marchio in<br />

comunione è suscettibile di diverse modalità di sfruttamento:<br />

esercizio dei diritti uti singulis ; di concerto tra tutti i contitolari,<br />

sfruttamento che può essere diretto o indiretto (detto anche<br />

negoziale). Per quanto riguarda l‟ esercizio diretto dei diritti uti<br />

singulis, occorre innanzitutto chiarire se un singolo comunista<br />

possa fare del marchio un uso diretto senza il consenso degli altri<br />

contitolari e quindi se l‟art. 1102 c.c. sia compatibile con la<br />

fattispecie della contitolarità del marchio. Per rispondere a<br />

questo interrogativo è opportuno analizzare separatamente i due<br />

commi della norma in esame. Quanto al primo comma, secondo<br />

un indirizzo dottrinale, esso sembra deporre in senso positivo<br />

circa l‟ammissibilità di un uso diretto senza il consenso degli<br />

altri contitolari prevedendo solo un paio di limiti, ovvero il<br />

rispetto della destinazione della cosa comune e della facoltà<br />

degli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro<br />

91 Cfr. Cass. civ., Sez. II, 5 settembre 1994, n. 7652, in Giust. civ. Mass. 1994, p.1129 “l‟<br />

art.1102 c.c. intende assicurare al singolo partecipante, per quel che concerne l‟esercizio del<br />

suo diritto, la maggior possibilità di godimento della cosa comune, nel senso che, purché non<br />

resti alterata la destinazione del bene comune e non venga impedito agli altri partecipanti di<br />

fare parimenti uso del bene, egli deve sentirsi libero di servirsi della cosa stessa anche per fine<br />

esclusivamente proprio, traendo ogni possibilità di utilità, senza che possano costituire vincolo<br />

per lui forme più limitate di godimento attuate in passato dagli altri partecipanti, e può<br />

scegliere, tra i vari possibili usi quello più confacente ai suoi personali interessi”.<br />

41


diritto. In merito al primo limite, l‟indirizzo dottrinale citato,<br />

ritiene che “nel caso di marchio per destinazione non deve<br />

intendersi la funzione distintiva, la quale è connaturata al bene<br />

stesso, bensì il messaggio del marchio, ovvero il significato ad<br />

esso impresso con l‟uso e la pubblicità. (… ) Ogni volta che<br />

l‟utilizzo diretto del marchio da parte di un condomino implichi<br />

una modifica del suo significato, ciò non potrà che essere<br />

deliberato collegialmente; relativamente al secondo limite,(…)<br />

data l‟espressione “secondo il loro diritto” sembrerebbe che,<br />

benché tutti abbiano diritto di utilizzare un marchio comune<br />

direttamente per immettere nel mercato i propri prodotti e<br />

servizi, nessuno di loro possa farlo in misura tale da ostacolare di<br />

fatto l‟ingresso degli altri comunisti nello stesso mercato.” 92 In<br />

conclusione, per la dottrina prima richiamata, non occorre<br />

giungere all‟estrema conseguenza di negare in radice ogni<br />

possibilità di utilizzo indipendente del marchio comune, come<br />

ritiene chi vede nella comunione di beni immateriali<br />

esclusivamente una comunione di tipo germanico o che teme la<br />

polverizzazione dell‟esclusiva, ma si deve ammettere che l‟art<br />

1102 1°comma sia compatibile con la natura trascendente del<br />

marchio. In senso contrario un‟altra parte della dottrina nega la<br />

suddetta compatibilità ritenendo che i limiti ex art. 1102<br />

all‟utilizzazione individuale della cosa comune non sembrino<br />

ben adattarsi al caso della comunione di marchio. Quanto al<br />

limite della destinazione della cosa comune, l‟orientamento<br />

dottrinale ora citato, richiamando il concetto di destinazione<br />

elaborato dal Branca 93 , sostenendo quindi la prevalenza della<br />

volontà dei comunisti sulla naturale destinazione del bene,<br />

constata come “il suddetto limite ben poco vale nell‟ambito della<br />

92 RAMPONE, op. cit., p.120 ss.<br />

42


comunione di marchio dal momento che il principio della<br />

supremazia della volontà dei condomini, ovviamente, mal si<br />

concilia con il sistema dei marchi, dove il segno svolge una o più<br />

funzioni tipiche che difficilmente potrebbero essere travolte dalla<br />

volontà del titolare o dei titolari. (…) Il presupposto della<br />

disciplina codicistica è che il comunista può fare uso della cosa<br />

comune, oltre che della propria quota, liberamente purché non<br />

intacchi la destinazione naturale del bene. Al contrario, il<br />

principio posto alla base della fattispecie della comunione di<br />

marchio richiede che i contitolari si pongano in relazione ad un<br />

limite ulteriore rispetto alla destinazione del bene (il marchio in<br />

comunione), ossia quello di dare vita a prodotti identici, benché<br />

originati da attività aziendali diverse” 94 .<br />

Quanto all‟ ultimo periodo del primo comma, per un Autore,<br />

“occorre innanzitutto distinguere il miglior godimento<br />

contemplato da questo articolo da quello contemplato dagli artt.<br />

1106 e 1108 c. c.. Nel primo caso, infatti, si fa riferimento alle<br />

sole modificazioni che servono al migliore godimento della cosa<br />

da parte del comunista che le compie. Nel secondo caso, invece,<br />

si tratta delle innovazioni che permettono il miglior godimento<br />

da parte di tutti i comunisti e che, perciò, richiedono almeno il<br />

consenso della maggioranza. La ratio di questa distinzione è che<br />

fino a quando un singolo comunista può modificare la cosa<br />

comune senza farne ricadere gli effetti sul patrimonio degli altri<br />

(ovvero senza innovare, ma introducendo mutamenti che<br />

riguardano lui solo e non turbano il godimento pieno dei<br />

compartecipi), la legge glielo permette” 95 . A suo avviso, posto<br />

che un singolo comunista possa modificare il marchio per il<br />

miglior godimento, l‟unica modifica possibile è la registrazione a<br />

94 DONATO, op. cit.,p. 68-69<br />

95 RAMPONE,op. cit., p.124ss.<br />

43


nome di un singolo comunista di un marchio di fatto in comune.<br />

Un altro Autore 96 analizza il problema partendo da una<br />

prospettiva diversa, cioè partendo dal presupposto che i<br />

contitolari del marchio devono rispettare le esigenze di stretto<br />

coordinamento perché sia salvaguardato l‟interesse collettivo (a<br />

suo avviso, questa è la condizione legittimante la comunione).<br />

Su tale basi, ritiene incompatibile con la comunione di marchio<br />

ogni alterazione del suddetto coordinamento, ergo in questo caso<br />

ritiene incompatibili le modificazioni della cosa ad opera del<br />

singolo partecipante, poiché esse consentono, anche se entro<br />

certi confini, la possibilità di apportare delle modifiche al bene.<br />

L‟Autore prima citato afferma che “ se si volesse pensare alle<br />

modificazioni in relazione ai prodotti contrassegnati dal marchio,<br />

magari anche in senso migliorativo, ecco che verrebbe meno la<br />

condizione legittimante di cui abbiamo sempre parlato. Può<br />

accadere, infatti, che una divaricazione sostanziale della qualità<br />

dei prodotti fabbricati e commercializzati dai condomini derivi<br />

dal fatto che uno di essi realizzi un miglioramento della qualità<br />

del proprio prodotto. La variazione in melius realizzata da parte<br />

di uno solo dei contitolari del marchio, può infatti causare le<br />

condizioni di un uso decettivo del segno provocato dal<br />

permanere del prodotto non migliorato nella sfera degli altri<br />

utilizzatori” 97 .<br />

Quanto al secondo comma dell‟art 1102 c.c., Rampone propende<br />

per la sua compatibilità con la natura trascendente dei marchi<br />

affermando che “è sufficiente che ciascun comunista rispetti il<br />

pari diritto degli altri nella misura della quota di ciascuno; entro<br />

96 DONATO, op. cit., p. 71<br />

97 DONATO, op. cit., p. 71<br />

44


tali limiti potrà cedere la quota e concedere licenze sulla<br />

stessa” 98 .<br />

A parere di chi scrive l‟orientamento più condivisibile è quello di<br />

Rampone, dal momento che non può ignorarsi il dato positivo<br />

dell‟art. 6 CPI e si deve cercare, così come fa l‟Autore del quale<br />

abbracciamo la tesi, di adattare la normativa codicistica alla<br />

comunione di marchio.<br />

All‟inizio di questo paragrafo si è fatto riferimento allo<br />

sfruttamento di concerto tra i contitolari del marchio ricordando<br />

che esso può essere diretto o indiretto. Per uso indiretto (o<br />

sfruttamento negoziale) si intende la concessione di uso in<br />

godimento a terzi (o reciproca tra i condomini 99 ); invece, l‟uso<br />

diretto (o sfruttamento produttivo) implica, per la natura stessa<br />

del marchio, lo svolgimento di un‟ attività d‟impresa nell‟ambito<br />

della quale, se svolta collettivamente con altri contitolari del<br />

marchio,” 100 dà luogo ad una società di fatto, ergo trova<br />

applicazione la disciplina societaria. Lo sfruttamento produttivo<br />

richiede delle precisazioni sul rapporto tra società e<br />

comunione 101 . Ogni volta che i contitolari utilizzano il marchio<br />

nell‟ambito di un‟attività d‟impresa comune, allora, essendo<br />

inammissibile la “comunione d‟impresa” 102 , dal momento che il<br />

codice civile contempla, all‟art 2248, 103 unicamente la<br />

98 RAMPONE, op. cit., p.123<br />

99 L‟ammissibilità di una licenza interna alla comunione, e cioè concessa da uno ad altro<br />

contitolare, è fuori discussione tanto più che è stata confermata da Trib. Milano 11giugno<br />

1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />

100 RAMPONE, op. cit., p.118<br />

101 BRANCA, op. cit., p. 18, “Una cosa sarebbe l‟esercizio di un‟ attività produttiva<br />

(comunione d‟esercizio o dinamica, società), altra sarebbe invece il godimento, che si attua<br />

mantenendo un‟attitudine passiva, conservando i beni alla loro destinazione normale<br />

(comunione di godimento o statica, comunione).<br />

102 GALGANO, op. cit., p.568, “Ricorre una comunione d‟impresa quando più persone<br />

utilizzano i beni, dei quali sono comproprietari, esercitando in comune un‟attività d‟impresa e,<br />

tuttavia, fra esse non è intercorso un contratto, quale il contratto di società, diretto a modificare<br />

la condizione giuridica dei beni utilizzati, i quali restano, perciò, beni in comunione”.<br />

103 Art. 2248 c.c. “La comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o<br />

più cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III ( artt. 1100ss.)”.<br />

45


comunione a scopo di godimento, si costituisce una società di<br />

fatto “la cui disciplina regolerà i rapporti tra condomini e<br />

l‟utilizzo del marchio nell‟ambito di un‟attività d‟impresa<br />

comune, ma sopravvive anche la comunione di marchio per<br />

regolare i rapporti tra i comunisti in quanto tali e non in quanto<br />

soci” 104 .<br />

104 RAMPONE, op. cit., p.117; Relativamente ai rapporti tra i comunisti in quanto tali e non in<br />

quanto soci “Le regole della comunione regoleranno i rapporti tra i condomini in merito ai<br />

termini e condizioni entro cui concedere l‟uso dello stesso alla società di fatto nonché, ad<br />

esempio, il diritto di disporre della quota di marchio ex art. 1103 c.c.; oppure il diritto di agire<br />

in giudizio per la conservazione del diritto ex art.1104 c.c.<br />

46


1.6.3 Art. 1103 c.c.(Disposizione della quota)<br />

L‟art. 1103 c.c. dispone che “1. Ciascun partecipante può<br />

disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa<br />

nei limiti della sua quota. 2. (…)”. La norma in esame riguarda il<br />

profilo dello sfruttamento negoziale o indiretto del marchio cioè<br />

gli atti di disposizione della quota e le licenze del titolo che<br />

ciascun contitolare può porre in essere. L‟ applicazione del<br />

principio della libertà di disposizione della quota ex art. 1103<br />

c.c. alla comunione di marchio, suscita la preoccupazione che “le<br />

decisioni di uno solo o di alcuni o anche della maggioranza<br />

possano alterare gli equilibri concorrenziali esistenti tra i<br />

partecipanti alla comunione, favorendo l‟ingresso, a vario titolo,<br />

di terzi nel mercato dello sfruttamento del bene comune” 105 .<br />

Nonostante le suddette preoccupazioni, non si può negare la<br />

lettera dell‟art. 1103 c.c., infatti, per quanto riguarda gli atti di<br />

disposizione della quota, è opinione diffusa che il singolo<br />

comunista possa cedere la propria quota liberamente,<br />

personalmente ritengo che esso possa farlo a favore di uno o più<br />

aventi causa scelto/i anche al di fuori del gruppo dei comunisti.<br />

Ritengo che, una volta ammessa la libera cessione della quota,<br />

non abbia senso discutere se sia consentita soltanto a favore di<br />

un unico avente causa ovvero se il singolo contitolare possa<br />

frazionare liberamente la propria quota tra più aventi causa, dal<br />

momento che i problemi legati alla contitolarità del marchio e<br />

all‟uso plurimo dello stesso restano sempre gli stessi sia che il<br />

numero dei contitolari resti invariato sia che lo stesso aumenti.<br />

Quanto alla scelta dell‟ avente causa o degli aventi causa, ritengo<br />

che anch‟essa debba essere libera cioè nego che in capo agli altri<br />

105 SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE,op. cit., p. 88<br />

47


contitolari ci sia il diritto di prelazione, 106 salvo il caso in cui si<br />

tratti di comunione derivata mortis causa. Alcuni Autori 107<br />

hanno ricavato la sussistenza di tale diritto dal rinvio generale<br />

dell‟ art. 1116 c.c. alle norme in tema di divisione ereditaria e, in<br />

particolare, all‟art. 732 c.c., 108 sul retratto successorio. “Tale<br />

norma, però, oltre ad avere carattere eccezionale, 109 non è<br />

sistematicamente riconducibile alla divisione ereditaria e,<br />

soprattutto, è in contrasto con l‟art. 1103 c.c. che, invece,<br />

stabilisce la libera cedibilità della quota”. 110<br />

Per quanto riguarda la licenza, al fine di stabilire se il singolo<br />

comunista possa “cedere ad altri il godimento della cosa comune<br />

nei limiti della sua quota”, la dottrina maggioritaria 111 riconduce<br />

tale contratto alla figura della locazione e, sulla base del disposto<br />

dell‟ art. 1108.3 c.c., 112 afferma che se la licenza ha durata<br />

ultranovennale occorre il consenso unanime dei comunisti,<br />

mentre se ha durata infranovennale è ritenuta un atto di ordinaria<br />

amministrazione, ergo deve essere concessa con le maggioranze<br />

ex art. 1105 c.c. Altra dottrina 113 distingue tra licenze esclusive e<br />

106 In questo senso SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 89; RAMPONE, op. cit., p.<br />

123 nota 52.<br />

107 Per un ampio dibattito dottrinale sull‟argomento si veda UBERTAZZI, op. cit., p. 183<br />

108 Art. 732 c.c.( Diritto di prelazione) “1. Il coerede, che vuole alienare ad un estraneo la sua<br />

quota o parte di essa, deve notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri<br />

coeredi, i quali hanno diritto di prelazione. Questo diritto deve essere esercitato nel termine di<br />

due mesi dall‟ultima delle notificazioni. In mancanza della notificazione, i coeredi hanno<br />

diritto di riscattare la quota dall‟acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura lo<br />

stato di comunione ereditaria. 2. Se i coeredi che intendono esercitare il diritto di riscatto sono<br />

più, la quota è assegnata a tutti in parti uguali.”<br />

109 In questo senso BRANCA, op. cit., p. 155 “ L‟art. 1103 c.c. non pone altri limiti che quello<br />

della quota al potere di disposizione del singolo compartecipe. Perciò l‟ art. 732 non è<br />

estensibile alla comunione in generale, tanto più che è nato e si è consolidato per ragioni<br />

particolari nella sola comunione ereditaria”; SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 89.<br />

110 RAMPONE, op. cit., p. 123 nota 52.<br />

111; GUIDI, sub art. 20 l. i., in UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza,<br />

terza ed., Padova, 2004, p.1543. Per un ampio dibattito dottrinale sull‟argomento si veda<br />

UBERTAZZI, op. cit., p. 183.,<br />

112 Art. 1108.3 c.c. “E‟ necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o<br />

di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove<br />

anni”.<br />

113 VANZETTI- DI CATALDO, op. cit., p. 370<br />

48


non esclusive, altra 114 ancora abbandona qualunque distinzione e<br />

richiede sempre e comunque l‟ espressione della unanimità dei<br />

consensi da parte dei contitolari. A parere di chi scrive, l‟ art.<br />

1103 c.c. è applicabile alla comunione di marchio e il principio<br />

della libera disposizione della quota da parte del contitolare deve<br />

essere concretamente attuato consentendo a ciascun contitolare<br />

di stipulare contratti di licenza a prescindere dalla volontà degli<br />

altri contitolari. Si ritiene che lo sfruttamento negoziale attuato<br />

mediante i contratti di licenza non alteri le modalità dell‟uso<br />

plurimo del marchio dal momento che il licenziante, attraverso le<br />

clausole del contratto, ha la possibilità di impartire al<br />

licenziatario delle direttive sull‟uso del segno, di controllare che<br />

le stesse vengano attuate e di risolvere il contratto di licenza nel<br />

caso di violazione delle suddette direttive.<br />

114 LEVI, Cenni sulla comunione d’invenzione, in Probl. attuali. dir. ind., Milano, 1977, p. 705<br />

49


1.6.4 Art. 1104 c.c.(Obblighi dei partecipanti)<br />

Ai sensi dell‟art. 1104 c.c.“1. Ciascun partecipante deve<br />

contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il<br />

godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla<br />

maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà<br />

di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”. Secondo<br />

un‟opinione dottrinale, “questa norma implicitamente riconosce<br />

che tutti i partecipanti sono obbligati a conservare e mantenere la<br />

cosa comune idonea al normale godimento secondo la<br />

destinazione impressale dal costituente o dalla maggioranza ex<br />

art. 1108 c.c.”. 115 Per un Autore, le spese funzionali al godimento<br />

della cosa comune “devono essere a carico di tutti non tanto<br />

perché ciascuno beneficia dei vantaggi della cosa (cuius<br />

commoda eius et incommoda) quanto perché (…) è un interesse<br />

della comunione tenere il bene in istato di poter servire. In breve<br />

la norma che commentiamo si limita a dire che a mantenere la<br />

cosa in quello stato e nella sua capacità di godimento sono<br />

obbligati tutti i compartecipi”. 116 A parere di chi scrive, la norma<br />

in esame è sicuramente applicabile alla comunione di marchio<br />

perché in questo contesto è necessaria una disposizione che<br />

individui i soggetti obbligati al pagamento di alcune spese<br />

necessarie, addirittura, all‟esistenza del bene in comunione. Mi<br />

riferisco alle spese necessarie per testimoniare l‟uso del marchio,<br />

quali ad esempio le spese per la pubblicità, le tasse di rinnovo<br />

della registrazione, a quelle necessarie ad evitare l‟uso decettivo<br />

del segno, quali ad esempio quelle per realizzare un uso<br />

concertato del marchio attraverso l‟adozione delle stesse<br />

modalità di fabbricazione e commercializzazione dei prodotti<br />

115 RAMPONE, op. cit., p. 126<br />

116 BRANCA, op. cit., p. 155<br />

50


marcati (il non uso del marchio e l‟uso decettivo dello stesso<br />

sono cause di decadenza).<br />

51


1.6.5 Art. 1105 c.c.(Amministrazione) e Art. 1108 c.c.<br />

(Innovazioni e altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione)<br />

“ La ratio che distingue gli atti di cui agli artt. 1105-1108, è<br />

frutto della tensione che si avverte in tutto il Titolo VII e che<br />

caratterizza le due opposte prospettive con cui considerare il<br />

fenomeno della comunione, intesa come sintesi oppure come<br />

somma delle singole volontà di ciascun partecipante. La<br />

soluzione adottata dal codice è di modulare il grado di<br />

partecipazione collegiale alle decisioni dei comunisti in funzione<br />

della rilevanza dell‟atto da compiere sul bene comune.” 117 L‟art.<br />

1105, 2°comma, infatti, per gli atti di ordinaria amministrazione<br />

stabilisce che le relative deliberazioni devono essere assunte<br />

dalla maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore<br />

delle loro quote, mentre l‟art. 1108 commi 1° e 2°, per le<br />

innovazioni e gli altri atti eccedenti l‟ordinaria amministrazione,<br />

richiede una maggioranza diversa, cioè la maggioranza dei<br />

partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore<br />

complessivo della cosa comune. Quanto alla compatibilità delle<br />

norme in esame con la contitolarità di marchio, un orientamento<br />

dottrinale sostiene che “la disciplina civilistica incontri difficoltà<br />

a gestire anche i momenti organizzativi e procedurali della<br />

comunione di marchio” 118 mentre un altro 119 , cerca di<br />

individuare gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione<br />

relativi alla comunione di marchio al fine di applicare gli articoli<br />

1105 e 1108 c.c. Per l‟orientamento appena citato, sono atti di<br />

ordinaria amministrazione quelli conservativi funzionali ma non<br />

necessari al godimento della cosa comune (in tali atti rientrano<br />

quelli di pianificazione e realizzazione della pubblicità quando<br />

117 RAMPONE,op. cit., p. 129<br />

118 DI CATALDO,op. cit., p. 13<br />

119 RAMPONE,op. cit., p. 129<br />

52


iguardino iniziative diverse quanto a modalità e costi rispetto a<br />

quelle già effettuate in passato senza tuttavia spingersi fino ad<br />

innovare il messaggio), quelli che si limitano alla regolare<br />

gestione del bene comune nonché quelli volti ad una sua più<br />

proficua o più comoda utilizzazione qualora ciò non importi né<br />

innovazione né mutamento della destinazione economica (ad<br />

esempio la cura dei rapporti con i licenziatari, la conclusione di<br />

contratti di licenza infranovennale, l‟ estensione del marchio per<br />

altri servizi o prodotti della stessa specie di quelli già<br />

contraddistinti); sono atti di straordinaria amministrazione, gli<br />

atti che importano innovazione (cioè gli atti che mutano il<br />

contenuto del diritto di esclusiva, ad esempio, la registrazione di<br />

un marchio di fatto nel caso in cui il marchio comune abbia<br />

assunto rinomanza ex art. 20.1c) CPI tale da garantirgli una<br />

protezione ultramerceologica) o che mutano la destinazione della<br />

cosa comune ( cioè gli atti che mutano il messaggio insito nel<br />

marchio). Personalmente condivido la classificazione effettuata<br />

dalla dottrina ora ricordata, ma dubito che gli artt. 1105 e 1108<br />

c.c., anche se ritenuti compatibili con la comunione di marchio,<br />

possano trovare concreta applicazione. Ritengo ad esempio<br />

inapplicabile l‟art. 1105, 4° comma 120 in quanto “ l‟assenza di<br />

accordi tra i condomini per l‟uso comune del marchio, ed a<br />

maggior ragione il rifiuto, da parte di taluno di essi, di addivenire<br />

ad intese del genere, non può certo dare spazio alla creazione di<br />

un regolamento da parte del giudice”. 121 A sostegno di questa<br />

posizione ricordiamo la sentenza del Tribunale di Milano dell‟11<br />

giugno 1992 nella quale si legge “l‟ordine di ottemperare al<br />

120 Art. 1105.4 c.c. “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l‟amministrazione della<br />

cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene<br />

eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all‟autorità giudiziaria. Questa provvede in camera<br />

di consiglio e può anche nominare un amministratore”.<br />

121 DI CATALDO, op. cit., p. 13 ss.<br />

53


principio secondo il quale i partecipanti alla comunione hanno<br />

diritto di concorrere all‟amministrazione della cosa comune e il<br />

dovere di osservare le modalità concordate relative all‟uso del<br />

marchio non può essere adottato dal Tribunale perché riflette un<br />

comportamento generale ed astratto previsto come tale dalla<br />

norma dell‟art 1105 c.c. e non l‟attuazione del diritto nel caso<br />

concreto”. 122<br />

122 Cfr. Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />

54


1.6.6 Art. 1106 c.c.(Regolamento della comunione e nomina di<br />

amministratore)<br />

L‟art. 1106 c.c. prevede che “1. Con la maggioranza calcolata<br />

nel modo indicato nell‟articolo precedente, può essere formato<br />

un regolamento per l‟ordinaria amministrazione e per il miglior<br />

godimento della cosa comune”. Secondo un Autore 123 , le norme<br />

contenute negli artt. 1100 ss. c.c. sono essenzialmente dispositive<br />

pertanto “sono ammissibili anche quei regolamenti della<br />

comunione aventi fonte e meccanismo di formazione più o meno<br />

diversi. Non si contesta e il silenzio del codice non permette<br />

tuttavia di contestare che essi possano essere formati dal<br />

costituente nella disposizione testamentaria con cui si dà origine<br />

alla comunione ereditaria o ovviamente da tutti i compartecipi se<br />

si ecceda l‟ordinaria amministrazione. A parte tali differenze<br />

questi regolamenti hanno in comune di essere destinati, con un<br />

insieme di regole, a disciplinare in futuro l‟ azione dei<br />

compartecipi in merito al bene”. 124 A parere di chi scrive, l‟ art.<br />

1106 è la norma che presenta meno dubbi di compatibilità perché<br />

nella comunione di marchio il coordinamento tra comunisti è<br />

fondamentale e il regolamento in questione rappresenta, appunto,<br />

uno strumento di concertazione nell‟uso del marchio. Già a<br />

proposito del couso del segno ho evidenziato la necessità che i<br />

prodotti marcati abbiano le stesse caratteristiche se si vogliono<br />

evitare ipotesi di inganno del pubblico e l‟idoneità del<br />

regolamento della comunione a soddisfare tale necessità<br />

attraverso la disciplina delle modalità di fabbricazione e<br />

commercializzazione del prodotto. 125<br />

123 BRANCA, op. cit., p. 200<br />

124 BRANCA, op. cit., p. 200<br />

125 In questo senso RAMPONE, op. cit., p. 135; DI CATALDO, op. cit., p.12, il quale accosta<br />

concettualmente il regolamento della comunione di marchio ad un accordo consortile per<br />

organizzare “lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”( art. 2602 c.c.)<br />

55


Quanto all‟esecuzione coattiva del regolamento, personalmente<br />

ritengo che essa sia impensabile dal momento che “il<br />

regolamento punta all‟integrazione dell‟attività di produzione e<br />

commercializzazione del prodotto, esso quindi, con tutta<br />

evidenza, si traduce in tutta una rete di prestazioni di fare, come<br />

tali sicuramente incoercibili”. 126 Nel caso “Fioravanti”, 127 ad<br />

esempio, la domanda degli attori, i quali chiedevano al giudice di<br />

ordinare ai convenuti di ottemperare al principio secondo il quale<br />

tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell‟<br />

amministrazione della cosa comune (art. 1105 c.c.) e il dovere di<br />

osservare le modalità concordate, nella sentenza di primo<br />

grado 128 , è stata respinta con la motivazione prima ricordata a<br />

proposito dell‟inapplicabilità dell‟art. 1105.4 c.c. (vedi p. 46) e,<br />

nella sentenza di appello, 129 è stata parimenti respinta con la<br />

seguente motivazione: “Pur dandosi atto che, nel caso in esame,<br />

non si tratta di astratta enunciazione della volontà legislativa,<br />

stante la documentata controversia in atti, si deve comunque<br />

confermare l‟ improponibilità della domanda, sul rilievo che una<br />

siffatta pretesa non trova nel nostro ordinamento la possibilità di<br />

una tutela coattiva: il regolamento di comunione deve essere<br />

spontaneamente negoziato ed accettato dai comunisti, né può<br />

essere imposto dall‟autorità giudiziaria”.<br />

Un‟ ultima notazione relativa al regolamento della comunione<br />

riguarda la differenza tra questo tipo di accordo e quei contratti<br />

126 DI CATALDO, op. cit., p.15<br />

127 Il caso “Fioravanti” riguarda la controversa titolarità del marchio “Fioravanti.” Il Tribunale<br />

di Milano, nella sentenza dell‟ 11giugno 1992, dichiara che tra i tre fratelli Fioravanti, Mario,<br />

Guido e Corrado, esiste la comunione dell‟omonimo marchio; la Corte d‟Appello di Milano,<br />

nella sentenza del 20 giugno 1995, dichiara la Corrado Fioravanti s.r.l. decaduta dal marchio<br />

comune a decorrere dal 1981 e conferma tutte le altre statuizioni del primo giudice; la Corte di<br />

Cassazione, nella sentenza del 9 marzo 2001, rigetta i ricorsi davanti alla stessa proposti. A<br />

titolo informativo ricordiamo che dal 2008 il marchio “Fioravanti”,a seguito di una cessione,<br />

appartiene in esclusiva al Nuovo Pastificio Italiano s. r. l..<br />

128 Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 927<br />

129 App. Milano, 20 giugno,1995, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 935s<br />

56


noti nella prassi come “accordi di coesistenza”. Secondo un<br />

Autore “questi ultimi non servono a regolare i rapporti tra<br />

condomini, quanto –al contrario- proprio ad evitare che lo<br />

sconfinamento delle attività di diversi imprenditori titolari di<br />

marchi limitrofi porti nel tempo a costituire tra loro una<br />

comunione incidentale di marchio.” 130 La Corte di Cassazione,<br />

tuttavia, nella sentenza 19 ottobre 2004, n. 20472 ha precisato<br />

come detti accordi “possono riguardare anche l‟utilizzazione di<br />

uno stesso marchio, come nell‟ipotesi della comunione di<br />

marchio o dei marchi di gruppo, ovvero nel caso di<br />

frammentazione di un complesso produttivo unitario in una<br />

pluralità di imprese distinte e indipendenti (…)”. Anche se<br />

ritengo applicabili gli accordi di coesistenza alla comunione di<br />

marchio, devo precisare che gli accordi in questione hanno una<br />

natura profondamente diversa da quella del regolamento ex art.<br />

1106 c.c. . “Quest‟ultimo ha infatti natura normativa, frutto di<br />

una potestà regolamentare avente fonte nella legge; laddove gli<br />

accordi di coesistenza hanno natura contrattuale. Ancora, il<br />

regolamento ha efficacia propter rem, l‟ accordo di coesistenza<br />

ha efficacia personale; il regolamento vincola anche la<br />

minoranza dissenziente, l‟accordo di coesistenza vincola solo le<br />

parti che hanno manifestato il loro consenso.” 131 Per coloro che<br />

vedono delle similitudini tra contitolarità del marchio e marchio<br />

collettivo, 132 può essere di qualche interesse evidenziare anche la<br />

differenza tra il regolamento ex art. 1106 c.c. e il regolamento<br />

del marchio collettivo. Il regolamento, nel caso del marchio<br />

130 RAMPONE, op. cit., p. 136<br />

131 RAMPONE, op. cit., p. 137<br />

132 In questo senso DONATO, op. cit., p. 101, “Le due fattispecie, naturalmente ,non sono<br />

identiche; non vi è dubbio, infatti, che molte siano le differenze in atto: innanzitutto la<br />

questione della titolarità.(…) Però in entrambi i casi l‟uso è plurimo e in entrambi i casi si<br />

avverte l‟esigenza che i vari utilizzatori, pur liberi di far uso del segno, non ingenerino<br />

confusione verso il pubblico”.<br />

57


collettivo, è elemento necessario per ottenere la registrazione e<br />

deve prevedere un preciso disciplinare che fissi le modalità<br />

dell‟uso del marchio tra i vari utilizzatori, pena la decadenza dal<br />

diritto. L‟art. 157 CPI, infatti, a pena di irricevibilità della<br />

domanda di registrazione, richiede che unitamente alla domanda<br />

medesima sia allegato il regolamento di cui all‟art. 11 CPI; 133<br />

l‟adozione del regolamento cui fa riferimento l‟ art. 1106 c.c.,<br />

invece, è facoltativa e la norma ora citata non prevede un<br />

contenuto minimo dell‟accordo tra i comunisti né alcuna forma<br />

di controllo sull‟attuazione dello stesso così come avviene per il<br />

marchio collettivo.<br />

133 Art. 11.2 CPI “I regolamenti concernenti l'uso dei marchi collettivi, i controlli e le relative<br />

sanzioni devono essere allegati alla domanda di registrazione; le modificazioni regolamentari<br />

devono essere comunicate a cura dei titolari all'Ufficio italiano brevetti e marchi per essere<br />

incluse tra i documenti allegati alla domanda”.<br />

58


1.6.7 Art. 1111 c.c.(Scioglimento della comunione)<br />

L‟art. 1111c.c. consente ad ogni comunista di chiedere lo<br />

scioglimento della comunione salvo che il giudice imponga una<br />

dilazione (non superiore a cinque anni) ove lo scioglimento<br />

immediato pregiudichi gli altri comunisti; il un patto relativo alla<br />

durata della comunione non potrà comunque impedire lo<br />

scioglimento per un periodo superiore a dieci anni e consente<br />

all‟autorità giudiziaria, se gravi circostanze lo richiedono, di<br />

ordinare lo scioglimento della comunione prima del tempo<br />

convenuto. L‟ art. 1112 c.c. esclude poi il diritto di chiedere lo<br />

scioglimento “quando si tratta di cose che, se divise,<br />

cesserebbero di servire all‟uso cui sono destinate.” Ad avviso di<br />

chi scrive, tale norma è inapplicabile alla comunione di marchio<br />

perché essa fa riferimento alla divisione in natura di un bene<br />

materiale, problema che non si pone per il diritto di marchio in<br />

quanto è un bene immateriale che, pertanto, può essere diviso<br />

senza cessare di servire all‟uso cui è destinato. Personalmente<br />

ritengo che lo scioglimento può riguardare unicamente l‟intera<br />

comunione, 134 quindi, ritenendo che esso coinvolga tutti i<br />

contitolari, nego il riconoscimento a ciascuno di essi della facoltà<br />

di provocare lo scioglimento della comunione e sostengo che<br />

questo debba essere deciso di concerto tra tutti i comunisti (in<br />

via eccezionale, considero ammissibile tale facoltà nell‟ipotesi in<br />

cui sia in pericolo l‟esistenza stessa del diritto di proprietà<br />

industriale, cioè nell‟ipotesi di decadenza del marchio imputabile<br />

al comportamento di un singolo comunista). Per questo motivo,<br />

ritengo l‟ art. 1111c.c. inapplicabile alla comunione di marchio e<br />

134 In senso contrario SCUFFI -FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 93, “Lo scioglimento della<br />

comunione del titolo di proprietà industriale può essere parziale, cioè relativo alla posizione di<br />

uno o più contitolari, permanendo così la comunione tra gli altri”.<br />

59


inoltre perché le ragioni poste alla base della norma in questione<br />

devono essere ritenute incompatibili con la struttura e la<br />

funzione dei diritti di proprietà industriale. La prima delle<br />

ragioni suddette “è collegata al disfavore per la comunione,<br />

dovuto all‟ imperfezione dei mezzi che regolano i rapporti tra i<br />

contitolari e alla limitazione che la comunione stessa arreca al<br />

concetto di proprietà, inteso come signoria generale<br />

illimitata,” 135 la seconda è collegata, invece, al disfavore per i<br />

vincoli potenzialmente perpetui. Ad avviso di chi scrive si deve<br />

propendere per l‟ incompatibilità della prima ratio perché,<br />

“qualora si ritenga che il singolo partecipante alla comunione<br />

possa sfruttare liberamente, in via diretta o produttiva, il bene<br />

comune, vengono meno le ragioni di diffidenza verso la<br />

comunione che anzi, paradossalmente, introduce una sia pur<br />

limitata (ai contitolari) libera concorrenza all‟ interno della<br />

posizione di esclusiva riconosciuta dal titolo. Inoltre, a differenza<br />

della comunione di diritti relativi a beni materiali regolata dal<br />

codice civile, rispetto alla quale non è possibile predeterminare<br />

una durata massima, la durata del diritto di proprietà industriale<br />

comune è invece prefissata per legge, facendo così venir meno la<br />

seconda ratio della norma”. 136 Si ricorda che, ai sensi dell‟art.<br />

138.1 lett. c) CPI, l‟atto di divisione deve essere trascritto presso<br />

l‟UIBM. Per quanto riguarda la divisione del diritto di marchio<br />

in conseguenza dello scioglimento della comunione, secondo una<br />

parte della dottrina 137 “essa deve ritenersi ammissibile<br />

limitatamente alle ipotesi di divisione per classi<br />

135 SCUFFI -FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 93<br />

136 SCUFFI - FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 94, secondo i quali “uno spunto a favore<br />

dell‟ inapplicabilità dei limiti temporali posti dall‟ art. 1111c.c. si può poi ritrovare nell‟art.<br />

159.5, a proposito della rinnovazione della registrazione di marchio. La regola non avrebbe<br />

senso, infatti, se non si ammettesse la possibilità della durata del patto di rimanere in<br />

comunione superiore a dieci anni”.<br />

137 SENA, op. cit., p. 126<br />

60


merceologiche”, 138 secondo un‟altra parte 139 , invece, essa può<br />

essere eseguita con “attribuzione a ciascuno dei condomini di un<br />

equivalente in denaro delle loro quote attraverso la<br />

concentrazione delle stesse in capo ad un partecipante o per<br />

cessione ad un terzo estraneo” 140 .<br />

138 SENA, op. cit., p. 126<br />

139 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />

140 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />

61


1.7 Decadenza del marchio<br />

Un caso particolare di scioglimento della comunione ricorre nell‟ipotesi<br />

di decadenza del marchio. Posto che può aversi decadenza del marchio<br />

per uso ingannevole dello stesso oppure nel caso di illiceità sopravvenuta<br />

ai sensi dell‟art 14.2 CPI, per volgarizzazione del segno ai sensi dell‟art.<br />

13.4 CPI e per non uso ai sensi dell‟art. 24.1 CPI, devono distinguersi le<br />

diverse ipotesi e verificare se l‟istituto in questione sarà applicabile nei<br />

confronti di tutti i comunisti anche nel caso in cui il comportamento che<br />

dà origine alla dichiarazione di decadenza sia stato posto in essere da uno<br />

solo di loro. Secondo un Autore 141 , quando la sanzione della decadenza è<br />

posta a salvaguardia dei consumatori, cioè nei casi ex artt. 13.4 e 14.2<br />

CPI, essa investe il marchio nella sua interezza anche se dipende dal<br />

comportamento di un singolo comunista. “In tal caso, l‟unica<br />

consolazione dei condomini che non abbiano provocato la decadenza<br />

sarà l‟esercizio dell‟azione extracontrattuale di risarcimento del danno ex<br />

art. 2043c.c. e la pubblicazione della sentenza.” 142 Quando, invece,<br />

l‟istituto in parola non ha l‟obiettivo di tutelare i terzi, bensì di evitare<br />

l‟accaparramento di un segno impedendo a terzi l‟uso effettivo nel<br />

mercato, cioè nel caso ex art. 24.1CPI, l‟Autore citato ritiene che “nei<br />

rapporti esterni, tra comunisti e terzi, per interrompere la decadenza a<br />

vantaggio di tutti i partecipanti sia sufficiente l‟uso del marchio da parte<br />

anche di un solo comunista; nei rapporti interni si verifichi un‟ipotesi di<br />

decadenza pro quota”. 143 Per un orientamento dottrinale 144 , “l‟unicità del<br />

diritto di marchio in comunione, se da un lato provoca la decadenza del<br />

diritto anche in capo al condomino che con il suo comportamento non ha<br />

causato l‟uso ingannevole del marchio, vale, per altro verso, a salvare da<br />

decadenza per non uso il condomino che non usi il marchio, quando vi<br />

141 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />

142 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />

143 RAMPONE, op. cit., p. 140<br />

144 DI CATALDO, op. cit., p. 17<br />

62


sia uso da parte di altro condomino”. 145 Si ricorda che il problema è stato<br />

affrontato anche nel già citato caso “Fioravanti.” 146 La decisione di<br />

primo grado ha escluso la decadenza del diritto del condomino per non<br />

uso mentre la decisione di secondo grado e quella della Cassazione<br />

l‟hanno ammessa. Un‟ Autrice 147 , riguardo alla massima 148 della Corte<br />

d‟Appello di Milano, afferma che “la stessa non può essere condivisa per<br />

la considerazione che nel caso del mancato uso del marchio oggetto della<br />

comunione da parte di uno solo dei comunisti non ricorre la ratio della<br />

decadenza, la quale risiede nella necessità di restituire il marchio<br />

inutilizzato alla possibilità di adozione da parte di qualsiasi terzo come<br />

segno distintivo dei suoi prodotti. (…) Il non uso al quale consegue la<br />

decadenza è per definizione un non uso del marchio in assoluto”. 149 A<br />

parere di chi scrive, quando la sanzione della decadenza è posta a<br />

salvaguardia dei consumatori, essa investe il marchio nella sua interezza<br />

anche se dipende dal comportamento di un singolo comunista e, in<br />

questo caso, il condomino che tema l‟estinzione per fatto di altro<br />

condomino potrà adire il giudice, anche in via d‟urgenza, per chiedere<br />

l‟inibitoria dell‟uso del marchio nei confronti del soggetto che, con il suo<br />

comportamento ha messo in pericolo l‟esistenza del segno e per chiedere<br />

la divisione della comunione 150 .<br />

Per quanto riguarda la decadenza per non uso, ritengo che essa abbia<br />

luogo solo nei confronti del comunista che non usi effettivamente 151 il<br />

145 DI CATALDO, op. cit., p. 17, in questo senso anche Trib. Reggio Emilia,11 giugno 2002,<br />

in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4501,291, secondo il quale “l‟uso del marchio da parte di uno<br />

dei condomini impedisce la decadenza del diritto in capo a ciascun condomino”.<br />

146 Trib. Milano, 11giugno 1992, App. Milano, 20 giugno 1995, in Il dir. ind. n.10/1995.p. 927;<br />

Cass., 9 marzo 2001, n.3444, in Giur. ann. dir. ind.,2003, n. 4476,46<br />

147 CAV<strong>ALL</strong>ARO, Commento al caso Fioravanti, in Il dir. ind. n.10/1995,p. 939<br />

148 “La Corte ha statuito che dall‟ inattività di uno dei contitolari nell‟uso del marchio in<br />

comunione non può non derivare la decadenza di costui dal diritto di usare il marchio già<br />

comune, a far tempo da quando l‟ inattività si è protratta per il periodo necessario a far<br />

maturare la decadenza stessa”<br />

149 CAV<strong>ALL</strong>ARO, op. cit., in Il dir. ind. n.10/1995, p. 939<br />

150 In questo senso anche DI CATALDO, op. cit., p16<br />

151 RAMPONE,op. cit., p. 140 “Il mancato uso di un condomino dovrà essere effettivo e non<br />

sostanziarsi, per esempio, in una licenza, ad uno o più degli altri comunisti”; cfr. App. Torino,<br />

63


marchio in quanto, proprio perché è vero che “il non uso al quale<br />

consegue la decadenza è per definizione un non uso del marchio in<br />

assoluto”, non deve dimenticarsi che il segno continua ad essere usato<br />

dagli altri comunisti.<br />

9 marzo 2005, in Giur. ann. dir. ind. 2005, 752; App. Milano, 28 marzo 1980, in Giur. ann.<br />

dir. ind, 1980, 313<br />

64


Capitolo 2 Accordi di coesistenza<br />

2.1Definizione e funzioni degli accordi di coesistenza<br />

Gli accordi di coesistenza sono contratti di diritto privato attraverso i<br />

quali due o più titolari di diritti di marchio (o di altri segni distintivi),<br />

potenzialmente interferenti, riconoscono il rispettivo diritto sul proprio<br />

marchio e stabiliscono le modalità di utilizzo dei propri segni. 152 L‟utilità<br />

di questi accordi è di evitare lo sconfinamento dei marchi in mercati<br />

concorrenti con reciproca sottrazione di clientela, nonché di proteggere la<br />

loro idoneità distintiva. Dal punto di vista temporale la stipulazione degli<br />

accordi in esame può avvenire prima della registrazione, allo scopo di<br />

predeterminare gli ambiti di utilizzo di segni in rapporto di interferenza,<br />

ma anche successivamente, con finalità tipicamente transattive. Secondo<br />

un‟opinione dottrinale, anche se “in non poche circostanze 153 , e forse<br />

quasi sempre i patti di coesistenza mettono fine ad una lite giudiziaria o<br />

mirino a prevenirne il sorgere, (…) non si può escludere che un accordo<br />

di delimitazione dei marchi sia fatto al di là dell‟esistenza di una lite<br />

pendente o minacciata, come pura e semplice manifestazione dell‟<br />

autonomia privata e dell‟ iniziativa economica dei titolari dei marchi.<br />

(…) Pertanto, se è vero che di regola gli accordi di delimitazione sono<br />

anche delle transazioni, non è escluso che essi diano vita ad accordi del<br />

tutto atipici.” 154 Non è mancato chi, infatti, nello sforzo di dare<br />

all‟istituto una qualificazione giuridica, ne ha riconosciuto la natura di<br />

152 L‟<strong>IN</strong>TA (International Trademark Association) definisce l‟ accordo di coesistenza come “an<br />

agreement by two or more persons that similar trademarks can coexist without any likelihood<br />

of confusion; allows the parties to set rules by which the marks can peacefully coexist” “Un<br />

accordo tra due o più persone (il quale stabilisce che) marchi simili possano coesistere senza<br />

alcun rischio di confusione; (esso) consente alle parti di definire le regole in base alle quali i<br />

marchi possono coesistere pacificamente.”<br />

153 Natura di transazione hanno gran parte degli accordi di coesistenza tra marchi sui quali la<br />

nostra giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi: Cfr. Trib. Roma, 24 settembre 1984, in<br />

Giur. ann. dir. ind., 1986, p.532 ( caso “Valentino”); App. Milano, 9 maggio 1986, in Giur.<br />

ann. dir. ind,1987, p.183 ( caso “Ciocca/ Filatura di Tollegno”); Lodo arb., 2 settembre 1998,<br />

in Giur. ann. dir. ind, 1998, p. 3837/3 (caso “Zegna”)<br />

154 SPOLIDORO, Il consenso del titolare e gli accordi di coesistenza, in AA.VV., Segni e<br />

forme distintive, Milano, 2001, p. 218<br />

65


negozio atipico, “ la cui causa è di trasferire in regolamento contrattuale<br />

l‟osservanza di determinate regole di comportamento concorrenziale che<br />

traggono origine dalla legge; ciò nell‟interesse di entrambe le parti sotto<br />

il profilo di una maggior certezza dei reciproci rapporti<br />

concorrenziali”. 155<br />

Quanto ai tratti caratterizzanti tali accordi, si può affermare che i segni<br />

distintivi, la cui sfera di rilevanza viene disciplinata dalla pattuizione,<br />

appartengono a soggetti diversi e tra loro indipendenti e sono<br />

potenzialmente interferenti per l‟identità o la confondibilità dei segni<br />

ovvero per l‟identità o l‟affinità dei prodotti.<br />

155 CASABURI, Diritto civile e diritto industriale: un rapporto difficile. Riflessione<br />

estemporanea sugli accordi di coesistenza tra i marchi, a margine del caso Zegna, in Il dir.<br />

ind., n. 5/2004, p. 441<br />

66


2.1.1Accordi relativi al medesimo marchio<br />

Per la maggioranza della dottrina gli accordi di coesistenza<br />

propriamente detti sono solo quelli che hanno ad oggetto marchi<br />

interferenti; secondo un Autore, infatti, i patti stipulati da<br />

contitolari di un medesimo marchio non fanno parte della<br />

categoria degli accordi di coesistenza perché “ questi ultimi non<br />

servono a regolare i rapporti tra condomini, quanto –al contrario-<br />

proprio ad evitare che lo sconfinamento delle attività di diversi<br />

imprenditori titolari di marchi limitrofi porti nel tempo a<br />

costituire tra loro una comunione incidentale di marchio” 156 .<br />

Personalmente ritengo, invece, che si possa parlare di patti di<br />

delimitazione anche con riferimento al marchio in comunione 157 .<br />

In questo senso si è espressa anche la Suprema Corte, secondo la<br />

quale gli accordi di coesistenza, “possono riguardare anche<br />

l‟utilizzazione di uno stesso marchio, come nell‟ipotesi della<br />

comunione di marchio o dei marchi di gruppo, ovvero nel caso<br />

della frammentazione di un complesso produttivo unitario in una<br />

pluralità di imprese distinte e indipendenti.” 158 A livello<br />

comunitario 159 nel caso di contitolarità del segno si è infatti<br />

sostenuta l‟ammissibilità di accordi aventi ad oggetto la<br />

regolamentazione dell‟uso plurimo del segno (in particolare in<br />

caso di limitazioni territoriali) nella misura in cui detta<br />

regolamentazione permette di evitare l‟uso decettivo del segno<br />

stesso. A parere di chi scrive, la possibilità di stipulare accordi di<br />

coesistenza aventi ad oggetto l‟uso di un marchio in comunione,<br />

trova il proprio fondamento normativo nell‟art. 6 CPI, il quale<br />

statuisce l‟applicabilità alla contitolarità di un diritto di proprietà<br />

156 RAMPONE, op. cit., p. 136<br />

157 In questo senso anche SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 91<br />

158 Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2004, n. 20472, in Guida al Diritto, 2004, 49, 67<br />

159 Cfr. Sentenza Hag II ,Corte di Giustizia CE, 17 ottobre 1990, causa C- 10/89, HAG GF, in<br />

Raccolta, 1990, I- 3711<br />

67


industriale delle norme del codice civile in materia di comunione<br />

in quanto applicabili, facendo salva la possibilità che<br />

intervengano convenzioni in contrario. Ad avviso di chi scrive<br />

l‟autonomia privata gioca un importante ruolo nella disciplina<br />

del marchio in comunione, soprattutto nella regolamentazione di<br />

quegli aspetti per i quali la disciplina civilistica risulta<br />

incompatibile. L‟art. 6 CPI (D. Lgs. 30/05) sancisce formalmente<br />

la validità di “convenzioni” dei contitolari ma ritengo che, di<br />

fatto, tale validità fosse riconosciuta anche prima del 2005. Nel<br />

più volte citato caso “Fioravanti,” 160 infatti, si fa riferimento ad<br />

una scrittura privata risalente al 1962 attraverso la quale si attua<br />

una delimitazione territoriale dei mercati sui quali utilizzare il<br />

marchio in comunione fra i tre fratelli Fioravanti 161 . La<br />

delimitazione territoriale costituisce uno dei possibili contenuti<br />

degli accordi di coesistenza.<br />

160 Trib. Milano, 11 giugno 1992, in Il dir. ind. n. 10/95, p.923<br />

161 Questa la suddivisione territoriale concordata: a Guido fu assegnato il laboratorio per la<br />

produzione di gnocchi di Milano con riserva di sfruttamento nella Lombardia e nel Piemonte a<br />

nord del fiume Po; a Corrado fu assegnato il laboratorio per la produzione di gnocchi di Trieste<br />

con riserva di sfruttamento nelle tre Venezie e all‟estero; a Mario fu assegnato il laboratorio<br />

per la produzione di gnocchi di Genova con riserva di sfruttamento in tutto il territorio<br />

nazionale a sud del fiume Po.<br />

68


2.1.2Accordi relativi a marchi interferenti:il Caso Apple<br />

Gli accordi di coesistenza hanno ad oggetto, nella maggior parte<br />

dei casi, segni potenzialmente interferenti. L‟interferenza può<br />

derivare dall‟identità o dalla somiglianza tra i marchi ovvero<br />

dall‟affinità o identità dei prodotti o dei servizi che i marchi<br />

interessati contraddistinguono. Si ricorda che ai sensi dell‟art.<br />

20.1 lett. a-b CPI e dell‟art 9.1 lett. a-b del Regolamento sul<br />

marchio comunitario 162 , il marchio conferisce al titolare della<br />

registrazione il diritto di vietare a terzi l‟uso nell‟attività<br />

economica di un segno identico o simile per prodotti o servizi<br />

identici o affini quando, a causa dell‟identità o somiglianza tra i<br />

segni e a causa dell‟identità o somiglianza tra i prodotti o servizi,<br />

possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che<br />

può anche consistere in un rischio di associazione tra i due<br />

segni. 163 “La possibilità di confusione tra marchi significa che il<br />

complesso di informazioni che un consumatore ricollega ad un<br />

certo marchio può erroneamente essere ricollegato ad un marchio<br />

simile. Questo può derivare sia dal fatto che il pubblico ritiene<br />

che l‟origine dei prodotti sia comune, sia dal fatto che il pubblico<br />

ritiene che l‟origine dei prodotti non sia comune ma sia in<br />

qualche modo collegata”. 164 Secondo un orientamento dottrinale,<br />

i patti di coesistenza “si traducono specificamente nel consenso<br />

all‟utilizzazione di segni teoricamente confondibili, ma non<br />

162 Reg. CE 20 dicembre 1993, n. 40/94. Regolamento del Consiglio sul marchio comunitario,<br />

da ora in avanti r. m.c.<br />

163 Gli artt. 20.1 lett. c) e 9.1 lett. c) R. m.c. prevedono con riferimento ai marchi che godono di<br />

rinomanza, che il titolare del diritto può altresì vietare a terzi l‟uso di un segno identico o<br />

simile per prodotti identici o simili se l‟uso del segno senza giusto motivo consente di trarre un<br />

indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio ovvero rechi<br />

pregiudizio agli stessi.<br />

164 FRANZOSI, Sulla funzione del marchio e sul rischio di associazione, in Riv. dir. ind., 1999,<br />

p. 279; l‟autore ritiene che le lesioni ad un marchio possono essere effettuate mediante l‟uso di<br />

marchi che diano luogo a: confusione in concreto; rischio di confusione; rischio di<br />

associazione; annacquamento della capacità distintiva; deterioramento dell‟immagine del<br />

marchio.<br />

69


sentiti come “pericolosi” dal titolare, in quanto estranei al<br />

concreto messaggio che il primo marchio vuole recare ai<br />

consumatori per volontà del suo titolare”. 165 Un esempio di patto<br />

avente ad oggetto marchi interferenti è rappresentato<br />

dall‟accordo di coesistenza intervenuto tra le società Apple<br />

Corps 166 e Apple Computers 167 al fine di evitare lo<br />

sconfinamento dei marchi in mercati concorrenti con reciproca<br />

sottrazione di clientela. Al fine di meglio comprendere la portata<br />

della somiglianza tra i marchi riporto di seguito i rispettivi loghi<br />

nella grafica originale.<br />

Apple Computers Apple Corps<br />

Nel 1989, Apple Corps, la casa discografica dei The Beatles,<br />

siglò un accordo di coesistenza con Apple Computer. L‟accordo<br />

riconobbe la somiglianza tra i rispettivi marchi e stabilì delle<br />

regole per disciplinare la pacifica coesistenza dei due marchi<br />

interferenti. Secondo i termini dell‟accordo, Apple Computers<br />

avrebbe avuto il diritto esclusivo di usare il proprio marchio su<br />

componentistica per computers, accettando di non utilizzarlo per<br />

contraddistinguere computer equipments per la registrazione e<br />

per la riproduzione musicale; Apple Corps avrebbe avuto il<br />

diritto esclusivo di usare il proprio logo in relazione ad ogni<br />

165 SPOLIDORO, op. cit., p. 204<br />

166 La Apple Corps Ltd. è stata fondata nel gennaio del 1968 dal gruppo musicale dei Beatles.<br />

Il nome dell'azienda fu ideato da McCartney sotto l'influenza di un quadro di René Magritte, il<br />

logo fu disegnato da Gene Mahon.<br />

167 La Apple Computer Inc. (dal 2007 Aplle Inc.) venne fondata da Steve Jobs e Steve Wozniak<br />

nel 1976 a Cupertino, nella Silicon Valley in California. Il primo logo di Apple Computer è<br />

stato progettato da Jobs e Wayne e raffigura Sir Isaac Newton seduto sotto un albero di mele.<br />

Quasi subito, però, questo logo è stato sostituito da Rob Janoff's con la sagoma di una mela<br />

morsicata color arcobaleno (Rainbow apple). Dal 1998 il rainbow "bitten" logo è stato<br />

sostituito dalle versioni monocromatiche, nei colori bianco o nero.<br />

70


servizio o prodotto il cui principale contenuto fosse la musica o<br />

la riproduzione musicale. Entrambe le parti inoltre non<br />

avrebbero tentato di invalidare le registrazione dei rispettivi<br />

marchi. Come rileva un‟Autrice, 168 i problemi legati a questo<br />

trademark coexistence agreement nacquero “quando la Apple<br />

computers lanciò il software iTunes, un iTunes store (un negozio<br />

virtuale dal quale la musica poteva essere scaricata mediante<br />

l‟utilizzo dell‟ iTunes software) e l‟iPod , la Apple Corps citò la<br />

Apple Computers sostenendo la violazione dell‟accordo di<br />

coesistenza in virtù dello sconfinamento perpetrato in uno dei<br />

fields riservati ad Apple Corps. La Corte inglese adita non<br />

accolse la pretesa della parte attrice ritenendo che il logo venisse<br />

utilizzato per contraddistinguere un programma informatico e<br />

non in relazione alla musica riprodotta dallo stesso”. 169 Si può<br />

affermare che le società in questione non si dimostrarono<br />

particolarmente lungimiranti in quanto non furono in grado di<br />

prevedere lo sviluppo della tecnologia nei software e le proprie<br />

prospettive di espansione sul mercato 170 . Ad avviso di una parte<br />

della dottrina, “malgrado gli sforzi di anticipare contrattualmente<br />

i futuri sviluppi, il rapporto che si instaura con l‟accordo di<br />

coesistenza è normalmente destinato ad una serie di successivi<br />

adattamenti (…). Per questi motivi i contratti di coesistenza sono<br />

contratti “incompleti”, suscettibili di modifiche e variazioni<br />

concordate fra le parti nel corso della loro attuazione e che<br />

168 DI BON, Gli accordi di coesistenza tra rischio di confusione e normativa antitrust, in PMI<br />

N. 6/2008, p. 24<br />

169 DI BON, op. cit., p. 24<br />

170 DI BON, op. cit., p. 27 “Particolare attenzione dovrà essere riservata alla pianificazione<br />

futura dell‟ attività: è essenziale che l‟impresa si prefiguri i possibili sviluppi della propria<br />

presenza sul mercato, in particolare individuando i settori merceologici ovvero i territori<br />

geografici nei quali, ragionevolmente, potrebbe espandersi e nei quali potrebbe confliggere con<br />

le altre imprese parti dell‟ accordo. Di tale essenziale aspetto dovrà rendersi conto nella<br />

redazione del testo contrattuale”.<br />

71


presuppongono una certa collaborazione tra esse.” 171 Per<br />

concludere l‟analisi del caso Apple si ricorda che ogni<br />

controversia relativa al marchio “Apple” si è definitivamente<br />

conclusa nel 2007, anno in cui Apple Corps ha ceduto il proprio<br />

marchio alla Apple Computers (oggi Apple Inc.). Proprio con<br />

una cessione si è conclusa un‟altra vicenda che ha coinvolto un<br />

altro marchio della Apple Inc.: il marchio“iPhone”. La società<br />

di Cupertino aveva registrato in Cina il marchio “iPhone” nel<br />

2002, ma compì l‟errore di legarlo specificatamente ad hardware<br />

e software e non ad apparecchi e dispositivi telefonici, per questo<br />

due anni dopo il marchio "i-phone” fu astutamente registrato da<br />

una piccola società cinese (Hanwang Technology) legandolo ad<br />

“apparecchi e dispositivi telefonici" in maniera completamente<br />

legale (tanto che furono messi in commercio telefoni cellulari<br />

contrassegnati con il marchio “i-phone” appena registrato). Dopo<br />

lo sbarco dell' iPhone in Cina, si verificò un caso di coesistenza<br />

di marchi interferenti: “i-phone” ed “iPhone.” Il 5 gennaio 2010<br />

il marchio “i-phone” è stato ceduto dalla società cinese Hanwang<br />

Technology alla Apple Inc.<br />

171 SPOLIDORO, op. cit., p. 216<br />

72


2.2Validità e fondamento giuridico<br />

La questione della validità di accordi che possono lasciar convivere<br />

marchi simili per prodotti affini, che vengono stipulati per risolvere<br />

controversie che potrebbero concludersi con una declaratoria di nullità<br />

del o dei marchi di una delle parti in conflitto e/o con una condanna per<br />

contraffazione, ha dato luogo ad un intricato nodo interpretativo che<br />

analizzerò tenendo distinti i periodi antecedente e successivo l‟entrata in<br />

vigore del D. Lgs. n. 480/1992 e le correlate posizioni della<br />

giurisprudenza e della dottrina e considerando anche il profilo<br />

dell‟eventuale inganno per il pubblico. Posto che non esiste una<br />

disciplina propria del contratto, legislativamente tipizzata, la dottrina ha<br />

individuato nell‟accordo di coesistenza un contratto atipico e quindi un<br />

implicito riferimento alla validità di quest‟ultimo nell‟art. 1322,<br />

2°comma, c.c. 172 dal momento che si ritiene che il patto in questione<br />

persegua “un interesse meritevole di tutela”. Secondo un orientamento<br />

dottrinale , 173 tra le principali caratteristiche socialmente apprezzabili<br />

degli accordi dei quali ci occupiamo, si deve ricordare “l‟idoneità a<br />

risolvere in modo concordato e durevole una situazione di incertezza<br />

dannosa per le parti; l‟idoneità a circoscrivere la portata delle facoltà<br />

negative del titolare riducendole alle reali esigenze di tutela dello<br />

sfruttamento delle facoltà positive, con conseguente apertura di spazi<br />

disponibili ai concorrenti in settori affollati di registrazione (…).”<br />

Chiarito che gli accordi di coesistenza devono essere valutati<br />

positivamente alla stregua dell‟art.1322, 2° comma, c.c., occorre<br />

ricordare che “resta il limite secondo il quale in tanto l‟accordo di<br />

coesistenza è valido in quanto sia adeguato a raggiungere lo scopo in<br />

vista del quale esso appare degno di protezione giuridica: questo<br />

172 Art. 1322.2 c. c. “Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi,<br />

aventi una disciplina particolare , purché siano diretti a realizzare un interesse meritevole di<br />

tutela secondo l‟ordinamento giuridico”.<br />

173 SPOLIDORO, op. cit., p.212; MAGGI, Sulla validità e sugli effetti degli accordi di<br />

coesistenza dei diritti di marchio nei confronti dei terzi, in Riv. dir. ind., 2004, II, p.311<br />

73


controllo è infatti necessario ogni volta che si tratti di applicare l‟art.<br />

1322, 2°comma, c. c.. Questo principio si traduce in pratica soprattutto<br />

nella necessità di considerare non validi gli accordi di delimitazione che<br />

(…) siano ex ante manifestamente inadeguati a realizzare in concreto<br />

l‟obiettivo di evitare incertezze per le parti e d‟impedire l‟inganno del<br />

pubblico sui prodotti e sui servizi.” 174 Un altro riferimento normativo<br />

che, secondo un Autore, 175 implicitamente conferma la legittimità degli<br />

accordi di coesistenza, è rappresentato dall‟art. 43, 4°comma, r.m.c., il<br />

quale, disciplinando l‟esame dell‟opposizione, stabilisce espressamente<br />

che “l‟Ufficio può, a sua discrezione, invitare le parti ad addivenire ad<br />

una conciliazione”. La maggioranza della dottrina, 176 inoltre, ha da<br />

sempre individuato la base normativa della validità degli accordi che ci<br />

interessano, prima dell‟emanazione del CPI, nell‟art. 1, 1° comma,<br />

l.m. 177 e, ora, nell‟art.20, 1° comma, CPI 178 . Le norme in questione<br />

prevedono che il titolare di un diritto di marchio possa vietare ai terzi di<br />

utilizzare un segno con esso interferente “salvo proprio consenso”.<br />

Secondo Spolidoro, il consenso cui fanno riferimento le norme<br />

menzionate è un consenso di “grado uno”, cioè, “un‟espressa<br />

autorizzazione dell‟uso potenzialmente oggetto di un‟azione inibitoria,<br />

che può essere il contenuto di una dichiarazione di volontà unilaterale o<br />

174 SPOLIDORO, op. cit., p. 212<br />

175 SPOLIDORO, op. cit., p. 211<br />

176 Cfr. SPOLIDORO, op. cit., p. 211; MAGGI, op. cit., p. 309; CASABURI, op. cit., p. 442;<br />

SENA, op. cit., p. 185<br />

177 Art. 1, 1° comma, l.m. “ 1. I diritti del titolare del marchio d'impresa registrato consistono<br />

nella facoltà di far uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo<br />

proprio consenso, di usare: a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a<br />

quelli per cui esso è stato registrato;b) un segno identico o simile al marchio registrato, per<br />

prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identità o somiglianza fra i segni e<br />

dell'identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il<br />

pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;<br />

c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi non affini, se il<br />

marchio registrato goda nello Stato di rinomanza e se l'uso del segno senza giusto motivo<br />

consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del<br />

marchio o reca pregiudizio agli stessi.<br />

178 L‟ art. 20, 1°comma, CPI riproduce il testo del vecchio art. 1, 1°comma l.m.<br />

74


di un vero e proprio accordo contrattuale.” 179 A questo proposito, è<br />

opportuno ricordare che l‟inciso “salvo il proprio consenso” è stato<br />

introdotto nell‟art. 1, 1° comma, l.m. con la riforma attuata dal D. Lgs. 4<br />

dicembre 1992, n. 480, ma che anche nel vigore della vecchia legge del<br />

1942, gli accordi di delimitazione nell‟uso di marchi erano stati<br />

riconosciuti legittimi dalla giurisprudenza. A titolo di esempio si può<br />

ricordare il caso “Ciocca/Tollegno” 180 : in primo grado il Tribunale di<br />

Milano 181 aveva riconosciuto la legittimità degli accordi in oggetto sul<br />

presupposto che i diritti sui marchi rientrano fra i diritti disponibili, di cui<br />

un soggetto può disporre mediante rinuncia; in secondo grado, la Corte<br />

d‟Appello di Milano 182 , in senso contrario, statuiva che “l‟accordo<br />

transattivo con il quale il titolare di un marchio concede ad un terzo l‟uso<br />

di un segno distintivo confondibile con il proprio è sostanzialmente un<br />

atto dispositivo del proprio segno, ossia il cedere al terzo il diritto di<br />

usare il marchio unitamente al titolare, concretando la coesistenza di<br />

marchi confondibili, ed è nullo in quanto ha per oggetto diritti rispetto ai<br />

quali sussiste soltanto una limitata capacità dispositiva”. 183 Infine la<br />

Corte di Cassazione, 184 ha cassato la sentenza della Corte d‟ Appello,<br />

ribadendo che “una transazione nella quale si preveda che una delle parti<br />

possa proseguire nell‟uso di un marchio, pur simile e confondibile con<br />

altro marchio del cui brevetto è titolare l‟altra parte, non costituisce atto<br />

179 SPOLIDORO, op. cit., p. 194, distingue tre gradi del consenso: grado zero (il consenso è<br />

inespresso, è una tolleranza cosciente come quella evocata dall‟art. 48, 1° comma, l.m. per la<br />

convalidazione del marchio); grado uno (il consenso è un‟espressa autorizzazione dell‟uso<br />

potenzialmente oggetto di un‟azione inibitoria, che può essere il contenuto di una dichiarazione<br />

di volontà unilaterale o di un vero e proprio accordo contrattuale); grado due (questa espressa<br />

autorizzazione è assorbita nell‟ atto di disposizione del diritto di marchio: un atto di<br />

disposizione consistente, in senso specifico, nella costituzione di un‟investitura in capo al<br />

licenziatario di taluni dei poteri del titolare del marchio sulla registrazione)<br />

180 Il caso riguardava un accordo transattivo con il quale una parte (Ciocca) accettava di<br />

rinunciare ad ogni segno distintivo che contenesse la parola “gatto” e l‟altra parte (Tollegno)<br />

accettava che Ciocca continuasse ad usare come proprio segno distintivo un marchio che<br />

contenesse la figura stilizzata di un gatto.<br />

181 Trib. Milano, 3 maggio 1984, in Rep. Foro it., 1986 n. 12<br />

182 App. Milano, 9 maggio 1986, in Giur. ann. dir. ind., 1987, p. 183<br />

183 Ricordiamo che, anteriormente alla riforma attuata dal D. Lgs. 480/92, la disposizione dei<br />

diritti di marchio era vincolata al trasferimento dell‟ azienda o del ramo d‟azienda<br />

184 Cass. ,19 aprile 1991, n. 4225, in Rep. Foro it., 1991, n. 109<br />

75


di disposizione del diritto di esclusiva di quest‟ultima e non è quindi<br />

affetta da nullità”. La giurisprudenza successiva alla riforma del 1992 ha<br />

senz‟altro riconosciuto la validità degli accordi di coesistenza. 185 Sotto il<br />

profilo dell‟inganno dei consumatori che potrebbe derivare dagli accordi<br />

di coesistenza che cristallizzano la convivenza di marchi confondibili,<br />

personalmente ritengo che, in forza di questi accordi, non dovrà<br />

comunque mai consentirsi un uso decettivo del marchio e che, in via<br />

analogica, debba trovare applicazione l‟art. 23,4° comma, CPI. Il patto di<br />

coesistenza è un atto dispositivo, il CPI all‟art. 23, 4° comma, 186 per altre<br />

ipotesi di disposizione del diritto di marchio, prevede che “in ogni caso,<br />

dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno<br />

in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali<br />

nell‟apprezzamento del pubblico” ergo il consenso del titolare non può<br />

comunque tradursi in inganno per il pubblico; “quando tale<br />

ingannevolezza sussiste, il contratto (consenso o accordo di coesistenza)<br />

sarà nullo e la nullità del marchio successivo per difetto di novità potrà<br />

essere fatta valere, ai sensi dell‟art. 59,1° comma, l.m. 187 (ora art. 122,<br />

2°comma, CPI 188 ) dal titolare del diritto anteriore, il quale potrà anche<br />

185 La validità di accordi di coesistenza tra marchi è attestata da Trib. Milano, 26 febbraio 1996,<br />

in Rep. Foro it.,1999, p. 98; Trib. Milano, 16 marzo 2000, e App. Milano, 9 gennaio 2004,<br />

entrambe in Riv. dir. ind., 2004, , p. 277 ; Cass. civ.,Sez. I, 19 ottobre 2004, n. 20472, in Guida<br />

al Diritto, 2004, 49, 67 “Gli accordi di coesistenza non hanno carattere “dispositivo”, poiché<br />

non danno luogo ad alcun trasferimento dei diritti di esclusiva del titolare del marchio (…)”<br />

186 Anteriormente all‟ emanazione del CPI l‟art. 15,4°comma, l.m. conteneva la stessa<br />

disposizione.<br />

187Ricordiamo che il D. Lgs. 8 ottobre 1999, n. 447, ha sancito il passaggio dal regime di<br />

nullità assoluta a quella relativa, ha cioè soppresso la legittimazione dei terzi e del Pubblico<br />

Ministero all‟ azione di nullità, quando essa sia fondata sul conflitto con anteriori diritti di<br />

marchio. Il regime di nullità relativa si collega al rilievo del consenso del titolare del marchio e<br />

alla liberà di scelta di quest‟ultimo se agire o non agire per la contraffazione del marchio.<br />

FRASSI, Nullità assoluta e relativa del marchio. Osservazioni in margine al D. Lgs. 447/99, in<br />

Riv. dir. ind.,2000, p. 164, secondo la quale “Fino alla riforma del 1999, gli accordi di<br />

coesistenza erano sempre soggetti alla spada di Damocle che un terzo agisse per far dichiarare<br />

la nullità per mancanza di novità del segno successivo (…) sono oggi più stabili perché la<br />

questione del difetto di novità è, nel sistema della nullità relativa, una questione divenuta<br />

disponibile.”<br />

188 Art. 122, 2°comma, CPI “L‟azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di un<br />

marchio per la sussistenza di diritti anteriori (…) può essere esercitata soltanto dal titolare dei<br />

diritti anteriori e dal suo avente causa o avente diritto”<br />

76


agire in contraffazione.” 189 Per un orientamento dottrinale, “non è<br />

plausibile l‟ipotesi che sia automaticamente (o anche solo normalmente)<br />

ingannevole la coesistenza di segni simili o identici per prodotti uguali o<br />

affini. Perché ci sia inganno occorre insomma qualcosa di più di quello<br />

che giustificherebbe, dal punto di vista del titolare del marchio anteriore,<br />

un‟azione di contraffazione o di nullità della registrazione posteriore,<br />

oppure un‟ opposizione alla registrazione.” 190 E‟ mia convinzione che i<br />

patti di coesistenza che legittimano la presenza sul mercato di segni<br />

interferenti non siano causa, sic et simpliciter, di un inganno del<br />

pubblico; tale inganno può essere evitato dalle parti attraverso l‟adozione<br />

di distinguishing additions oppure attraverso un‟adeguata informazione<br />

del consumatore, o la differenziazione dei prodotti confondibili.<br />

189 SENA, op. cit., p. 187<br />

190 SPOLIDORO, op. cit., p. 199<br />

77


2.3Efficacia degli accordi di coesistenza<br />

Quanto agli effetti degli accordi in questione, la giurisprudenza che si è<br />

pronunciata sull‟argomento ha affermato che essi hanno efficacia<br />

obbligatoria inter partes. 191 Ciò significa che questi patti non limitano la<br />

possibilità del titolare del marchio che ha sottoscritto un accordo di<br />

coesistenza con un certo soggetto di far valere il suo diritto di esclusiva<br />

nei confronti di altri soggetti che non hanno preso parte alla stipulazione<br />

e che utilizzano un marchio interferente con il suo. 192 Questa tesi è stata<br />

seguita nel “Caso Valentino”, nel quale emerge anche il principio<br />

secondo il quale gli accordi di coesistenza, essendo dei normali contratti<br />

di diritto privato (ergo si applica l‟art. 1372 c.c.), producono i loro effetti<br />

nei confronti delle parti e dei loro eredi. “Il caso in esame trae origine da<br />

un accordo concluso in sede transattiva nel 1979 da una serie di società<br />

facenti capo allo stilista Valentino Garavani, da un lato, e ad un altro<br />

stilista, Mario Valentino (in seguito deceduto) e dalla sua società Mario<br />

Valentino s.p.a., dall‟altro lato, accordo con il quale le parti, che<br />

pretendevano entrambe di essere titolari del marchio “Valentino”, si<br />

erano divise i rispettivi diritti di esclusiva in relazioni alle varie classi<br />

merceologiche. In base all‟originario accordo del 1979 l‟uso del marchio<br />

“Valentino” da solo era stato attribuito a Mario Valentino per il settore<br />

delle calzature e della pelletteria e a Valentino Garavani per gli altri<br />

settori. Viceversa, nel settore della pelletteria e delle calzature, Valentino<br />

191 In questo senso si veda Trib. Milano, 26 febbraio 1996, in Rep. Foro it.,1999, n. 98, secondo<br />

cui gli accordi in parola regolano gli ambiti territoriali e merceologici di utilizzo di marchi<br />

interferenti determinando la mera insorgenza di rapporti obbligatori a carico di ciascuna delle<br />

parti; Cass. civ., Sez. I, 10 ottobre 2008, n. 24909 , in Mass. Giur. It., 2008 “Tali convenzioni<br />

hanno efficacia meramente obbligatoria "inter partes" e non limitano la tutela del marchio nei<br />

confronti dei terzi, salvo il caso in cui abbiano assunto indirettamente un rilievo esterno,<br />

contribuendo ad una diversa delimitazione reale dell'ambito di protezione del segno, con effetti<br />

potenzialmente irreversibili anche nei confronti dei terzi e dei consumatori”<br />

192 In questo senso MAGGI, op. cit., p. 311; SPOLIDORO, op. cit., p. 218; cfr Cass. civ. Sez.<br />

I, 10 ottobre 2008, n. 24909 , in Mass. Giur. It., 2008 “Il carattere relativo di tale vincolo<br />

giuridico non impedisce alla società Valentino di agire per opporsi all‟ingresso, nello stesso<br />

mercato dei prodotti delle classi 18 e 25, di altri operatori concorrenti, né costituisce ostacolo<br />

all‟esercizio, da parte della medesima società, delle azioni di tutela dei propri marchi anteriori<br />

contenenti il nome “Valentino” verso l‟altrui pretesa- contra legem –di fare uso di marchi con<br />

essi interferenti.<br />

78


Garavani si era impegnato ad usare il segno “Valentino” accompagnato<br />

dal cognome Garavani, mentre Mario Valentino e l‟omonima s.p.a. si<br />

erano impegnati ad utilizzare il segno “Valentino” accompagnato dal<br />

nome Mario nel settore dell‟abbigliamento. I marchi oggetto di questa<br />

transazione erano: “Valentino”, “Mario Valentino”, “Valentino<br />

Garavani”. Dopo alcuni anni di coesistenza fra i marchi di cui si è detto,<br />

entrava nei mercati cui si riferiva l‟accordo con il marchio “Giovanni<br />

Valentino” l‟omonimo stilista, figlio di Mario Valentino, il quale<br />

concedeva poi alla società inglese Florence Fashion Jersey Limited la<br />

facoltà di registrare e di utilizzare il segno costituito dal suo nome”. 193<br />

Nel “Caso Valentino” alcune società facenti capo a Valentino Garavani<br />

avevano convenuto la società Florence Fashion per ottenere la<br />

declaratoria di nullità della registrazione del marchio “Giovanni<br />

Valentino”, in quanto contenente il segno “Valentino”, nonché la<br />

contraffazione di esso da parte del marchio “Giovanni Valentino.” La<br />

Florence Fashion si era difesa invocando l‟efficacia anche a favore di<br />

Giovanni Valentino dell‟accordo transattivo stipulato dal di lui padre, in<br />

ragione del fatto che questo accordo era stato sottoscritto da Mario<br />

Valentino anche in proprio e che quindi Giovanni, in qualità di erede,<br />

avrebbe dovuto succedere al de cuius anche nei diritti derivanti<br />

dall‟accordo stesso. La sentenza di primo grado 194 ha accolto le ragioni<br />

della Florence Fashion, ritenendo che Giovanni Valentino dovesse essere<br />

considerato erede di Mario e come tale suo successore nell‟accordo in<br />

questione. La sentenza di secondo grado 195 ha affermato che l‟accordo di<br />

cui si trattava aveva effetto solo tra le parti che lo avevano<br />

originariamente sottoscritto e che sarebbe stato quindi privo di efficacia<br />

nei confronti di Giovanni Valentino e della Florence Fashion. Con la<br />

conseguenza che le società di Valentino Garavani, nonostante la<br />

193 Sul punto v. MAGGI, op. cit., p. 307<br />

194 Trib. Milano, 16 marzo 2000, in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 277<br />

195 App. Milano, 9 gennaio 2004, in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 277<br />

79


sottoscrizione dell‟accordo delimitativo del 1979, avrebbe mantenuto i<br />

diritti di marchio sul nome “Valentino” nel settore delle calzature e della<br />

pelletteria e avrebbe potuto azionare questi diritti nei confronti dei terzi.<br />

La sentenza della Corte di Cassazione 196 ha confermato la decisione<br />

della Corte d‟Appello, la quale non ha negato che Giovanni Valentino<br />

fosse uno degli eredi di Mario Valentino, il quale sottoscrisse anche in<br />

proprio l‟accordo transattivo del 1979, ma ha sottolineato un profilo<br />

importantissimo: l‟irrilevanza della qualità di erede di Giovanni<br />

Valentino in ragione della diversità del marchio in contestazione.<br />

Ritornando all‟efficacia puramente obbligatoria del patto di coesistenza,<br />

“si dovrebbe pensare che esso, per la parte in cui non ha già avuto<br />

esecuzione ed in quella in cui determina l‟insorgere di un rapporto di<br />

durata, di per sé non circoli con il marchio, salvo che un‟apposita<br />

clausola non lo preveda specificatamente. Detta clausola ha peraltro<br />

effetto solo per i contraenti e non per l‟eventuale terzo acquirente che<br />

ovviamente non può essere vincolato dall‟accordo, cui è pur sempre<br />

estraneo. Sono ormai di stile, nei modelli contrattuali più diffusi, le<br />

clausole con cui i diritti contrattuali delle parti vengono estesi a beneficio<br />

dei relativi licenziatari e alle imprese del gruppo.” 197<br />

Quanto all‟efficacia probatoria dell‟accordo di coesistenza, secondo la<br />

Decisione della Quarta Commissione di Ricorso UAMI del 30 aprile<br />

2003, 198 sembra che essa “debba ritenersi limitata a quel preciso<br />

regolamento di interessi privati in esso pattuiti, vale a dire che le parti<br />

hanno deciso di non ostacolarsi a vicenda. E‟ assai più discutibile se tale<br />

efficacia probatoria debba includere l‟ assenza di confusione sul mercato.<br />

Infatti, se da un lato, quest‟ultima è spesso indicata come fondamento<br />

196 Cass. civ., Sez. I Sent., 10 ottobre 2008, n. 24909, in Mass. Giur. It., 2008<br />

197 SPOLIDORO, op. cit., p. 220,<br />

198 Decisione della Quarta Commissione di Ricorso UAMI del 30 aprile 2003, procedimento<br />

R35/2002-4, reperibile sul sito www. oami. europa. eu. L‟ UAMI è l‟Ufficio per<br />

l‟armonizzazione a livello di mercato interno con sede ad Alicante<br />

80


dell‟accordo di coesistenza, dall‟altro, si potrebbe ritenere che se non vi è<br />

rischio di confusione, l‟accordo è inutile”.<br />

81


2.4Contenuto degli accordi di coesistenza<br />

Gli accordi in esame hanno ad oggetto “la concreta delimitazione delle<br />

sfere di protezione, con lo scopo di eliminare sia il conflitto economico<br />

fra i titolari dei marchi sia il pericolo di inganno per i consumatori. La<br />

delimitazione può riguardare la sfera merceologica della registrazione o<br />

dell‟utilizzo, la composizione del segno, il territorio in cui esso viene<br />

usato, i canali distributivi, la destinazione dell‟offerta o altri aspetti.<br />

Nulla vieta che più tipi di delimitazioni concorrano fra loro. 199 Secondo<br />

una parte della dottrina, 200 l‟accordo può avere ad oggetto anche un patto<br />

di non aggressione, cioè un patto contenente l‟impegno di non aggredire<br />

le rispettive registrazioni. “Esso è senz‟altro valido, quando l‟oggetto<br />

della rinuncia sia il diritto a far valere la contraffazione oppure un<br />

impedimento relativo alla registrazione. Il patto di non aggressione non<br />

sarebbe valido nella parte in cui il contraente si impegnasse a non far<br />

valere impedimenti assoluti o decadenze, con la sola eccezione della<br />

decadenza per non uso” 201 .<br />

199 SPOLIDORO, op. cit., p. 227<br />

200 DI BON, op. cit., p. 26; SPOLIDORO, op. cit., p. 224<br />

201 SPOLIDORO, op. cit., p. 224<br />

82


2.5Durata degli accordi di coesistenza<br />

Quanto alla durata, la dottrina è divisa sull‟applicabilità agli accordi di<br />

coesistenza dell‟art. 2596 c.c. . 202 Secondo un orientamento, “la risposta<br />

dovrebbe essere affermativa con riferimento alle pattuizioni intercorse tra<br />

soggetti che esercitino attività d‟impresa;” 203 secondo un altro<br />

orientamento, invece, il limite temporale ex art. 2596 c.c. non è<br />

applicabile perché “il patto di coesistenza normalmente è stipulato per un<br />

lungo periodo, o quantomeno presenta caratteri di stabilità. Se la durata e<br />

le cause di recesso o di risoluzione sono espressamente disciplinate, con<br />

l‟eventuale preavviso, non si pone alcuna questione. (…) Se nulla è detto<br />

circa la durata, il contratto dovrebbe intendersi a tempo indeterminato,<br />

con la conseguente applicabilità del principio che ciascuna parte può<br />

recedere in qualunque momento con un congruo preavviso.” 204 Secondo<br />

un importante lodo arbitrale, però, “le obbligazioni nascenti da un<br />

accordo di delimitazione tra segni distintivi hanno una durata correlata<br />

alla durata della situazione reale (l‟esclusiva) cui accedono in rapporto di<br />

funzionalità, cosicché non si applica ad esse il principio della recedibilità<br />

dalle obbligazioni perpetue”. 205 E‟ mia convinzione che il limite<br />

quinquennale previsto dall‟art. 2596 c.c. non sia applicabile agli accordi<br />

che ci interessano perché la ratio della norma citata è quella di evitare<br />

lunghi limiti contrattuali alla concorrenza ma, a mio avviso, gli accordi<br />

di coesistenza hanno un effetto pro-concorrenziale. Essi, infatti, se fanno<br />

in modo che il pubblico sia in grado di percepire che sul mercato sono<br />

presenti due diversi marchi, se contengono una chiara disciplina delle<br />

modalità di utilizzo dei segni confondibili, possono essere fonte di<br />

202 Art. 2596 c.c. (Limiti contrattuali della concorrenza) “1. Il patto che limita la concorrenza<br />

deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una<br />

determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. 2.Se la durata del patto non è<br />

determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di<br />

un quinquennio.”<br />

203 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p. 92, afferma l‟applicabilità dell‟art. 2596 c.c.<br />

anche RAMPONE, op. cit., p. 136<br />

204 SPOLIDORO, op. cit., p. 225<br />

205 Lodo arb., 2 settembre 1998, in Giu. ann. dir. ind., 1998, 3837/3<br />

83


vantaggio sia per i consumatori, i quali non rischiano di essere ingannati<br />

dalla coesistenza sul mercato di segni simili o identici per prodotti affini<br />

o identici, sia per i titolari dei marchi confondibili, in quanto i loro segni<br />

distintivi, agli occhi del pubblico, sono riferibili a due origini<br />

imprenditoriali diverse ergo non c‟è rischio di “sviamenti di clientela”.<br />

Secondo la Corte di Cassazione, “sia le norme che regolano la materia di<br />

segni distintivi propri (ditta, marchio, insegna) sia la disciplina della<br />

concorrenza, non sono limitazioni della concorrenza, ma strumenti per<br />

garantire che la concorrenza sia legittima, autentica e piena. (…) Gli<br />

accordi di coesistenza consentono la distinzione tra le attività delle<br />

imprese e concorrono quindi a far sì che il mercato sappia discernere<br />

bene un prodotto da un altro, una impresa da un‟altra, senza cadere nella<br />

confusione che potrebbe sorgere per l'uso di segni confondibili” 206<br />

206 Cass. ,.10 dicembre 1988, n. 6715, in Giu. ann. dir. ind.,1988, 2244/2 (caso Dolomiten<br />

Loden)<br />

84


2.5.1Accordo di coesistenza e convalidazione<br />

Un Autore 207 si è posto la domanda se il consenso contenuto in<br />

un patto di coesistenza possa avere gli stessi effetti della<br />

tolleranza di cui parla l‟art. 28 CPI a proposito dell‟istituto della<br />

convalidazione, con la conseguenza che, se il contratto di<br />

coesistenza durasse più dei cinque anni previsti dalla norma<br />

(fermi ovviamente gli altri requisiti previsti dalla stessa), il<br />

titolare del marchio più antico perderebbe il diritto di<br />

avvalersene contro quello più recente, che sarebbe ad ogni<br />

effetto convalidato. Egli, riconoscendo la profonda diversità tra<br />

le rationes sottese ai due istituti, rileva che “l‟accordo di<br />

coesistenza regola il rapporto tra le registrazioni per tutta la sua<br />

durata e può anche contenere stipulazioni la cui efficacia si<br />

proietta al di là della durata temporale del rapporto ad esecuzione<br />

continuata (avente ad oggetto l‟obbligo di tollerare l‟uso altrui)<br />

assunto dai contraenti. Ma è appunto sulla base del contratto e<br />

della sua interpretazione che si può stabilire se, al termine della<br />

sua efficacia, per qualsivoglia motivo, i rispettivi diritti dei<br />

titolari riprendono anche inter partes l‟estensione originaria<br />

oppure no.” 208 A parere di chi scrive, alla domanda suddetta si<br />

deve dare risposta negativa perché le ragioni che stanno alla base<br />

dei due istituti in questione sono diverse e perché, se dagli<br />

accordi di coesistenza derivasse la convalidazione del marchio<br />

successivo, nessuno più li stipulerebbe con la conseguenza di un<br />

aumento del rischio di inganno per il pubblico.<br />

207 SPOLIDORO, op. cit., p.219<br />

208 SPOLIDORO, op. cit., p.219<br />

85


2.6 Accordi di coesistenza e contratti di licenza di marchio: differenze e<br />

similitudini<br />

Entrambi i contratti in esame danno vita ad un rapporto obbligatorio di<br />

durata ma lo schema tipico dei due negozi è profondamente diverso. Nel<br />

contratto di licenza, che ha ad oggetto un solo marchio, il titolare cerca di<br />

sfruttare l‟avviamento incorporato nel marchio, attraverso la concessione<br />

dell‟uso dello stesso a terzi, nello stesso mercato nel quale egli opera<br />

ovvero in mercati in cui non è presente ed ove non intende svolgere<br />

direttamente alcuna attività imprenditoriale; negli accordi di coesistenza,<br />

invece, l‟oggetto dell‟accordo sono due o più marchi l‟uso dei quali<br />

viene disciplinato dai rispettivi titolari per evitare che “l‟immagine dei<br />

propri prodotti o servizi interferisca con quella dei prodotti o dei servizi<br />

dell‟altro titolare. Per ottenere questo, occorre impedire che il messaggio<br />

recato da un marchio vada a contaminarsi con quello recato dall‟altro,<br />

offuscandosi ed offuscandolo. Nella licenza, al contrario, il licenziatario<br />

ha normalmente tutto l‟interesse a mantenersi agganciato al titolare<br />

(...).” 209 Nonostante queste differenze di fondo, vi possono essere<br />

fattispecie in cui queste contrapposizioni finiscono per confondersi: si<br />

può citare, ad esempio, quella della “licenza apparente, nella quale la<br />

licenza è in realtà inesistente e le parti realizzano in via indiretta la stessa<br />

finalità pratica di un accordo di coesistenza; e quella speculare<br />

dell‟accordo di coesistenza apparente, nel quale i marchi che coesistono<br />

sono talmente simili (al limite identici) e coprono prodotti e servizi<br />

talmente vicini (al limite uguali) che in realtà si deve concludere che il<br />

marchio è uno solo e che i contraenti hanno l‟uno concesso e l‟altro<br />

ricevuto licenza d‟uso.” 210<br />

209 SPOLIDORO, op. cit., p.214<br />

210 SPOLIDORO, op. cit., p.215<br />

86


2.7 Compatibilità degli accordi di coesistenza con il diritto antitrust<br />

Relativamente agli accordi di coesistenza, una parte della dottrina teme<br />

che gli stessi “possano essere utilizzati come strumento per eludere la<br />

normativa antitrust, in particolare attraverso la fissazione di limiti alla<br />

produzione o alla commercializzazione o attraverso restrizioni<br />

territoriali.” 211 La medesima preoccupazione è avvertita anche negli Stati<br />

Uniti, paese in cui la prassi di stipulare “Trademark Coexistence<br />

agreements” è molto frequente; secondo un‟Autrice, infatti, “Coexistence<br />

agreement possibly violate antitrust laws. If coexistence agreements have<br />

the effect of reducing competition in the way proscribed by antitrust<br />

laws, then they may be simply illegal. Even if technically these<br />

agreements are within the bounds of antitrust laws, they may still reduce<br />

competition among manufacturers of similar products to the public’s<br />

detriment” 212 . Ritornando al diritto nazionale, secondo l‟orientamento<br />

maggioritario, 213 la potenziale contrarietà degli accordi di coesistenza al<br />

diritto antitrust è l‟eccezione, non la regola. Ho già avuto modo, a<br />

proposito della questione dell‟applicabilità del limite temporale ex art.<br />

2596 c.c., di evidenziare gli effetti pro-concorrenziali dei patti di<br />

delimitazione, pertanto anch‟io ritengo che non possa sostenersi, in tutti i<br />

casi, l‟incompatibilità degli stessi con la disciplina antitrust. Solo nelle<br />

ipotesi in cui dagli accordi di coesistenza derivino realmente alterazioni<br />

degli equilibri concorrenziali, allora gli stessi potranno essere vietati<br />

dall‟art. 81 TCE. 214<br />

211 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p.92<br />

212MOSS, Trademark “Coexistence” Agreements: Legitimate Contracts or Tools of<br />

Consumer?, in Loyola Consumer Law Review, 2005, vol.18, n.2, p. 197. “Gli accordi di<br />

coesistenza possono violare il diritto antitrust. Se gli accordi di coesistenza hanno l‟effetto di<br />

ridurre la concorrenza nel modo prescritto dal diritto antitrust, essi sono semplicemente illegali.<br />

Anche se tecnicamente questi accordi rientrano nei limiti delle leggi antitrust, essi possono<br />

comunque ridurre la concorrenza tra produttori di prodotti simili a danno del pubblico (dei<br />

consumatori).”<br />

213 SPOLIDORO, op. cit., p.228; DI BON, op. cit., p. 26<br />

214Trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Roma il 25 marzo 1957 e ratificato<br />

dall'Italia con legge 14 ottobre 1957, n. 1203; l‟art. 81 paragrafo 1° comma dispone che “sono<br />

vietati, in quanto incompatibili con il mercato comune, tutti gli accordi tra imprese, tutte le<br />

87


Capitolo 3 La comunione di altri diritti di<br />

proprietà intellettuale<br />

3.1I vari tipi di creazione intellettuale suscettibili di tutela<br />

Volendo raggruppare in via generale i vari tipi di creazione intellettuale<br />

suscettibili di tutela e i relativi diritti di proprietà intellettuale, 215 è<br />

possibile indicare tre categorie. Una prima categoria è quella delle opere<br />

dell‟ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla<br />

letteratura, alla musica, alle arti figurative, all‟architettura, al teatro e alla<br />

cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Ai<br />

sensi dell‟art. 2575 c.c. 216 e dell‟ art. 1 l. aut. 217 le opere suddette<br />

formano oggetto del diritto d‟autore. Per “creatività” dell‟opera si<br />

intende non solo il risultato dell‟attività intellettiva umana, ma anche la<br />

novità e l‟originalità di quel risultato. Va precisato che il grado di<br />

“originalità” può anche essere minimo, purché in grado di mostrare<br />

l‟apporto personale del suo autore. “La richiesta di originalità dell‟opera<br />

decisioni di associazioni d‟ imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il<br />

commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o<br />

falsare il gioco della concorrenza all‟interno del mercato comune” ma al 3° paragrafo prevede<br />

che, in alcuni casi, “tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate<br />

inapplicabili.”<br />

215 Ai sensi dell‟art. 2 viii) della Convenzione istitutiva dell‟organizzazione mondiale della<br />

proprietà intellettuale per “proprietà intellettuale” si intendono i diritti relativi:- alle opere<br />

letterarie, artistiche e scientifiche;- alle interpretazioni degli artisti interpreti e alle esecuzioni<br />

degli artisti esecutori, ai fonogrammi e alle emissioni di radiodifussione; - alle invenzioni in<br />

tutti i campi dell‟ attività umana; -alle scoperte scientifiche; -ai disegni e modelli industriali; -<br />

ai marchi di fabbrica, di commercio e di servizio, ai nomi commerciali e alle denominazioni<br />

commerciali; -alla protezione contro la concorrenza sleale; e tutti gli altri diritti inerenti all‟<br />

attività intellettuale nei campi industriale, scientifico, letterario e artistico.<br />

216 Art. 2575 c.c. (Oggetto del diritto) “Formano oggetto del diritto d‟autore le opere<br />

dell‟ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica,<br />

alle arti figurative, all‟architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la<br />

forma di espressione.”<br />

217 Ai sensi dell‟art 1 L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d‟autore e di altri diritti<br />

connessi al suo esercizio, in G.U. n.166 del 16 luglio 1941, da ora in avanti l. aut.. “1. Sono<br />

protette ai sensi di questa legge le opere dell‟ingegno di carattere creativo che appartengono<br />

alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all‟architettura, al teatro e alla cinematografia,<br />

qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. 2. Sono altresì protetti i programmi per<br />

elaboratori come opere letterarie ai sensi della Convenzione di Berna sulla protezione delle<br />

opere letterarie e artistiche ratificata e resa esecutiva con legge 20 giugno 1978, n. 399,nonché<br />

le banche dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione<br />

intellettuale dell‟autore”.<br />

88


attiene alla forma dell‟esposizione, e non al contenuto esposto così anche<br />

le notizie di dominio pubblico possono confluire in un‟opera<br />

dell‟ingegno quando esse siano espresse in una forma che rechi, in<br />

qualsiasi modo, l‟impronta di una elaborazione personale dell‟autore.” 218<br />

Altra caratteristica dell‟opera deve essere la “novità” che consiste nella<br />

somma di tutti gli elementi che compongono l‟opera dell‟ingegno e che<br />

nel loro insieme determinano un sufficiente grado di distinzione<br />

dell‟opera rispetto ad altre analoghe o preesistenti. Riguardo<br />

“all‟appartenenza alle scienze ed alle arti in genere,” l‟elenco indicato<br />

all‟articolo 1 l. aut. è stato ulteriormente specificato ad opera<br />

dell‟articolo 2 l. aut. 219 . Inoltre l‟opera deve possedere almeno una<br />

“forma espressiva” concreta, ossia un “vestito” in grado di rappresentare<br />

l‟idea e renderla fruibile ai terzi. Per concretezza non necessariamente si<br />

intende una forma materiale, potendo costituire “espressione” anche<br />

quella resa verbalmente. A rendere tutelabile l‟opera con un diritto<br />

all‟esclusività, non sono dunque i contenuti, ma il modo nel quale i<br />

contenuti sono proposti. Ritornando alla classificazione dei vari tipi di<br />

creazione intellettuale, una seconda categoria è quella delle creazioni<br />

218 Cass., 19 luglio 1990, n. 7397, in Giust. civ. Mass., 1990, fasc. 7, p. 1140<br />

219 Art. 2 l. aut. “In particolare sono comprese nella protezione:1) le opere letterarie,<br />

drammatiche, scientifiche, didattiche, religiose, tanto se in forma scritta quanto se orale; 2) le<br />

opere e le composizioni musicali, con o senza parole, le opere drammatico- musicali e le<br />

variazioni musicali costituenti di per sé opera originale; 3) le opere coreografiche e<br />

pantomimiche, delle quali sia fissata la traccia per iscritto o altrimenti; 4) le opere della<br />

scultura, della pittura, dell‟arte del disegno, della incisione e delle arti figurative similari,<br />

compresa la scenografia; 5) i disegni e le opere dell‟architettura; 6) le opere dell‟arte<br />

cinematografica, muta o sonora, sempreché non si tratti di semplice documentazione protetta ai<br />

sensi delle norme del Capo V del Titolo II; 7) le opere fotografiche e quelle espresse con<br />

procedimento analogo a quello della fotografia sempre che non si tratti di semplice fotografia<br />

protetta ai sensi delle norme del Capo V del Titolo II; 8) i programmi per elaboratore, in<br />

qualsiasi forma espressi purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell‟autore.<br />

Restano esclusi dalla tutela accordata dalla presente legge le idee e i principi che stanno alla<br />

base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce. Il<br />

termine programma comprende anche il materiale preparatorio per la progettazione del<br />

programma stesso. 9) le banche di dati di cui al secondo comma dell‟articolo 1, intese come<br />

raccolte di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti<br />

ed individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo. La tutela delle<br />

banche di dati non si estende al loro contenuto e lascia impregiudicati diritti esistenti su tale<br />

contenuto. 10) Le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e<br />

valore artistico.”<br />

89


intellettuali a contenuto tecnologico, tutelate dai diritti derivanti dal<br />

brevetto. In questa categoria rientrano le invenzioni industriali e i<br />

modelli di utilità. L'invenzione industriale può essere definita come la<br />

soluzione ad un problema tecnico non ancora risolto. Essa si realizza<br />

come un nuovo metodo o processo di lavorazione industriale, uno<br />

strumento, utensile o dispositivo meccanico che costituisce<br />

un'innovazione rispetto allo stato della tecnica, atto ad essere applicato in<br />

campo industriale. “Il modello di utilità 220 si differenzia dall‟invenzione<br />

perché costituisce l‟idea di soluzione dello specifico problema tecnico di<br />

conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego<br />

intervenendo sulla forma delle macchine o parti di esse, degli strumenti,<br />

degli utensili e degli oggetti di uso in genere.” 221<br />

Nella terza e ultima categoria è possibile porre le creazioni intellettuali di<br />

segni distintivi, cioè degli elementi che hanno funzione di identificare un<br />

determinato imprenditore (ditta), un determinato luogo dove si esercita<br />

l‟impresa (insegna), un determinato prodotto (marchio), necessari per<br />

differenziarli agli occhi del pubblico dei consumatori. In particolare, si<br />

ricorda che i marchi d‟impresa e quelli di servizio sono tutelati attraverso<br />

la registrazione del segno distintivo e, in alcuni casi, anche<br />

indipendentemente da quest‟ultima. (Mi riferisco, ad esempio, alla tutela<br />

del preuso del marchio).<br />

220 Art. 82, 1° comma, CPI “Possono costituire oggetto di brevetto per modello di utilità i nuovi<br />

modelli atti a conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego a<br />

macchine, o parti di esse, strumenti, utensili od oggetti di uso in genere, quali i nuovi modelli<br />

consistenti in particolari conformazioni, disposizioni, configurazioni o combinazioni di parti.”<br />

221 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit., p. 185<br />

90


3.2 La comunione di diritto d’autore<br />

L‟opera dell‟ingegno può costituire il frutto della collaborazione creativa<br />

di più autori anziché di uno solo e, a seconda della o delle categorie di<br />

opere coinvolte, della presenza o assenza di accordi tra i collaboratori o<br />

di un coordinatore dei lavori, è possibile distinguere diverse tipologie di<br />

opere complesse: opere in comunione, opere composte e opere collettive.<br />

Nelle cd. opere in comunione, “la concorrenza di più autori concerne la<br />

stessa creazione, sì che il contributo di ciascun creatore è obiettivamente<br />

inscindibile da quello dell‟altro; sì che non può separarsi nell‟opera la<br />

parte dell‟uno e la parte dell‟altro.” 222 I rapporti tra i diversi coautori<br />

sono disciplinati dall‟art. 10 l. aut. che rinvia alla comunione civilistica.<br />

Nelle opere composte, invece, “il concorso dei vari autori concerne parti<br />

autonome a loro volta considerabili come opere dell‟ingegno ancorché<br />

concorrenti poi a loro volta in un‟ opera dell‟ingegno (ché anzi non è<br />

allora escluso che poi una singola parte sia frutto di più autori e così<br />

oggetto di comunione, verificandosi nei suoi confronti l‟ipotesi<br />

precedente) definibile come unica data un‟ unità di funzione e vuoi che le<br />

parti appartengano ad uno stesso genere - come avviene per i vari capitoli<br />

di un romanzo o di un manuale -vuoi che appartengano ad un genere<br />

diverso- come per le parole e per l‟accompagnamento musicale. Potrà<br />

allora distinguersi l‟opera che diremo complessa dalle singole sue parti e<br />

può anzi aversi un‟utilizzazione o circolazione simultanea vuoi<br />

dell‟opera complessa vuoi delle singole parti isolate che a loro volta<br />

rappresentano opere dell‟ingegno non concorrendo – come invece<br />

nell‟ipotesi precedente- in un tutto inscindibile” 223 . Esempi di opere<br />

composte da contributi di generi artistici diversi, che sono quindi non<br />

solo distinguibili, ma anche utilizzabili separatamente, sono: le opere<br />

liriche, le operette, le composizioni musicali con parole (melologhi e<br />

222<br />

ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali,Milano, 1960, p. 773<br />

223<br />

ASCARELLI, op. cit., pp. 773,774<br />

91


canzoni), le opere composte di musica, di parole e di danza o mimica<br />

(particolarmente le opere coreografiche e pantomimiche) nonché le opere<br />

cinematografiche. Le ipotesi suddette sono regolate dagli artt. 33 ss. l.<br />

aut. e 44 ss. l. aut.. Le opere collettive sono opere create mediante<br />

l‟unione di lavori o frammenti di lavori di autori diversi e riuniti da un<br />

coordinatore per un scopo determinato, per lo più divulgativo, didattico o<br />

scientifico. Le opere collettive, 224 quindi a differenza di quelle composte<br />

hanno un coordinatore che sceglie, decide e coordina il lavoro delle<br />

diverse parti dell‟opera. Un esempio potrebbero essere: le enciclopedie, i<br />

giornali, le antologie, le riviste ecc…<br />

224 Art. 3 l. aut. “Le opere collettive, costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che<br />

hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un<br />

determinato fine letterario, scientifico didattico, religioso, politico od artistico, quali le<br />

enciclopedie, i dizionari, le antologie, le riviste e i giornali sono protette come opere originali,<br />

indipendentemente e senza pregiudizio dei diritti di autore sulle opere o sulle parti di opere di<br />

cui sono composte”.<br />

92


3.2.1 Le cd. opere in comunione<br />

L‟art. 10 l .aut. prevede che “1. Se l‟opera è stata creata con il<br />

contributo indistinguibile ed inscindibile di più persone, il diritto<br />

di autore appartiene in comune a tutti i coautori. 2.Le parti<br />

indivise si presumono di valore uguale, salvo la prova per iscritto<br />

di diverso accordo. 3.Sono applicabili le disposizioni che<br />

regolano la comunione. La difesa del diritto morale può peraltro<br />

essere sempre esercitata individualmente da ciascun coautore e<br />

l‟opera non può essere pubblicata, se inedita, né può essere<br />

modificata o utilizzata in forma diversa da quella della prima<br />

pubblicazione, senza l‟accordo di tutti i coautori. Tuttavia, in<br />

caso di ingiustificato rifiuto di uno o più coautori, la<br />

pubblicazione, la modificazione o la nuova utilizzazione<br />

dell‟opera può essere autorizzata dall‟autorità giudiziaria, alle<br />

condizioni e con le modalità da essa stabilite”. E‟ opportuno<br />

premettere che la norma in esame fa riferimento alla comunione<br />

originaria dei diritti d‟autore 225 e che “deve ritenersi tale non<br />

solo quella che ha luogo all‟atto della creazione originaria di<br />

un‟opera, quando questa cioè sorga fin dal principio come frutto<br />

di una collaborazione fra le attività intellettuali creative di più<br />

persone, ma altresì quella che si verifichi in un secondo tempo,<br />

per rifare, perfezionare, adattare o aggiornare un‟opera, come<br />

spesso accade dopo la morte dell‟autore in base ad accordo fra<br />

gli eredi e la persona incaricata di procedere a quelle<br />

elaborazioni.” 226 Il 1° comma della norma in esame individua i<br />

tre elementi necessari della fattispecie costitutiva della<br />

comunione: il concorso di una pluralità di soggetti nella<br />

creazione della medesima opera, il carattere creativo dei loro<br />

225 Art. 2576 c.c. (Acquisto del diritto)“Il titolo originario dell'acquisto del diritto di autore è<br />

costituito dalla creazione dell'opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale.<br />

226 GRECO, I diritti sui beni immateriali, Torino, 1948, p. 219<br />

93


contributi e l‟indistinguibilità e inscindibilità dei contributi<br />

medesimi. Posto che più soggetti devono prendere parte alla<br />

creazione dell‟opera, ciascuno apportando un proprio contributo,<br />

è necessario che tale contributo sia creativo, pertanto “non è<br />

coautore di un‟opera chi, ad esempio, si limiti prestare consigli o<br />

suggerimenti; a fornire un supporto tecnico/organizzativo alla<br />

creazione; ad eseguire operazioni materiali di mera attuazione di<br />

un progetto altrui; a visionare una tesi di laurea.” 227 Ai sensi<br />

dell‟art. 10 l. aut., infine, i contributi dei coautori devono essere<br />

“indistinguibili ed inscindibili” ma, secondo un orientamento<br />

dottrinale, 228 il carattere indistinguibile dei contributi creativi<br />

non è un elemento necessario della fattispecie dal momento che<br />

la disciplina della norma in esame si applica certamente quando i<br />

contributi sono tra loro indistinguibili, ma non vi è ragione per<br />

escludere e non estendere l‟applicazione dell‟art. 10 anche<br />

all‟ipotesi in cui i contributi dei diversi coautori possano tra loro<br />

essere distinti logicamente e di fatto. Secondo un orientamento<br />

dottrinale, 229 la fattispecie rilevante ex art. 10 l. aut. deve<br />

comprendere anche un ulteriore elemento costituito<br />

dall‟esistenza di un rapporto di collaborazione tra i diversi<br />

coautori; per un‟altra parte della dottrina, invece, “anche se<br />

l‟ipotesi dell‟esistenza di un rapporto di collaborazione è la più<br />

frequente anche quella dell‟inesistenza del rapporto in questione<br />

può tuttavia ricorrere: come può avvenire ad esempio nelle<br />

ipotesi di formule matematiche scritte a quattro mani, di<br />

improvvisazioni di jazz di più musicisti che si trovino per caso a<br />

suonare insieme.” 230 Ritornando all‟analisi dell‟art. 10 l. aut., il<br />

2° comma “postula un principio generale secondo cui le quote<br />

227 UBERTAZZI, op. cit.,p. 1523<br />

228 UBERTAZZI, Spunti sulla comunione di diritti d’autore,in AIDA, 2003,p.507<br />

229 PIOLA CASELLI,Codice del diritto d’autore, Torino,UTET,1943, p.262<br />

230 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 508<br />

94


dei comunisti sono proporzionali alla qualità e quantità degli<br />

apporti alla creazione comune dell‟opera; introduce tuttavia una<br />

presunzione iuris tantum di uguaglianza delle loro quote; vara<br />

con ciò (non soltanto una regola probatoria ma) anche una norma<br />

relativa ai rapporti sostanziali tra gli interessati; consente di<br />

superare la presunzione iuris tantum con ogni possibile mezzo;<br />

qualifica come derogabili sia il principio di proporzione delle<br />

quote agli apporti sia la regola di diritto materiale implicita nella<br />

presunzione; prescrive la forma scritta ad probationem per la<br />

deroga negoziale ora detta.” 231 Quanto al 3° comma della norma<br />

che ci interessa, “questo prevede espressamente l‟applicabilità<br />

delle disposizioni che regolano la comunione, ma detta pure<br />

alcune deroghe richieste dalla natura e dal complesso contenuto<br />

del diritto d‟autore, specialmente per la tutela dei diritti morali,<br />

anche se il loro esercizio costituisce, come per la pubblicazione,<br />

un presupposto dell‟utilizzazione economica, dato che il loro<br />

carattere strettamente personale e individualistico non può<br />

rimanere sopraffatto dal principio maggioritario, quale impera<br />

nel regime ordinario della comunione.” 232 Relativamente alla<br />

durata dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera in<br />

comunione, l‟art. 26, 1° comma, l. aut. dispone che “nelle opere<br />

indicate nell‟art. 10 (…) la durata dei diritti di utilizzazione<br />

economica spettanti a ciascuno dei coautori o dei collaboratori si<br />

determina sulla vita dell‟autore che muore per ultimo.”<br />

3.2.2.Le opere composte<br />

231 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 510<br />

232 GRECO, op. cit., p. 220<br />

95


Gli artt. 33-37 l. aut. disciplinano alcuni tipi di opere composte<br />

da contributi di generi artistici diversi, che sono quindi non solo<br />

distinguibili, ma anche utilizzabili separatamente, e precisamente<br />

le opere liriche, le operette, i melologhi, le composizioni<br />

musicali con parole, i balli e balletti musicali. L‟art. 33 l. aut.<br />

prevede che i collaboratori possano, con apposite convenzioni,<br />

derogare alla disciplina contenuta negli artt. 34-36, disciplina<br />

diversa da quella ex art. 10 l. aut. proprio in virtù del fatto che<br />

nelle opere composte i diversi contributi che le compongono<br />

sono distinguibili e separabili. L‟art. 34 l. aut., infatti, non rinvia<br />

sic et simpliciter alla disciplina della comunione civilistica ma<br />

prevede che “l‟esercizio dei diritti di utilizzazione economica<br />

spetta all‟autore della parte musicale, salvi tra le parti i diritti<br />

derivanti dalla comunione. Il profitto della utilizzazione<br />

economica è ripartito in proporzione del valore del rispettivo<br />

contributo letterario o musicale. Nelle opere liriche si considera<br />

che il valore della parte musicale rappresenti la frazione di tre<br />

quarti del valore complessivo dell‟opera. Nelle operette, nei<br />

melologhi, nelle composizioni musicali con parole, nei balli e<br />

balletti musicali, il valore dei due contributi si considera uguale.<br />

Ciascuno dei collaboratori ha diritto di utilizzare separatamente e<br />

indipendentemente la propria opera, salvo il disposto dei casi<br />

seguenti”. Un altro tipo di opera composta è rappresentato<br />

dall‟opera cinematografica che è prevista sia nell‟elenco delle<br />

opere protette dagli artt. 1 l. aut. 233 e 2575 c.c. sia in quello<br />

233 Art. 1, 1° comma, l. aut. “Sono protette ai sensi di questa legge le opere dell‟ingegno di<br />

carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative,<br />

all‟architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di<br />

espressione.<br />

96


dell‟art 2 l. aut.. 234 ed è disciplinata agli artt. 44-50 l. aut.<br />

L‟opera cinematografica è “il risultato di numerosi contributi di<br />

carattere creativo, in parte preesistenti (come le opere letterarie),<br />

in parte realizzati appositamente (soggetto, sceneggiatura e<br />

musica), che vengono elaborati nel corso del processo creativo<br />

sotto la direzione del regista. ” 235 La realizzazione dell‟opera<br />

cinematografica, quindi, rappresenta il “frutto della<br />

collaborazione creativa di più autori, i cui contributi<br />

(distinguibili ma inscindibili) sono non soltanto artistici, ma<br />

anche tecnici, economici ed organizzativi del soggetto<br />

produttore, tutti finalizzati alla realizzazione dell‟opus quale<br />

risultato diverso dalla somma degli apporti di ciascuno” 236 .<br />

L‟opera in questione, pertanto, presenta caratteristiche comuni<br />

alle opere composte e alle opere collettive: alle opere composte,<br />

in quanto i contributi che concorrono a formarla le conferiscono<br />

una struttura complessa; alle opere collettive, in quanto gli stessi<br />

contributi vengono coordinati e profondamente elaborati dal<br />

regista. L‟art. 44 l. aut. prevede che “si considerano coautori<br />

dell‟opera cinematografica l‟autore del soggetto, l‟autore della<br />

sceneggiatura, l‟autore della musica ed il direttore artistico”ma,<br />

non specifica quali contributi all‟opera cinematografica<br />

conferiscano la dignità di coautore. Secondo una pronuncia del<br />

Tribunale di Napoli “il termine contributo indica l‟apporto<br />

consapevole e volontario del proprio lavoro in vista del<br />

raggiungimento di un fine al quale concorrono e collaborano più<br />

234 Art. 2 n. 6 l. aut. “In particolare sono ricomprese nella protezione: le opere dell‟arte<br />

cinematografica, muta o sonora, sempreché non si tratti di semplice documentazione protetta ai<br />

sensi delle norme del Capo V del Titolo II.”<br />

235 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA,op. cit., p.518<br />

236 PESIRI, In tema di coautore dell’opera cinematografica. L’interesse dell’autore<br />

all’integrità ideale dell’opera e la configurabilità di un danno esistenziale per uso svilente, in<br />

Giur. Merito, 2001, p.1273<br />

97


persone.” 237 La pronuncia suddetta è stata emanata in relazione<br />

ad un caso in cui si discuteva della possibilità di riconoscere la<br />

qualità di autore della musica - e quindi di coautore dell‟opera<br />

cinematografica in cui è inserita - a colui che si limiti ad<br />

autorizzare l‟inserimento in colonna sonora di una canzone da lui<br />

precedentemente composta senza riferimento alcuno al film e<br />

alla sceneggiatura. Secondo il Tribunale di Napoli “non apporta<br />

un contributo in senso tecnico chi si limiti ad assentire<br />

all‟impiego in un film di una canzone da lui composta in un<br />

momento precedente, senza consapevole connessione con la<br />

sceneggiatura (ancor meno chi, come nel caso specifico, è autore<br />

della sola parte letteraria della canzone medesima, della cui<br />

musica è autore altro soggetto)”. In altre parole, perché l‟autore<br />

della canzone o della musica possa essere riconosciuto coautore<br />

dell‟opera cinematografica, è necessario che si instauri un<br />

legame funzionale, oltre che strutturale, tra la prima e la seconda.<br />

La ricostruzione proposta segue una sentenza del Tribunale di<br />

Milano, per la quale “è coautore della parte letteraria di un‟opera<br />

musicale chi abbia prestato la sua collaborazione riguardante il<br />

vero e proprio processo creativo che caratterizza l‟opera<br />

dell‟ingegno e non si sia limitata ad elementi di natura tecnica od<br />

organizzativa o in semplici suggerimenti o consigli di indole<br />

teorica o generica.” 238 Quanto ai diritti patrimoniali relativi<br />

all‟opera cinematografica, ai sensi dell‟art. 45, 1° comma, l. aut.<br />

“l‟esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera<br />

cinematografica spetta a chi ha organizzato la produzione<br />

dell‟opera stessa, nei limiti indicati dai successivi articoli” e, ai<br />

sensi dell‟art. 46, commi 3° e 4,° l. aut., “3. gli autori della<br />

237 Trib. Napoli, 24 gennaio 2001, in Giur. merito 2001, p.1270<br />

238 Trib. Milano, 5 ottobre 1995, in Annali it. dir. autore,1996, p. 597<br />

98


musica, delle composizioni musicali e delle parole che<br />

accompagnano la musica hanno diritto di percepire direttamente<br />

da coloro che proiettano pubblicamente l‟opera un compenso<br />

separato per la proiezione. Il compenso è stabilito, in difetto di<br />

accordo fra le parti, secondo le norme del regolamento. 4.Gli<br />

autori del soggetto e della sceneggiatura e il direttore artistico,<br />

qualora non vengano retribuiti mediante una percentuale sulle<br />

proiezioni pubbliche dell‟opera cinematografica, hanno diritto,<br />

salvo patto contrario quando gli incassi abbiano raggiunto una<br />

cifra da stabilirsi contrattualmente col produttore, a ricevere un<br />

ulteriore compenso, le cui forme e la cui entità saranno stabilite<br />

con accordi da concludersi tra le categorie interessate”.<br />

99


3.2.3Le opere collettive<br />

L‟art. 3 l. aut. prevede che “le opere collettive, costituite dalla<br />

riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di<br />

creazione autonoma, come risultato della scelta e del<br />

coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico<br />

didattico, religioso, politico od artistico, quali le enciclopedie, i<br />

dizionari, le antologie, le riviste e i giornali sono protette come<br />

opere originali, indipendentemente e senza pregiudizio dei diritti<br />

di autore sulle opere o sulle parti di opere di cui sono composte”.<br />

Quanto all‟autore dell‟opera collettiva, ai sensi dell‟art. 7, 1°<br />

comma l. aut., è considerato tale chi organizza e dirige la<br />

creazione stessa. Dalla norma in commento emerge, quindi, la<br />

profonda differenza che passa tra le opere semplici o composte<br />

dovute alla collaborazione creativa di più persone e le opere<br />

collettive: mentre nelle prime ci sono più coautori dell‟opus,<br />

nelle seconde vi è un solo autore dal momento che gli autori<br />

delle opere o delle parti di opere riunite nell‟opera collettiva non<br />

sono considerati coautori della stessa ma solo autori dei<br />

contributi (aventi carattere di creazione autonoma) che la<br />

compongono. L‟art. 7 valorizza, quindi, l‟apporto creativo<br />

rappresentato dalla “scelta” o dal “coordinamento” ad un<br />

determinato fine delle opere riunite o raccolte. Secondo un<br />

orientamento dottrinale, “ciò che caratterizza l‟opera collettiva<br />

non è tanto l‟elemento strutturale (riunione di opere o di parti di<br />

opere che hanno carattere di creazione autonoma) quanto<br />

l‟esistenza di due distinti livelli creativi: quello dei singoli<br />

contributi che compongono l‟opera e quello della progettazione<br />

dell‟opera complessiva e della scelta e coordinamento dei<br />

contributi o dell‟organizzazione e direzione dell‟attività creativa<br />

100


svolta dai collaboratori.” 239 Quanto ai diritti patrimoniali<br />

sull‟opera collettiva, l‟art. 38 l. aut. prevede che “1.Nell‟opera<br />

collettiva, salvo patto in contrario, il diritto di utilizzazione<br />

economica spetta all‟editore dell‟opera stessa, senza pregiudizio<br />

derivante dall‟applicazione dell‟art. 7. 2.Ai singoli collaboratori<br />

dell‟opera collettiva è riservato il diritto di utilizzare la propria<br />

opera separatamente, con l‟osservanza dei patti convenuti, e in<br />

difetto, delle norme seguenti”. Si può aggiungere che gli autori<br />

delle singole parti dell‟opera vantano il diritto di aggiornare il<br />

proprio contributo in caso di nuove edizioni dell'opera e, ex art.<br />

20, 1° comma, l. aut., “indipendentemente dai diritti esclusivi di<br />

utilizzazione economica dell‟opera,” il diritto di opporsi a<br />

qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a<br />

ogni altro atto a danno dell'opera stessa, che possa essere di<br />

pregiudizio al loro onore o alla loro reputazione. Relativamente<br />

alla durata dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera<br />

collettiva, l‟art. 26, 2° comma, l. aut., prevede che “Nelle opere<br />

collettive la durata dei diritti di utilizzazione economica spettante<br />

ad ogni collaboratore si determina sulla vita di ciascuno. La<br />

durata dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera come un<br />

tutto è di settant‟anni dalla prima pubblicazione, qualunque sia la<br />

forma nella quale la pubblicazione è stata effettuata, salve le<br />

disposizioni dell‟art. 30 per le riviste, i giornali e le altre opere<br />

periodiche.”<br />

239 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA,op. cit., p.516<br />

101


3.3 La comunione di brevetto<br />

Il brevetto rappresenta la tecnica di protezione giuridica delle invenzioni<br />

che presentano il requisito della novità, che implicano un‟attività<br />

inventiva e sono atte ad avere un‟applicazione industriale. Esso è, infatti,<br />

l‟atto amministrativo in virtù del quale la privativa, cioè la riserva di<br />

produzione e di commercio in esclusiva dei prodotti che costituiscono<br />

l‟applicazione industriale dell‟invenzione, è costituita. Quando<br />

l‟invenzione industriale è imputabile a più soggetti, allora gli stessi sono<br />

anche contitolari del diritto al brevetto. La contitolarità del diritto in<br />

oggetto può essere a titolo originario (è il caso dell‟invenzione realizzata<br />

da più coautori) o a titolo derivativo (è il caso di più coeredi o più aventi<br />

causa pro quota dell‟unico inventore). Affinché ricorra l‟ipotesi di<br />

contitolarità a titolo originario occorre che “vi sia, in primo luogo,<br />

concorso nell‟attività inventiva, non dunque una semplice collaborazione<br />

di carattere esecutivo, come quella rivolta, sotto l‟impulso e la direzione<br />

di chi persegue un‟idea inventiva, a compiere ricerche, analisi o<br />

esperimenti preparatori e, in secondo luogo, occorre che i coautori<br />

abbiano operato d‟intesa tra di loro o, comunque, siano pervenuti<br />

congiuntamente a compiere l‟invenzione.” 240 Possono essere considerati,<br />

quindi, coinventori dell‟invenzione di gruppo (invenzione realizzata da<br />

più operatori che lavorano assieme, sulla base di un progetto unitario),<br />

“solo i membri del gruppo che hanno svolto attività inventiva in rapporto<br />

alla ricerca che è sfociata nell‟invenzione, e non anche i membri del<br />

gruppo che hanno svolto solo altre linee di ricerca, o che hanno prestato<br />

solo attività non inventiva, ma puramente esecutiva”. 241 Quanto alla<br />

disciplina applicabile alla comunione di brevetto, l‟art. 20 l. inv. 242<br />

prevedeva che “se l'invenzione industriale è dovuta a più autori, i diritti<br />

240 GRECO, op. cit., p. 439<br />

241 VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.414<br />

242 Regio decreto 29 giugno 1939, n. 1127, in Gazz. Uff., 14 agosto 1939, n. 189, da ora in<br />

avanti legge invenzioni (l. inv.)<br />

102


derivanti dal brevetto sono regolati, salvo convenzioni in contrario, dalle<br />

disposizioni del codice civile relative alla comunione. Salvo convenzione<br />

contraria, il trasferimento dei diritti derivanti dal brevetto importa<br />

nell‟acquirente l‟obbligo di pagare le relative tasse; e se il trasferimento<br />

avvenga a favore di più persone, congiuntamente o per quote, tutte sono<br />

tenute solidalmente al pagamento di dette tasse”. Il CPI ha abrogato la<br />

legge invenzioni ma, all‟art. 6, ha riconfermato, in generale,<br />

l‟ammissibilità dell‟istituto della comunione dei diritti di proprietà<br />

industriale e, relativamente all‟applicabilità della disciplina della<br />

comunione civilistica, salvo convenzioni in contrario, ha aggiunto il<br />

limite della compatibilità. La Convenzione sul Brevetto Europeo (di<br />

seguito CBE), 243 in merito al diritto al brevetto, all‟art. 59 prevede che<br />

“la domanda di brevetto europeo può anche essere depositata sia da più<br />

richiedenti sia da corrichiedenti che designano Stati contraenti diversi”.<br />

Secondo un orientamento dottrinale 244 , la disciplina nazionale appena<br />

ricordata “è del tutto inadeguata alla complessità del fenomeno delle<br />

invenzioni di gruppo, non fosse altro perché non distingue chiaramente<br />

fra il diritto al brevetto, cioè il diritto a presentare la domanda di<br />

brevetto, ed il diritto di brevetto quando il brevetto stesso sia intestato<br />

congiuntamente a più persone.”Al di là della legittimazione alla domanda<br />

di brevetto, secondo un Autore 245 “ad ogni coautore deve essere<br />

riconosciuta un‟autonoma legittimazione ad agire in negatoria contro chi,<br />

a torto, si attribuisca la qualità di coautore, dovendosi escludere un<br />

litisconsorzio necessario, attivo o passivo, dei diversi coautori<br />

dell‟invenzione nei giudizi di accertamento, positivo o negativo, della<br />

copaterinità della invenzione.”<br />

243 Convenzione di Monaco del 5 ottobre 1973<br />

244 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit., , p.233<br />

245 UBERTAZZI, op. cit., p. 422<br />

103


3.3.1Il diritto al brevetto<br />

“Se la molteplicità delle persone che concorrono all‟ottenimento<br />

dell‟invenzione è organizzata nelle forme del lavoro dipendente<br />

allora il problema della presentazione della domanda di brevetto<br />

non si pone, perché legittimato è comunque sempre e soltanto il<br />

datore, sia che l‟unità di ricerca sia inserita in un contesto più<br />

ampio di attività economica, sia che si tratti di un‟unità di ricerca<br />

organizzata al solo scopo di ottenere invenzioni brevettabili” 246 .<br />

Quando, invece, la molteplicità delle persone impegnate nello<br />

svolgimento dell‟attività di ricerca non svolge tale attività nelle<br />

forme del lavoro subordinato, ma nelle forme di una<br />

collaborazione autogestita ancorché funzionalmente preordinata<br />

all‟ottenimento del risultato inventivo, la dottrina non è concorde<br />

nell‟individuare i coinventori legittimati a presentare la domanda<br />

di brevetto. Una parte della dottrina 247 ritiene che i contitolari del<br />

diritto al brevetto si presentino come altrettanti creditori solidali<br />

del futuro bene immateriale e afferma che, in applicazione<br />

dell‟art. 1319 c.c. 248 , ciascun contitolare è legittimato a<br />

presentare la domanda di brevetto, anche in caso di dissenso<br />

degli altri. Un‟altra parte, invece, pur concordando<br />

nell‟ammettere che la contitolarità del diritto al brevetto è<br />

regolata dalla disciplina della comunione, si divide sulla<br />

qualificazione da dare all‟atto della presentazione della domanda<br />

di brevetto e, conseguentemente, sulla norma del codice civile da<br />

applicare. Vi è infatti chi 249 , considerando la presentazione della<br />

domanda come una modificazione necessaria per il miglior<br />

246<br />

AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op .cit., p.234<br />

247<br />

SANT<strong>IN</strong>I,I diritti della personalità nel diritto industriale,Padova,1959, p. 84<br />

248<br />

L‟art. 1319, 1° comma, c.c. prevede che “Ciascuno dei creditori può esigere l'esecuzione<br />

della intera prestazione indivisibile.”<br />

249<br />

LEVI, Cenni sulla comunione d’ invenzione industriale, in Probl. attuali dir. ind.,<br />

Milano,1977, p. 700<br />

104


godimento della cosa, ritiene che ogni titolare sia legittimato ad<br />

effettuare il deposito; chi 250 , invece, considera il deposito della<br />

domanda di brevetto come un atto di ordinaria amministrazione,<br />

sostiene che la relativa decisione debba essere approvata dalla<br />

comunità dei contitolari con la maggioranza semplice di cui<br />

all‟art. 1105 c.c.(maggioranza dei partecipanti calcolata secondo<br />

il valore delle loro quote); al contrario, chi 251 lo qualifica come<br />

un atto eccedente l‟ordinaria amministrazione, postula la<br />

necessità della maggioranza qualificata di cui all‟art. 1108 c.c.<br />

(maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi<br />

del valore complessivo della cosa comune). Infine, secondo un<br />

altro orientamento dottrinale, “la decisione anche di un solo<br />

contitolare di procedere alla brevettazione deve sempre prevalere<br />

perché qualunque atto di sfruttamento dell‟invenzione segreta è<br />

(quantomeno potenzialmente) suscettibile di mettere in pericolo<br />

la segretezza e, come tale, di recare pregiudizio ai diritti degli<br />

altri partecipanti alla comunione, che si troverebbero in un<br />

perenne stato di incertezza.” 252 In senso contrario, altra dottrina<br />

non ritiene che il problema possa essere risolto semplicemente<br />

affermando che la decisione di brevettare, anche quando presa da<br />

uno solo dei coinventori, dovrebbe prevalere sulla decisione di<br />

non brevettare, perché il regime brevettuale sarebbe comunque<br />

“preferibile” al regime di segreto. Essa afferma che “a parte la<br />

difficoltà di rintracciare un base testuale sicura per tale<br />

preferibilità, va ricordato che il conflitto di solito attiene non<br />

all‟alternativa tra brevetto e segreto, ma a decisioni più sottili e<br />

più complesse, relative alla scelta del momento in cui si giudica<br />

l‟invenzione matura per la brevettazione, alla decisione se<br />

250 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.414<br />

251 GRECO, Lezioni di diritto industriale,Torino, 1956, p.161<br />

252 GAND<strong>IN</strong>, La comunione di brevetto: appunti per un’indagine comparatistica, in Contr. e<br />

impr., 1992, p.1192<br />

105


affrontare in proprio la procedura di brevettazione o cedere a<br />

terzi il diritto al rilascio del brevetto, all‟individuazione del<br />

consulente brevettuale, alla scelta del brevetto (nazionale, estero,<br />

europeo) da chiedere. Che tutte queste decisioni spettino al<br />

singolo sembra francamente eccessivo ed ingiustificabile.” 253 A<br />

parere di chi scrive, l‟indirizzo dottrinale che affida la decisione<br />

di presentare la domanda di brevetto al consenso della<br />

maggioranza ex art. 1105 c.c. appare quello preferibile,<br />

risultando il più equilibrato. Gli stessi sostenitori di questo<br />

indirizzo, tuttavia, osservano che “affidando alla maggioranza la<br />

legittimazione alla domanda di brevetto si crea il problema del<br />

trattamento della domanda presentata da uno solo, o da una<br />

minoranza dei coinventori, senza menzionare gli altri o senza il<br />

consenso della maggioranza” 254 e concludono, in via dubitativa,<br />

che tale domanda dovrebbe essere considerata una domanda del<br />

non avente diritto e che gli altri coinventori potrebbero valersi<br />

della disciplina di cui all‟art. 118 CPI. 255 Personalmente ritengo<br />

che tale soluzione non sia condivisibile , dal momento che, come<br />

peraltro ammesso anche dai suoi sostenitori, il coinventore “pur<br />

253 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.415<br />

254 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.415<br />

255 Art. 118 (Rivendica) comma 2° “ Qualora con sentenza passata in giudicato si accerti che il<br />

diritto alla registrazione oppure al brevetto spetta ad un soggetto diverso da chi abbia<br />

depositato la domanda, questi può, se il titolo di proprietà industriale non e' stato ancora<br />

rilasciato ed entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza:a) assumere a proprio<br />

nome la domanda di brevetto o la domanda di registrazione, rivestendo a tutti gli effetti la<br />

qualità di richiedente;b) depositare una nuova domanda di brevetto oppure di registrazione la<br />

cui decorrenza, nei limiti in cui il contenuto di essa non ecceda quello della prima domanda o<br />

si riferisca ad un oggetto sostanzialmente identico a quello della prima domanda, risale alla<br />

data di deposito o di priorità della domanda iniziale, la quale cessa comunque di avere effetti;<br />

depositare, nel caso del marchio, una nuova domanda di registrazione la cui decorrenza, nei<br />

limiti in cui il marchio contenuto in essa sia sostanzialmente identico a quello della prima<br />

domanda, risale alla data di deposito o di priorità della domanda iniziale, la quale cessa<br />

comunque di avere effetti;c) ottenere il rigetto della domanda”. Comma 3° “Se il brevetto e'<br />

stato rilasciato oppure la registrazione e' stata effettuata a nome di persona diversa dall'avente<br />

diritto, questi può in alternativa: a) ottenere con sentenza il trasferimento a suo nome del<br />

brevetto oppure dell'attestato di registrazione a far data dal momento del deposito;<br />

b) far valere la nullità del brevetto o della registrazione concessi a nome di chi non ne aveva<br />

diritto”.<br />

106


non essendo il solo inventore non è neppure un non- inventore”.<br />

In questo senso dispone anche la sentenza del Tribunale di<br />

Milano dell‟ 11 novembre del 1999, nella quale si legge<br />

“l'esclusione del comunista dalla brevettazione della invenzione<br />

realizzata in comunione può fondare azioni a tutela della sua<br />

posizione morale ed economica ma non legittima la domanda di<br />

nullità della brevettazione (da parte dello stesso comunista o di<br />

terzi in caso di inerzia del primo) sotto il profilo della<br />

brevettazione del non avente diritto disciplinata dall'art. 27 bis l.<br />

inv. 256 ” 257 Secondo un Autore 258 , se si ammette l‟applicabilità<br />

dell‟art. 118 CPI all‟ipotesi in esame, la stessa deve essere<br />

necessariamente circoscritta: “i contitolari estromessi potrebbero<br />

intervenire nel procedimento di brevettazione per “assumere” la<br />

domanda anche a loro nome ( art. 118, 2° comma lett. a), o per<br />

chiedere il “trasferimento” anche a loro nome del brevetto (art.<br />

118, 3° comma lett. a); non potrebbero, invece,né presentare una<br />

nuova domanda , né chiedere il rigetto della stessa, né la nullità<br />

del brevetto che sia stato concesso.” Concludendo questo breve<br />

excursus sul diritto al brevetto, ricordiamo che l‟art. 6 CPI,<br />

mentre prevede l‟applicabilità della disciplina civilistica della<br />

comunione, fa salvo un diverso accordo delle parti e, secondo un<br />

orientamento dottrinale, 259 “questa norma di salvezza per una<br />

diversa pattuizione vale sia per il diritto di brevetto (cui è<br />

espressamente rivolta), sia per il diritto al rilascio del brevetto.<br />

Conseguentemente, qualora l‟attività di ricerca risulti regolata da<br />

un accordo societario, ogni decisione relativa all‟invenzione (tra<br />

le quali, ovviamente, anche quella riguardante l‟opportunità o<br />

meno di presentare la domanda di brevetto) costituirà un atto di<br />

256 Il disposto dell‟art. 27 bis l. inv. è ora trasposto nell‟art. 118 CPI<br />

257 Trib. Milano, 11 novembre, 1999, in Dir. ind., 2000, p. 213<br />

258 UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, Milano, 1985, p. 304<br />

259 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.416<br />

107


gestione, assoggettato alle disposizioni che regolano i poteri<br />

amministrativi di quel tipo di società”. Le considerazioni sopra<br />

riportate si riferiscono unicamente all‟ipotesi dell‟invenzione<br />

industriale realizzata da più operatori che lavorano assieme sulla<br />

base di un progetto unitario, dal momento che l‟ipotesi di<br />

concorso tra più inventori indipendenti è disciplinata in modo<br />

diverso. In quest‟ultima ipotesi (cd. incontri fortuiti), nell‟ambito<br />

del medesimo ordinamento giuridico, il conflitto tra più inventori<br />

autonomi è risolto a favore di chi per primo presenta la<br />

domanda. 260 In tale ipotesi, infatti, entrambi i soggetti sono<br />

titolari del diritto al brevetto, ma il diritto di esclusiva spetterà<br />

soltanto a chi sarà titolare di un valido brevetto. L‟art. 46, 3°<br />

comma, CPI, infatti, stabilisce che la precedente domanda<br />

comporta una divulgazione potenziale del suo contenuto dalla<br />

data del deposito, ergo,il brevetto depositato successivamente<br />

sarà nullo, anche se il richiedente era titolare del diritto al<br />

brevetto. Nel caso in cui gli inventori indipendenti appartengano<br />

a distinti ordinamenti giuridici, può verificarsi la coesistenza di<br />

più validi brevetti.<br />

260 L‟art. 60, 2° comma della Convenzione di Monaco, prevede che “se più persone hanno<br />

realizzato l‟invenzione indipendentemente l‟una dall‟altra, il diritto al brevetto europeo<br />

appartiene a quella che ha depositato la domanda di brevetto la cui data di deposito è più<br />

remota; tuttavia, questa disposizione è applicabile unicamente se la prima domanda è stata<br />

pubblicata a norma dell‟art. 93 e ha effetto solo negli Stati contraenti designati in questa prima<br />

domanda quale è stata pubblicata”.<br />

108


3.3.2 Il diritto di brevetto<br />

Quanto alla disciplina del godimento diretto e indiretto del<br />

brevetto in comunione da parte dei coinventori, il più volte citato<br />

art. 6 CPI rinvia, sic et simpliciter, alle disposizioni del codice<br />

civile relative alla comunione in quanto compatibili, fatte salve<br />

convenzioni in contrario, senza tener conto delle peculiarità del<br />

diritto di brevetto. Esaminerò, pertanto, gli orientamenti della<br />

giurisprudenza e della dottrina circa i limiti di applicabilità degli<br />

artt. 1100 ss. c. c. alla comunione di brevetto. Relativamente allo<br />

sfruttamento indiretto del brevetto intestato congiuntamente a<br />

più persone, secondo un primo indirizzo della Corte di<br />

Cassazione, risalente agli anni ottanta,“il contratto di licenza<br />

d'uso dei diritti derivanti da un'invenzione brevettata dovuta a<br />

più autori richiede, per il suo perfezionamento, il consenso<br />

unanime dei contitolari del brevetto, oltre che nel caso di<br />

convenzione con durata ultranovennale, anche nell'ipotesi di<br />

concessione al licenziatario dell'esclusiva, poiché questa priva i<br />

suddetti contitolari di ogni possibilità di sfruttamento diretto o<br />

indiretto dell‟invenzione comune in virtù del comma 1 dell'art.<br />

1108. In conseguenza, nella predetta ipotesi trattandosi di<br />

contratto con parte complessa, cioè formata da più soggetti<br />

costituenti un unico centro di interessi, nel quale il regime di<br />

esclusiva, non potendo esistere che nei confronti di tutti i<br />

contitolari del brevetto, conferisce carattere di indivisibilità<br />

all'oggetto del contratto e, pertanto, determina unità di interessi<br />

tra i predetti, si configura la necessità che tutti costoro<br />

partecipino al giudizio promosso per ottenere la risoluzione del<br />

negozio, in quanto diretto a modificare, attraverso l'eliminazione<br />

del titolo contrattuale, la situazione plurisoggettiva inscindibile<br />

109


da esso disciplinata” 261 . La Suprema Corte, più recentemente,<br />

nella sentenza del 22 aprile 2000, n°5281, pur riconfermando<br />

che “il contitolare di un brevetto per invenzione industriale non<br />

può concedere ad un terzo una licenza avente per oggetto il<br />

brevetto stesso, in assenza di una deliberazione espressa dei<br />

partecipanti alla comunione secondo quanto previsto dall'art.<br />

1108 c.c., in quanto la licenza implica la facoltà tipica del<br />

titolare del brevetto di vietare ad altri l'utilizzazione della stessa<br />

idea inventiva, il che priverebbe, pertanto, i contitolari del diritto<br />

di esclusiva,” 262 abbandona il precedente indirizzo del consenso<br />

unanime dei contitolari del brevetto e prevede che “con la<br />

maggioranza dei due terzi si può provvedere alla necessità di<br />

dare in licenza che non superi i nove anni il brevetto comune,<br />

oppure si può decidere di sfruttare direttamente il brevetto da<br />

parte della stessa maggioranza dando alla minoranza residua il<br />

controvalore dei suoi diritti di sfruttamento, in quota.” 263 La<br />

Corte di Cassazione, inoltre, nella sentenza citata precisa che “la<br />

norma dell'art. 1108 chiude il sistema rendendo credibile il<br />

rinvio alla disciplina della comunione appunto perché risolve<br />

anche il problema del concreto governo delle facoltà tipicamente<br />

esclusive ed in quanto tali non esercitabili unilateralmente dal<br />

singolo contitolare, ma non per questo inesistenti solo per tale<br />

contitolarità.” 264 Quanto alla dottrina, la maggioranza delle<br />

posizioni 265 è abbastanza concorde sull‟impossibilità dello<br />

sfruttamento da parte del singolo tramite concessione di licenza,<br />

infatti solo una posizione minoritaria, 266 ammette la possibilità<br />

261 Cass. Civile,13 gennaio 1981 n. 265, in Foro it., 1981, I,p.1042.<br />

262 Cass. Civile, sez. I,22 aprile 2000, in Giur. It., 2001,p. 1894<br />

263 Cass. Civile , sez. I,22 aprile 2000, in Giur. It., 2001,p. 1894<br />

264 Cass. Civile , sez. I,22 aprile 2000, in Giur. It., 2001,p. 1894<br />

265 ALBERT<strong>IN</strong>I, La comunione di brevetto tra sfruttamento diretto e indiretto,individuale e<br />

collettivo, in Giust. Civ., 2000, p. 2243; VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.415<br />

266 LUZZATTO,Teoria e tecnica dei brevetti di invenzione, Milano, 1960, p. 574<br />

110


dello sfruttamento da parte del singolo coinventore tramite<br />

concessione di licenza, pur contemplando la possibilità per i<br />

comunisti contrari di esigere un compenso. Un Autore 267 ha<br />

analizzato la questione della sorte spettante al licenziatario del<br />

contitolare, che abbia stipulato il contratto in assenza del<br />

consenso degli altri partecipanti alla comunione. Egli afferma<br />

che “costui non debba essere considerato contraffattore: la sua<br />

posizione è infatti piuttosto singolare. Se tale licenziatario<br />

dovesse essere considerato contraffattore, allo stesso modo<br />

dovrebbero essere qualificati il licenziante, che pure è contitolare<br />

del brevetto, o il partecipante alla comunione che sfrutti in<br />

proprio il brevetto stesso. Pare francamente eccessivo giungere<br />

ad una tale conclusione. Eppure i dubbi permangono. Molto più<br />

coerente è la regola statunitense che, partendo dal presupposto<br />

secondo il quale il contitolare ha la più ampia libertà nello<br />

sfruttamento (produttivo e negoziale) del brevetto, senza dovere<br />

rendere conto del proprio operato agli altri, pretende che tutti i<br />

partecipanti alla comunione esercitino congiuntamente l‟azione<br />

di contraffazione.” 268 Relativamente alla possibilità di<br />

sfruttamento diretto del brevetto intestato congiuntamente a più<br />

persone, si registra uno scontro dottrinale: una parte della<br />

dottrina 269 sostiene che la norma ex art. 1102 c.c., secondo la<br />

quale ciascuno dei partecipanti può servirsi della cosa comune se<br />

non ne altera la destinazione e non impedisce agli altri<br />

partecipanti di farne parimenti uso, permette lo sfruttamento<br />

diretto dell‟invenzione al singolo contitolare; un‟altra, 270 invece,<br />

nega la legittimità dell‟uso da parte del singolo della cosa<br />

267 GAND<strong>IN</strong>, Uno per tutti e tutti per uno:comunione di brevetto e istruzioni per l’uso in un<br />

precedente della suprema corte , in Giur. It., 10 / 2001, p. 1350<br />

268 GAND<strong>IN</strong>,op. cit., p.1350<br />

269 AMMENDOLA, La brevettabilità nella Convenzione di Monaco, Milano, 1981, p.255<br />

270 ALBERT<strong>IN</strong>I, op. cit., p.2244<br />

111


comune proprio perché lo stesso si pone in contrasto con i<br />

divieti ex art. 1102 c.c. Secondo quest‟ultima posizione<br />

dottrinale, quanto al divieto di alterare la destinazione della cosa<br />

comune, “se la privativa consiste nel potere di decidere la<br />

quantità di beni immessi nel mercato o, più in generale, di<br />

decidere il tasso di diffusione nel mercato della tecnologia<br />

brevettata, ne segue che legittimare il singolo allo sfruttamento<br />

diretto significa togliere agli altri il potere di prendere tali<br />

decisioni e, quindi, fare venire meno il loro diritto di esclusiva. Il<br />

vero interesse del titolare non è tanto la possibilità di utilizzare<br />

l‟invenzione, bensì quello di essere il solo ad utilizzarla,<br />

giovandosi dello ius excludendi alios. ” 271 Quanto al secondo<br />

divieto posto dall‟art. 1102 c.c., l‟orientamento in questione<br />

sostiene che l‟uso da parte del singolo della cosa comune rende<br />

potenzialmente più difficile agli altri “di farne parimenti uso”:<br />

infatti il valore di mercato della tecnologia non può certo<br />

crescere, ma solo diminuire, forse anche pesantemente, con<br />

l‟ampliarsi della sua diffusione. A parere di chi scrive, dalla<br />

scelta di affidare le decisioni relative alle modalità di<br />

sfruttamento diretto del bene comune alla volontà del gruppo dei<br />

coinventori, può derivare il rischio che i comunisti non<br />

raggiungano un accordo e si arrechi pregiudizio agli interessi<br />

collettivi violando il principio della sufficiente attuazione<br />

dell‟invenzione posto dall‟art. 69, 1° comma, CPI. 272 Secondo un<br />

Autore, 273 il rischio ora prospettato rappresenta un falso<br />

problema dal momento che, ai sensi dell‟art. 70 CPI, 274 alla<br />

271 ALBERT<strong>IN</strong>I, op. cit., p.2244<br />

272 Art. 69, 1° comma CPI (Onere di attuazione) “L'invenzione industriale che costituisce<br />

oggetto di brevetto deve essere attuata nel territorio dello Stato in misura tale da non risultare<br />

in grave sproporzione con i bisogni del Paese”<br />

273 ALBERT<strong>IN</strong>I, op. cit., p.2245<br />

274 Art. 70 CPI (Licenza obbligatoria per mancata attuazione) “ Trascorsi tre anni dalla data di<br />

rilascio del brevetto o quattro anni dalla data di deposito della domanda se questo termine<br />

112


mancata o insufficiente attuazione dell‟invenzione consegue non<br />

la decadenza dal brevetto, ma solo la possibilità di licenza<br />

obbligatoria dello stesso, salva la decadenza nel caso di protratta<br />

inattuazione dell‟invenzione per due anni dopo la concessione di<br />

licenza obbligatoria. Lo stesso Autore ritiene che differenziare i<br />

termini di durata del brevetto e aumentare progressivamente le<br />

tasse brevettuali col passare degli anni, così come avviene in<br />

Germania, potrebbe costituire un ulteriore, non trascurabile,<br />

disincentivo contro gli stalli decisionali dei contitolari. E‟<br />

opportuno tenere presente che i contrasti giurisprudenziali e<br />

dottrinali cui ho fatto sopra riferimento nascono dal fatto che<br />

l‟art. 6 CPI, per disciplinare i casi in cui il diritto di brevetto sia<br />

intestato contemporaneamente a più soggetti, rinvia sic et<br />

simpliciter alla disciplina della comunione civilistica, prevista<br />

per i beni materiali, senza tener conto delle peculiarità del diritto<br />

di brevetto che, invece, è un bene immateriale. “Proprio per<br />

evitare i riflessi di una disciplina pensata esclusivamente per la<br />

contitolarità dei beni «materiali», come appunto è quella<br />

codicistica, la maggior parte degli ordinamenti stranieri si è data<br />

una regolamentazione ad hoc. (…) La regola nei vari diritti<br />

scade successivamente al precedente, qualora il titolare del brevetto o il suo avente causa,<br />

direttamente o a mezzo di uno o più licenziatari, non abbia attuato l'invenzione brevettata,<br />

producendo nel territorio dello Stato o importando oggetti prodotti in uno Stato membro della<br />

Unione europea o dello Spazio economico europeo ovvero in uno Stato membro<br />

dell'Organizzazione mondiale del commercio, ovvero l'abbia attuata in misura tale da risultare<br />

in grave sproporzione con i bisogni del Paese, può essere concessa licenza obbligatoria per<br />

l'uso non esclusivo dell'invenzione medesima, a favore di ogni interessato che ne faccia<br />

richiesta. La licenza obbligatoria di cui al comma 1 può ugualmente venire concessa, qualora<br />

l'attuazione dell'invenzione sia stata, per oltre tre anni, sospesa o ridotta in misura tale da<br />

risultare in grave sproporzione con i bisogni del Paese. La licenza obbligatoria non viene<br />

concessa se la mancata o insufficiente attuazione e' dovuta a cause indipendenti dalla volontà<br />

del titolare del brevetto o del suo avente causa. Non sono comprese fra tali cause la mancanza<br />

di mezzi finanziari e, qualora il prodotto stesso sia diffuso all'estero, la mancanza di richiesta<br />

nel mercato interno del prodotto brevettato od ottenuto con il procedimento brevettato. La<br />

concessione della licenza obbligatoria non esonera il titolare del brevetto o il suo avente causa<br />

dall'onere di attuare l'invenzione. Il brevetto decade, qualora l'invenzione non sia stata attuata<br />

entro due anni dalla data di concessione della prima licenza obbligatoria o lo sia stata in misura<br />

tale da risultare in grave sproporzione con i bisogni del Paese”.<br />

113


stranieri è quella che pretende l‟unanimità dei consensi da parte<br />

dei contitolari per la concessione della licenza del loro brevetto.<br />

Si pongono, tuttavia, come eccezioni significative le soluzioni<br />

elaborate nel diritto francese e nel diritto statunitense.<br />

L‟ordinamento francese è passato dal silenzio (sul tema della<br />

copropriété de brevet) della legge del 1844, alla declamazione,<br />

contenuta nel testo originario dell‟art. 42 della loi sur les brevets<br />

d’invention del 1968, della necessità del consenso di tutti i<br />

contitolari, declamazione poi stravolta dalla riforma del 1978,<br />

che ha portato alla regola che oggi si può leggere nell‟art. 613-29<br />

del Code de la Propriété Intellectuelle 275 . L‟accordo di tutti i<br />

275 Art. 613- 29 La copropriété d'une demande de brevet ou d'un brevet est régie par les<br />

dispositions suivantes:<br />

La comproprietà di una domanda di brevetto o di un brevetto è disciplinato dalle seguenti<br />

disposizioni:<br />

a) Chacun des copropriétaires peut exploiter l'invention à son profit, sauf à indemniser<br />

équitablement les autres copropriétaires qui n'exploitent pas personnellement l'invention ou<br />

qui n'ont pas concédé de licences d'exploitation. A défaut d'accord amiable, cette indemnité est<br />

fixée par le tribunal de grande instance.<br />

a)Ogni comproprietario può sfruttare l'invenzione a proprio vantaggio, salvo che indennizzi<br />

equamente gli altri proprietari che non sfruttano personalmente l'invenzione o che non hanno<br />

concesso alcuna licenza. In mancanza di accordo amichevole, tale indennità è fissata dal<br />

“Tribunal de Grande Instance”.<br />

b) Chacun des copropriétaires peut agir en contrefaçon à son seul profit. Le copropriétaire qui<br />

agit en contrefaçon doit notifier l'assignation délivrée aux autres copropriétaires; il est sursis<br />

à statuer sur l'action tant qu'il n'est pas justifié de cette notification.<br />

b)Ogni comproprietario può agire in contraffazione a proprio vantaggio. Il comproprietario che<br />

agisce in contraffazione deve notificare l'atto di citazione agli altri proprietari, il procedimento<br />

è sospeso finchè egli non dà prova dell‟ avvenuta notificazione.<br />

c) Chacun des copropriétaires peut concéder à un tiers une licence d'exploitation non<br />

exclusive à son profit, sauf à indemniser équitablement les autres copropriétaires qui<br />

n'exploitent pas personnellement l'invention ou qui n'ont pas concédé de licence d'exploitation.<br />

A défaut d'accord amiable, cette indemnité est fixée par le tribunal de grande instance.<br />

c)Ciascun comproprietario può concedere ad un terzo una licenza di sfruttamento non esclusiva<br />

per proprio vantaggio, salvo che indennizzi equamente gli altri comproprietari che non<br />

sfruttano personalmente l'invenzione o che non hanno concesso una licenza. In mancanza di<br />

accordo amichevole, tale indennità è fissata dal « Tribunal de Grande Instance »<br />

Toutefois, le projet de concession doit être notifié aux autres copropriétaires accompagné<br />

d'une offre de cession de la quote-part à un prix déterminé.<br />

Tuttavia, il progetto di concessione (della licenza di sfruttamento) deve essere notificato agli<br />

altri comproprietari accompagnato da un 'offerta di cessione della loro quota (del brevetto<br />

comune) ad un prezzo fisso.<br />

Dans un délai de trois mois suivant cette notification, l'un quelconque des copropriétaires peut<br />

s'opposer à la concession de licence à la condition d'acquérir la quote-part de celui qui désire<br />

accorder la licence.<br />

114


contitolari vale soltanto per le licenze esclusive. Per le licenze<br />

non esclusive, principio fondamentale è quello secondo il quale,<br />

pur essendo oggetto della licenza l‟intero brevetto, parte del<br />

contratto è soltanto il contitolare che lo stipula. Da tale principio<br />

discende il corollario del riconoscimento di un‟indennità a favore<br />

di quei contitolari che non siano in grado di procedere in proprio<br />

ad uno sfruttamento produttivo o negoziale del brevetto.<br />

Tuttavia, prima di procedere alla stipulazione della licenza non<br />

esclusiva, il contitolare deve comunicare agli altri il projet de<br />

concession, offrendo ai dissenzienti la possibilità di acquistare la<br />

sua quota: questi hanno quindi la opportunità di evitare la<br />

concorrenza dell‟aspirante licenziatario, a patto però di<br />

«liquidare» il copropriétaire. Decisamente più liberale è la<br />

Entro tre mesi dalla notifica, ogni comproprietario può opporsi alla concessione della licenze a<br />

condizione di acquisire la quota di coloro che intendono concedere la licenza.<br />

A défaut d'accord dans le délai prévu à l'alinéa précédent, le prix est fixé par le tribunal de<br />

grande instance. Les parties disposent d'un délai d'un mois à compter de la notification du<br />

jugement ou, en cas d'appel, de l'arrêt, pour renoncer à la concession de la licence ou à l'achat<br />

de la part de copropriété sans préjudice des dommages-intérêts qui peuvent être dus ; les<br />

dépens sont à la charge de la partie qui renonce.<br />

In mancanza di accordo entro il termine stabilito nel paragrafo precedente, il prezzo è fissato<br />

dal “Tribunal de Grande Instance”. Le parti hanno un periodo di un mese dalla notifica della<br />

decisione o, in caso di appello, per rinunciare alla concessione della licenza o all‟acquisto della<br />

quota di proprietà, senza pregiudizio del risarcimento dei danni che possono essere dovuti;le<br />

spese sono a carico della parte rinuncia.<br />

d) Une licence d'exploitation exclusive ne peut être accordée qu'avec l'accord de tous les<br />

copropriétaires ou par autorisation de justice.<br />

d) Una licenza di sfruttamento esclusiva non può essere concessa che con il consenso di tutti i<br />

comproprietari o con l'autorizzazione del tribunale.<br />

e) Chaque copropriétaire peut, à tout moment, céder sa quote-part. Les copropriétaires<br />

disposent d'un droit de préemption pendant un délai de trois mois à compter de la notification<br />

du projet de cession. A défaut d'accord sur le prix, celui-ci est fixé par le tribunal de grande<br />

instance. Les parties disposent d'un délai d'un mois à compter de la notification du jugement<br />

ou, en cas d'appel, de l'arrêt, pour renoncer à la vente ou à l'achat de la part de copropriété<br />

sans préjudice des dommages-intérêts qui peuvent être dus ; les dépens sont à la charge de la<br />

partie qui renonce.<br />

e) Ogni comproprietario può, in qualsiasi momento, cedere la sua quota. I comproprietari<br />

hanno un diritto di prelazione per un periodo di tre mesi dalla notifica del progetto di cessione.<br />

In mancanza di accordo sul prezzo, è fissato dal “Tribunal de Grande Instance”. Le parti hanno<br />

un periodo di un mese dalla notifica della decisione o, in caso di appello, per rinunciare alla<br />

vendita o all'acquisto della quota di comproprietà senza pregiudizio per il risarcimento dei<br />

danni che possono essere dovuti, le spese sono a carico della parte che rinuncia.<br />

115


egola statunitense. Una giurisprudenza costante, recepita nella<br />

legge federale, consente a ciascun contitolare di concedere la<br />

licenza per proprio conto, senza coinvolgere gli altri<br />

comunisti.” 276<br />

276 GAND<strong>IN</strong>, op. cit., p. 1351<br />

116


Capitolo 4 Il marchio di gruppo<br />

4.1Introduzione<br />

L‟oggetto principale della trattazione è il marchio di gruppo inteso come<br />

il segno distintivo che viene utilizzato contestualmente dalle imprese o<br />

società che fanno parte del medesimo gruppo. Il marchio in questione<br />

“appartiene in senso formale ad un soggetto, ordinariamente alla<br />

capogruppo, e viene utilizzato, insieme al titolare o a prescindere dalla<br />

utilizzazione che il titolare ne faccia, da vari altri soggetti, per<br />

contrassegnare le rispettive attività produttive.” 277 Secondo un Autore 278 ,<br />

l‟evoluzione del marchio di gruppo è collegata alla tendenza alla<br />

razionalizzazione della struttura societaria di un medesimo gruppo di<br />

imprese. Egli sostiene che “a partire specialmente dagli anni „90 questa<br />

tendenza ha condotto i gruppi multinazionali di imprese a concentrare<br />

per quanto possibile la titolarità degli asset relativi alla proprietà<br />

intellettuale e dunque anche dei marchi nelle mani di una e possibilmente<br />

di una sola società; a predisporre una ragnatela di contratti e di rapporti<br />

di licenza tra la società ora detta e le altre società del medesimo gruppo;<br />

a prevedere spesso che questi rapporti siano onerosi e facciano rifluire<br />

royalties dalla periferia al centro del gruppo; ad organizzare questa<br />

ragnatela in modo da scremare gli utili della periferia a favore del centro;<br />

e per corollario a collocare per quanto possibile la società titolare degli<br />

asset di IP (Intellectual property) negli Stati a tassazione<br />

complessivamente più favorevole.” 279 Senza allontanarmi dallo studio<br />

del tema principale ritengo che, per comprendere appieno le<br />

problematiche connesse all‟utilizzazione plurisoggettiva del marchio di<br />

277 PETTITI, op. cit., p. 1<br />

278 UBERTAZZI, Il valore del marchio di gruppo nell’era della tecnologia, in Diritto<br />

dell'Internet, 1 / 2006, p. 5<br />

279 UBERTAZZI, op. ult. cit., p.5<br />

117


gruppo, non si possa prescindere dall‟analisi della ratio del gruppo di<br />

società e da quella dei particolari rapporti che devono intercorrere tra la<br />

società capogruppo e le società controllate o collegate e tra queste ultime<br />

(solo in presenza di questi rapporti, infatti, è garantita una costanza<br />

qualitativa, presupposto essenziale per il couso dello stesso marchio da<br />

parte di soggetti che non ne sono titolari). Quanto alla ragione<br />

dell‟esistenza dell‟istituto del gruppo di società, occorre considerare la<br />

tendenza degli odierni organismi economici alle concentrazioni, ossia<br />

alla riunione del maggior numero di imprese, anche se di ridotte<br />

dimensioni, esercenti il medesimo ramo d‟industria o di commercio, o di<br />

rami tra loro affini e connessi sotto una direzione unitaria, la quale segue<br />

criteri tecnici o amministrativi uniformi. “Gli ultimi decenni hanno visto<br />

in Europa alcune grandi stagioni di concentrazioni, di cui la prima è<br />

iniziata negli anni ottanta quando le imprese hanno voluto prepararsi<br />

all‟unificazione del mercato europeo programmata per il 1992 cercando<br />

di aumentare le proprie dimensioni per posizionarsi appropriatamente su<br />

questo mercato. Una seconda stagione di concentrazioni è iniziata in<br />

vista dell‟adesione di 10 nuovi stati dell‟est all‟Unione europea avvenuta<br />

nel 2005” 280 . Il fine delle coalizioni tra imprese è rappresentato<br />

dall‟esigenza di disciplinare la produzione e la distribuzione dei beni o<br />

dei servizi in modo da ridurne i costi mediante una concentrazione di<br />

mezzi che rende più agevole il sistema produttivo e dall‟esigenza di<br />

vincere la concorrenza, sia a livello nazionale sia a livello internazionale.<br />

Di qui sorge anche la necessità della presenza di un‟impresa capogruppo<br />

la quale, o esercita esclusivamente la funzione di razionalizzare la fase<br />

produttiva, ovvero la esercita, essendo al tempo stesso una delle imprese<br />

che partecipano al ciclo produttivo o distributivo. Tra i vantaggi di una<br />

tale organizzazione imprenditoriale vi è inoltre la possibilità di creare<br />

gruppi internazionali nei quali la società madre detiene il controllo di<br />

280 UBERTAZZI, op. ult. cit., p.5<br />

118


società figlie in vari stati esteri. Gruppi di questo genere consentono<br />

“l‟accesso ai mercati esteri, l‟impiego della manodopera esistente nei<br />

vari paesi, la possibilità di adeguare la produzione alle esigenze<br />

particolari dei mercati nazionali e il risparmio dei dazi di<br />

importazione.” 281 Quanto ai rapporti che devono intercorrere tra la<br />

società capogruppo e le società controllate o collegate e tra queste ultime,<br />

per rendere legittima l‟utilizzazione da parte dei diversi centri di<br />

imputazione del gruppo dello stesso segno distintivo, è possibile dire che<br />

i rapporti in questione possono ben avere la loro fonte in un rapporto<br />

contrattuale ma di regola essi sorgono attraverso una partecipazione di<br />

capitale. Si rende necessario, pertanto, un breve excursus sulla struttura<br />

del gruppo di società (o imprese) e sui rapporti di controllo e di<br />

collegamento tra la capogruppo e le varie affiliate.<br />

281 LIUZZO, Problematiche del marchio di gruppo, in Riv. dir. ind.,1982, II, p.416<br />

119


4.2 Il gruppo: analisi della sua struttura e dei rapporti di controllo e di<br />

collegamento tra la capogruppo e le varie affiliate<br />

Premetto che nel nostro ordinamento manca non solo una disciplina<br />

organica, ma anche una definizione giuridica di gruppo di imprese o di<br />

società. 282 Il legislatore, nell‟emanare il D. Lgs. n. 6/2003, infatti, pur<br />

agendo in attuazione della delega ad esso attribuita dalla Legge del 3<br />

ottobre 2001 283 , ha preferito non affrontare direttamente il fenomeno dei<br />

gruppi di società attraverso regole definitorie e di disciplina, così come<br />

lo autorizzava la norma delegante (art. 10 284 ). Anche dopo la riforma del<br />

diritto societario, pertanto, è presente, nel nostro ordinamento, non una<br />

disciplina organica del fenomeno ma una disciplina giuridica relativa a<br />

singole fattispecie inerenti al gruppo di società 285 . Un riferimento al<br />

gruppo di società, ad esempio, è contenuto nella disciplina dei<br />

provvedimenti urgenti per l‟amministrazione straordinaria delle grandi<br />

imprese in crisi, nella quale si prevede che l‟assoggettamento<br />

all‟amministrazione straordinaria di una società del gruppo può<br />

comportare la soggezione alla stessa procedura delle altre società del<br />

282<br />

Nella pratica vengono costituiti più frequentemente gruppi di società anziché gruppi di<br />

imprese, il che ovviamente non esclude che, sia pure con un‟incidenza (sotto un profilo<br />

statistico) di gran lunga inferiore, esistano gruppi dei quali fanno parte imprese individuali.<br />

283<br />

Legge del 3 ottobre 2001, n. 366, Delega al Governo per la riforma del diritto societario, in<br />

Gazz. Uff., 8 ottobre, n. 234<br />

284<br />

Art. 10, 1°comma (Gruppi) “ La riforma in materia di gruppi è ispirata ai seguenti principi e<br />

criteri direttivi: a) prevedere una disciplina del gruppo secondo principi di trasparenza e tale da<br />

assicurare che l'attività di direzione e di coordinamento contemperi adeguatamente l'interesse<br />

del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime; b) prevedere che<br />

le decisioni conseguenti ad una valutazione dell'interesse del gruppo siano motivate; c)<br />

prevedere forme di pubblicità dell'appartenenza al gruppo; d) individuare i casi nei quali<br />

riconoscere adeguate forme di tutela al socio al momento dell'ingresso e dell'uscita della<br />

società dal gruppo, ed eventualmente il diritto di recesso quando non sussistono le condizioni<br />

per l'obbligo di offerta pubblica di acquisto.”<br />

285<br />

Ad esempio legge n.2 del 28 gennaio 2009, che ha convertito con modifiche il c.d. Decreto<br />

Anticrisi, rende operative le modifiche normative in materia di gruppi d'imprese, riguardanti<br />

soprattutto: l'informativa societaria, il bilancio di esercizio, l'allineamento della tassazione delle<br />

attività d'impresa in Italia a quella degli altri Stati europei, il coordinamento della fiscalità<br />

societaria con quella dei soci, la struttura finanziaria dell'impresa, i nuovi istituti tributari del<br />

consolidato fiscale nazionale e della trasparenza, la disciplina fiscale delle controllate estere,<br />

l'esterovestizione delle holding.<br />

285<br />

PETTITI, op. cit., p.8<br />

120


gruppo. L‟art. 80, 1° comma lett. b) del D. Lsg. n. 270/1999, 286 infatti,<br />

dispone che, ai fini dell‟applicazione delle disposizioni del capo<br />

sull‟estensione dell‟amministrazione straordinaria alle imprese del<br />

gruppo, per “imprese del gruppo” si intendono “le imprese che<br />

controllano direttamente o indirettamente la società sottoposta alla<br />

procedura madre; le società direttamente o indirettamente controllate<br />

dall‟impresa sottoposta alla procedura madre o dall‟impresa che la<br />

controlla; le imprese che, per la composizione degli organi<br />

amministrativi o sulla base di altri concordanti elementi, risultano<br />

soggette ad una direzione comune a quella dell‟impresa sottoposta alla<br />

procedura madre.” Posto che esiste solo una disciplina giuridica relativa<br />

a singole fattispecie inerenti al gruppo di società e che, secondo<br />

un‟opinione dottrinale 287 , “le finalità delle produzioni normative che, più<br />

o meno esplicitamente, fanno riferimento al concetto di gruppo sono<br />

assai diverse, e ciò influenza la configurazione della fattispecie di volta<br />

in volta delineata”, personalmente ritengo che sia impossibile ricavare<br />

un‟unica nozione di gruppo. Ad avviso di chi scrive è possibile<br />

individuare i tratti caratterizzanti del gruppo partendo dall‟analisi dei<br />

suoi aspetti fattuali e attraverso lo studio e l‟applicazione della disciplina<br />

dettata dal codice sul controllo societario. In termini molto generali,<br />

quindi, è possibile affermare che il gruppo di società consiste in una<br />

aggregazione di società giuridicamente autonome dal punto di vista<br />

soggettivo e patrimoniale ma collegate sul piano organizzativo e soggette<br />

alle direttive della società capogruppo. Secondo un‟opinione dottrinale<br />

“quando si parla di gruppo si fa riferimento ad una pluralità di imprese<br />

legate l‟una all‟altra e inserite in una medesima struttura. Le singole<br />

unità, per un verso, rappresentano ciascuna un centro di imputazione<br />

286 D. Lgs. dell‟ 8 luglio 1999, n. 270, Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria<br />

delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della l. 30 luglio 1998, n. 27,<br />

in Gazz. Uff., 9 agosto 1999 , n.185<br />

287 AMMENDOLA, Unitarietà direzionale e organizzazione nel rapporto di gruppo, in Riv.<br />

delle società,1986, p. 1264<br />

121


distinto e hanno ciascuna propria personalità giuridica, (…) per altro<br />

verso, sono in qualche modo connesse tra loro, inserite in un‟attività<br />

economica unitaria e condividono la “soggezione” nei confronti del<br />

medesimo soggetto posto al vertice del gruppo.” 288 Al quesito se dai<br />

legami tra i diversi centri di imputazione possa scaturire un‟impresa di<br />

gruppo piuttosto che una pluralità di imprese nel gruppo, un<br />

orientamento giurisprudenziale degli anni novanta rispondeva negando la<br />

pluralità di imprese nel gruppo e sostenendo che “il gruppo o<br />

collegamento di società è tale solo in senso economico e, sul piano<br />

giuridico, è considerato ai limitati effetti previsti dal codice (art. 2359;<br />

2424 comma 1 n. 10; 2624 c.c.), sicché, in ordine ad esso, non può<br />

parlarsi di personalità giuridica e neppure di una qualsiasi forma di<br />

soggettività ovvero di centro di imputazione.” 289 La dottrina prima citata,<br />

invece, ritiene che “per quanto le imprese o società del gruppo possano<br />

essere funzionalmente collegate tra loro e rappresentare nel loro<br />

complesso un‟attività economica unitaria, esse rimangono centri di<br />

imputazione ben distinti. L‟unitarietà economica o, meglio,<br />

l‟individuazione tra le diverse imprese di un‟attività economica unitaria,<br />

non può comunque portare all‟individuazione di un‟impresa unica. Ciò<br />

che può assumere rilevanza nel gruppo è il coordinamento delle attività<br />

produttive delle rispettive imprese, la loro connessione per il<br />

raggiungimento di fini ulteriori rispetto a quelli delle singole imprese,<br />

non già la soppressione o l‟annullamento delle stesse a favore di<br />

un‟impresa unica.” 290 A parere di chi scrive, il gruppo è un complesso o<br />

un‟aggregazione di più imprese, ma esso complessivamente inteso,<br />

invece, non ha una propria soggettività, un proprio centro di imputazione<br />

288 PETTITI, op. cit., p.8<br />

289 Cass. civ. Sez. Lav., 9 dicembre 1991, n. 13226, in Giur. It., 1992, II, p. 1952; nello stesso<br />

senso App. Roma, 23 giugno 1988, in Foro it. 1989, p.420 “La figura del gruppo di società<br />

costituisce nel nostro ordinamento giuridico una formula descrittiva di un fenomeno di natura<br />

meramente economica, giuridicamente rilevante soltanto nelle materie espressamente regolate<br />

da specifiche disposizioni di legge e per i fini da queste perseguiti”.<br />

290 PETTITI, op. cit., p.9<br />

122


giuridica: non vi sono propriamente organi del gruppo, ma solo organi<br />

delle singole entità che ne fanno parte, i rapporti giuridici continuano a<br />

far capo alle singole entità e non al gruppo complessivamente inteso. In<br />

questo senso, il gruppo si pone su un piano distinto da quello del gruppo<br />

europeo di interesse economico 291 , “il quale ha la capacità a proprio<br />

nome di essere titolare di diritti e di obbligazioni di qualsiasi natura, di<br />

stipulare contratti o di compiere altri atti giuridici e di stare in giudizio.<br />

Gli Stati membri stabiliscono se i gruppi hanno o no personalità<br />

giuridica” 292 . Ritornando ai tratti caratterizzanti del gruppo di società è<br />

opportuno precisare che dello stesso fanno parte più società<br />

giuridicamente indipendenti, collegate da mutui legami azionari e tutte<br />

subordinate alla politica del gruppo determinata dalla società “madre”.<br />

Per politica di gruppo deve intendersi “non una politica imposta dalla<br />

capogruppo alle affiliate, mere pedine, ma una politica nella quale tutte<br />

le affiliate si ritrovano per realizzare il proprio interesse e quello del<br />

gruppo complessivamente inteso allo stesso tempo.” 293 Il potere di<br />

influire della capogruppo, che deriva dal controllo che la stessa ha sulle<br />

affiliate, (che comunque conservano la propria personalità giuridica)<br />

varia a seconda del tipo di gruppo. A seconda dei legami che sussistono<br />

tra le diverse entità, i gruppi si distinguono in patrimoniali, finanziari,<br />

industriali o imprenditoriali. “Nei gruppi patrimoniali l‟influenza della<br />

291 Il Gruppo Europeo di Interesse Economico (GEIE) è una figura creata nell'ordinamento<br />

europeo con il Regolamento comunitario n.2137 del 25 luglio 1985. Si tratta di una figura<br />

giuridica proposta dall' Unione europea avendo come riferimento il francese GIE (Group<br />

d'Interet Economique) con lo scopo di unire le conoscenze e le risorse di attori economici di<br />

almeno due paesi appartenenti all'Unione. Nelle intenzioni dei legislatori europei, questo<br />

dovrebbe permettere a piccole e medie imprese di poter partecipare a progetti più grandi di<br />

quanto le loro dimensioni permetterebbero. Il fine del GEIE, tuttavia, non è quello di ottenere<br />

un profitto, per quanto questo non sia vietato, quanto piuttosto fornire un ausilio alle attività<br />

delle imprese europee che lo costituiscono. Caratteristica principale di un GEIE è che deve<br />

essere costituito da aziende di almeno due paesi appartenenti all'Unione Europea mentre non è<br />

permesso ad aziende di paesi terzi di partecipare; inoltre, al momento della costituzione, si può<br />

decidere se dare o meno una scadenza predeterminata al GEIE.<br />

292 PETTITI, op. cit., p.11<br />

293 PETTITI, op. cit., p.13<br />

123


capogruppo è assai esigua. Essa si sostanzia in un‟attività di<br />

massimizzazione della redditività degli investimenti compiuti e non<br />

investe l‟attività di gestione delle singole controllate. (…) Nei gruppi<br />

finanziari l‟intervento della capogruppo è sempre ridotto, anche se<br />

leggermente più accentuato che nei gruppi patrimoniali. La capogruppo<br />

non si interessa direttamente dell‟attività produttiva delle affiliate, della<br />

politica di vendita, della qualità ecc., ma decide sull‟erogazione dei<br />

finanziamenti ed è quindi indirettamente in grado di influire sulla<br />

produzione bloccando o incentivando i progetti di produzione delle<br />

controllate. (…) Nei gruppi industriali e imprenditoriali, invece,<br />

l‟influenza della capogruppo è assai più ampia. Essa non riguarda solo la<br />

politica degli investimenti e l‟erogazione di prestiti, ma si estende alla<br />

produzione e alla gestione industriale.” 294 Il potere di influire della<br />

capogruppo deriva dal controllo che la capogruppo ha sulle affiliate.<br />

294 PETTITI, op. cit., pp. 15-16<br />

124


4.2.1Il controllo<br />

Come rileva un Autore 295 ,“ fondamentale importanza riveste il<br />

problema dei rapporti tra le nozioni di controllo e gruppo, onde<br />

accertare se la prima coincida con la seconda, oppure se ne<br />

rappresenti solo una componente, o ancora, se invece ne<br />

costituisca un elemento non necessario ma solo accidentale a<br />

prescindere dalla frequenza del suo riscontro nella<br />

pratica.” 296 Quanto al concetto di controllo occorre richiamare<br />

l‟articolo 2359 297 del codice civile, rubricato “Società controllate<br />

e società collegate”, secondo il quale “sono considerate società<br />

controllate: 1) le società in cui un‟altra società dispone della<br />

maggioranza dei voti esercitabili nell‟assemblea ordinaria; 2) le<br />

società in cui un‟altra società dispone di voti sufficienti per<br />

esercitare un‟influenza dominante nell‟assemblea ordinaria; 3) le<br />

società che sono sotto influenza dominante di un‟altra società in<br />

virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.. Ai fini<br />

dell‟applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si<br />

computano anche i voti spettanti a società controllate, a società<br />

fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti<br />

spettanti per conto di terzi. Sono considerate collegate le società<br />

sulle quali un‟altra società esercita un‟influenza notevole.<br />

L‟influenza si presume quando nell‟assemblea ordinaria può<br />

essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se<br />

la società ha azioni quotate in mercati regolamentati”. Dalla<br />

295 AMMENDOLA, op. cit., p. 1269<br />

296 AMMENDOLA, op. cit., p. 1269<br />

297 L‟art. 2359 c.c. , prima della modifica operata dal D. Lgs. 9 aprile 1991, n. 127 ,disponeva :<br />

“Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un‟altra società, in virtù delle azioni o<br />

quote possedute, dispone della maggioranza richiesta per le deliberazioni dell‟assemblea<br />

ordinaria; 2) le società che sono sotto l‟influenza dominante di un‟altra società in virtù delle<br />

azioni o quote da questa possedute o di particolari vincoli contrattuali con essa; 3) le società<br />

controllate da un‟altra società mediante le azioni o quote possedute da società controllate da<br />

queste. Sono considerate collegate le società nelle quali si partecipa in misura superiore al<br />

decimo del loro capitale ovvero in misura superiore al ventesimo se si tratta di società con<br />

azioni quotate in borsa.”<br />

125


lettera della norma in commento emergono due fondamentali<br />

concetti, quello del controllo e quello del collegamento,<br />

espressione di due livelli distinti di esercizio dell‟influenza di un<br />

soggetto sull‟altro. “Il controllo giuridicamente si manifesta<br />

quando una società è capace di esercitare un‟influenza<br />

dominante su di un‟altra, quando la controllante ha il potere di<br />

imporre alla controllata le proprie direttive nella certezza che<br />

queste vengano seguite dalle controllate e quindi anche di<br />

imporre una politica di gruppo. Il collegamento invece si<br />

manifesta quando, pur in assenza di questo potere preponderante<br />

di determinazione, un soggetto può influenzare notevolmente un<br />

altro. Più precisamente l‟art. 2359 c.c. prevede due diverse forme<br />

di controllo: quello interno (o azionario) e quello esterno (o<br />

contrattuale). Il controllo interno, a sua volta, può essere diretto<br />

(o di diritto) oppure indiretto (o di fatto). Il controllo interno<br />

diretto si ha nelle ipotesi in cui una società “dispone della<br />

maggioranza di voti esercitabili nell‟assemblea ordinaria” di<br />

un‟altra società (art. 2359, 1° comma, n° 1). Questa sorta di<br />

presunzione assoluta dell‟esistenza di una situazione di controllo<br />

societario è fondata sul presupposto secondo cui la disponibilità<br />

della maggioranza dei voti consente all‟azionista di nominare o<br />

l‟amministratore unico o l‟intero consiglio di amministrazione,<br />

nonché l‟organo di controllo della società: senza dubbio,<br />

l‟esercizio di questo potere di nomina pone la società<br />

controllante in condizione di orientare l‟attività della controllata<br />

verso linee di programmazione economica e finanziaria da essa<br />

prestabilite. Il controllo interno indiretto si ha nelle ipotesi in cui<br />

una società “dispone di voti sufficienti per esercitare<br />

un‟influenza dominante nell‟assemblea ordinaria” di un‟altra<br />

società (art. 2359, 1° comma, n° 2). Infatti, quando il capitale<br />

126


sociale risulta frammentato in numerose partecipazioni e quando<br />

si riscontra un costante e diffuso assenteismo degli azionisti, una<br />

società può controllarne un‟altra anche senza disporre della<br />

maggioranza dei voti. L‟influenza dominante - che può essere<br />

identificata, in prima approssimazione, con il potere di indirizzo<br />

dell‟attività della controllata - finisce, anche qui, per coincidere<br />

con la possibilità di nominare gli amministratori: una società,<br />

azionista minoritaria di un‟altra, ne eserciterà, dunque, il<br />

controllo quando sarà stabilmente in grado di determinare la<br />

nomina dell‟organo gestorio. A norma del 2° comma dell‟art.<br />

2359, sia nel caso di controllo diretto, sia in quello indiretto, per<br />

il computo dei voti si deve tenere conto anche di quelli “spettanti<br />

a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta;<br />

non si computano i voti spettanti per conto terzi”. Le fattispecie<br />

contemplate da questo comma sono caratterizzate dalla<br />

circostanza che la società controllante non instaura direttamente<br />

il rapporto di controllo, bensì indirettamente, cioè mediante altra<br />

società o persona. Occorre tenere conto, infatti, che è<br />

particolarmente frequente, nel sistema dei gruppi, il controllo<br />

indiretto per il tramite di società controllate (c.d. catena di<br />

società o “controllo a cascata”): la società A controlla la società<br />

B, la quale, a sua volta controlla la società C, e così via. In tal<br />

modo, la società A è, attraverso la controllata B, controllante<br />

indiretta di C. Inoltre, sempre il 2° comma dell‟art. 2359 estende<br />

il controllo azionario indiretto anche a fattispecie che non si<br />

presentano sotto la forma del controllo a cascata: tale norma,<br />

infatti, imputa alla società controllante le partecipazioni,<br />

ancorché non di controllo, detenute dalle società controllate in<br />

altra società. L‟espressione “per interposta persona” non<br />

identifica uno specifico rapporto giuridico e viene generalmente<br />

127


interpretata in senso lato, includendovi anche qualsiasi ipotesi in<br />

cui le azioni, pur essendo intestate a terzi, siano state acquistate<br />

dalla società o per conto della stessa, se il terzo ha l‟obbligo di<br />

trasferirle a quest‟ultima quando ne venga fatta richiesta.<br />

L‟interposizione, ad esempio, può attuarsi mediante rapporti<br />

fiduciari, di cui l‟intestazione a società fiduciarie rappresenta una<br />

sottospecie. Al contrario, come si è visto, la norma prevede che<br />

non si computino i voti spettanti per conto terzi: nel caso che<br />

interposta sia la società, infatti, non si tiene conto dei voti che ad<br />

essa spettano per conto terzi, proprio in quanto ciò che rileva è la<br />

disponibilità effettiva dei diritti di voto. In conclusione, il 2°<br />

comma dell‟art. 2359 equipara, ai fini dell‟accertamento del<br />

controllo indiretto, le partecipazioni dirette a quelle indirette e<br />

stabilisce che, in ogni caso, le une si sommano alle altre:<br />

controllante può essere, quindi, sia la società che ha frazionato<br />

tutte le partecipazioni e non risulta essere titolare neppure di<br />

un‟azione o quota, sia la società che è titolare di una<br />

partecipazione di per sé priva di influenza, ma determinante per<br />

disporre della maggioranza assoluta o relativa insieme alle<br />

partecipazioni indirette. Il controllo esterno, invece, si ha tutte le<br />

volte in cui una società è “sotto l‟influenza dominante di un‟altra<br />

società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”<br />

(art. 2359, 1° comma, n° 3). Secondo una parte della dottrina 298<br />

“la “particolarità” del vincolo contrattuale prevista nel testo<br />

vigente dall‟art. 2359, n. 3, c.c., appare idonea a ricomprendere<br />

non soltanto fattispecie “negoziali” dirette fra le parti, ma anche<br />

situazioni di fatto che rinvengano la loro fonte nella fase<br />

funzionale ed esecutiva di un accordo, intervenuto al limite fra le<br />

parti formalmente diverse, ma la cui efficacia si estenda anche ai<br />

298 MUSSO, Il controllo societario mediante “particolari vincoli contrattuali”, in Contratto e<br />

impresa ,I, 1995, p. 25<br />

128


terzi per volontà dei contraenti o per gli effetti legali che<br />

dall‟accordo scaturiscono.” 299 Per la dottrina ora citata, quindi, la<br />

formulazione della norma relativa ai vincoli contrattuali è<br />

idonea a ricomprendere ulteriori forme di controllo esterno quali,<br />

ad esempio, la coincidenza di fatto degli amministratori o la<br />

nomina di loro parenti stretti nelle società in collegamento; 300 i<br />

patti parasociali; la nomina di amministratori “formali” nelle<br />

varie società da parte di una società terza o del suo socio di<br />

maggioranza che operi quale effettivo amministratore “occulto”<br />

o di “fatto” nei confronti delle prime, pur senza detenervi<br />

partecipazioni rilevanti. “Dalle considerazioni finora esposte<br />

discendono diversi corollari particolarmente significativi per<br />

individuare più concretamente i presupposti della fattispecie in<br />

esame. In primo luogo, mentre il possesso della maggioranza di<br />

voti nell‟assemblea ordinaria consente di presumere di “diritto”<br />

l‟esistenza di un‟influenza dominante, nelle ipotesi “di fatto”,<br />

qual è il controllo attuato mediante contratto, appare<br />

indispensabile che l‟influenza in parola sia accertata in concreto<br />

mediante l‟esame di tutti i vincoli derivanti dall‟accordo e<br />

consista nella possibilità, per una parte, di determinare<br />

stabilmente la politica produttiva o commerciale dell‟altra,<br />

condizionandone di fatto le scelte di mercato. (…) In secondo<br />

luogo deve escludersi che esista una tipologia contrattuale<br />

unitaria tale da integrare di per se stessa il particolare vincolo in<br />

esame. In Germania - dove pure un siffatto accordo è previsto<br />

dall‟ordinamento nel c.d. “contratto di dominazione”, mediante il<br />

299 MUSSO, op. ult. cit., p. 25<br />

300 MUSSO, op. cit.,p. 25 “In quest‟ipotesi ,pertanto, un diretto patto fiduciario tra la società<br />

controllante e la società controllata ovvero un accordo parasociale o perfino un gentlemen’ s<br />

agreement fra l‟azionista di maggioranza della società dominante e i singoli amministratori<br />

della società controllata, appaiono costituire vincoli “contrattuali” sufficienti per integrare il<br />

primo presupposto dell‟art. 2359 n.3, c.c., mentre l‟effettiva identità personale degli organi<br />

gestori o di loro parenti in aggiunta alla prova dell‟unitarietà direzionale potrà risultare idonea<br />

per manifestare il carattere particolare dell‟accordo , ai fini previsti dalla norma medesima.”<br />

129


quale una società si assoggetta completamente al controllo di<br />

un‟altra, versandole eventualmente tutti gli utili, con correlativa<br />

responsabilità a carico della società dominante per le perdite<br />

della società dominata e con tutela degli azionisti di minoranza<br />

della seconda mediante garanzia di un dividendo minimo e<br />

opzione di acquisto delle azioni della società dominante - si è<br />

segnalata la suscettibilità di numerosi altri contratti d‟impresa a<br />

consentire il controllo in esame. Nello stesso tempo, anche la<br />

dottrina italiana, nell‟escludere l‟ammissibilità di uno specifico<br />

contratto di dominazione nel nostro ordinamento giuridico, ha<br />

evidenziato a maggior ragione la potenzialità dei vari “ordinari”<br />

contratti d‟impresa a consentire l‟influenza dominante richiesta<br />

per integrare il controllo contrattuale.” 301 Secondo un<br />

orientamento dottrinale 302 , si deve trattare di rapporti giuridici<br />

“la cui costituzione ed il perdurare dei quali rappresentino<br />

condizioni di esistenza e di sopravvivenza della capacità<br />

d‟impresa di una delle società contraenti”. Si indicano, tra gli<br />

altri, contratti di finanziamento, di agenzia, di licenza di<br />

brevetto, di commissione, di somministrazione in esclusiva, di<br />

franchising e di know-how. Ritornando al problema dei rapporti<br />

tra la nozione di controllo e quella di gruppo, cui abbiamo fatto<br />

riferimento all‟inizio di questo paragrafo, un orientamento<br />

dottrinale sostiene che “la semplice sussistenza del controllo non<br />

sia requisito sufficiente per identificare tra diverse società dei<br />

vincoli di gruppo e che sia indispensabile che questo potere di<br />

influire derivante dal controllo, venga di fatto esercitato. Come<br />

se il controllo corrispondesse ad una situazione potenziale e<br />

l‟esercizio concreto del potere determinasse l‟esistenza di un<br />

301 MUSSO, op. cit., p. 34<br />

302 PIRAS - CERRAI, Gruppi di società, in AA.VV., Diritto Commerciale, Bologna,1999, p.<br />

495 e ss.<br />

130


gruppo. Dunque, si è detto, il gruppo presuppone il controllo ma<br />

non tutte le fattispecie di controllo presuppongono il gruppo.” 303<br />

303 PETTITI, op. cit., p. 20<br />

131


4.2.2Controllo e direzione unitaria<br />

Posto che il controllo rappresenta un elemento necessario del<br />

gruppo, elemento la cui sussistenza deve essere accertata in<br />

concreto, si pongono divergenze in dottrina sull‟identificazione<br />

di un eventuale ulteriore requisito del gruppo che deve porsi<br />

accanto al controllo. Per una parte della dottrina 304 , infatti, la<br />

sussistenza di un gruppo richiede non soltanto la relazione di<br />

controllo fra le società ma altresì un‟ effettiva “direzione<br />

unitaria” della società holding sulle controllate; al contrario, per<br />

altra parte della dottrina 305 la stesso nozione di controllo è<br />

sufficiente per identificare il fenomeno del gruppo. Un Autore 306 ,<br />

che condivide il secondo orientamento dottrinale, rileva che “il<br />

requisito di una “direzione unitaria” risulta omesso dalle norme<br />

più recenti che hanno posto una correlazione fra “controllo” e<br />

“gruppo”, quali ad esempio l‟art. 60 del T.U. delle leggi in<br />

materia bancaria e creditizia (dove l‟attività di direzione e<br />

coordinamento della società capogruppo appare richiamata<br />

unicamente quale presupposto del controllo , nello specifico<br />

settore creditizio) (…) e che la sufficienza del rapporto di<br />

controllo è stata accolta anche nell‟ambito della disciplina<br />

comunitaria 307 per configurare il gruppo quale “unica impresa”<br />

sia pure ai fini antitrust.” 308 A parere di chi scrive, la tesi<br />

secondo la quale la nozione di controllo è sufficiente per<br />

identificare il fenomeno del gruppo è la più condivisibile.<br />

Personalmente ritengo che il potere in capo alla società<br />

capogruppo o alla holding di dirigere e influenzare le società<br />

304<br />

SCHIANO DI PEPE, Il gruppo di imprese, Milano, 1990, p. 17 ss.<br />

305<br />

GALGANO, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 1995, p. 225<br />

306<br />

MUSSO, op. cit.,p. 42<br />

307<br />

Comm. CEE, 21 dicembre 1988, in Giur. ann. dir. ind.,1990, p. 973 “Il fatto che le società<br />

madri abbiano il controllo delle rispettive affiliate è sufficiente per considerare i gruppi singole<br />

imprese”.<br />

308<br />

MUSSO, op. cit.,p. 42<br />

132


affiliate, finalizzato all‟attuazione della politica del gruppo, non<br />

rappresenti un requisito ulteriore rispetto al controllo ma derivi<br />

esso stesso dal controllo. Secondo un orientamento dottrinale 309 ,<br />

“l‟art. 2497- sexies 310 c.c. individua nel controllo una mera<br />

presunzione della sussistenza dell'attività di direzione e<br />

coordinamento. La direzione è, dunque, nozione più ampia del<br />

controllo, che della prima è il genere prossimo. Se è vero cioè<br />

che dalla presenza del controllo può inferirsi la sussistenza della<br />

direzione unitaria, è anche vero però che, trattandosi di<br />

presunzione juris tantum, può essere fornita la prova contraria, la<br />

quale non può che consistere, appunto, nella dimostrazione che,<br />

pur in presenza del controllo, non sussistono tuttavia ulteriori<br />

elementi, tali da poter affermare l'esistenza anche della direzione<br />

unitaria” 311 . Quanto all‟accertamento della sussistenza della<br />

direzione unitaria, che dovrà essere svolto in concreto, di volta in<br />

volta, rileverà ogni fatto o atto che, unito ad altri, configuri<br />

un'attività permanente e sistematica di incisione sulle scelte<br />

gestorie della società subordinata. Rileveranno dunque, a tal fine,<br />

atti formali a carattere negoziale, quali deliberazioni o accordi<br />

contrattuali, tra le società interessate; atti di indirizzo, quali<br />

ordini di servizio, istruzioni, regole di comportamento; meri fatti,<br />

comunque idonei ad influenzare significativamente le scelte<br />

gestionali della società.. Attività di direzione e coordinamento,<br />

tuttavia, non significa totale eterodirezione delle singole imprese<br />

da parte della società capogruppo o della holding, non significa<br />

309<br />

MONTALENTI, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in<br />

Riv. soc., 2007, 2-3,p. 317<br />

310<br />

Art. 2497-sexies (Presunzioni) “Ai fini di quanto previsto nel presente capo, si presume<br />

salvo prova contraria che l'attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla<br />

società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi<br />

dell'articolo 2359”.<br />

311 MONTALENTI, op. ult. cit.,p. 317<br />

133


espropriazione dell'autonomia gestionale delle società<br />

subordinate, non significa compressione completa del potere di<br />

autodeterminazione. La società madre, infatti, non deve<br />

esercitare influenza esclusivamente per la realizzazione dei<br />

propri interessi recando pregiudizio alle controllate, ma deve<br />

agire secondo lealtà. Le decisioni assunte dalla capogruppo<br />

vanno verificate alla luce delle scelte possibili in modo da non<br />

ledere gli interessi della controllata.<br />

134


4.3Nozione del marchio di gruppo e funzione<br />

“Il marchio di gruppo è quel marchio dotato delle caratteristiche<br />

costitutive ed essenziali del marchio individuale e caratterizzato dal fatto<br />

di essere utilizzato contestualmente da più soggetti giuridici distinti<br />

appartenenti ad un gruppo. Esso è ordinariamente intestato ad un<br />

soggetto che può o meno farne uso direttamente ed è sfruttato da una<br />

pluralità di altri soggetti che, pur avendo il diritto di farne uso, non hanno<br />

titolo per disporne.” 312 Secondo un Autore 313 , “i presupposti necessari<br />

per il sorgere della figura in esame (marchio di gruppo) sono: a)<br />

l‟esistenza di più imprese titolari o utenti di uno stesso marchio (o di più<br />

marchi uguali, depositati e/o usati in ordinamenti giuridici diversi); b)<br />

una situazione di collegamento economico tra tali imprese, pur restando<br />

le stesse autonome da un punto di vista giuridico; c) una direzione<br />

unitaria, sia essa individuale (capogruppo) o frutto di decisioni di un<br />

organo collettivo (comitato di coordinamento o similare). 314 Nel diritto<br />

dei marchi degli Stati Uniti, il marchio di gruppo si fonda<br />

prevalentemente sulla licenza del marchio. Nel Lanham Act 315 si<br />

riconosce che spesso in a group of affiliated companies, one company<br />

will hold ownership of all the trademark (and other) properties that are<br />

used by the other affiliates 316 . In particolare la normativa citata (15 USC<br />

1055 Use by related companies 317 affecting validity and registration)<br />

prevede che “Where a registered mark or a mark sought to be registered<br />

312 PETTITI, op. cit., p. 41<br />

313 GUGLIELMETTI, I c.d. marchi di gruppo, in Riv. dir. ind., 1983, p. 297<br />

314 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 297<br />

315 The Lanham (Trademark) Act (title 15, chapter 22 of the United States Code) is a piece of<br />

legislation that contains the federal statutes of trademark law in the United States.<br />

316 “In un gruppo di società affiliate una società avrà la proprietà di tutti i marchi e delle altre<br />

proprietà che sono usate dalle altre affiliate.”<br />

317 15 USC 1127 Construction and definitions; intent of chapter : “The term "related company"<br />

means any person whose use of a mark is controlled by the owner of the mark with respect to<br />

the nature and quality of the goods or services or in connection with which the mark is used”.<br />

“Il termine “società collegata” indica qualsiasi soggetto il cui utilizzo del marchio è controllato<br />

dal titolare di quest‟ultimo per quanto riguarda la natura e la qualità dei beni o dei servizi o in<br />

relazione ai quali il marchio è utilizzato.”<br />

135


is or may be used legitimately by related companies, such use shall inure<br />

to the benefit of the registrant or applicant for registration, and such use<br />

shall not affect the validity of such mark or of its registration, provided<br />

such mark is not used in such manner as to deceive the public. If first use<br />

of a mark by a person is controlled by the registrant or applicant for<br />

registration of the mark with respect to the nature and quality of the<br />

goods or services, such first use shall inure to the benefit of the<br />

registrant or applicant, as the case may be” 318 . Dalla normativa citata<br />

emerge che il limite dell‟uso plurimo del marchio da parte delle related<br />

companies è rappresentato dal divieto di ingannare il pubblico dei<br />

consumatori. Il rapporto tra le società, pertanto, deve esplicitamente<br />

prevedere che “the use of a mark is controlled by the owner of the mark<br />

with respect to the nature and quality of the goods or services or in<br />

connection with which the mark is used and that the trademark is not<br />

used in such manner as to deceive the public.” 319 Ritornando al diritto<br />

italiano dei marchi, posso affermare che, anche nel nostro ordinamento,<br />

il limite dell‟uso plurimo del marchio di gruppo è rappresentato dal<br />

divieto di uso ingannevole del segno distintivo. Anche se il CPI non<br />

contiene alcun riferimento esplicito all‟uso del marchio di gruppo,<br />

ritengo, infatti, applicabile alla fattispecie in commento l‟art. 14, 2°<br />

comma lett. a), CPI, 320 il quale fa riferimento all‟uso ingannevole “a<br />

causa del modo o del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il<br />

318 “Laddove un marchio registrato o un marchio in procinto di essere registrato è o potrebbe<br />

essere usato legittimamente da società collegate, tale uso dovrebbe essere effettuato a<br />

vantaggio del registrante o di colui che effettua la registrazione, e tale uso non dovrebbe<br />

inficiare la validità del marchio o della sua registrazione, purché tale marchio non sia utilizzato<br />

in modo decettivo per il pubblico. Se il primo utilizzo del marchio da parte di un soggetto è<br />

controllato dal registrante o da colui che effettua la registrazione del marchio per quanto<br />

riguarda la natura e la qualità dei beni o servizi, tale primo utilizzo dovrebbe essere effettuato a<br />

vantaggio del registrante o di colui che effettua la registrazione, come il caso richiederebbe.”<br />

319 “L‟uso del marchio è controllato dal titolare del marchio per quanto riguarda la natura e la<br />

qualità dei beni o servizi cui il marchio si riferisce o per i quali il marchio è usato e per fare in<br />

modo che il marchio non sia utilizzato in modo decettivo per il pubblico.”<br />

320 Art. 14, 2° comma lett. a) “Il marchio d‟impresa decade se sia divenuto idoneo ad indurre in<br />

inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a<br />

causa del modo o del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i<br />

prodotti o servizi per i quali è registrato”.<br />

136


suo consenso”. L‟utilizzo del marchio di gruppo da parte delle società<br />

affiliate, infatti, avviene sicuramente con il consenso del titolare.<br />

Secondo un orientamento dottrinale 321 ,infatti, “l‟utilizzazione contestuale<br />

dello stesso marchio non richiede necessariamente un accordo<br />

contrattuale tra il titolare e gli imprenditori che ne traggono profitto, ma<br />

trova fondamento e giustificazione in una sorta di autorizzazione del<br />

titolare del marchio e in una sostanziale unione tra gli imprenditori<br />

interessati, le cui rispettive attività appaiono funzionalmente collegate o<br />

coordinate.” 322 Per evitare l‟uso decettivo del marchio e, quindi, la<br />

conseguente decadenza ex art. 14, 2° comma lett. a), CPI, occorre che le<br />

società appartenenti al gruppo rispettino i medesimi standard produttivi e<br />

qualitativi in modo che i prodotti contrassegnati dal marchio di gruppo<br />

appaiano, al pubblico dei consumatori, provenienti da un‟unica impresa.<br />

“La semplice appartenenza al gruppo non è di per se circostanza<br />

sufficiente a legittimare il couso del marchio di gruppo quando ad essa<br />

non corrisponda un collegamento o coordinamento a livello delle<br />

attività.” 323 Secondo la sentenza del Tribunale di Chieti del 31 gennaio<br />

1986, infatti, “è ammissibile, nel vigente ordinamento, l‟uso<br />

contemporaneo del medesimo marchio da parte di più distinti soggetti,<br />

alla condizione però - e solo alla condizione - che gli stessi risultino uniti<br />

da vincoli di natura finanziaria, personale o contrattuale, per effetto dei<br />

quali la rispettiva attività produttiva venga ad essere diretta e controllata<br />

da un unico centro decisionale, che conguagli la molteplicità delle<br />

soggettività giuridiche nell‟unità di una sola effettiva impresa,<br />

assicurando uniformità nei metodi di fabbricazione e nei livelli<br />

qualitativi dei prodotti”. 324 Relativamente alle ragioni che inducono le<br />

related company ad utilizzare il marchio del gruppo, ad avviso di chi<br />

scrive, l‟adozione di un marchio comune può rispondere a vari ordini di<br />

321 PETTITI, op. cit., p. 42<br />

322 PETTITI, op. cit., p. 42<br />

323 PETTITI, op. cit., p. 42<br />

324 Trib. Chieti, 31 gennaio 1986, in Riv. dir. ind., II, p. 58<br />

137


esigenze: “può fondarsi sull‟esigenza di limitare i costi di registrazione<br />

dei marchi, di consentire un‟agevole circolazione dello stesso marchio<br />

all‟interno del gruppo oppure esser dettata da interessi familiari o diretta<br />

conseguenza dello smembramento di un‟attività imprenditoriale unitaria<br />

o della diversificazione di una produzione unitaria in varie<br />

sottoproduzioni” 325 . Quanto alla funzione del marchio di gruppo, in<br />

primo luogo, esso ricollega i prodotti o servizi contrassegnati non<br />

soltanto all‟impresa che li ha prodotti ma a tutte le imprese dello stesso<br />

gruppo. In secondo luogo, esso, come ogni altro segno distintivo<br />

trasmette un messaggio, e, in particolare, comunica la politica, il<br />

prestigio del gruppo. E‟ da tenere presente che “l‟impresa posta al vertice<br />

del gruppo ordinariamente adotta un segno sufficientemente<br />

rappresentativo e generico da poter essere utilizzato da tutte le affiliate,<br />

nelle loro rispettive produzioni- spesso piuttosto diverse – e le imprese<br />

del gruppo ne fanno uso affiancando eventualmente a questo marchio un<br />

marchio speciale.” 326<br />

325 PETTITI, op. cit., p. 42<br />

326 PETTITI, op. cit., p. 42<br />

138


4.3.1Titolarità del marchio di gruppo<br />

La questione della titolarità del marchio di gruppo è strettamente<br />

connessa a quella dell‟individuazione del soggetto che,<br />

all‟interno del gruppo, ha il potere di direzione e coordinamento<br />

sulle società affiliate. La titolarità del marchio, infatti, deve<br />

spettare al soggetto in grado di emettere le direttive vincolanti<br />

nei confronti delle affiliate e coinvolgenti la stessa utilizzazione<br />

del marchio. Dunque al soggetto che per la sua posizione di<br />

supremazia esercita concretamente il controllo nei confronti<br />

delle altre entità. Alla luce di quanto appena detto analizzerò due<br />

distinte questioni, cioè, se il marchio possa essere di titolarità di<br />

una delle società controllate ed utilizzato anche dalle altre (in<br />

questo caso la titolarità risulterebbe in capo ad un soggetto<br />

sottomesso alle direttive della capogruppo, allo stesso modo<br />

delle altre coutilizzatrici del marchio) oppure se possa essere di<br />

titolarità della società holding. Quanto alla prima questione,<br />

secondo un orientamento dottrinale 327 , si deve distinguere a<br />

seconda che la controllata titolare del marchio occupi una<br />

posizione a sua volta di dominio nei confronti delle altre entità<br />

del gruppo, sia cioè controllante verso queste ultime, o sia in<br />

posizione di parità verso le stesse, ossia siano allo stesso modo<br />

controllate da una controllante non titolare del marchio (nel<br />

primo caso le entità fanno parte di un gruppo a cascata o<br />

verticale, nel secondo, di un gruppo orizzontale). Secondo la<br />

dottrina citata è ammissibile la titolarità del marchio da parte di<br />

una controllata, a sua volta controllante delle altre entità<br />

coutilizzatrici del marchio. “Anche in questo caso infatti il<br />

soggetto titolare del marchio avrebbe il potere di esercitare il<br />

controllo ed emettere direttive vincolanti riguardo l‟utilizzazione<br />

327 PETTITI, op. cit., p. 102<br />

139


del marchio, in modo che tutti i soggetti che facciano uso dello<br />

stesso marchio seguano criteri di produzione uniformi. La<br />

titolare sarebbe a sua volta vincolata alle direttive della<br />

capogruppo necessariamente più generiche di quelle da essa<br />

stessa emesse e compatibili con queste ultime.” 328 Relativamente<br />

alla fattispecie della titolarità del marchio di gruppo da parte di<br />

una controllata che non abbia a sua volta il potere di controllare<br />

le altre entità, invece, l‟orientamento dottrinale citato nega<br />

questa possibilità. “In questo caso infatti, si verrebbe a creare<br />

una sorta di dicotomia tra il soggetto da cui sostanzialmente<br />

promana la politica concernente l‟utilizzazione del marchio e il<br />

soggetto cui risulta intestato il marchio. A quest‟ultimo<br />

spetterebbero i diritti che derivano dall‟intestazione, al primo la<br />

determinazione dei criteri di utilizzazione del marchio.” 329<br />

Quanto alla questione dell‟intestazione del marchio di gruppo<br />

alla società holding, questa riguarda la possibilità<br />

dell‟intestazione formale del segno distintivo del gruppo in capo<br />

ad un soggetto che non ha un‟impresa propria nella quale<br />

utilizzarlo ma si limita ad esercitare l‟attività istituzionale di<br />

capogruppo. La holding, infatti, è una società finanziaria di<br />

controllo, la quale non ha un‟impresa propria, ma si limita ad<br />

amministrare unitariamente le società dipendenti. E‟ possibile<br />

affermare che non ci sono dubbi circa l‟ammissibilità della<br />

fattispecie in questione dal momento che l‟art. 22, 1° comma, l.<br />

m. 330 (nel testo modificato dal D. Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480),<br />

nel prevedere che il titolare del marchio possa anche non avere<br />

una propria attività nella quale utilizzare il marchio se esercita il<br />

328 PETTITI, op. cit., p. 102<br />

329 PETTITI, op. cit., p. 102<br />

330 Art. 22, 1°comma, l.m.(oggi art. 19 CPI) “Può ottenere una registrazione per marchio<br />

d'impresa chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di<br />

prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il<br />

controllo o che ne facciano uso con il suo consenso.”<br />

140


controllo nei confronti del soggetto che lo utilizza nella propria<br />

attività produttiva, ha riconosciuto definitivamente la legittimità<br />

dell‟intestazione del marchio alla holding, recependo ciò che la<br />

prassi già da tempo conosceva. Un caso giurisprudenziale degli<br />

anni settanta 331 evidenziava, ad esempio, che il marchio<br />

“Chevron” era utilizzato in Italia dalla Chevron Oil Italiana<br />

s.p.a., che però non era titolare della relativa registrazione; essa<br />

era controllata dalla Chevron Oil Europe Inc., controllata dalla<br />

California Texas Oil Corp., a sua volta interamente posseduta<br />

dalla Standard Oil Company of California, che era titolare del<br />

marchio italiano “Chevron,” ma non lo usava. Posto che<br />

l‟intestazione del marchio di gruppo in capo alla holding è<br />

legittima, occorre precisare che il controllo dalla stessa esercitato<br />

sugli utilizzatori non deve consistere solo in un mero rapporto di<br />

partecipazione o finanziamento, ma deve comportare l‟adozione<br />

di una politica comune che coinvolga necessariamente<br />

l‟utilizzazione del marchio. Come rileva un‟opinione<br />

dottrinale 332 , infatti, “la holding deve dettare criteri comuni di<br />

produzione, di qualità, deve predisporre determinati servizi per<br />

l‟ausilio delle affiliate e controllare il rispetto delle direttive<br />

impartite, in modo da assicurare l‟uniformità della produzione e<br />

il rispetto del consumatore. (…) Titolare del marchio di gruppo<br />

deve essere quel soggetto che, pur non utilizzando in proprio lo<br />

stesso, ne determina le caratteristiche di utilizzazione e i criteri<br />

di produzione per effetto di quei poteri e quella posizione di<br />

supremazia che gli sono connaturali.” 333<br />

331 Trib. Catania, 25 gennaio 1977, in Riv. dir. ind., 1977,n. 917, p.396<br />

332 PETTITI, op. cit., p. 102<br />

333 PETTITI, op. cit., p. 102<br />

141


4.4 Ammissibilità del marchio di gruppo<br />

Come ho già anticipato a proposito dell‟intestazione del marchio di<br />

gruppo in capo alla holding, l‟ammissibilità della fattispecie in esame è<br />

fuori dubbio soprattutto alla luce del disposto dell‟art. 19 CPI secondo il<br />

quale “Può ottenere una registrazione per marchio d‟impresa chi lo<br />

utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di<br />

prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese<br />

di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso. Non<br />

può ottenere una registrazione per marchio d‟impresa chi abbia fatto la<br />

domanda in mala fede.” Il testo della norma citata riproduce quello<br />

dell‟art. 22 l.m., il quale discendeva dal D. Lgs. n. 480/92, con cui è stata<br />

recepita la direttiva CE 88/104, sul ravvicinamento delle legislazioni<br />

degli stati membri in materia di marchi d‟impresa. La novella del 1992<br />

ha sostanzialmente svincolato la titolarità del marchio dalla qualità di<br />

imprenditore 334 . Tale conclusione sarebbe supportata dalla locuzione<br />

“che ne facciano uso con il suo consenso” con cui il legislatore avrebbe<br />

disposto che anche chi non sia imprenditore né intenda diventarlo possa<br />

validamente depositare un marchio al fine di farlo usare da altri. 335<br />

E‟ da ricordare che il generale riconoscimento della possibilità di<br />

registrare un marchio da parte di chiunque a seguito della novella<br />

legislativa ha posto fine ad un intenso dibattito circa la legittimità del<br />

marchio di gruppo. “La legittimità di tale ipotesi è stata, prima della<br />

riforma del 1992, valutata alla stregua della normativa sulla cessione del<br />

marchio. In un primo tempo, l‟idea della circolazione “libera” del<br />

marchio all‟interno del gruppo venne poggiata sul concetto di licenza<br />

334 In questo senso vedi Trib. Milano, 8 novembre, 2005, in Giustizia a Milano, p. 76 “L'art. 22<br />

l. marchio per effetto della modifica introdotta dal d.lgs. n. 480 del 1992 ha eliminato la<br />

necessità che il soggetto registrante rivesta la qualità di imprenditore, posto che il deposito di<br />

un segno può essere eseguita anche solo al fine di concederne l'uso effettivo a terzi.”<br />

335 In questo senso UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e<br />

concorrenza, Padova, 2007, p.182; SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p.154 “Dopo<br />

la riforma del 1992 occorre ancora un‟intenzione d‟uso ma questa può consistere<br />

nell‟intenzione che altri facciano uso del marchio registrato.”<br />

142


implicita, 336 e cioè sull‟idea che la situazione di gruppo implicasse degli<br />

accordi in ordine all‟utilizzazione dei marchi. In un secondo momento<br />

tale idea, palesemente artificiosa (perché nessuna licenza era davvero<br />

rintracciabile), fu abbandonata, ma la stessa soluzione rimase in piedi,<br />

affermandosi che la situazione di gruppo realizza una sostanziale unità<br />

d‟impresa, che si sovrappone alla pluralità formale delle società del<br />

gruppo.” 337 Secondo un Autore, 338 i primi riferimenti alla fattispecie del<br />

marchio di gruppo risalgono -almeno per quel che concerne l‟Europa -<br />

intorno al 1928, quando “in Germania, il Mints, il Meinhardt, il Baum, in<br />

sede di preparazione dell‟allora imminente congresso di Roma<br />

dell‟Associazione Internazionale per la protezione della proprietà<br />

industriale, si domandarono se le necessità proprie delle grandi<br />

concentrazioni industriali, colleganti insieme in vario modo imprese<br />

formalmente autonome, non rendessero necessario un distacco del<br />

marchio dall‟impresa, e maggiori possibilità nella cessione di quello a, o<br />

tra, imprese dipendenti o collegate.” 339 L‟Autore citato ricorda inoltre<br />

che nel 1934, alla conferenza di Londra per la revisione della<br />

Convenzione d‟Unione, la delegazione americana propose che all‟art. 5<br />

della Convenzione, il quale disciplina appunto l‟utilizzazione del<br />

marchio, venisse aggiunta la seguente disposizione: “Les pays de<br />

l’Union permettront l’ emploi de la même marque par des sociétés<br />

affiliées les unes aux autres de telle manière que les produits vendus par<br />

elles sont fabriqués d’ après les même procédés et formules techniques,<br />

en sorte que leur aspect et leur nature sont équivalents, pourvu que ces<br />

336 In questo senso vedi Trib. Milano, 5 maggio, 1975, in Giur. ann. dir. ind., 1975, n.722<br />

“Quando un marchio è registrato a nome di una società ed è usato da altra società ad essa<br />

collegata, quest‟uso è imputabile anche alla prima, stante l‟evidente rapporto di licenza<br />

implicita fra di esse”; Trib. Milano, 26 febbraio, 1976, in Giur. ann. dir. ind, 1976, n. 813<br />

“L‟esistenza di un contratto di licenza di marchio tra una società straniera ed una italiana può<br />

essere provata dalle presunzioni ricavabili dal fatto che la società licenziataria è stata costituita<br />

per operare nel territorio italiano sotto il controllo della società estera concedente”<br />

337 DI CATALDO, I segni distintivi, Milano, 1993, p. 30<br />

338 FRANCESCHELLI, Utilizzazione di marchi identici da parte di imprese collegate, in Studi<br />

Riuniti di diritto industriale, Milano,1959, p. 168<br />

339 FRANCESCHELLI, op. ult. cit., p. 168<br />

143


procédés soient dûment marqués avec le nom de la société qui les met en<br />

vente, avec l’indication du pays ou du lieu où ils sont fabriqués ou<br />

produits. 340 ” La proposta americana fu poi rielaborata e il suddetto<br />

articolo 5 assunse la seguente formulazione “l’ emploi simultané de la<br />

même marque sur des produits identiques ou similaires, par des<br />

établissements industriels ou commerciaux considérés comme<br />

copropriétaires de la marque d’ après les dispositions de la loi nationale<br />

du pays où la protection est réclamée, n’empêchera pas l’<br />

enregistrement . 341 L‟Autore citato ritiene che “il difetto fondamentale<br />

dell‟art. 5 della Convenzione d‟Unione, nella formulazione suddetta, è<br />

che esso sembra legare la possibilità di impiego simultaneo dello stesso<br />

marchio su prodotti identici o similari ma provenienti da diverse imprese,<br />

ad un‟ipotesi di comproprietà in senso tecnico.” 342 A conferma della<br />

tendenza a rinvenire il fondamento della legittimità del marchio di<br />

gruppo nel concetto di comproprietà o in quello di licenza implicita, si<br />

può ricordare alcune pronunce giurisprudenziali degli anni settanta quali,<br />

ad esempio, la sentenza del Tribunale di Milano del 16 novembre 1976 343<br />

ove si legge che “la teoria dei marchi di gruppo conduce correttamente<br />

ad ipotizzare una contitolarità dello stesso marchio in capo a più imprese<br />

collegate che ne facciano uso contemporaneamente secondo decisioni<br />

unitarie di politica industriale, prese nell‟ambito del gruppo e<br />

singolarmente”; la sentenza del Tribunale di Milano del 21 febbraio<br />

1977, 344 in cui è ammesso espressamente il concetto di marchio di<br />

340 “I Paesi dell‟Unione permettono l‟impiego del medesimo marchio da parte di società<br />

collegate in modo che i prodotti venduti dalle stesse siano fabbricati in base ai medesimi<br />

processi e formule tecniche, in modo che il loro aspetto e la loro natura sia uguale, a<br />

condizione che i processi siano correttamente contrassegnati dal marchio con il nome della<br />

società che li mette in vendita, con l‟indicazione del paese o del luogo dove esso è stato<br />

fabbricato o prodotto”.<br />

341 “L‟uso simultaneo dello stesso marchio su prodotti identici o simili, da parte di stabilimenti<br />

industriali o commerciali, considerati come comproprietari del marchio secondo le disposizioni<br />

della legge nazionale del paese in cui è richiesta la protezione, non deve impedirne la<br />

registrazione.”<br />

342 FRANCESCHELLI, op. cit., p. 168<br />

343 Trib. Milano, 16 novembre, 1976, in Giur. ann. dir. ind, 1976, n .915<br />

344 Trib. Milano, 21 febbraio, 1977, in Giur. ann. dir. ind, 1977, n. 1923, p. 850<br />

144


gruppo, distinguendo l‟uso comune del marchio ad opera delle imprese<br />

collegate, che si accompagni ad una situazione di contitolarità,<br />

dall‟ipotesi in cui il marchio risulta in titolarità esclusiva di una delle<br />

imprese mentre l‟uso dello stesso da parte di altre imprese del gruppo si<br />

configura come esecuzione di una licenza. E‟ stato infatti affermato che,<br />

“benché la teoria dei marchi di gruppo conduca correttamente ad<br />

ipotizzare una contitolarità dello stesso marchio in capo a più imprese<br />

collegate che ne facciano uso contemporaneamente secondo decisioni<br />

unitarie di politica industriale prese nell‟ambito del gruppo ed eseguite<br />

singolarmente, ciononostante, quando una delle imprese collegate si sia<br />

riservata la titolarità esclusiva del marchio mediante un acquisto a titolo<br />

originario, l‟uso dello stesso marchio da parte di altra impresa collegata<br />

può avvenire soltanto mediante un contratto di licenza e non certo in base<br />

alla semplice appartenenza allo stesso gruppo.” 345 Analizzerò ora la<br />

seconda tendenza cui ho fatto prima riferimento, quella secondo la quale<br />

la situazione di gruppo realizza una sostanziale unità d‟impresa, che si<br />

sovrappone alla pluralità formale delle società del gruppo. Un Autore 346<br />

afferma che “l‟utilizzazione del medesimo marchio da parte di una<br />

pluralità di imprese con la funzione distintiva, implicante la costante<br />

connessione del segno con una fonte unitaria di produzione/vendita del<br />

prodotto, viene ammessa allorché si consideri il gruppo di imprese come<br />

un‟unità economica, risultante dalle varie imprese, come un‟unica<br />

impresa, e le varie aziende come “rami” di un‟unica organizzazione<br />

aziendale. Nell‟ambito del gruppo, l‟uso del marchio compiuto dalle<br />

imprese collegate è imputabile alla società controllante, anche in assenza<br />

di veri e propri contratti di licenza. La tutela dei consumatori alla luce<br />

dell‟art. 15 l.m., 347 è assicurata dal fatto stesso che il marchio circoli fra<br />

società facenti parte di un unico complesso produttivo, con la relativa<br />

345 Trib. Milano, 21 febbraio, 1977, in Giur. ann. dir. ind, 1977, n. 1923, p. 850<br />

346 LIUZZO, Problematiche del marchio di gruppo, in Riv. dir. ind., I, 1982, p. 415ss<br />

347 Oggi art. 23 CPI<br />

145


messa a disposizione dei processi di fabbricazione e degli elementi<br />

necessari per la realizzazione di un prodotto corrispondente nei suoi<br />

caratteri essenziali a quello fabbricato dal titolare del marchio.” 348<br />

348 LIUZZO, op. ult. cit., p. 415ss<br />

146


4.4.2 Ammissibilità del marchio comunitario di gruppo<br />

Il marchio comunitario di gruppo riguarda un gruppo<br />

multinazionale o anche solo uninazionale di imprese che operi in<br />

una pluralità di Stati, in ciascuno dei quali aspiri ad una<br />

protezione dei propri marchi. La dottrina ha iniziato ad<br />

interessarsi al marchio comunitario di gruppo già nella fase della<br />

Proposta di regolamento del Consiglio istitutivo di un marchio<br />

comunitario, 349 quando un Autore 350 subito intravide, nella<br />

realizzazione di un mercato comune, la possibilità di instaurare<br />

condizioni giuridiche che avrebbero consentito alle imprese di<br />

adattare rapidamente alle dimensioni della Comunità la loro<br />

attività di fabbricazione e di distribuzione di beni, operando<br />

attraverso un marchio che avrebbe consentito ad esse di<br />

contraddistinguere i rispettivi prodotti o servizi in modo identico<br />

in tutta la Comunità. L‟Autore citato riteneva che “in tal modo<br />

parte dei problemi inerenti al marchio, di cui fosse stato titolare<br />

una società capogruppo ed utilizzato attraverso società affiliate<br />

collegate, sarebbero stati risolti legislativamente alla luce del<br />

futuro regolamento: con l‟applicazione, ad esempio, dell‟art 13,<br />

3° comma, che si esprime nel senso di ritenere “l‟uso del<br />

marchio comunitario da parte di un licenziatario o da parte di<br />

una persona economicamente legata al titolare del marchio<br />

comune (…) come effettuato dal titolare.” 351 Un altro Autore, 352<br />

sostenne che “il sistema dei marchi comunitari è destinato ad<br />

essere ampiamente utilizzato proprio dai gruppi di imprese a<br />

vocazione internazionale e, alla lunga, a sostituire per essi i<br />

349<br />

Proposta di regolamento (Cee) del Consiglio sul marchio comunitario, presentata dalla<br />

Commissione al Consiglio il 25 novembre 1980, in Guce 31 dicembre 1980 C 351<br />

350<br />

LIUZZO, op. cit., p. 444<br />

351<br />

LIUZZO, op. cit., p. 444<br />

352<br />

UBERTAZZI, I marchi comunitari di gruppo, in Il diritto comunitario degli scambi<br />

internazionali, 1998,I, p. 7<br />

147


diversi sistemi nazionali dei marchi dei singoli Stati membri<br />

della CEE.” 353 Quest‟ultimo Autore, partendo dal presupposto<br />

che il problema centrale dei marchi di gruppo è quello relativo<br />

all‟ammissibilità della contitolarità e del couso di un medesimo<br />

segno da parte di più imprese facenti parte di un unico<br />

gruppo, 354 osservava che “il regolamento consente e disciplina<br />

una pluralità di modelli, e precisamente almeno quattro<br />

modelli 355 alternativi semplici di attribuzione/diffusione della<br />

titolarità del marchio comunitario all‟interno del gruppo.” 356 Tra<br />

questi quattro modelli consentiti dal regolamento vi è quello di<br />

un unico marchio comunitario registrato da un‟unica impresa,<br />

che successivamente ne consente l‟uso alle altre imprese del<br />

medesimo gruppo. Secondo la Commissione, “non è affatto<br />

richiesto che il titolare di un marchio comunitario possegga<br />

un‟impresa né, qualora ne possegga una, che il marchio<br />

comunitario sia destinato ad identificare i suoi prodotti o i suoi<br />

servizi. Ciò risulta già dal testo dell‟art. 3. 357 Nulla vieta,<br />

pertanto, quanto meno nel diritto comunitario dei marchi, ad una<br />

società di partecipazione finanziaria di essere proprietaria di un<br />

marchio comunitario, né, più in generale, ad uno dei membri di<br />

353 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 7<br />

354 Ricordiamo che prima della novella del 1992, cui abbiamo sopra fatto cenno, una parte della<br />

dottrina ipotizzava una contitolarità del marchio di gruppo in capo a più imprese collegate per<br />

giustificare l‟uso da parte delle stesse del medesimo segno distintivo.<br />

355 Secondo il primo modello, ex art. 16, 3° comma r. m. c., una medesima domanda di marchio<br />

comunitario può essere depositata da più persone , con la conseguenza che varie persone<br />

possono essere iscritte nel registro dei marchi comunitari come richiedenti, e che il marchio<br />

comunitario può essere registrato a favore contemporaneamente di una pluralità di soggetti; il<br />

secondo modello, data la disciplina della novità del segno, consente alle diverse imprese del<br />

medesimo gruppo di registrare ciascuna un differente marchio comunitario relativo al<br />

medesimo segno; il terzo è quello di un unico marchio comunitario registrato da un‟unica<br />

impresa, che successivamente ne consente l‟uso alle altre imprese del medesimo gruppo; il<br />

quarto è quello dei marchi collettivi comunitari.<br />

356 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 9<br />

357 Art. 3 r. m. c.(Capacità di agire) “ Ai fini dell‟applicazione del presente regolamento sono<br />

assimilate a persone giuridiche le società e gli altri enti giuridici che, a norma della legislazione<br />

loro applicabile, hanno la capacità, in nome proprio, di essere titolari di diritti e di obblighi di<br />

qualsiasi natura, di stipulare contratti o di compiere altri atti giuridici e di stare in giudizio”.<br />

148


un gruppo di società di detenere un marchio comunitario per<br />

l‟insieme delle società.” 358 “Il regolamento comunitario non<br />

configura come rigidamente alternativi uno all‟altro i modelli<br />

organizzativi semplici ora ricordati della titolarità del marchio di<br />

gruppo: e ciò consente alla dinamica dell‟impresa e dei gruppi di<br />

optare di volta in volta anche per modelli organizzativi più<br />

complessi, e che in vario modo combinino alcuni o tutti i<br />

modelli semplici sin qui ricordati.” 359 Il regolamento sul marchio<br />

comunitario lascia, pertanto, all‟autonomia privata spazi assai<br />

ampi per la disciplina del couso del segno da parte delle imprese<br />

del medesimo gruppo ma non senza prevedere alcuni limiti quale<br />

in primis il principio art. 50, 1° comma lett. c), 360 secondo cui il<br />

marchio non deve “trarre in inganno il pubblico soprattutto circa<br />

la natura, la qualità o la provenienza geografica del prodotto o<br />

del servizio.” Relativamente all‟interesse della dottrina per<br />

l‟istituto del marchio comunitario dopo l‟emanazione del<br />

Regolamento sul marchio comunitario, 361 un Autore 362 afferma<br />

che “Gli orientamenti comunitari hanno particolare rilievo in<br />

materia di marchi di gruppo, poiché è assai frequente una<br />

ripartizione per stati dell‟ambito di attività delle singole società<br />

facenti capo al gruppo: in quest‟ambito è da registrare la<br />

tendenza ad un superamento del frazionamento delle singole<br />

entità giuridiche, rappresentate dalle singole società, attribuendo<br />

invece, la massima importanza all‟unitarietà in senso economica<br />

358<br />

Relazione della Commissione alla proposta di regolamento, in Riv. dir. ind., 1982, I, p. 131<br />

359<br />

UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 11<br />

360<br />

Art. 50,1° lett. c), r. m c.(Cause di decadenza) “se, a seguito dell‟uso che ne viene fatto dal<br />

titolare del marchio o col suo consenso per i prodotti o servizi per i quali è registrato, il<br />

marchio è tale da poter indurre in errore il pubblico, particolarmente sulla natura, qualità o<br />

provenienza geografica di tali prodotti o servizi”;<br />

361<br />

Reg. CE 20 dicembre 1993, n. 40/94. Regolamento del Consiglio sul marchio comunitario,<br />

in Guce – n. L 11 del 14 gennaio 1994, da ora in avanti r. m. c.<br />

362<br />

UBERTAZZI,Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza,<br />

Padova, 2007, p. 263<br />

149


del loro operato, sino ad escludere l‟applicabilità delle regole di<br />

concorrenza tra società madre e società figlia. 363 ” 364<br />

363 In questo senso Corte di Giustizia, caso Centrafarm/Winthrop del 31 ottobre 1974, in<br />

GADI, 1974, p. 1480 “L' art. 85 del trattato non colpisce accordi o pratiche concordate fra<br />

imprese appartenenti allo stesso gruppo, come società madre ed affiliata, qualora esse<br />

costituiscano un' unità economica nell' ambito della quale l' affiliata non dispone di effettiva<br />

autonomia nella determinazione del proprio comportamento sul mercato, e gli accordi o<br />

pratiche di cui trattasi abbiano semplicemente lo scopo di effettuare una ripartizione di compiti<br />

all' interno gruppo”; Corte di giustizia, caso Continental can del 21 febbraio1973, in GADI<br />

1973, p.1595<br />

364 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 263<br />

150


4.5Disciplina<br />

Come ho già anticipato nel paragrafo 4.3, la normativa italiana sui segni<br />

distintivi non contiene alcuna norma specificamente relativa ai marchi di<br />

gruppo. Per individuare la disciplina applicabile alla fattispecie in esame,<br />

pertanto, bisogna procedere dall‟analisi delle funzioni del marchio per<br />

verificare se, ed in che limiti, sia con esse compatibile l‟uso di un<br />

medesimo marchio da parte di più imprese di un stesso gruppo e, alla<br />

luce di questa verifica, è necessario individuare quali disposizioni del<br />

CPI siano applicabili ai marchi di gruppo. Relativamente alla questione<br />

della compatibilità dell‟uso plurimo del marchio di gruppo con le<br />

funzioni del marchio d‟impresa, 365 personalmente ritengo che il segno<br />

distintivo in questione, a prescindere dal numero dei soggetti giuridici<br />

che ne fanno uso, abbia una funzione distintiva, una funzione di garanzia<br />

di qualità e una funzione attrattiva. Il marchio di gruppo, infatti, è idoneo<br />

ad assicurare al consumatore l‟identità di origine del prodotto<br />

contrassegnato dal marchio, consentendogli di distinguere senza rischio<br />

di confusione questo prodotto da quelli di provenienza diversa; esso,<br />

inoltre, in forza del potere/dovere in capo alla società capogruppo di<br />

impartire alle società affiliate delle direttive in ordine agli standards<br />

qualitativi dei prodotti e dei servizi che saranno contrassegnati dal<br />

marchio di gruppo, è idoneo a garantire la costanza qualitativa (intesa<br />

come mantenimento nel tempo di identiche caratteristiche<br />

merceologiche) dei prodotti e dei servizi contraddistinti dal segno del<br />

gruppo; il marchio di gruppo, infine, veicolando la politica del gruppo,<br />

non è solo un nome (cioè un segno di collegamento ideale tra parola e<br />

cosa) ma costituisce, in presenza di determinate condizioni, una “qualità”<br />

del prodotto, cioè esso è in se stesso visto come un pregio del prodotto.<br />

Analizzerò di seguito alcune vicende del marchio di gruppo e cercherò di<br />

365 Per un riepilogo sulle funzioni del marchio d‟impresa si veda il paragrafo 1.1(Definizione e<br />

funzioni del marchio d‟impresa) p. 1<br />

151


individuare la relativa disciplina alla luce di quanto prevede il CPI per il<br />

marchio d‟impresa.<br />

152


4.5.1 Cessione e Licenza del marchio di gruppo<br />

Le caratteristiche peculiari del marchio di gruppo si riflettono<br />

anche sulle condizioni del suo trasferimento, sia esso cessione<br />

oppure concessione in licenza. Quanto alla cessione del marchio,<br />

essa può essere interna, cioè da una all‟altra impresa del gruppo,<br />

oppure esterna, cioè ad impresa estranea all‟organizzazione del<br />

gruppo. Per quanto riguarda il primo tipo di cessione, un<br />

orientamento dottrinale rileva che “già prima della modifica<br />

dell‟art. 15 l.m., 366 che ha soppresso il requisito della<br />

contestualità del trasferimento marchio-azienda, il marchio di<br />

gruppo poteva essere ceduto da un‟impresa all‟altra dello stesso<br />

gruppo, senza necessità di trasferire contestualmente l‟azienda e<br />

senza una vera e propria comunicazione delle conoscenze<br />

tecniche indispensabili.” 367 Il suddetto rilievo è confermato da un<br />

indirizzo giurisprudenziale degli anni settanta il quale riteneva<br />

prevalente la considerazione dell‟unitarietà del gruppo e<br />

considerava sufficiente, per la circolazione del marchio<br />

all‟interno del gruppo, un semplice atto permissivo della società<br />

titolare del marchio. 368 A parere di chi scrive, l‟art. 23, 4°<br />

comma CPI, relativo al trasferimento del marchio d‟impresa, in<br />

quanto esprime il principio generale della tutela del<br />

consumatore, è applicabile anche al trasferimento del marchio di<br />

gruppo. Pertanto, posto che dal trasferimento di un segno<br />

distintivo “in ogni caso non deve derivare inganno in quei<br />

366 Oggi art. 23 CPI<br />

367 PETTITI, op. cit., p. 123<br />

368 In questo senso Trib. Roma, 5 giugno 1986, in Foro pad., 1987, I, p.264 , secondo cui “Fra<br />

imprese appartenenti allo stesso gruppo il marchio può circolare liberamente e cioè la sua<br />

titolarità o il diritto di farne uso possono essere trasferiti senza che occorrano<br />

contemporaneamente cessioni di aziende o di loro rami”; Trib. Catania, 25 gennaio 1977, in<br />

Riv. dir. ind., 1977, n. 917, p.396, secondo cui “Nel caso di società collegate la circolazione<br />

dell‟uso del marchio può avvenire liberamente nel senso che basta un qualsiasi atto permissivo<br />

della società titolare o un qualsiasi genere di accordo senza alcun limite inerente alla natura o<br />

alla forma dell‟atto e alla tutela del pubblico.”<br />

153


caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali<br />

nell‟apprezzamento del pubblico”, credo che la cessione interna<br />

del marchio di gruppo sia legittima se il cessionario del marchio<br />

sia in grado di assicurare il medesimo livello qualitativo della<br />

produzione contrassegnata dal marchio. Solo se il nuovo titolare<br />

del segno distintivo, infatti, è in grado di esercitare (così come<br />

faceva il cedente) il controllo nei confronti delle entità<br />

coutilizzatrici del marchio, al fine di garantire un‟uniforme<br />

utilizzazione del marchio, si garantisce un uso non ingannevole<br />

del segno distintivo. Concludendo nel senso della legittimità<br />

della cessione interna del marchio di gruppo, è da precisare che<br />

quest‟ipotesi non è molto frequente. “Nella maggior parte dei<br />

casi il marchio viene intestato alla capogruppo o comunque a<br />

quell‟entità che esercita il controllo nei confronti delle altre in<br />

modo da potere essere utilizzato da tutte le sue controllate.<br />

Quando infatti il marchio è intestato ad una controllata che non<br />

occupa a sua volta una posizione di dominio verso altre entità,<br />

solo questa può farne uso.” 369 Per quanto riguarda la cessione<br />

esterna del marchio di gruppo, ipotesi poco frequente nella<br />

prassi, essa può configurarsi come trasferimento ad altro gruppo<br />

o ad un singolo imprenditore (solo se il marchio fosse costituito<br />

da un termine che sottolineasse l‟esistenza di un gruppo, non<br />

potrebbe essere ceduto ad un imprenditore singolo). Anche in<br />

questo caso il presupposto della validità della cessione è<br />

rappresentato dalla garanzia di costanza qualitativa dei prodotti<br />

contrassegnati dal segno distintivo ceduto. “Il cessionario, sia<br />

esso gruppo oppure singolo imprenditore, deve essere in grado di<br />

mantenere inalterata la qualità della merce e dunque deve essere<br />

opportunamente informato delle tecniche produttive già<br />

369 PETTITI, op. cit., p. 125<br />

154


utilizzate e apprezzate dal consumatore.” 370 E‟opportuno<br />

precisare che finora abbiamo fatto riferimento alla cessione del<br />

marchio di gruppo da parte del soggetto giuridico intestatario<br />

dello stesso, ossia la società capogruppo o la holding, dal<br />

momento che le singole società affiliate hanno solo il potere di<br />

utilizzare il marchio di gruppo, ma non anche quello di disporne<br />

in modo autonomo. La giurisprudenza ha infatti più volte<br />

ribadito l‟indisponibilità del marchio di gruppo da parte delle<br />

società affiliate, ad esempio, nella sentenza del Tribunale di<br />

Chieti del 31 gennaio del 1986, si legge che “Nel caso di<br />

marchio di gruppo, non può ammettersi - e se compiuto deve<br />

ritenersi nullo in riferimento all‟art. 15 cpv. l. marchio - il<br />

trasferimento autonomo da parte di una società affiliata, in<br />

qualunque forma effettuato, ed anche se accompagnato alla<br />

cessione dell‟intera azienda, dei diritti ad essa comunque<br />

spettanti sul marchio in favore di un terzo estraneo al gruppo cui<br />

la prima appartiene, determinando siffatto negozio<br />

l‟utilizzazione concorrenziale del segno distintivo da parte di<br />

imprese diverse anche sotto il profilo economico-sostanziale e<br />

dunque un inganno per il pubblico dei consumatori.” 371 Si può<br />

inoltre ricordare la sentenza del Tribunale di Terni del 26<br />

settembre del 1989 secondo cui “il fatto che una società figlia<br />

possa fare uso dei marchi della capogruppo non vale ad attribuire<br />

alla prima i poteri propri del titolare del marchio;” 372 la sentenza<br />

del Tribunale di Palermo del 30 maggio del 1991 per la quale “è<br />

escluso che una società appartenente al gruppo abbia il diritto di<br />

370 PETTITI, op. cit., p. 125<br />

371 Trib. Chieti, 31 gennaio 1986, in Riv. dir. ind., II, p. 58. Nel caso di specie, dichiarato il<br />

fallimento di una società affiliata ad un gruppo industriale multinazionale, gli organi<br />

fallimentari avevano alienato l'intero suo patrimonio aziendale ad altra società all'uopo<br />

costituita, e dunque estranea al predetto gruppo, la quale pretendeva di aver in tal guisa<br />

acquisito anche il diritto di valersi del marchio del gruppo, già appartenente, in forza di licenza<br />

senza esclusiva, alla società fallita.<br />

372 Trib. Terni, 26 settembre l 1989, in Giur. ann. dir. ind., 1990, p. 246<br />

155


sub concedere a terzi ad esso estranei, senza l‟implicito o<br />

esplicito consenso della società capogruppo, un marchio di cui<br />

quest‟ultima sia titolare esclusiva.” 373 Prima di esaminare la<br />

fattispecie della licenza del marchio di gruppo mi soffermo<br />

brevemente su un‟ultima ipotesi di trasferimento del marchio di<br />

gruppo, quella del trasferimento del marchio di gruppo<br />

coincidente con la ditta. L‟ipotesi in esame riguarda il caso in cui<br />

il segno prescelto come marchio di gruppo sia utilizzato allo<br />

stesso tempo come ditta o nome sociale. E‟ da ricordare che ai<br />

sensi dell‟art. 2563, 2° comma, c.c. “La ditta, comunque sia<br />

formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla<br />

dell'imprenditore, salvo quanto è disposto dall'art. 2565” e che ai<br />

sensi dell‟art. 2565, 1° comma, c. c “La ditta non può essere<br />

trasferita separatamente dall'azienda,” pertanto, potrebbe<br />

ritenersi che il trasferimento del marchio di gruppo- ditta, per un<br />

verso, non potrebbe avere luogo indipendentemente dal<br />

trasferimento dell‟azienda, per altro, violerebbe il principio della<br />

connessione tra ditta e imprenditore. Un orientamento<br />

dottrinale, 374 ritiene legittimo il trasferimento del marchio di<br />

gruppo-ditta se si ammette il superamento della connessione<br />

citata, “la pratica di utilizzare lo stesso segno come marchio e<br />

come ditta o nome nell‟ambito del gruppo, dimostra ancora che<br />

il nome può essere utilizzato anche indipendentemente<br />

dall‟azienda cui ha fatto originariamente capo, purché il nuovo<br />

imprenditore condivida le caratteristiche fondamentali<br />

dell‟attività produttiva e il nuovo uso non sia di inganno per il<br />

consumatore.” 375<br />

373 Trib. Palermo, 30 maggio 1991, in Giur. ann. dir. ind., 1991, p. 556<br />

374 PETTITI, op. cit., p. 128<br />

375 PETTITI, op. cit., p. 128<br />

156


Analizzerò ora la legittimità della fattispecie del licenza del<br />

marchio di gruppo e il conseguente uso contemporaneo dello<br />

stesso marchio da parte di imprenditori del gruppo e imprenditori<br />

che non appartengono al gruppo. E‟ da precisare che anche a<br />

questo proposito ci riferiamo al contratto di licenza del marchio<br />

di gruppo stipulato dal soggetto giuridico intestatario dello<br />

stesso, ossia la società capogruppo o la holding, dal momento<br />

che le singole società affiliate hanno solo il potere di utilizzare il<br />

marchio gruppo ma non anche quello di disporne in modo<br />

autonomo. L‟ammissibilità della fattispecie in esame dipende<br />

dall‟importanza che si attribuisce al requisito dell‟ appartenenza<br />

al gruppo. Se si ritiene che l‟appartenenza al gruppo sia<br />

essenziale per usare il marchio di gruppo, allora si deve<br />

necessariamente negare la configurabilità della concessione della<br />

licenza. Se, invece, si afferma che l‟appartenenza non è<br />

indispensabile, allora può concludersi per la legittimità della<br />

concessione della licenza del marchio di gruppo. Secondo un‟<br />

Autrice, 376 “L‟appartenenza è un presupposto e una conseguenza<br />

dell‟uso del marchio di gruppo. Presupposto, perché per effetto<br />

dell‟appartenenza al gruppo viene assicurata quell‟uniformità<br />

produttiva richiesta alle imprese che fanno uso dello stesso<br />

marchio. Conseguenza, perché attraverso l‟uso del marchio una<br />

certa impresa viene associata al gruppo nel suo complesso. Ma il<br />

concetto di appartenenza non deve essere interpretato in modo<br />

rigidamente formalistico e astratto.” 377 A parere di chi scrive,<br />

quello dell‟ appartenenza al gruppo non è il vero presupposto<br />

dell‟uso plurisoggettivo del marchio di gruppo in quanto ciò che<br />

davvero conta è, oltre ad una sorta di consenso implicito o<br />

esplicito del titolare, la condivisione di una medesima politica<br />

376 PETTITI, op. cit., p. 133<br />

377 PETTITI, op. cit., p. 133<br />

157


produttiva. Se il presupposto del marchio di gruppo è<br />

l‟uniformità produttiva, nulla vieta di ritenere che anche<br />

un‟impresa estranea al gruppo, licenziataria del marchio di<br />

gruppo, possa fare uso del marchio qualora sia condizionata al<br />

rispetto della medesima uniformità produttiva. Personalmente<br />

affermo quindi la legittimità dell‟utilizzo del marchio di gruppo<br />

anche da parte di uno o più soggetti allo stesso estranei perché,<br />

così come ho sostenuto a proposito della licenza del marchio in<br />

comunione, quello che davvero conta non è il numero degli<br />

utilizzatori del segno distintivo o la loro appartenenza al gruppo<br />

o alla comunione, ma è il rispetto degli standards qualitativi<br />

fissati dalla capogruppo o dall‟insieme dei comunisti, vero<br />

presupposto che deve sussistere per rispettare il divieto di uso<br />

decettivo del marchio. In conclusione è da ricordare che “sono<br />

comunque piuttosto rari i casi in cui una capogruppo deve<br />

licenziare il marchio ad un‟impresa esterna al gruppo. Data<br />

l‟organizzazione, il numero delle imprese del gruppo e la<br />

conseguente specializzazione di ciascuna entità, sembra difficile<br />

che vi possa essere un interesse alla concessione di licenza. Se la<br />

capogruppo intendesse espandere la produzione, potrebbe<br />

ricorrere ad una riorganizzazione dell‟attività delle varie imprese<br />

del gruppo, piuttosto che alla cooperazione di un‟impresa<br />

esterna” 378 .<br />

378 PETTITI, op. cit., p. 135<br />

158


4.5.2 Decadenza del marchio di gruppo<br />

Un caso particolare di estinzione del marchio di gruppo ricorre<br />

nell‟ipotesi di decadenza del marchio. Posto che può aversi<br />

decadenza del marchio per uso ingannevole dello stesso oppure<br />

nel caso di illiceità sopravvenuta ai sensi dell‟art 14.2 CPI, per<br />

non uso ai sensi dell‟art. 24.1 CPI, per volgarizzazione del segno<br />

ai sensi dell‟art. 13.4 CPI, bisogna verificare quali delle suddette<br />

ipotesi sono applicabili al marchio di gruppo e se esse incidono<br />

sul segno distintivo di gruppo anche nel caso in cui il<br />

comportamento che dà origine alla dichiarazione di decadenza<br />

sia stato posto in essere da una sola delle società affiliate.<br />

Relativamente alla prima ipotesi di decadenza, personalmente<br />

ritengo applicabile al marchio di gruppo l‟art. 14, 2° comma CPI,<br />

secondo il quale “Il marchio d'impresa decade: a) se sia divenuto<br />

idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la<br />

natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di<br />

modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il<br />

suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali e' registrato; b)<br />

se sia divenuto contrario alla legge, all‟ordine pubblico o al buon<br />

costume; c) per omissione da parte del titolare dei controlli<br />

previsti dalle disposizioni regolamentari sull'uso del marchio<br />

collettivo.” Sostengo l‟applicabilità della norma citata, in primo<br />

luogo, perché l‟art. 14, 2° comma lett. a) fa riferimento all‟uso<br />

ingannevole “a causa del modo o del contesto in cui viene<br />

utilizzato dal titolare o con il suo consenso” e il modo e il<br />

contesto in cui viene utilizzato il marchio di gruppo da parte<br />

delle affiliate è riconducibile al consenso della capogruppo,<br />

titolare del marchio; in secondo luogo perché credo che il<br />

controllo che la capogruppo deve esercitare sulle società<br />

utilizzatrici del marchio di gruppo sia assimilabile a quello cui fa<br />

159


iferimento l‟art. 14, 2° comma lett. c); in terzo luogo perché, al<br />

di là dei suddetti argomenti letterali, ritengo che l‟esigenza di<br />

tutela del pubblico dei consumatori sia particolarmente sentita<br />

nelle ipotesi di utilizzazione plurima dello stesso segno distintivo<br />

e in particolare nell‟ipotesi di utilizzazione del marchio di<br />

gruppo la cui legittimità è legata alla costanza qualitativa dei<br />

prodotti o servizi dallo stesso contrassegnati. Per quanto riguarda<br />

la decadenza per non uso, ad avviso di chi scrive, l‟art. 24, 1°<br />

comma, CPI 379 è teoricamente applicabile al marchio di gruppo<br />

dal momento che la ratio della norma citata, evitare<br />

l‟accaparramento di un segno impedendo a terzi l‟uso effettivo<br />

nel mercato, esprime un principio generale del diritto dei marchi.<br />

Anche se ho parlato di una teorica applicabilità dell‟art. 24, 1°<br />

comma, CPI, devo precisare che la dottrina 380 è concorde nel<br />

ritenere che la decadenza del marchio di gruppo per non uso è<br />

piuttosto improbabile, perché per prodursi il marchio non<br />

dovrebbe essere utilizzato da nessuna delle imprese del gruppo.<br />

Già nel 1982, infatti, un Autore scriveva che “l‟ipotesi della<br />

decadenza del marchio per non uso è da escludersi, in quanto<br />

l‟uso da parte di altri imprenditori fra loro collegati non<br />

presuppone una rinuncia alla tutela del marchio da parte della<br />

società titolare, la quale, in sostanza provvede all‟attuazione del<br />

marchio attraverso altri soggetti ad essa legati da un rapporto<br />

giuridico che giustifica tale utilizzazione nell‟interesse della<br />

titolare; viene insomma riferita al gruppo, e di riflesso alle<br />

singole società che ne fanno parte, l‟attività svolta dalle altre<br />

379 Art. 24,1° comma CPI (Uso del marchio) “A pena di decadenza il marchio deve formare<br />

oggetto di uso effettivo da parte del titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i<br />

quali e' stato registrato, entro cinque anni dalla registrazione, e tale uso non deve essere<br />

sospeso per un periodo ininterrotto di cinque anni, salvo che il mancato uso non sia giustificato<br />

da un motivo legittimo”.<br />

380 Vedi ad esempio PETTITI, op. cit., p. 153<br />

160


società.” 381 A parere di chi scrive l‟utilizzo del marchio da parte<br />

delle società affiliate è idoneo ad evitare la decadenza del<br />

marchio anche se la titolare dello stesso non ne fa uso, infatti,<br />

l‟art. 24, 1° comma, CPI considera sufficiente l‟ uso effettivo del<br />

marchio con il consenso del titolare e, affinché abbia luogo la<br />

decadenza per non uso, il marchio non dovrebbe essere utilizzato<br />

da nessuna delle imprese del gruppo. Nel caso di un gruppo<br />

multinazionale la questione è più complessa per la necessità di<br />

rispondere al quesito preliminare se l‟uso del marchio all‟estero<br />

possa essere imputato all‟impresa italiana titolare del marchio,<br />

cioè se l‟uso da parte di un‟impresa del gruppo situata all‟estero<br />

sia idoneo ad evitare la decadenza del marchio in Italia. Secondo<br />

un orientamento dottrinale anteriore all‟istituzione del marchio<br />

comunitario “Non sembra di poter dare risposta positiva al<br />

quesito. L‟uso richiesto ad evitare la decadenza è quello che si<br />

produce nel territorio italiano. Pertanto, se l‟impresa del gruppo<br />

faccia uso del marchio solo all‟estero, il marchio italiano dovrà<br />

considerarsi necessariamente decaduto, mentre l‟impresa<br />

straniera potrà continuare ad avvalersene anche solo come<br />

marchio di fatto.” 382 Nello stesso senso un altro Autore 383<br />

afferma che “Qualora il gruppo operi su scala internazionale non<br />

è indifferente da parte di quale impresa del gruppo il marchio sia<br />

usato. Ciò che gli ordinamenti si propongono di ottenere,<br />

esigendo l‟obbligo di utilizzare il marchio, è che l‟uso avvenga<br />

nel territorio dello Stato e pertanto se altra società, pur<br />

appartenente allo stesso gruppo, ha fatto uso del marchio solo<br />

all‟estero, l‟eventuale marchio (uguale) registrato in Italia<br />

decadrà qualora l‟uso non avvenga nel nostro Paese entro i<br />

381 LIUZZO, op. cit., p. 438<br />

382 PETTITI, op. cit., p. 154<br />

383 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 298<br />

161


termini stabiliti dalla legge italiana. Sarà necessario, pertanto,<br />

per impedire la decadenza, un uso sul territorio italiano, quanto<br />

meno sotto forma di importazioni per la vendita in Italia di<br />

prodotti fabbricati all‟estero e/o di svolgimento di attività<br />

pubblicitaria in Italia di prodotti contrassegnati da detto marchio<br />

all‟estero, ove si ritenga che la (sola) pubblicità salvi il marchio<br />

dalla decadenza.” 384 A seguito dell‟istituzione del marchio<br />

comunitario, è mia convinzione che l‟uso del marchio da parte di<br />

una società del gruppo multinazionale, effettuato in qualsiasi<br />

Stato della Comunità, sia idoneo ad evitare la decadenza del<br />

marchio del quale la capogruppo è titolare. Sostengo questa tesi<br />

alla luce della ratio dell‟art. 24,1° comma, CPI e della tendenza<br />

dei gruppi multinazionali ad adottare marchi comunitari di<br />

gruppo. Per quanto riguarda il primo argomento, l‟ idoneità<br />

dell‟uso da parte di un‟impresa del gruppo situata all‟estero ad<br />

evitare la decadenza del marchio in Italia non contrasta con lo<br />

scopo della norma citata, cioè non integra un accaparramento del<br />

segno impedendo a terzi l‟uso effettivo nel mercato. In relazione<br />

al secondo argomento, credo che il sistema dei marchi<br />

comunitari sia destinato ad essere ampiamente utilizzato proprio<br />

dai gruppi di imprese a vocazione internazionale. Posto che nella<br />

maggior parte dei casi il marchio di gruppo è un marchio<br />

comunitario, ai sensi dell‟art. 50,1° comma lett. a) r. m.c. “il<br />

titolare del marchio comunitario è dichiarato decaduto dai suoi<br />

diritti (…) se il marchio, per un periodo ininterrotto di cinque<br />

anni, non ha formato oggetto di un uso effettivo nella Comunità<br />

per i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato.” Ai fini<br />

della decadenza del marchio comunitario di gruppo, quindi,<br />

rileva l‟uso effettivo che dello stesso viene o non viene fatto non<br />

384 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 298<br />

162


in un singolo stato ma nell‟intera Comunità. Per concludere<br />

questo breve excursus sulle varie cause di decadenza e sulla<br />

compatibilità delle stesse con il marchio di gruppo, si deve<br />

ricordare l‟ultima ipotesi di decadenza, quella per<br />

volgarizzazione. Anche se il rischio della volgarizzazione del<br />

segno è maggiore in tutti i casi in cui il marchio viene usato<br />

contestualmente da più imprenditori, tuttavia, il pericolo di<br />

volgarizzazione del marchio di gruppo appare più teorico che<br />

reale perché difficilmente il marchio di gruppo rappresenta un<br />

solo prodotto e quindi viene associato dal consumatore solo a<br />

quello, quanto piuttosto i diversi prodotti provenienti dalle<br />

distinte attività produttive. Ciò a maggior ragione quando si<br />

consideri che il marchio di gruppo per poter essere comodamente<br />

utilizzato da parte delle varie imprese deve essere un marchio<br />

generale, in grado di individuare non un solo specifico prodotto,<br />

ma tutte le attività esercitate dalle imprese del gruppo.<br />

“L‟utilizzazione plurisoggettiva dello stesso marchio da parte dei<br />

soggetti del gruppo crea i presupposti per il conseguimento di<br />

un‟alta rinomanza del segno senza provocare con immediatezza<br />

la sua associazione al singolo prodotto e rischiare di sostituirsi<br />

alla sua denominazione propria.” 385<br />

385 PETTITI, op. cit., p. 152<br />

163


4.5.3 Altre cause di estinzione del marchio di gruppo<br />

“Il marchio di gruppo può estinguersi anche per cause particolari<br />

diverse da quelle che valgono per il marchio individuale. In<br />

particolare possono assumere rilevanza alcune circostanze<br />

afferenti all‟imprenditore singolo o al gruppo nel suo complesso.<br />

Dal punto di vista del singolo l‟estinzione del diritto di<br />

utilizzazione del marchio potrebbe conseguire alla sua uscita dal<br />

gruppo, se la condizione dell‟appartenenza fosse indispensabile<br />

per lo specifico marchio considerato o se per effetto dell‟uscita<br />

dal gruppo, il soggetto in questione non fosse in grado di<br />

mantenere quell‟uniformità produttiva richiesta. Dal punto di<br />

vista del gruppo, invece, l‟estinzione del marchio potrebbe<br />

conseguire allo scioglimento del gruppo.” 386 Per quanto riguarda<br />

le vicende che possono determinare l‟estinzione del diritto di<br />

utilizzare il marchio di gruppo in capo alla singola società<br />

affiliata, si può ricordare l‟ipotesi in cui quest‟ultima trae il<br />

diritto in questione da una licenza d‟uso. Relativamente a<br />

quest‟ipotesi la pronuncia del Tribunale di Chieti più volte citata<br />

prevede che “Nel caso di marchio di gruppo, lo scioglimento dei<br />

vincoli di appartenenza al gruppo industriale nei confronti di una<br />

società affiliata, la quale tragga il proprio diritto di utilizzazione<br />

del marchio da una licenza d‟uso a titolo non esclusivo<br />

accordatale dalla società madre, determina l‟immediata<br />

estinzione di detto diritto, venendo meno, con l‟uscita dal<br />

gruppo, quei poteri di direzione e controllo della società<br />

concedente su quella licenziataria che soli consentono di ritenere<br />

lecita, in riferimento al disposto degli artt. 2573 c.c. e 15 l.m., la<br />

licenza di marchio senza esclusiva.” 387 Riguardo all‟eventuale<br />

386 PETTITI, op. cit., p. 154<br />

387 Trib. Chieti, 31 gennaio 1986, in Riv. dir. ind., II, p. 58<br />

164


estinzione del marchio a seguito dello scioglimento del gruppo,<br />

viene da chiedersi se, nonostante detto scioglimento, il marchio<br />

possa essere utilizzato ancora dalla titolare capogruppo.<br />

(Naturalmente l‟interrogativo si pone solo in relazione al<br />

marchio di gruppo che non sia un marchio complesso costituito<br />

dal termine “gruppo” perché quest‟ultimo non potrebbe essere<br />

utilizzato dall‟imprenditore singolo e si estinguerebbe con<br />

l‟estinzione del gruppo). Secondo un orientamento dottrinale, 388<br />

la fattispecie in esame deve essere considerata da due angoli di<br />

visuale, quello della tutela del consumatore relativamente al<br />

rispetto della qualità della merce e quello della fiducia che questi<br />

investe nella consapevolezza che il marchio appartiene ad un<br />

gruppo, dunque ad una pluralità di imprese che cooperano per il<br />

buon nome e il prestigio dei prodotti e del marchio insieme.<br />

“Non sembrano esservi particolari problemi dal primo angolo di<br />

visuale. La qualità del prodotto dovrebbe restare inalterata ai fini<br />

della tutela del consumatore. (…) Dal secondo angolo di visuale<br />

la questione è più complessa. Bisognerebbe stabilire infatti fino a<br />

che punto il consumatore è interessato alla circostanza che il<br />

marchio di gruppo viene utilizzato da diversi imprenditori che<br />

insieme collaborano per il perfezionamento della produzione e il<br />

buon nome del marchio.” 389 La dottrina citata ammette<br />

l‟utilizzazione del marchio da parte del titolare della capogruppo<br />

a seguito dello scioglimento del gruppo, sul presupposto che ciò<br />

che interessa al consumatore è la qualità del prodotto o in senso<br />

lato dell‟attività produttiva e il rispetto delle caratteristiche<br />

sostanziali già apprezzate da parte di un nuovo soggetto che fa<br />

uso del marchio o di quello che continua a farne uso con<br />

presupposti diversi, non tanto la provenienza effettiva del<br />

388 PETTITI, op. cit., p. 155<br />

389 PETTITI, op. cit., p. 155<br />

165


prodotto. A parere di chi scrive l‟orientamento dottrinale sopra<br />

ricordato è pienamente condivisibile perché quello che davvero<br />

conta per il consumatore medio, il quale quasi sempre ignora le<br />

connessioni tra marchio e gruppo, è sapere che il prodotto<br />

contrassegnato da un certo marchio continua a presentare le<br />

caratteristiche qualitative già sperimentate.<br />

166


4.6Tutela del marchio di gruppo<br />

Il tema del marchi di gruppo emerge anche sotto il profilo della<br />

individuazione dei soggetti legittimati ad agire a difesa del marchio di<br />

gruppo. Il punto cruciale è stabilire se a difesa del marchio di gruppo<br />

possa agire solo la titolare o se invece sia individuabile un diritto di<br />

difesa anche delle imprese che ne fanno uso. Prima di considerare la<br />

fattispecie in esame, occorre considerare brevemente quali siano in<br />

generale i soggetti legittimati ad agire a tutela di un determinato marchio.<br />

Sicuramente lo sono il titolare e il licenziatario. Relativamente a<br />

quest‟ultimo, secondo un orientamento dottrinale 390 “Se la licenza di<br />

marchio o di brevetto è dunque equiparabile ad un contratto di locazione<br />

su bene immateriale, risulta solidamente fondata l'attribuzione dell'azione<br />

di contraffazione anche ad un detentore qualificato dell'oggetto di<br />

privativa qual è il licenziatario, come la dottrina e la giurisprudenza<br />

hanno ammesso dapprima unicamente in favore del licenziatario<br />

esclusivo, poi estendendo un'autonoma legittimazione al riguardo anche<br />

al licenziatario senza clausola di esclusiva”. 391 Ritornando al problema<br />

della legittimazione attiva delle società del gruppo ad agire a tutela del<br />

marchio di gruppo, si deve ricordare che su questo argomento c‟è una<br />

giurisprudenza contrastante. L‟ordinanza del Tribunale di Torino del 19<br />

ottobre 2004 nega la suddetta legittimazione, e nel caso “Atari Europe<br />

s.a. s. e Atari Italia s.p.a. c. New York New York s.r.l. e la Linea Magica<br />

s.r.l.”, dispone che “L‟eccezione di carenza di legittimazione attiva delle<br />

società ricorrenti, formulata da New York New York s.r.l., sia fondata.<br />

Risulta infatti documentalmente che titolare dei marchi dei quali viene<br />

richiesta tutela nel presente procedimento è solo la società statunitense<br />

Atari Interactive Inc. Si tratta pertanto di soggetto giuridico diverso e<br />

distinto da Atari Europe s.a. s. e Atari Italia s.p. a ancorché facente capo<br />

390 MUSSO, Azione di contraffazione ed azione di concorrenza sleale: alcune questioni sulla<br />

legittimazione ad agire dei licenziatari e dei distributori, in Riv. dir. ind., 1998, II, p.280<br />

391 MUSSO, op. ult. cit., p.280<br />

167


al medesimo gruppo societario internazionale, del quale, anzi, è il<br />

capogruppo.” 392 Nel caso in questione le società ricorrenti, per sostenere<br />

la propria legittimazione ad agire, si sono richiamate a quell‟opinione<br />

che riconosce a ciascuna delle imprese del gruppo, cui il marchio non è<br />

formalmente intestato, il potere di agire a sua tutela per effetto<br />

dell‟esistenza di una c.d. “licenza implicita” in capo a ciascuna società<br />

del gruppo, la quale risulterebbe così tacitamente investita di una licenza<br />

di marchio. Secondo l‟ordinanza citata “tale difesa non è però<br />

condivisibile, in quanto, come ha messo in evidenza la giurisprudenza<br />

che si è occupata dell‟argomento (Trib. Milano 10 dicembre del 1992 393 ),<br />

la stessa contrasta con la circostanza che i singoli patrimoni aziendali<br />

delle varie società del gruppo, patrimoni comprensivi delle componenti<br />

immateriali, sono del tutto autonomi e separati: di conseguenza,<br />

l‟autonomia giuridica e patrimoniale delle singole società facenti parte<br />

del gruppo non consente di attribuire alle stesse la titolarità di poteri<br />

propri esclusivamente della società del gruppo titolare del marchio.” 394<br />

Secondo un Autore “Ove si diffondesse e successivamente consolidasse<br />

la soluzione preferita dal provvedimento qui commentato, è chiaro che si<br />

renderebbe consigliabile la stipulazione per iscritto di contratti di licenza<br />

infragruppo.” 395 In senso contrario si esprime il Tribunale di Napoli,<br />

secondo il quale “È attivamente legittimata ad agire per contraffazione di<br />

marchio la società che, pur non essendo formalmente titolare dei diritti di<br />

marchio azionati, appartiene al gruppo cui fanno parte le società nel cui<br />

nome i marchi azionati sono registrati”. 396 Per quanto riguarda le<br />

posizioni della dottrina sull‟argomento, un‟Autrice 397 sostiene<br />

fermamente che il diritto di difesa del marchio di gruppo debba spettare<br />

anche alle imprese o società del gruppo che ne fanno uso nelle rispettive<br />

392 Trib. Torino,19 ottobre 2004, in Dir. ind. 2005, p. 16<br />

393 Trib. Milano, 10 dicembre 1992, in Foro it. 1994, I,p.1132<br />

394 Trib. Torino,19 ottobre 2004, in Dir. ind. 2005, p. 169<br />

395 VENTUREL<strong>LO</strong>, Marchio di gruppo e legittimazione ad agire, in Dir. ind. 2005, p. 171<br />

396 Trib. Napoli, 14 gennaio2003, in Riv. dir. ind., 2003,II, p.3<br />

397 PETTITI, op. cit., p. 137<br />

168


attività produttive dal momento che il marchio di gruppo finisce per<br />

identificare la capogruppo titolare e le stesse affiliate. L‟Autrice citata<br />

afferma che “Il diritto di agire a tutela del marchio spetta alle affiliate<br />

non tanto sul presupposto della semplice appartenenza al gruppo, ma su<br />

quello che il marchio di gruppo rappresenta anche le singole entità del<br />

gruppo. Ogni singola affiliata deve possedere la legittimazione attiva nei<br />

confronti dell‟imprenditore usurpatore indipendentemente dalle altre ed<br />

anche dalla titolare del marchio, non per effetto di una sorta di azione<br />

sostitutiva o surrogatoria, ma come portato del proprio autonomo diritto<br />

al couso e quindi della capacità di rappresentazione del marchio di<br />

gruppo della propria attività produttiva.” 398 A parere di chi scrive il<br />

diritto di agire a difesa del marchio deve essere riconosciuto alle imprese<br />

o società del gruppo, oltre che alla capogruppo. Questa soluzione<br />

comporta che la società affiliata che agisce in giudizio a tutela del<br />

marchio di gruppo, marchio che può utilizzare ma del quale non è<br />

titolare, debba dare una duplice prova: in primo luogo deve dimostrare<br />

che il marchio usurpato è un marchio di gruppo, in secondo luogo deve<br />

provare la propria appartenenza al gruppo e la propria legittimazione ad<br />

utilizzare il marchio di gruppo. Per quanto riguarda la prima prova, si<br />

deve tener presente che non esiste allo stato attuale un sistema di<br />

registrazione specifica del marchio di gruppo che consenta di individuare<br />

i soggetti legittimati al couso del marchio. Di fatto il marchio di gruppo<br />

viene registrato come qualsiasi altro marchio e utilizzato da una pluralità<br />

di imprese e società. “Non necessariamente un marchio è destinato ad<br />

essere utilizzato da una pluralità di soggetti fin dalla sua costituzione. E‟<br />

possibile infatti che venga dapprima utilizzato dal titolare e<br />

successivamente, per effetto dell‟articolazione o dell‟espansione<br />

dell‟attività produttiva iniziale o anche della disgregazione dell‟attività<br />

economica originariamente unica, venga utilizzato da una pluralità di<br />

398 PETTITI, op. cit., p. 138<br />

169


soggetti.” 399 Per quanto riguarda la seconda prova, non è sufficiente che<br />

la società affiliata dimostri di essere controllata o collegata alla società<br />

capogruppo in quanto la stessa deve provare anche l‟uniformità della<br />

propria attività produttiva alle direttive impartite dalla capogruppo, vero<br />

presupposto dell‟uso legittimo del marchio di gruppo. Ho finora parlato<br />

della legittimazione ad agire per la tutela del marchio di gruppo in capo<br />

alle società controllate, per quanto riguarda invece la legittimazione della<br />

società capogruppo, una pronuncia giurisprudenziale degli anni ottanta<br />

prevedeva che “In caso di gruppo di società, la società capogruppo è<br />

legittimata ad agire, per la tutela dei marchi intestati alle singole società<br />

del gruppo, allorché esse siano totalmente possedute dalla capogruppo,<br />

ovvero i marchi risultino intestati alle singole società del gruppo in base<br />

ad un accordo fiduciario con la capogruppo.” 400<br />

399 PETTITI, op. cit., p. 142<br />

400 Trib. Milano, 18 aprile, 1983, in Riv. dir. ind., 1983, p. 329<br />

170


4.7Marchio di gruppo e tutela dei consumatori<br />

Come rileva Giannantonio Guglielmetti, “la presenza di un unico<br />

marchio per contraddistinguere prodotti di imprenditori giuridicamente<br />

indipendenti è, in via di principio, potenzialmente idoneo a determinare<br />

confusione e ad impedire al marchio di svolgere la sua funzione<br />

distintiva. Le preoccupazioni della dottrina appaiono condivise anche<br />

dalla giurisprudenza, infatti, nell‟ordinanza del Pretore di Monza del 4<br />

luglio del 1988, si legge “L‟adozione, da parte di due distinte imprese,<br />

dello stesso marchio di gruppo per la commercializzazione di prodotti<br />

appartenenti alla medesima categoria merceologica, seppur in sé<br />

perfettamente legittima, comporta una potenziale confondibilità dei<br />

prodotti stessi, tale da richiedere, nell‟ipotesi di lamentati comportamenti<br />

di concorrenza sleale, una valutazione particolarmente rigorosa degli<br />

ulteriori elementi di confondibilità derivante dall‟attività posta in essere<br />

dall'impresa giunta sul mercato successivamente.” 401 Per poter “tollerare”<br />

che un marchio contrassegni prodotti di diversi imprenditori, vi è<br />

un‟esigenza ineliminabile da soddisfare: che la diversità di provenienza<br />

non si traduca in una causa d‟inganno.” 402 E‟ necessario, infatti, che<br />

l‟utilizzazione plurima e contestuale dello stesso marchio da parte di più<br />

soggetti giuridici autonomi abbia luogo in modo da rispettare il principio<br />

fondamentale di tutela del consumatore che costituisce criterio guida<br />

della disciplina del marchio. “Il consumatore non deve essere tratto in<br />

inganno sulle qualità dei prodotti contrassegnati dal marchio di gruppo,<br />

confidare ingenuamente nella loro bontà e poi scoprire che il nuovo<br />

prodotto contrassegnato dal marchio già conosciuto non è all‟altezza di<br />

quello precedente. L‟utilizzazione dello stesso marchio da parte di<br />

diversi imprenditori deve osservare determinati criteri di qualità, attuarsi<br />

in modo che la separazione delle rispettive attività produttive appaia in<br />

401 Pret. Monza, 4 luglio 1988, in Giur. Dir. Ind., 1988, p. 670<br />

402 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., in Riv. dir. ind., 1983, p. 298<br />

171


un certo senso formale e non sostanziale.” 403 Secondo un orientamento<br />

dottrinale, 404 il suddetto pericolo d‟inganno del consumatore è solo<br />

potenziale perché il marchio di gruppo è utilizzato solo dalle società<br />

specificamente individuate attraverso una decisione di gruppo e<br />

sottoposte alle direttive e al controllo della capogruppo, controllo che<br />

garantisce l‟uniformità produttiva necessaria ad evitare l‟uso decettivo<br />

del marchio. L‟orientamento citato sostiene che “il pericolo d‟inganno<br />

non sussiste perché la possibilità di utilizzazione del marchio dipende da<br />

una decisione di gruppo, e cioè, o della società capogruppo che può<br />

imporre la sua volontà agli altri o da una decisione coordinata, presa<br />

dagli imprenditori appartenenti al gruppo. (…) Pertanto il pubblico, sia<br />

che compri dall‟una che dall‟altra impresa del gruppo, non può cadere in<br />

errore perché, qualunque sia l‟impresa da cui esso acquisti il prodotto,<br />

esso avrà a disposizione un prodotto che in base ad un‟unica volontà<br />

decisionale di un gruppo reca quel marchio, sicché correttamente il<br />

marchio segnalerà la provenienza del prodotto dal gruppo, adempiendo<br />

così alla sua (essenziale) funzione distintiva.” 405 Riconosciuto quindi un<br />

possibile pericolo d‟inganno dei consumatori nell‟uso contemporaneo del<br />

marchio di gruppo da parte di imprese diverse, viene da chiedersi se la<br />

potenziale confusione del pubblico dei consumatori non possa o non<br />

debba essere in qualche maniera attenuata attraverso aggiunte<br />

differenziatrici, quali ulteriori elementi grafici, o l‟indicazione della<br />

specifica impresa produttrice, o la provenienza geografica, ecc.<br />

Relativamente alla necessità di elementi di differenziazione nei prodotti<br />

contrassegnati da un marchio di gruppo la maggioranza della dottrina<br />

nega detta necessità. Un Autore, 406 infatti, sostiene che “Sebbene in<br />

generale non appaia sussistere allo stato attuale un preciso obbligo in<br />

403 PETTITI, op. cit. p. 47<br />

404 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., in Riv. dir. ind., 1983, p. 301<br />

405 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., in Riv. dir. ind., 1983, p. 301<br />

406 ALBERTO MUSSO, Elementi di differenziazione ed elementi di confondibilità nei prodotti<br />

contrassegnati da un marchio di gruppo, in Riv. dir. ind., 1990, p. 95<br />

172


questo senso (…) per quanto concerne la figura del marchio di gruppo,<br />

può condividersi l‟affermazione secondo cui, in tal caso, il marchio non<br />

serve ad indicare il gruppo o l‟impresa leader, ma tutte le unità di quel<br />

prodotto che sotto il medesimo marchio vengono fabbricate e/o vendute<br />

da ciascuna impresa collegata. In questa prospettiva, il legittimo uso<br />

dello stesso segno distintivo fra società del gruppo non sembra<br />

comportare la necessità di alcuna integrazione aggiuntiva , a causa della<br />

già rilevata unitarietà del gruppo sotto il profilo economico.” 407 Nello<br />

stesso senso, un altro Autore, 408 tende ad escludere dai casi speciali in cui<br />

è opportuna l‟aggiunta di elementi differenziatori la figura del marchio di<br />

gruppo, “on the fact that products offered under the same mark by<br />

members of a group of companies or of a group of licensees will be<br />

substantially identical.” 409 Per evitare la confusione dei consumatori<br />

conseguente all‟utilizzazione plurima dello stesso segno distintivo da<br />

parte delle società del gruppo, a parere di chi scrive, anche se non può<br />

considerarsi necessaria l‟aggiunta di elementi di differenziazione nei<br />

prodotti contrassegnati dal marchio di gruppo, potrebbe essere utile<br />

apporre sui prodotti in questione l‟indicazione della specifica impresa<br />

produttrice. Quest‟ultima indicazione può essere utile anche ad altri fini:<br />

migliorare il controllo della società capogruppo sul rispetto, da parte<br />

delle società utilizzatrici del marchio di gruppo, degli standards<br />

qualitativi imposti. Se ad esempio un consumatore rileva un vizio di<br />

produzione del prodotto acquistato, egli rivolgerà le sue doglianze alla<br />

società capogruppo perché è l‟unico soggetto giuridico al quale può<br />

risalire attraverso il marchio. La società capogruppo, se ha conoscenza<br />

della società che ha messo in commercio il prodotto difettato, potrà<br />

407<br />

MUSSO, op. ult. cit., p. 95<br />

408<br />

BEIER<br />

409<br />

BEIER, Trademark conflicts in the Common Market: can they be solved by means of<br />

distinguishing additions?, in Int. rev. of ind. prop. and copyright law, 1978, p. 221. “Per il fatto<br />

che i prodotti offerti sotto il medesimo marchio da membri di un gruppo di società o di un<br />

gruppo di licenziatari saranno sostanzialmente uguali.”<br />

173


intervenire nei confronti di quest‟ultima ammonendola o addirittura<br />

vietandole di utilizzare il marchio del gruppo.<br />

174


4.8Altri casi di utilizzazione plurima dello stesso segno: analisi delle<br />

differenze.<br />

Personalmente ritengo che sia interessante analizzare altri casi in cui si<br />

produce l‟uso plurimo del medesimo marchio per confrontarli con quello<br />

del marchio di gruppo. Gli altri casi di utilizzazione plurima dello stesso<br />

segno che l‟ordinamento conosce sono quelli che conseguono alla<br />

concessione di licenza, alla comunione di marchio e alla registrazione di<br />

un marchio collettivo. Per quanto riguarda le differenze tra l‟istituto del<br />

marchio di gruppo e il contratto di licenza, si deve precisare innanzitutto<br />

che si intende fare riferimento ai casi in cui l‟uso del licenziatario sia<br />

contestuale a quello del licenziante e a quelli in cui ci siano più<br />

licenziatari. La legittimità della licenza si fonda sulla comunicazione da<br />

parte del licenziante al licenziatario delle conoscenze tecniche<br />

indispensabili per produrre un certo tipo di prodotto. In questo modo,<br />

sebbene il marchio venga usato da imprenditori diversi e autonomi, si<br />

instaura una sorta di uniformità produttiva. Con la comunicazione delle<br />

conoscenze tecniche produttive, infatti, il licenziatario è messo in<br />

condizione di rispettare la qualità del prodotto già conosciuta e nessun<br />

inganno può derivare al consumatore. Secondo un orientamento<br />

dottrinale, “diversamente nel marchio di gruppo l‟utilizzazione dello<br />

stesso marchio da parte delle affiliate non si fonda in via di principio su<br />

un accordo specifico, né propriamente sulla base di alcuna concessione o<br />

autorizzazione del titolare a favore di altri imprenditori , quanto meno<br />

analoga a quella della licenza. I rapporti tra gli imprenditori appaiono su<br />

un piano distinto da quello tra licenziante e licenziatario, quando non<br />

invertiti rispetto a questi. Mentre la sostanziale unitarietà tra i sistemi<br />

produttivi del licenziante e del licenziatario origina dalla conclusione del<br />

contratto ed è una condizione indispensabile per la sua validità,<br />

nell‟ambito del gruppo è presente fin dall‟inizio e presuppone la, e non<br />

175


consegue alla, utilizzazione plurima dello stesso marchio.” 410 Secondo un<br />

altro orientamento, invece, “Se è vero che in entrambi i casi si avrebbe<br />

un‟utilizzazione dello stesso marchio da parte di più imprese<br />

giuridicamente indipendenti, le due ipotesi, tuttavia, si<br />

differenzierebbero, perché nel caso della licenza non esclusiva il o i<br />

licenziatari sono anche economicamente autonomi rispetto ai titolari,<br />

mentre, per definizione, le imprese appartenenti al gruppo sono<br />

economicamente collegate fra loro.” 411 Relativamente al marchio<br />

collettivo, l‟art. 11, 1° comma, CPI dispone che “I soggetti che svolgono<br />

la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati<br />

prodotti o servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi<br />

come marchi collettivi ed hanno la facoltà di concedere l'uso dei marchi<br />

stessi a produttori o commercianti.” Dalla norma citata si desume che il<br />

marchio collettivo assolve la funzione di attestare l‟origine, la natura o la<br />

qualità di determinati prodotti o servizi, dunque di certificazione o<br />

attestazione e che gli imprenditori che lo utilizzano non ne sono titolari;<br />

infatti, la titolarità dello stesso spetta al soggetto che svolge la funzione<br />

di garantire l‟origine, la natura o la qualità dei prodotti o servizi<br />

contrassegnati dal marchio collettivo ed è tenuto pertanto ad esercitare un<br />

controllo di qualità sugli imprenditori utilizzatori. In merito ai<br />

presupposti del couso e alla tipologia dei legami che intercorrono tra le<br />

imprese utilizzatrici del marchio di gruppo e quelle che invece fanno uso<br />

del marchio collettivo, un‟Autrice afferma che “Il marchio collettivo è un<br />

marchio che più che contrassegnare il prodotto specifico e collegarlo<br />

all‟impresa produttrice , ne individua speciali qualità. Diversamente, nel<br />

marchio di gruppo prevale il collegamento tra il prodotto e la fonte<br />

produttrice su quello delle proprietà specifiche del prodotto, anzi, in un<br />

certo qual modo questo collegamento viene esaltato poiché il marchio<br />

rappresenta ad un tempo tutte le imprese che fanno parte della stessa<br />

410 PETTITI, op. cit., p. 49<br />

411 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 299<br />

176


organizzazione, in una parola, il gruppo. Ancora, il controllo che il<br />

titolare del marchio collettivo esercita sugli utilizzatori risponde<br />

all‟esigenza di mantenere nei prodotti contrassegnati quel livello di<br />

qualità promesso, mentre il controllo del titolare del marchio di gruppo<br />

risponde all‟esigenza meno peculiare di assicurare una certa uniformità<br />

nei prodotti, per modo che i diversi centri produttivi appaiano<br />

sostanzialmente unitari. Dalla funzione di garante della buona qualità del<br />

prodotto, deriva inoltre per il titolare del marchio collettivo il divieto di<br />

farne uso in proprio, divieto che non si produce per il titolare del marchio<br />

di gruppo che è libero di utilizzarlo nella propria impresa.” 412 Un altro<br />

Autore, invece, sostiene che “I marchi di gruppo rientrano tra i marchi<br />

individuali d‟impresa e non tra i marchi collettivi. Essi, infatti, sono<br />

destinati ad individuare la provenienza dei prodotti di talune imprese<br />

(quelle appartenenti al gruppo) e non a garantire l‟origine , la natura o la<br />

qualità dei prodotti che i marchi sono destinati a contrassegnare. Non si<br />

può, quindi, trarre argomento dal riconoscimento nel nostro ordinamento<br />

del marchio collettivo, per risolvere il problema dei marchi di gruppo. La<br />

società capogruppo non è, infatti, assimilabile all‟associazione o ente<br />

titolare di un marchio collettivo anche qualora sia l‟unica titolare di un<br />

marchio, utilizzato da più società collegate con essa, perché diversa è la<br />

funzione che il marchio esplica nei due casi: da un lato distinguere i<br />

prodotti delle imprese appartenenti al gruppo da quelli delle imprese<br />

esterne, dall‟altro garantire che i prodotti così marcati presentino<br />

un‟identica origine - intesa come provenienza da una località e non da<br />

un‟impresa -, natura o qualità.” 413 Secondo un altro orientamento<br />

dottrinale, invece, “I marchi di gruppo, al pari dei marchi collettivi,<br />

presentano la peculiarità di un marchio che appartiene non a chi lo usa,<br />

ma ad un ente o ad un “centro” che non lo usa affatto, ma lo fa o lascia<br />

utilizzare da altri ad esso “centro” legati, qui, da un vincolo strutturale di<br />

412 PETTITI, op. cit., p. 59<br />

413 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 298<br />

177


gruppo. Come le associazioni o gli enti che hanno il fine di garantire<br />

l‟origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o merci possono<br />

ottenere dei marchi collettivi di cui possono concedere l‟uso ai produttori<br />

o commercianti che appartengono agli stessi enti o associazioni, così qui<br />

le capogruppo che non utilizzano direttamente il marchio né si<br />

propongono di farlo ne concedono l‟uso ad una o più società<br />

collegate.” 414 A parere di chi scrive, data la diversità di funzioni alle<br />

quali assolvono, il marchio di gruppo e quello collettivo non sono<br />

assimilabili. Riconosco che sia fuorviante il fatto che in entrambi i casi ci<br />

sia un soggetto titolare del marchio e più soggetti utilizzatori dello stesso<br />

e riteniamo che, proprio per evitare un‟errata associazione tra i due<br />

istituti giuridici, sia necessaria una precisazione in merito nel CPI così<br />

come quella contenuta nel Lanham Act americano, che per il marchio<br />

appartenente a più soggetti che l‟utilizzano in comune distingue<br />

chiaramente tra certification marks 415 e collective marks 416 . Analizzerò<br />

414 FRANCESCHELLI, Osservazioni su marchi di gruppo, in Riv. dir. ind., 1988, p. 80<br />

415 15 USC 1127 (Construction and definitions; intent of chapter) The term "certification<br />

mark" means any word, name, symbol, or device, or any combination thereof-- used by a<br />

person other than its owner, or which its owner has a bona fide intention to permit a person<br />

other than the owner to use in commerce and files an application to register on the principal<br />

register established by this Act, to certify regional or other origin, material, mode of<br />

manufacture, quality, accuracy, or other characteristics of such person's goods or services or<br />

that the work or labor on the goods or services was performed by members of a union or other<br />

organization. “Il termine “marchio di certificazione” indica qualsiasi parola, simbolo, o<br />

dispositivo o qualsiasi combinazione di questi elementi utilizzato da un soggetto diverso dal<br />

suo titolare, o che il suo titolare, in buona fede, ha intenzione di concedere ad un altro soggetto<br />

di utilizzare nel commercio ed presenta una domanda di registrazione presso il registro istituito<br />

da questo Atto al fine di certificare l‟origine regionale o altra origine, il materiale, il metodo di<br />

manifattura, la qualità, la genuinità o altre caratteristiche dei beni o servizi di questo soggetto o<br />

che l‟opera o il lavoro su questi beni o servizi sono stati realizzati da un membro dell‟ unione o<br />

dell‟organizzazione.<br />

416 15 USC 1127 (Construction and definitions; intent of chapter) The term "collective mark"<br />

means a trademark or service mark--used by the members of a cooperative, an association, or<br />

other collective group or organization, or which such cooperative, association, or other<br />

collective group or organization has a bona fide intention to use in commerce and applies to<br />

register on the principal register established by this Act, and includes marks indicating<br />

membership in a union, an association, or other organization.<br />

“Il termine “marchio collettivo” indica un marchio di commercio o un marchio di servizio-<br />

usato dai membri di una cooperativa, un‟associazione o un altro gruppo collettivo o<br />

organizzazione oppure il marchio che tale cooperativa, associazione o altro gruppo collettivo o<br />

organizzazione abbia intenzione di utilizzare in buona fede nel commercio e di registrare nel<br />

registro principale istituito da questo Atto, ed include i marchi che indicano l‟appartenenza ad<br />

un‟ unione, un‟associazione o un‟altra organizzazione.<br />

178


ora il discorso sulla comunione del marchio per vedere, anche in questo<br />

caso, se sia possibile avvicinare a questa fattispecie il marchio di gruppo.<br />

Per un orientamento dottrinale, “il marchio di gruppo si differenzia dalla<br />

comunione di marchio perché mentre nella comunione si ha una vera e<br />

propria contitolarità del marchio che sfocia in una sostanziale parità dei<br />

comunitari, nel marchio di gruppo non esiste propriamente una<br />

contitolarità del diritto. Le varie imprese del gruppo possono fare uso del<br />

marchio intestato alla capogruppo, ma non possono disporne come se<br />

fossero titolari. Se dunque la comunione presuppone l‟esistenza di<br />

diversi soggetti giuridici autonomi che versano in una posizione<br />

sostanzialmente paritaria riguardo al marchio, il marchio di gruppo<br />

presuppone, almeno di norma, un soggetto titolare ed altri soggetti<br />

utilizzatori non titolari che, pur potendone fare uso a determinate<br />

condizioni, non possono disporne.” 417 Pur condividendo quest‟ultimo<br />

orientamento dottrinale, ritengo che a volte il confine tra le fattispecie<br />

della comunione di marchio e marchio di gruppo può essere labile. Mi<br />

riferisco a quelle ipotesi in cui le società affiliate siano contitolari del<br />

marchio di gruppo. A titolo di esempio si può esaminare il caso Soc.<br />

Termal c. Mitsubishi Electric Europe GmbH , deciso con ordinanza dal<br />

Pretore di Monza il 4 luglio del 1988, relativo al marchio “Mitsubishi.”<br />

Queste le vicende del marchio in questione: “dopo la cessazione della<br />

seconda guerra mondiale, l‟originaria società Mitsubishi di Tokio fu<br />

costretta, per determinazione delle nazioni vincitrici, ad una suddivisione<br />

in industrie autonome ed indipendenti. Tale divisione (giuridica ed<br />

economica) tuttavia, in seguito a specifici accordi, lasciò intatto il diritto<br />

di ciascuna delle nuove società costituite di utilizzare il marchio comune,<br />

formato dal nome “Mitsubishi” e da tre rombi rossi uniti per le punte.” 418<br />

In una situazione di questo genere viene da chiedersi se ricorre un‟ipotesi<br />

di comunione di marchio derivata o una di marchio di gruppo. Come<br />

417 PETTITI, op. cit., p. 53<br />

418 MUSSO, op. ult. cit., p. 90<br />

179


ileva un Autore 419 che ha commentato l‟ordinanza suddetta, infatti, “non<br />

risulta sufficientemente accertato se le società contitolari del segno<br />

distintivo “Mitsubishi” siano effettivamente collegate all‟interno di un<br />

gruppo (come si limita a richiedere una parte della dottrina per<br />

l‟applicabilità della figura del marchio di gruppo) 420 o se siano altresì<br />

soggette ad una direzione unitaria (come ulteriormente richiede<br />

l‟opinione prevalente), 421 o se siano invece industrie autonome e<br />

indipendenti, sia giuridicamente che economicamente, ancorché legate<br />

da rapporti complessi e articolati.” 422 In conclusione, ad avviso di chi<br />

scrive, pur essendo il marchio di gruppo e la comunione di marchio due<br />

istituti giuridici con funzioni e caratteristiche differenti, quando le società<br />

affiliate siano comproprietarie del marchio di gruppo è necessario<br />

analizzare attentamente il caso concreto (in particolari i legami che<br />

esistono tra le stesse) al fine di individuare la disciplina applicabile.<br />

419 MUSSO, op. ult. cit., p. 92<br />

420 GALGANO, Il marchio nei sistemi produttivi integrati:sub-forniture, gruppi di società,<br />

licenze, merchandising, in Contr. e impr., 1987, p. 173, il quale ritenendo irrilevante<br />

l‟accertamento di una direzione unitaria all‟interno del gruppo, considera che “il collegamento<br />

fra le fonti produttive è nello stesso rapporto di gruppo che unisce la società titolare del<br />

marchio alla società che ne fa uso”.<br />

421 LEVI, Circolazione del marchio tra società appartenenti allo stesso gruppo, in Riv. dir.<br />

ind., 1978, p. 188 “Non ci si dovrà accontentare della formale appartenenza al gruppo, bensì<br />

sarà necessario verificare che esistano in concreto fra i soggetti rapporti idonei a dar vita ad<br />

un‟attività di fabbricazione e/o di commercio unitaria e continuativa, assimilabile a quella che<br />

si ha in caso di impresa unica, e ciò con particolare riguarda all‟attività cui si riferisce il<br />

marchio.”<br />

422 MUSSO, op. ult. cit., p. 92<br />

180


4.9Marchio di gruppo e accordi di coesistenza<br />

Ho finora presupposto che l‟uso del marchio di gruppo, da parte delle<br />

società affiliate, fosse regolato dalle direttive a queste ultime impartite<br />

dalla società capogruppo. Esaminerò ora, invece, il caso in cui la<br />

regolamentazione dell‟uso in questione sia formalizzata in un contratto e,<br />

più precisamente, in un accordo di coesistenza. La Corte di Cassazione,<br />

infatti, nella sentenza del 19 ottobre 2004 n. 20472, ha sostenuto che gli<br />

accordi in questione “possono riguardare anche l‟utilizzazione dello<br />

stesso marchio, come nelle ipotesi della comunione di marchio o dei<br />

marchi di gruppo.” 423 La società capogruppo può quindi decidere di<br />

regolamentare in un contratto, cui devono aderire le società affiliate che<br />

vogliano utilizzare il marchio di gruppo, tutti gli aspetti relativi<br />

all‟utilizzo di quest‟ultimo, quali ad esempio i presupposti, le modalità,<br />

l‟area di utilizzo, le sanzioni connesse alle violazioni degli obblighi<br />

contrattuali (ad esempio divieto di continuare ad utilizzare il segno<br />

distintivo del gruppo), la possibilità per le società affiliate di registrare<br />

marchi speciali contenenti un riferimento al marchio di gruppo.<br />

Riconosciuta quindi l‟utilità e l‟ammissibilità degli accordi di<br />

coesistenza relativi all‟uso del solo marchio di gruppo, si intende ora<br />

verificare se i contratti in questione possano avere ad oggetto la<br />

disciplina di due marchi interferenti: il marchio di gruppo e il marchio<br />

registrato da una società del gruppo. A parere di chi scrive, questo caso<br />

di coesistenza di marchi interferenti può verificarsi, ad esempio, perché<br />

la società capogruppo non ha ritenuto opportuno agire per contraffazione<br />

contro la società affiliata. Nel momento in cui si verifichi la coesistenza<br />

suddetta, ritengo che la società capogruppo, per scongiurare l‟inganno<br />

dei consumatori, potrà decidere di stipulare un accordo di coesistenza<br />

con la controllata, titolare del marchio interferente. Il consumatore può<br />

423 Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2004, n. 20472, in Guida al Diritto, 2004, p. 49,<br />

181


cadere in inganno perché, non riuscendo a distinguere il marchio del<br />

gruppo da quello della società allo stesso appartenente, può essere<br />

portato a ritenere che anche il secondo sia un marchio del gruppo. A mio<br />

parere il pericolo d‟inganno potrebbe essere evitato attraverso la<br />

stipulazione di un contratto che, in primo luogo, preveda che il marchio<br />

di cui sia titolare la capogruppo faccia esplicito riferimento al gruppo e<br />

che, in secondo luogo, inibisca alla società affiliata di dare credito ai<br />

propri marchi attraverso il riferimento alla propria appartenenza al<br />

gruppo (ad esempio sarebbe vietato un marchio di questo tipo: marchio x<br />

della società appartenente al gruppo y).<br />

182


4.10 I marchi del gruppo<br />

Ho finora parlato di “marchio di gruppo”, ma è da ricordare che i grandi<br />

gruppi di imprese, per differenziare la loro produzione, le linee dei loro<br />

prodotti, sono spesso titolari di più “marchi di gruppo,” magari<br />

caratterizzati da elementi in comune, quali ad esempio la grafica, i colori,<br />

il prefisso, il suffisso. Per fare un esempio di “marchi di gruppo”<br />

caratterizzati da elementi comuni, si possono ricordare alcuni di quelli<br />

che sono nella titolarità di Max Mara Fashion Group s.r.l. (società<br />

holding del gruppo) e, proprio per dare rilievo agli elementi grafici che li<br />

accomunano, li riporto nella grafica originale<br />

Ad avviso di chi scrive, il problema legato ai marchi di gruppo è il<br />

seguente: il consumatore medio, poco attento ai segni che fanno<br />

presumere l‟origine comune dei diversi marchi (nel nostro esempio la<br />

parola “max” usata come prefisso, come suffisso, da sola e la<br />

somiglianza tra Mara e Marella), potrebbe ritenere che un marchio sia<br />

imitazione di un altro o, al contrario, egli, di fronte a due marchi<br />

individuali d‟impresa di cui uno sia uguale o simile all‟altro e utilizzato<br />

per prodotti uguali o affini, potrebbe pensare che entrambi siano marchi<br />

183


di gruppo. Ad esempio quest‟ultima associazione potrebbe riguardare i<br />

marchi “Refrigue” e “Refrigiwear” 424 , entrambi, infatti, contrassegnano<br />

capi di abbigliamento e in particolare giubbotti dotati di particolari<br />

caratteristiche isolanti e termiche. Anche in questo caso riporto la<br />

relativa grafica originale.<br />

In conclusione ritengo che per individuare correttamente i marchi di<br />

gruppo sarebbe necessaria un‟espressa indicazione del tipo “marchio x<br />

del gruppo y”. Se una tale dicitura fosse obbligatoria, il consumatore<br />

avrebbe ben chiara la fonte di provenienza del prodotto che trova sul<br />

mercato e non la riterrebbe un‟imitazione servile nei casi in cui, invece,<br />

si tratta di uno dei marchi del gruppo; inoltre non attribuirebbe<br />

erroneamente il prestigio legato ad un dato gruppo ad un marchio che<br />

invece non ha nulla a che fare con quest‟ultimo e che magari costituisce<br />

un‟imitazione servile; e sicuramente non potrebbe pensare a collegamenti<br />

economici e giuridici in casi in cui si tratta di due o più marchi d‟impresa<br />

indipendenti.<br />

424 In realtà i due marchi non sono riferibili ad un medesimo gruppo: il marchio Refrigiwear è<br />

americano ed è stato registrato per la prima volta nel 1954; Refrigue è un marchio portoghese<br />

ed è stato registrato per la prima volta nel 1977.<br />

184


CONCLUSIONE<br />

Alla fine di questo studio ho rilevato che non esiste una disciplina<br />

specifica e dettagliata della comunione di marchio e del marchio di<br />

gruppo, pertanto, in attesa che il legislatore de iure condendo intervenga<br />

in merito, personalmente ritengo che lo strumento migliore per<br />

disciplinare gli istituti esaminati e per evitare il pericolo di uso decettivo<br />

del segno utilizzato congiuntamente da più soggetti indipendenti sia la<br />

valorizzazione dell‟autonomia privata. Relativamente alla disciplina<br />

della comunione di marchio quindi, ritengo utile la stipulazione di un<br />

contratto da parte di tutti i contitolari avente ad oggetto la<br />

regolamentazione di ogni aspetto della gestione e sfruttamento del<br />

marchio comune, dei diritti di cui gode ciascun contitolare, come singolo<br />

e come membro della comunione. Immagino la stipulazione di un<br />

accordo di coesistenza che, in quanto al contenuto, segua in parte la<br />

disciplina civilistica della comunione, magari assistita dai funzionari<br />

dell‟UIBM e poi registrata presso quest‟ultimo ufficio, ai fini probatori.<br />

Anche per quanto riguarda la disciplina del marchio di gruppo considero<br />

utile la stipulazione di un accordo di coesistenza tra la società<br />

capogruppo o holding e le società o imprese affiliate al fine di regolare i<br />

presupposti, i limiti, le modalità dello sfruttamento del segno distintivo<br />

del gruppo.<br />

185


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Cass., 19 aprile 1991, n. 4225, in Rep. Foro it., 1991<br />

Cass., 22 aprile 2000, in Giur. It., 2001<br />

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Cass., 19 luglio 1990, n. 7397, in Giust. civ. Mass., 1990<br />

Cass., 5 settembre 1994, n. 7652, in Giust. civ. Mass., 1994<br />

Cass., 10 ottobre 2008, n. 24909, in Mass. Giur. It., 2008<br />

Cass., 19 ottobre 2004, n. 20472, in Guida al Diritto, 2004<br />

Cass., 10 dicembre 1988, n. 6715, in Giu. ann. dir. ind.,1988<br />

Cass., 9 dicembre 1991, n. 13226, in Giur. It., 1992<br />

App. Milano, 9 gennaio 2004, in Riv. dir. ind, 2005<br />

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190


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Trib. Napoli, 14 gennaio2003, in Riv. dir. ind., 2003<br />

Trib. Napoli, 24 gennaio 2001, in Giur. merito, 2001<br />

Trib. Napoli, 26 febbraio 1973, in Riv. dir. ind., 1977<br />

Trib. Reggio Emilia,11 giugno 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2003<br />

Trib. Roma, 5 giugno 1986, in Foro pad., 1987<br />

Trib. Roma, 24 settembre 1984, in Giur. ann. dir. ind., 1986<br />

Trib. Terni, 26 settembre del 1989, in Giur. ann. dir. ind., 1990<br />

Trib. Palermo, 30 maggio 1991, in Giur. ann. dir. ind., 1991<br />

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