LO SFRUTTAMENTO DEL MARCHIO IN COMUNIONE E ALL ...
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<strong>LO</strong> <strong>SFRUTTAMENTO</strong> <strong>DEL</strong> <strong>MARCHIO</strong> <strong>IN</strong><br />
<strong>COMUNIONE</strong><br />
<strong>ALL</strong>’<strong>IN</strong>TERNO <strong>DEL</strong>L’IMPRESA DI GRUPPO<br />
E<br />
1
<strong>IN</strong>TRODUZIONE<br />
Gli obiettivi di questo studio sono quelli di analizzare la disciplina della<br />
comunione di marchio e di comprendere i problemi connessi all‟uso<br />
plurimo del medesimo segno distintivo cui dà luogo la contitolarità del<br />
marchio nonché di proporre una soluzione per questi ultimi. La necessità<br />
di questo approfondimento deriva dal fatto che il legislatore del Codice<br />
della Proprietà Industriale ha affrontato in modo poco approfondito il<br />
tema della comproprietà dei diritti di proprietà industriale. Per la<br />
regolamentazione di quest‟ultima ipotesi, infatti, il legislatore, all‟art. 6<br />
del predetto codice, rinvia semplicemente alla disciplina della comunione<br />
civilistica in quanto compatibile e salvo convenzioni in contrario, senza<br />
tener conto delle peculiarità della comunione dei diritti immateriali. Si<br />
analizzeranno inoltre, per completezza, altri casi in cui un diritto di<br />
proprietà intellettuale appartiene a più soggetti, cioè la comunione del<br />
diritto di brevetto e la comunione del diritto d‟autore.<br />
Per meglio comprendere i problemi connessi all‟uso plurimo del<br />
medesimo segno distintivo, nella seconda parte di questa trattazione, si<br />
esaminerà un‟altra situazione in cui si verifica il couso dello stesso<br />
marchio, l‟istituto del marchio di gruppo, cioè del marchio che è nella<br />
titolarità della società capogruppo o holding ed è utilizzato anche o<br />
soltanto dalle società o imprese affiliate. Lo sfruttamento del marchio in<br />
comunione e del marchio all‟interno di un‟impresa di gruppo, pur<br />
presentando delle differenze di fondo (perché solo nel primo caso si<br />
verifica una situazione di contitolarità e di couso dello stesso marchio,<br />
mentre nel secondo si verifica solo un‟ipotesi di couso) hanno in comune<br />
il fatto che ad entrambi è sottesa la medesima esigenza di tutela del<br />
pubblico dei consumatori da usi decettivi del marchio. Quale strumento<br />
per evitare il pericolo di uso ingannevole del marchio co-usato, si<br />
2
propone di regolamentare l‟uso plurimo attraverso gli accordi di<br />
coesistenza.<br />
3
Capitolo 1 LA <strong>COMUNIONE</strong> DI <strong>MARCHIO</strong><br />
1.1Definizione e funzioni del marchio d‟impresa<br />
1.2Art 6 CPI e individuazione della fattispecie<br />
1.2.1Comunione di marchio originaria<br />
1.2.2Comunione di marchio derivata e convalidazione ex art.28 CPI<br />
1.2.3Comunione di marchio derivata e cessione parziale del marchio<br />
1.3Ammissibilità della comunione<br />
1.4Limiti e condizioni della fattispecie<br />
1.5.Il couso del marchio<br />
1.6Disciplina civilistica della comunione: analisi dell‟applicabilità alla<br />
comunione di marchio degli artt.1100 c.c. ss<br />
1.6.1Art.1101 c.c. (Quote dei partecipanti)<br />
1.6.2Art. 1102c.c. (Uso della cosa comune)<br />
1.6.3Art. 1103c.c. (Disposizione della quota)<br />
1.6.4Art. 1104c.c. (Obblighi dei partecipanti)<br />
1.6.5Art. 1105c.c.(Amministrazione) e Art. 1108c.c. (Innovazioni e<br />
altri atti eccedenti l‟ordinaria amministrazione)<br />
1.6.6Art. 1106c.c.(Regolamento della comunione e nomina di<br />
amministratore)<br />
1.6.7Art.1111c.c.(Scioglimento della comunione)<br />
1.7Decadenza del marchio<br />
4
Capitolo 2 ACCORDI DI COESISTENZA<br />
2.1Definizione e funzioni degli accordi di coesistenza<br />
2.1.1Accordi relativi al medesimo marchio<br />
2.1.2Accordi relativi a marchi interferenti:il caso Apple<br />
2.2Validità e fondamento giuridico<br />
2.3Efficacia degli accordi di coesistenza<br />
2.4Contenuto degli accordi di coesistenza<br />
2.5Durata degli accordi di coesistenza<br />
2.5.1Accordo di coesistenza e convalidazione<br />
2.6Accordi di coesistenza e contratti di licenza di marchio: differenze e<br />
similitudini<br />
2.7Compatibilità degli accordi di coesistenza con il diritto antitrust<br />
Capitolo 3 LA <strong>COMUNIONE</strong> DI ALTRI DIRITTI<br />
DI PROPRIETA’ <strong>IN</strong>TELLETTUALE<br />
3.1I vari tipi di creazione intellettuale suscettibili di tutela<br />
3.2La comunione di diritto d‟autore<br />
3.2.1Le opere in comunione<br />
3.2.2Le opere composte<br />
3.2.3Le opere collettive<br />
3.3La comunione di brevetto<br />
3.3.1Il diritto al brevetto<br />
3.3.2Il diritto di brevetto<br />
5
Capitolo 4 IL <strong>MARCHIO</strong> DI GRUPPO<br />
4.1 Introduzione<br />
4.2Il gruppo: analisi della sua struttura e dei rapporti di controllo e di<br />
collegamento tra la capogruppo e le varie affiliate<br />
4.2.1Il controllo<br />
4.2.2Controllo e direzione unitaria<br />
4.3Nozione del marchio di gruppo e funzione<br />
4.3.Titolarità del marchio di gruppo<br />
4.4Ammissibilità del marchio di gruppo<br />
4.4.1Ammissibilità del marchio comunitario di gruppo<br />
4.5Disciplina<br />
4.5.1Cessione e Licenza del marchio di gruppo<br />
4.5.2Decadenza del marchio di gruppo<br />
4.5.3Altre cause di estinzione del marchio di gruppo<br />
4.6Tutela del marchio di gruppo<br />
4.7Marchio di gruppo e tutela dei consumatori<br />
4.8Altri casi di utilizzazione plurima dello stesso segno:analisi delle<br />
differenze.<br />
4.9Marchio di gruppo e accordi di coesistenza<br />
4.10I marchi del gruppo<br />
6
Capitolo 1 La comunione di marchio<br />
1.1Definizione e funzioni del marchio d’impresa<br />
Il marchio d‟impresa è, innanzitutto, un segno distintivo, cioè un mezzo<br />
di espressione “idoneo a soddisfare il bisogno di identificare soggetti e<br />
oggetti di diritto” 1 , bisogno di identificare all‟interno di un genus di<br />
prodotti e servizi la species rappresentata dai prodotti e servizi che, oltre<br />
ad appartenere alla classe designata dal linguaggio comune, sono<br />
contraddistinti dalla presenza del marchio e dal bisogno del titolare dello<br />
stesso di essere riconosciuto sul mercato dai consumatori quale unico<br />
soggetto autorizzato a mettere in commercio beni contrassegnati con quel<br />
marchio.<br />
Questo segno distintivo, quindi, può essere definito come un simbolo che<br />
instaura un collegamento ideale, esclusivo e costante tra sé e i prodotti e<br />
servizi che con lo stesso vengono identificati, un simbolo che comunica<br />
un “messaggio” ai consumatori circa la specie, la qualità, il valore, la<br />
fonte di origine e altre caratteristiche delle entità così identificate. A<br />
questo proposito un Autore afferma che “sul piano economico, il<br />
marchio è infatti oggi lo strumento fondamentale della comunicazione<br />
d‟impresa, poiché viene impiegato (e valorizzato) non soltanto per<br />
informare il pubblico della provenienza dei prodotti o servizi per cui è<br />
utilizzato da una determinata impresa e quindi dell‟esistenza di<br />
un‟esclusiva di questa impresa sull‟uso di esso in un determinato settore<br />
(la tradizionale “funzione di indicazione di provenienza” del marchio),<br />
ma anche come simbolo di tutte le altre componenti del “messaggio” che<br />
il pubblico ricollega, appunto attraverso il marchio, ai prodotti o ai<br />
servizi per i quali esso viene utilizzato: messaggio che comprende sia i<br />
dati che i consumatori hanno desunto dall‟esame e dall‟uso di questi<br />
1 GUGLIELMETTI, Il marchio. Oggetto e contenuto, Milano,1968, p.240<br />
7
prodotti o servizi; sia - e soprattutto - le informazioni e le suggestioni<br />
diffuse direttamente dall‟imprenditore attraverso la pubblicità”. 2<br />
Questo sistema di comunicazione e informazione che si stabilisce tra<br />
impresa e consumatori presuppone che la prima, titolare dell‟esclusiva<br />
attribuita su di un marchio, sia la sola, nell‟ambito al quale l‟esclusiva si<br />
estende, a comunicare con il pubblico attraverso il segno che ne forma<br />
oggetto, e che il flusso informativo sia veritiero e tale da non indurre in<br />
inganno il pubblico. In alcuni casi i consumatori possono avere più<br />
interlocutori (mi riferisco alle ipotesi in cui l‟impresa titolare<br />
dell‟esclusiva stipuli uno o più contratti di licenza non esclusiva o ceda<br />
parzialmente il marchio per una parte dei prodotti per i quali è stato<br />
registrato oppure a quelle ipotesi in cui più soggetti siano contitolari di<br />
un medesimo marchio) e allora emerge con più forza l‟esigenza di<br />
tutelare i consumatori dall‟inganno sulla natura, provenienza e qualità dei<br />
prodotti. Riguardo allo “statuto di non decettività” 3 l‟Autore in<br />
precedenza citato, sostenitore della tesi del marchio come “messaggero”<br />
evidenzia che “al riconoscimento del ruolo svolto dal marchio come<br />
strumento di comunicazione fa da contraltare un‟articolata posizione di<br />
responsabilità in ordine alle informazioni e agli altri elementi del<br />
messaggio percepiti dal pubblico come collegati a quel marchio, che<br />
viene posta a carico del titolare di esso, il quale deve garantire la<br />
2G<strong>ALL</strong>I, Il marchio come segno e la capacità distintiva nella prospettiva del diritto<br />
comunitario, in Il dir. ind. n. 5/2008, p. 426.<br />
Di marchio come strumento di comunicazione parlano anche G<strong>ALL</strong>I, Funzione del marchio e<br />
ampiezza della tutela, Milano,1996, p. 109ss.; SENA, Il nuovo diritto dei marchi, Milano,<br />
2001, p.15 ss. e la decisione della Commissione di Ricorsi UAMI del 25 aprile 2001, n.<br />
283/1999, reperibile sul sito UAMI www.oami.europa.eu:<br />
“Therefore the trade mark is not only a sign affixed to a product to indicate its business<br />
origin, but is also a vehicle for communicating a message to the public, and itself rapresents<br />
financial value. This message is incorporated into the trade mark through use, essentially for<br />
advertising purposes, which enables the trade mark to assume the message itself.”<br />
“Pertanto il marchio non è solo un segno apposto su un prodotto per indicare la propria origine<br />
commerciale, ma è anche un veicolo per comunicare un messaggio al pubblico, e esso stesso<br />
rappresenta valore economico. Questo messaggio è incorporato nel marchio attraverso l'uso,<br />
essenzialmente per scopi pubblicitari, che consente al marchio di assumere il messaggio stesso.<br />
3 L‟espressione è di FRASSI, Lo statuto di non decettività del marchio tra diritto interno,<br />
diritto comunitario ed alla luce della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, in Riv.<br />
dir. ind., 2009, p.29.<br />
8
conformità a questo messaggio dei prodotti o servizi contrassegnati dal<br />
marchio.” 4<br />
Chiarita la natura del marchio d‟impresa è opportuno soffermarsi<br />
brevemente su quali siano le funzioni di questo e sui riflessi che la<br />
riforma introdotta dal D. Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 5 ha avuto su<br />
questo tema. A parere si chi scrive, è utile individuare in primo luogo le<br />
funzioni economiche del marchio, e, poi, controllare quale attenzione la<br />
normativa vigente riservi a ciascuna di esse e se è possibile evidenziare<br />
una o più “funzioni giuridicamente protette.” 6 Possono ravvisarsi tre<br />
distinte funzioni economiche del marchio: funzione di garanzia<br />
qualitativa, intesa quale aspettativa da parte del consumatore di una<br />
costanza qualitativa dei prodotti distinti con il medesimo marchio<br />
(mantenimento nel tempo di identiche caratteristiche merceologiche);<br />
funzione distintiva, intesa quale “funzione di garantire al consumatore<br />
l‟identità di origine del prodotto contrassegnato dal marchio,<br />
consentendogli di distinguere senza rischio di confusione questo prodotto<br />
da quelli di provenienza diversa” 7 ; funzione attrattiva che si evidenzia<br />
quando “il marchio non è solo un nome (cioè un segno di collegamento<br />
ideale tra parola e cosa) ma costituisce, in presenza di determinate<br />
condizioni, una “qualità” del prodotto cioè quando esso è in se stesso<br />
visto come un pregio del prodotto.” 8<br />
4 G<strong>ALL</strong>I, op. cit., p.426<br />
5 Il D. Lgs. n.480/1992 è attuativo della Direttiva n.89/104/CE sul riavvicinamento delle<br />
legislazioni degli stati membri in materia di marchi d‟impresa.<br />
6 G<strong>ALL</strong>I, op. cit., p.52, dove chiarisce che cosa debba intendersi per “funzione giuridicamente<br />
protetta”del marchio; funzione che non si identifica con la funzione economica che il marchio<br />
di fatto adempie sui mercati, bensì è la funzione economico-sociale tipica che gli è attribuita<br />
dalle norme di un ordinamento giuridico dato e che tale ordinamento intende tutelare con<br />
l‟attribuire a determinate condizioni un diritto assoluto all‟uso di un marchio.<br />
7 In tal senso Corte di Giustizia Ce, caso SAT 1 del16 settembre 2004,C-329/02, in Raccolta<br />
della giurisprudenza, 2004 p. I-08317; PETTITI, Il marchio di gruppo, Milano, 1996, p.89<br />
“Per funzione distintiva deve intendersi quella capacità del marchio di individuare e<br />
rappresentare il prodotto e l‟impresa produttrice del bene contrassegnato dal marchio”.<br />
8 DI CATALDO, I segni distintivi, Milano,1993, p.25<br />
9
Il testo originale del regio decreto del 21 giugno 1942, n. 929 9 induceva<br />
ad affermare che solo la funzione di indicazione di provenienza, la<br />
funzione, per così dire, di “stato civile” 10 potesse essere considerata<br />
funzione giuridicamente protetta 11 perché essa prevedeva un forte<br />
collegamento tra marchio e impresa: legittimazione esclusiva<br />
dell‟imprenditore alla registrazione del marchio, ex art 22 l.m.; divieto di<br />
cessione del marchio senza l‟azienda o un ramo di essa, ex art. 15 l.m.;<br />
decadenza del marchio per cessazione definitiva dell‟impresa, ex art. 43,<br />
2° comma l. m.. Il D. Lgs. 480/1992, prevedendo la libera circolazione<br />
del marchio indipendentemente dall‟azienda di riferimento (art.15 l. m,<br />
ora art. 23 CPI 12 ), ha sicuramente allentato il suddetto collegamento e<br />
quindi ha accordato alla funzione di garanzia qualitativa e alla funzione<br />
attrattiva nuova attenzione. A mio parere 13 , nonostante nei<br />
“considerando” che introducono la Direttiva 14 della quale la legge<br />
vigente è attuazione si dica che la tutela accordata al marchio “mira in<br />
particolare a garantir(ne) la funzione d‟origine”, non è più possibile<br />
attribuire al marchio esclusivamente una funzione giuridicamente tutelata<br />
di indicazione di provenienza perché il CPI contempla diverse ipotesi di<br />
coesistenza sul mercato di marchi uguali usati da soggetti diversi (nel<br />
prosieguo della trattazione esaminerò l‟art. 6 CPI relativo alla comunione<br />
di marchio) ergo non è più possibile, attraverso il marchio, risalire ad<br />
un‟unica origine imprenditoriale perché il legislatore tutela anche altri<br />
interessi oltre a quelli tutelati dalla funzione distintiva del marchio, quali<br />
quelli dei consumatori a non essere ingannati da un uso scorretto del<br />
marchio. Mi riferisco al rischio che può profilarsi a seguito<br />
9 R. D. 21 Giugno 1942, n.929 da ora in avanti legge marchi (l.m.)<br />
10 L‟espressione è di GUGLIELMETTI, op. cit., p. 9<br />
11 Di opinione contraria è GUGLIELMETTI, op. cit., p.10ss., sostenitore della tesi della<br />
funzione del marchio come segno distintivo del prodotto in sé e per sé, secondo la quale,<br />
funzione essenziale del marchio è quella di individuare dei prodotti e non l‟organismo che li<br />
produce o commercia.<br />
12 Codice della Proprietà Industriale, D. Lgs. 10 febbraio 2005, n.30<br />
13 In tal senso VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p.<br />
150; DI CATALDO, op. cit., p.20<br />
14 Direttiva n.89/104/CE cit.<br />
10
dell‟abrogazione della circolazione vincolata del marchio, cioè<br />
all‟eventualità che le aspettative del pubblico dei consumatori in<br />
relazione ad un prodotto marcato siano deluse, infatti, “se un<br />
consumatore confida che un prodotto che reca un certo marchio provenga<br />
dallo stesso imprenditore, nel quale aveva fiducia, che ieri o un anno fa<br />
produceva quel prodotto con quel marchio, il fatto che a sua insaputa il<br />
marchio sia stato trasferito ad altro imprenditore fa sì che egli sia<br />
ingannato” 15 ; mi riferisco, inoltre, al pericolo insito nella coesistenza sul<br />
mercato di marchi dei quali siano titolari soggetti diversi: “coesistenza<br />
che, a sua volta, può determinare l‟ inganno del pubblico che acquisti un<br />
prodotto che è marcato come quello già soddisfacentemente sperimentato<br />
e proveniente da un determinato imprenditore ma che invece proviene<br />
da un imprenditore diverso” 16 .<br />
Concludendo questo breve excursus sulle funzioni del marchio<br />
d‟impresa, ad avviso di chi scrive, il marchio continua ad avere anche<br />
una funzione di indicazione d‟origine e che il “considerando” che<br />
introduce la Direttiva suddetta prevedendo che la tutela del marchio<br />
“mira in particolare a garantire la funzione di origine” in realtà non<br />
esclude che altre funzioni siano tutelate 17 ad esempio la funzione<br />
pubblicitaria del marchio. 18<br />
15 L‟esempio è tratto da VANZETTI- DI CATALDO, op. cit., p. 151<br />
16 L‟esempio è tratto da VANZETTI- DI CATALDO, op. cit., p.151<br />
17 In questo senso anche VANZETTI, La funzione distintiva del marchio oggi, in AA.VV.,<br />
Segni e forme distintive, Milano, 2001, p.8<br />
18 Sulla funzione pubblicitaria del marchio si veda RICOLFI, in AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-<br />
MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, Diritto industriale. Proprietà intellettuale e<br />
concorrenza,Torino, 2009, p.62ss.<br />
11
1.2 Art. 6 CPI e individuazione della fattispecie<br />
L‟art. 6 del CPI prevede che “Se un diritto di proprietà industriale<br />
appartiene a più soggetti, le facoltà relative sono regolate, salvo<br />
convenzioni in contrario, dalle disposizioni del codice civile relative alla<br />
comunione in quanto compatibili”. La norma in commento trova il suo<br />
archetipo nell‟art. 20 del R.D. 29 giugno 1939, n. 1127. 19 Sebbene tra le<br />
due disposizioni ci siano delle differenze, quali ad esempio 20 , l‟<br />
estensione del rinvio codicistico a tutte le ipotesi di contitolarità di diritti<br />
relativi a titoli di proprietà industriale e la precisazione che la disciplina<br />
civilistica della comunione è applicabile nella misura in cui sia<br />
compatibile con la natura dei diritti di proprietà industriale, la norma in<br />
esame non risolve le numerose questioni poste dalla fattispecie della<br />
comunione dei diritti di proprietà industriale anzi “lo schema codicistico<br />
sembra quasi preoccuparsi di creare più problemi di quanti aiuti a<br />
risolvere”. 21 A parere di che scrive, il legislatore, nell‟emanare il CPI nel<br />
2005, avrebbe potuto prevedere una disciplina specifica che tenesse<br />
conto delle peculiarità dei diritti sui beni immateriali oppure, sulla scia<br />
della valorizzazione dell‟autonomia privata (l‟art. 6 CPI consente che i<br />
contitolari del diritto scelgano una disciplina diversa da quella della<br />
comunione civilistica), avrebbe potuto dettare delle linee guida per<br />
regolare i rapporti interni tra i contitolari del marchio, ad esempio, circa<br />
la forma, il contenuto dell‟accordo tra le parti oppure prevedere, ai fini<br />
della prova del contratto tra le parti, una forma di registrazione presso<br />
l‟UIBM 22 . Non si può procedere alla trattazione della comunione di<br />
marchio se non si individua prima la fattispecie, se non si chiarisce che<br />
cosa debba intendersi per marchio a questi fini, infatti, “solo ricorrendo<br />
19 R.D. 29 giugno 1939, n. 1127, (cd. legge invenzioni, di seguito l. inv.) abrogato dal CPI, in<br />
materia di brevetti per invenzioni, disponeva: “Se l‟invenzione industriale è dovuta a più<br />
autori, i diritti derivanti dal brevetto sono regolati, salvo convenzioni in contrario, dalle<br />
disposizioni del codice civile relative alla comunione”.<br />
20 Come si evince dal commento dell‟ art. 6 di SCUFFI- FRANZOSI – FITTANTE, Il codice<br />
della proprietà industriale, Padova, 2005, pp. 79 ss.<br />
21 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p.81<br />
22 Ufficio italiano brevetti e marchi<br />
12
ad una definizione di marchio che tenga conto, oltre che delle<br />
caratteristiche sensibili del marchio, anche di altri elementi<br />
giuridicamente rilevanti quali i prodotti o servizi contraddistinti e<br />
l‟ambito territoriale in cui questo è usato o per il quale è registrato, solo<br />
allora potrà dirsi che un marchio potrà o meno essere il medesimo. In tale<br />
prospettiva non potrà mai aversi comunione di marchio nel caso in cui<br />
due imprenditori utilizzino uno stesso segno per identificare prodotti o<br />
servizi diversi ovvero stessi prodotti o servizi, ma commercializzati su<br />
diversi territori. In sostanza solo quando due soggetti vanteranno un<br />
legittimo diritto di esclusiva avente il medesimo contenuto potrà parlarsi<br />
di comunione di marchio” 23 . Secondo un orientamento dottrinale 24<br />
esistono tre ipotesi principali di comunione di marchio: la prima, ritenuta<br />
la più frequente, in cui più soggetti, titolari di un unico marchio e di<br />
imprese diverse, utilizzano il marchio per contrassegnare prodotti che<br />
ciascuno fabbrica e/o mette in commercio con la propria azienda; la<br />
seconda, in cui un marchio, appartenente a più soggetti (ad esempio<br />
perché registrato su domanda congiunta di più soggetti), venga usato da<br />
un‟ impresa gestita da uno dei contitolari del marchio o da un terzo; la<br />
terza, in cui più soggetti sono contitolari di un‟ unica impresa comune e<br />
di un marchio che viene utilizzato per i prodotti di questa. Secondo un<br />
Autore “quest‟ultima ipotesi da un lato risulta condizionata dal noto<br />
problema della ammissibilità di una comunione d‟impresa, e che<br />
comunque, ove si desse a tale problema risposta positiva, avrebbe di fatto<br />
uno spazio sicuramente marginale; dall‟altro che in caso di comunione<br />
d‟impresa si avrebbe un‟impresa unica ed un unico utilizzatore del<br />
marchio, così che non si presenterebbero i problemi tipici della<br />
23 RAMPONE, Appunti in tema di comunione di marchio d’impresa, in Riv. dir. ind., 2009,<br />
p.104<br />
24 DI CATALDO, Note in tema di comunione di marchio, in Riv. dir. ind.,1997, pp.5 ss.<br />
13
comunione di marchio, non essendovi couso di marchio da parte di<br />
soggetti distinti.” 25<br />
Considerando il profilo della fattispecie costitutiva della comunione di<br />
marchio, ritengo che la stessa può essere originaria o derivata. “La<br />
contitolarità originaria si realizza per i diritti titolati ove la privativa sia<br />
stata richiesta da più soggetti con un‟unica domanda; per i diritti non<br />
titolati quando una pluralità di soggetti ne realizzi congiuntamente la<br />
fattispecie costitutiva (e realizzi dunque l‟uso che comporta notorietà).<br />
La contitolarità derivata si realizza qualora il diritto sia stato acquistato<br />
per quota , da più persone per atto tra vivi, o a causa di morte.” 26<br />
25 AUTERI, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotti “originali”, Milano,<br />
1973, p.415; In merito alla posizione di Auteri, DI CATALDO, op. ult. cit., condivide<br />
pienamente la seconda osservazione ma relativamente alla prima afferma che “impresa in<br />
comune” si avrebbe anche nel caso di impresa esercitata da una società in nome collettivo,<br />
della quale siano soci i condomini del marchio.<br />
26UBERTAZZI,Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza,Padova,<br />
2007, p.182<br />
14
1.2.1Comunione di marchio originaria<br />
Si ha comunione di marchio originaria quando più soggetti, ab<br />
origine separati e indipendenti, procedono a domandare,<br />
congiuntamente o singolarmente, ma nell‟interesse di entrambi,<br />
la registrazione di un marchio per contrassegnare i loro prodotti<br />
o servizi. Ciò avviene, per esempio, “quando più imprese<br />
commercino prodotti fabbricati in base ad un unico brevetto<br />
industriale di prodotto o di procedimento, che pure sia comune ,<br />
o posti in essere con caratteristiche uguali o analoghe in base a<br />
scambi di assistenza o informazioni” 27 (anche se “ quando più<br />
operatori progettano un‟utilizzazione comune dello stesso<br />
marchio si tende a preferire il ricorso a strumenti diversi dalla<br />
contitolarità del marchio stesso 28 ).<br />
“Si configura una contitolarità originaria anche nell‟ipotesi di<br />
rinomanza del marchio e conseguente protezione<br />
ultramerceologica” 29 . La categoria del marchio che gode di<br />
rinomanza “è individuata facendo riferimento a quei segni che,<br />
oltre a godere per l‟appunto di rinomanza, sono dotati di<br />
carattere distintivo o notoriètà tali che il loro uso in autorizzato<br />
da parte dei terzi conferirebbe un “indebito vantaggio” ai terzi<br />
medesimi o, in alternativa, comporterebbe un “pregiudizio” alle<br />
caratteristiche di distintività o notorietà del marchio che gode di<br />
rinomanza”. 30 La protezione ultramerceologica fa riferimento al<br />
potere invalidante di tale categoria di segni distintivi nei<br />
confronti di marchi posteriori registrati anche per prodotti o<br />
27 L‟esempio è tratto da FRANCESCHELLI, Saggio sulla cessione del marchio in Studi riuniti<br />
di diritto industriale, Milano,1959, p. 144<br />
28 AUTERI, op. cit., p.377, nota 22<br />
29 RAMPONE, op. cit., p. 105<br />
30AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, Diritto industriale<br />
Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2009, p.127<br />
15
servizi non affini 31 . Secondo un‟opinione dottrinale “La legittima<br />
espansione della privativa può sconfinare e sovrapporsi alla<br />
privativa altrui. Da quel momento in poi il marchio sarà lo<br />
stesso, ma i titolari saranno diversi, saranno quindi contitolari.<br />
(…) Il riferimento è al graduale ampliamento dell‟esclusiva<br />
dovuto alla notorietà acquisita (protezione ultramerceologica) o<br />
a nuove iniziative imprenditoriali (apposizione del marchio su<br />
nuovi prodotti): potrebbe così accadere che due imprenditori<br />
registrino un identico segno per differenti prodotti. Si tratterebbe<br />
in tal caso di due marchi diversi essendo diverso un elemento<br />
dell‟esclusiva: i prodotti contraddistinti. In seguito, del tutto<br />
legittimamente, uno dei due marchi in questione potrebbe<br />
gradualmente acquisire una protezione ultramerceologica<br />
sovrapponendo il diritto di esclusiva dei rispettivi titolari. In tal<br />
caso, i due marchi originari, si fonderebbero tra loro costituendo<br />
un unico bene giuridico soggetto ad un unico diritto di<br />
esclusiva”. 32 A parere di chi scrive un‟ipotesi di tal genere è<br />
astrattamente ipotizzabile ma in concreto difficilmente<br />
configurabile dal momento che nella maggior parte dei casi, i<br />
titolari di segni distintivi interferenti tra loro, si difendono dalla<br />
costituzione di una comunione incidentale attraverso la<br />
stipulazione di accordi di coesistenza per mezzo dei quali<br />
regolano l‟uso dei marchi in questione.<br />
31 A questo proposito si vedano gli artt.12.1 f) e 20.1 c) CPI<br />
32 RAMPONE, op. cit., p.112<br />
16
1.2.2 Comunione di marchio derivata e convalidazione ex art.28<br />
CPI<br />
La comunione di marchio sopravvenuta è conseguenza di una<br />
successione mortis causa o inter vivos; un‟ipotesi del primo tipo<br />
si realizza, ad esempio “nel caso del decesso del titolare di<br />
un‟unica azienda, che era titolare di un certo marchio, seguito da<br />
divisione dell‟azienda tra gli eredi, i quali diventano così titolari<br />
di aziende distinte, che vengono progressivamente ad<br />
allontanarsi nel tempo l‟una dall‟altra, e tutti<br />
contemporaneamente utilizzano, per i propri prodotti, il marchio<br />
già del de cuius” 33 ; un‟ipotesi del secondo tipo può discendere,<br />
ma non necessariamente, da atti negoziali.<br />
Con la precisazione “non necessariamente” intendo fare<br />
riferimento alla comunione di marchio che deriva da un‟ipotesi<br />
di convalidazione ex art.28 CPI 34 , secondo il quale “Il titolare di<br />
un marchio d‟impresa anteriore ai sensi dell‟articolo 12 e il<br />
titolare di un diritto di preuso che importi notorietà non<br />
puramente locale, i quali abbiano, durante cinque anni<br />
consecutivi, tollerato, essendone a conoscenza, l‟uso di un<br />
marchio posteriore registrato uguale o simile, non possono<br />
domandare la dichiarazione di nullità del marchio posteriore né<br />
opporsi all‟uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai<br />
quali il detto marchio è stato usato sulla base del proprio marchio<br />
anteriore o del proprio preuso, salvo il caso in cui il marchio<br />
posteriore sia stato domandato in mala fede. Il titolare del<br />
33 L‟ esempio è tratto da DI CATALDO, op. ult. cit., p.6<br />
34 Il testo dell‟art. 28 CPI riprende con modifiche di nessun rilievo quello art. 48 l.m., nella<br />
versione susseguente al D. Lgs. n.480/1992.Il testo dell‟art 48 l.m. previgente alla novella<br />
recitava: “La validità del brevetto, quando il marchio sia stato pubblicamente usato in buona<br />
fede per cinque anni senza contestazioni, dopo la pubblicazione, non può essere impugnata per<br />
il motivo che la parola, figura o segno che lo costituisce può confondersi con una parola, figura<br />
o segno altrui, già conosciuto alla data della domanda, come distintivo di prodotti o merci dello<br />
stesso genere, o perché esso contiene un nome o ritratto di persona”.<br />
17
marchio posteriore non può opporsi all‟uso di quello anteriore o<br />
alla continuazione del preuso. La disciplina del comma 1° si<br />
applica anche al caso di marchio registrato in violazione degli<br />
artt. 8 e 14, comma 1, lettera c)”.<br />
Francesco Rampone è stato il primo a sottolineare come la<br />
convalidazione porti ad un‟ipotesi di costituzione ex lege di<br />
comunione di marchio; egli ritiene che: “la convalidazione è una<br />
sorta di usucapione del secondo registrante con la differenza che<br />
con l‟usucapione il proprietario originario viene spogliato del<br />
proprio diritto nel momento in cui questo sorge a titolo<br />
originario in capo all‟usucapiente, con la convalidazione, invece,<br />
il titolare originario resta tale e decadrà solo dal diritto di<br />
domandare la dichiarazione di nullità della registrazione<br />
posteriore. Alla fine si avranno due soggetti con un diritto di<br />
esclusiva sullo stesso marchio. Su uno stesso marchio e non su<br />
due marchi: coinciderà infatti il segno, il territorio e i prodotti<br />
contraddistinti.” 35 E‟ da ricordare che sulla natura giuridica<br />
dell‟istituto della convalidazione vi sono opinioni dottrinali<br />
contrastanti. In merito a questo dibattito dottrinale, un Autore 36<br />
ricorda che “secondo una dottrina esso integra una forma di<br />
usucapione fondata sul possesso pacifico e di buona fede del<br />
marchio protratto per cinque anni; altri autori criticano la tesi<br />
testé esposta in quanto l‟uso di un bene immateriale non<br />
costituisce possesso ed in quanto l‟acquisto del marchio da parte<br />
di chi ne fa uso non porta ad una corrispondente perdita a carico<br />
del preutente, anche se ravvisano nella convalida un fatto<br />
preclusivo in fondo non dissimile all‟usucapione; altra dottrina<br />
inquadra il fenomeno della convalida del marchio in istituti<br />
tradizionali quali la prescrizione o la decadenza. Si afferma<br />
35 RAMPONE,op. cit.,p.111<br />
36 UBERTAZZI, op. cit.,p.327<br />
18
infatti che il contenuto della norma in esame rispecchierebbe un<br />
principio generale di prescrizione estintivo dell‟azione di nullità<br />
del marchio per mancanza di novità o che essa darebbe luogo ad<br />
una forma particolare di decadenza; non manca infine chi<br />
sostiene che la convalida del marchio non ha nulla in comune<br />
con alcun altro istituto, presentandosi nel nostro ordinamento<br />
come fenomeno del tutto originale, legato a condizioni proprie e<br />
autonome.” 37<br />
Fatte queste precisazioni sulla natura della convalidazione, è<br />
opportuno chiarire i presupposti in presenza dei quali essa può<br />
essere invocata: in primo luogo l‟art 28 CPI non si limita, come<br />
faceva l‟art 48 l.m. prima della la novella 1992 38 , a richiedere<br />
l‟uso pubblico quinquennale del marchio anteriore, infatti<br />
“richiede un particolare atteggiamento psicologico del titolare<br />
del segno anteriore, consistente nella vera e propria tolleranza<br />
dell‟uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile. Il<br />
concetto di tolleranza deve essere interpretato in senso rigoroso:<br />
questa non è quindi esclusa da una qualsiasi manifestazione di<br />
volontà del titolare del marchio anteriore, quale l‟invio di una<br />
diffida, ma solo dalla proposizione dell‟azione di nullità.” 39 In<br />
secondo luogo, è necessario che il marchio posteriore non sia<br />
stato “domandato in mala fede.” 40<br />
37 UBERTAZZI, op. cit.,p.327<br />
38 Si veda nota 31<br />
39 UBERTAZZI, op. cit., p.330, in questo senso vedi anche SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE,<br />
op. cit., p. 179: “La tolleranza viene interrotta con un atto di citazione (o con un‟azione<br />
penale). Non mi pare invece che una lettera di diffida, o una diffida stragiudiziale, siano<br />
sufficienti. Esse non mostrano una volontà inequivoca di opporsi all‟uso del segno successivo.<br />
Anche se formulate in modo severo possono sempre dar luogo ad accordi”; in questo senso,<br />
inoltre,vedi Cass. Sez. Un., 1 luglio 2008, n. 17927, in Riv. dir. ind. 2009, p.254: “La<br />
contestazione deve manifestarsi con un‟iniziativa giudiziaria (una causa di nullità o di<br />
contraffazione o un ricorso cautelare per l‟inibitoria dell‟uso del marchio) nei confronti del<br />
titolare del marchio posteriore, non sono sufficienti contestazioni manifestate in altro modo, ad<br />
esempio tramite diffide”.<br />
40 VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.197 “Tale espressione deve essere interpretata nel<br />
senso che “il legislatore abbia voluto in particolare attirare l‟attenzione sulla necessità, perché<br />
la sanatoria operi, che al momento del deposito della domanda del marchio successivo il<br />
19
La ratio della norma può essere individuata nella tutela<br />
dell‟affidamento consapevolmente generato nel terzo,<br />
affidamento di cui si è reso responsabile il titolare originario del<br />
marchio attraverso una cosciente inerzia nel reagire. Infatti,<br />
trascorsi cinque anni dal momento della conoscenza dell‟uso<br />
illegittimo altrui del proprio marchio, la tardiva reazione del<br />
registrante anteriore viene considerata come manifestazione della<br />
volontà di impadronirsi del valore di avviamento insito nel<br />
marchio posteriore.<br />
Ritornando al rapporto tra convalidazione e comunione di<br />
marchio, a parere di chi scrive, l‟intuizione di Francesco<br />
Rampone è pienamente condivisibile perché, effettivamente,<br />
dopo la consolidazione del marchio, potranno vantare un‟<br />
esclusiva sul medesimo segno distintivo due diversi soggetti,<br />
ambedue legittimi titolari, cioè il titolare del marchio convalidato<br />
e il titolare originario del segno distintivo. Si ritiene che un<br />
limite alla configurabilità della fattispecie sia rappresentato dal<br />
divieto di uso decettivo del marchio, infatti, se il marchio diventa<br />
idoneo ad indurre in inganno il pubblico, esso decade ai sensi<br />
dell‟art. 14.2 lett. a) CPI.<br />
richiedente non conoscesse l‟esistenza del marchio o del preuso anteriore, ovvero, pur<br />
essendone a conoscenza, ritenesse senza sua colpa che fra i due segni non sussistesse<br />
confondibilità o che fra i rispettivi prodotti o servizi non vi fosse affinità. La prova della mala<br />
fede sarà a carico di chi agisca per la nullità del marchio successivo; e sembra che una mala<br />
fede sopravvenuta dopo il deposito della domanda, e durante il quinquennio d‟uso, non sia di<br />
ostacolo alla convalida.”<br />
20
1.2.3Comunione di marchio derivata e cessione parziale del<br />
marchio<br />
“Un caso di contitolarità incidentale è dato dall‟ipotesi di<br />
cessione parziale per territorio di un marchio registrato. Sebbene<br />
qualcuno abbia escluso la legittimità di tali trasferimenti perché<br />
intrinsecamente decettivi, identificando due fonti produttive<br />
autonome con lo stesso segno, tali trasferimenti non<br />
condurrebbero necessariamente alla nullità del marchio se solo si<br />
considerasse che non di titolarità plurima si tratta, quanto di<br />
contitolarità, ovvero costituzione volontaria di comunione.<br />
Naturalmente una tale ricostruzione è possibile solo quando la<br />
cessione parziale riguardi gli stessi prodotti o servizi sui quali il<br />
cedente si riserva la contitolarità, e non quando la cessione<br />
investa prodotti o servizi diversi. In quest‟ultimo caso l‟effetto<br />
della cessione non sarebbe la contitolarità, ma un frazionamento<br />
dell‟originario diritto del cedente.” 41 Anche altra dottrina ragiona<br />
in termini di contitolarità e non di titolarità plurima. 42 Prima di<br />
analizzare la tesi di Rampone si ritiene opportuno delineare<br />
brevemente i contorni dell‟istituto della cessione del marchio<br />
partendo dal disposto dell‟art 23 CPI, soprattutto per valutare<br />
l‟ammissibilità del trasferimento parziale del marchio avente ad<br />
oggetto beni affini o del trasferimento territoriale parziale 43 .<br />
L‟art. 23 CPI recita: “1. Il marchio può essere trasferito per la<br />
41 RAMPONE, op. cit., p.112<br />
42 VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.256 “Se dunque la cessione parziale avrà per oggetto<br />
il marchio con riferimento a prodotti affini a quelli per i quali il cedente ne conserva la<br />
titolarità, si determinerà una situazione analoga a quella di una contitolarità di uno stesso<br />
marchio da parte di imprenditori diversi”; UBERTAZZI, op. cit., p.306 “Non necessariamente<br />
il frazionamento determina il sorgere di diritti autonomi e quindi potenzialmente confliggenti,<br />
ma si può anche ipotizzare il sorgere di una comunione di uno stesso diritto e quindi il sorgere<br />
di facoltà d‟uso necessariamente armonizzate”.<br />
43 UBERTAZZI, op. cit., p.307,”La cessione territoriale parziale del marchio non può essere<br />
accolta poiché il sistema economico è caratterizzata da forme pubblicitarie a diffusione<br />
nazionale, poiché la mobilità dei consumatori la renderebbe sicuramente fonte di confusione e<br />
poiché il frazionamento territoriale ammesso dalla legge per disciplinare i rapporti tra marchio<br />
registrato e di fatto rappresenta un‟ eccezione al sistema”.<br />
21
totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato<br />
registrato. (…) 4. In ogni caso, dal trasferimento e dalla licenza<br />
del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei<br />
prodotti o servizi che sono essenziali nell‟apprezzamento del<br />
pubblico”. Non ci sono dubbi sulla legittimità del trasferimento<br />
parziale che ha ad oggetto beni non affini, invece ci sono<br />
contrastanti opinioni nel caso in cui lo stesso si riferisca a beni<br />
affini. Secondo un orientamento dottrinale, 44 il tipo di cessione<br />
in questione darebbe luogo ad una divisione estrema del<br />
marchio, operazione che se fosse realizzata attraverso contratti<br />
di licenza sarebbe considerata legittima in quanto il licenziante<br />
manterrebbe la titolarità del marchio e con essa la possibilità di<br />
controllare che i licenziatari si attengano a regole comuni, ma se<br />
fosse posta in essere attraverso un contratto di cessione parziale,<br />
avente ad oggetto beni affini, o per territorio sarebbe illegittima<br />
perché il cedente perderebbe ogni forma di controllo sul<br />
cessionario e si verificherebbe un uso decettivo del marchio che<br />
conduce alla decadenza. Per l‟orientamento prima citato “Nel<br />
caso del trasferimento ciascuna impresa diviene titolare del<br />
marchio risultante dal frazionamento limitatamente alle classi di<br />
sua pertinenza e può quindi sfruttarlo in piena autonomia dalle<br />
altre. Se il trasferimento parziale avesse ad oggetto un marchio<br />
registrato per prodotti affini, esso non rispetterebbe la condizione<br />
di esclusività e pertanto dovrebbe ritenersi illegittimo – e, quindi,<br />
invalido- l‟atto di disposizione del marchio registrato per<br />
prodotti affini a quelli che restano registrati a nome del cedente<br />
oppure vengano trasferiti ad altro soggetto. Inoltre, l‟uso del<br />
medesimo marchio per prodotti affini ad opera di soggetti<br />
economicamente indipendenti può ritenersi vietato dall‟art. 23.4<br />
44 RICOLFI, in AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit.,<br />
p141ss<br />
22
CPI e condurre alla decadenza. Per la stessa ragione è da<br />
ritenersi che il trasferimento del marchio non possa concernere<br />
una zona geografica territorialmente limitata all‟interno dello<br />
Stato italiano” 45 . Anche altri sono d‟accordo nel negare la<br />
legittimità della cessione parziale per prodotti affini ma<br />
contemperano questa conclusione “ con una nozione di affinità<br />
fra i prodotti che tenga conto della crescente specializzazione<br />
produttiva, nota al pubblico,e che può indurre a ritenere fra loro<br />
non affini prodotti che da un punto di vista soltanto<br />
merceologico potrebbero dirsi tali.” 46<br />
Secondo un‟ altra posizione dottrinale, invece, “la cessione deve<br />
avere ad oggetto un‟intera categoria di prodotti affini per<br />
escludere la coesistenza, in capo a soggetti diversi, di marchi fra<br />
loro interferenti”. 47<br />
A parere di chi scrive, la cessione del marchio può essere<br />
considerata fatto costitutivo di una comunione derivata se, dopo<br />
aver ammesso la liceità del trasferimento del marchio avente ad<br />
oggetto beni affini o del trasferimento territoriale parziale, si<br />
pensa ai diritti autonomi che nascono dal frazionamento del<br />
segno distintivo non come “potenzialmente confliggenti tra loro<br />
ma come facoltà d‟uso necessariamente armonizzate” 48 cioè se si<br />
interpreta il risultato del frazionamento “in termini di comunione<br />
45 RICOLFI, in AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit.,<br />
p141ss; nello stesso senso, inoltre, SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p.166,<br />
“Nell‟ipotesi di cessione parziale, la titolarità del marchio si sdoppia tra il cedente (per i<br />
prodotti o servizi per i quali il segno non è stato ceduto) e il nuovo titolare. Si pone, però, un<br />
problema di limitazione della frazionabilità del marchio: a rigore , la cessione dovrebbe avere<br />
ad oggetto solo prodotti tra loro non omogenei: in caso contrario,si avrebbero due titolari del<br />
medesimo marchio per gli stessi prodotti, con ovvi problemi di confondibilità.<br />
46 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.257<br />
47 SENA,op. cit., p174<br />
48 Vedi nota 39<br />
23
e non di titolarità plurima che si pone in contrasto con la facoltà<br />
di far uso esclusivo del marchio ex art. 20 CPI.” 49<br />
49 RAMPONE, op. cit., p.114<br />
24
1.3 Ammissibilità della comunione<br />
Parlare di ammissibilità della comunione di marchio significa parlare<br />
della “possibilità di ritenere conforme al sistema normativo che un<br />
unico marchio d‟impresa sia proprietà di imprenditori diversi, titolari<br />
di imprese diverse, che lo utilizzano ciascuno per i prodotti della<br />
propria azienda,” 50 significa rispondere all‟ interrogativo se la<br />
disciplina della comunione possa considerarsi adeguata a garantire il<br />
rispetto degli interessi collettivi (il diritto dei consumatori ad una<br />
scelta consapevole e a non essere ingannati), consentendo comunque<br />
il legittimo godimento del bene da parte dei titolari. La<br />
configurabilità della suddetta possibilità ha dato luogo ad un intricato<br />
nodo interpretativo che analizzeremo tenendo distinti i periodi<br />
antecedente e successivo l‟entrata in vigore del D. Lgs. n.480/1992 e<br />
le correlate posizioni della giurisprudenza e della dottrina. Per<br />
quanto riguarda le posizioni della giurisprudenza e della dottrina<br />
prima della riforma del 1992, tra le prima pronunce giurisprudenziali<br />
che ammettono la contitolarità del marchio ricordiamo la sentenza 4<br />
aprile 1941 attraverso la quale la Corte di Cassazione affermava che<br />
“Il marchio può costituire l‟oggetto di concorrenti facoltà di<br />
godimento, in un regime di comproprietà, regolato dal rapporto<br />
stesso che la istituisce, o eventualmente dal giudice; né osta a tale<br />
regime di comproprietà l‟indivisibilità del marchio, quando le<br />
rispettive facoltà di uso siano regolate in modo che quelle riservate<br />
ad uno dei condomini non ledano agli interessi dell‟altro.” 51 La Corte<br />
ammetteva pacificamente la comunione del marchio e faceva<br />
rimando alla disciplina della comunione civilistica sic et simpliciter,<br />
trattando il “bene marchio” alla stregua di un bene materiale comune<br />
che, con l‟unica limitazione di non ledere il diritto degli altri<br />
comunisti, doveva e poteva essere nella libera disponibilità del<br />
50 DI CATALDO, op. cit., p.7<br />
51 Cass., 4 aprile 1941, in Giur. it., 1941,I, p.385ss.<br />
25
titolare della quota, il quale non decadeva in alcun modo dal proprio<br />
diritto anche qualora ne avesse fatto un uso lesivo del diritto altrui.<br />
L‟ orientamento della giurisprudenza mutò sotto la vigenza del<br />
nuovo codice civile e, soprattutto, della legge marchi del 1942, che<br />
prevedeva la circolazione del marchio vincolata al trasferimento<br />
dell‟azienda o di un ramo di essa. Le sentenze di merito che<br />
seguivano la pronuncia del 1941 escludevano l‟ammissibilità della<br />
comunione del marchio perché ritenuta in contrasto, vuoi con la<br />
funzione distintiva e con l‟esclusività dell‟uso per prodotti<br />
provenienti da un‟ unica impresa considerata essenziale alla prima,<br />
vuoi con il divieto di inganno del pubblico. 52 “Nei primi anni ‟70, la<br />
giurisprudenza nuovamente mutava il proprio convincimento sulla<br />
problematica. 53 Rifacendosi all‟antico orientamento della<br />
Cassazione, essa si ispirava ad una maggiore autonomia contrattuale<br />
delle parti contitolari del segno. Vi è da dire che scarsi erano i casi in<br />
cui la questione si delineava e, quindi, difficilmente si poteva<br />
assistere ad una maturazione delle posizioni che tenessero conto<br />
dell‟evoluzione della realtà sociale. Tuttavia, come se non fossero<br />
passati decenni, la contitolarità del marchio veniva sempre ritenuta<br />
ammissibile e regolabile come se si trattasse di un bene materiale in<br />
comunione tra più proprietari. Successivamente ed a ridosso della<br />
riforma del 1992, la giurisprudenza affinava le proprie convinzioni<br />
avvicinandosi maggiormente all‟interesse espresso della tutela del<br />
pubblico dei consumatori. “La Direttiva 89/104/CE (della quale la<br />
52 Cfr. App. Milano, 24 ottobre 1958, in Riv. dir. ind., 1959, II,p.291; Trib. Milano 18 gennaio<br />
1962, in Riv. dir. ind, 1963, II, p274; secondo la prima delle sentenze citate “Una comunione<br />
del diritto di marchio non è concepibile altrimenti che nel senso tradizionale, come<br />
utilizzazione collettiva del segno da parte di una pluralità di soggetti in una comunione<br />
d‟impresa.” Per la seconda delle sentenze citate, non sembra concepibile “una comunione o<br />
contitolarità su brevetti per marchi d‟impresa, sembrando questa una contraddizione in termini,<br />
se si considera appunto che il marchio è destinato a contraddistinguere i prodotti di una singola<br />
impresa per la qualità che essi hanno e per la fiducia che il pubblico dei consumatori vi<br />
attribuisce e verrebbe meno appunto nella sua funzione se potesse contraddistinguere prodotti<br />
di un numero indefinito di imprese”.<br />
53 Ammette la comunione di marchio Trib. Napoli, 26 febbraio 1973, in Riv. dir. ind., 1977, II,<br />
p.229ss.<br />
26
iforma del 1992 è attuazione) era già nota da tre anni, sicché i<br />
giudici, non si limitavano ad affermare l‟ammissibilità della<br />
comunione di marchio e la contemporanea salvaguardia dei diritti<br />
degli altri comunisti e del singolo contitolare, bensì si preoccupavano<br />
di specificare anche la modalità di fondo del couso.” 54 La sentenza<br />
del Tribunale di Milano dell‟ 11 giugno 1992 disponeva: “La<br />
contitolarità in capo a più soggetti dello stesso marchio, di per sé,<br />
non è incompatibile con la tipica funzione distintiva del marchio. Per<br />
l‟ammissibilità di una comunione di questo genere occorre la<br />
sussistenza di una gestione concertata della cosa comune (marchio),<br />
che sia tale da evitare inganni nei confronti dei consumatori. Fra le<br />
imprese contitolari deve esistere una forma di adeguato collegamento<br />
ed i prodotti realizzati devono essere fabbricati con un procedimento<br />
analogo e risultare provvisti di caratteristiche uguali, sulla base di<br />
scambi di assistenza o informazioni.” 55 Per quanto riguarda la<br />
dottrina, ad un estremo si ponevano quegli Autori che non<br />
sembravano vedere ostacolo alcuno né limite alla possibilità che un<br />
marchio appartenesse in comunione a più imprenditori 56 ; all‟altro<br />
estremo si collocava chi negava in modo assoluto tale possibilità; 57<br />
su posizioni intermedie, invece, la maggioranza della dottrina<br />
riteneva possibile la comunione del marchio, ma a condizione che i<br />
contitolari gestissero in comune anche l‟impresa o esercitassero<br />
imprese economicamente collegate. 58 Secondo un Autore, “la<br />
contemporanea utilizzazione di un marchio da parte di più imprese<br />
economicamente collegate era riconosciuta già dall‟art.5 C 3 del<br />
54DONATO, La contitolarità del marchio. Uso plurimo dei segni distintivi, autonomia privata<br />
e tutela del consumatore, , Avellino, 2007,p.50<br />
55 Cfr. Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995.p. 921ss<br />
56GRECO, I diritti sui beni immateriali,Torino, 1948,p.104; GUGLIELMETTI, op. cit., p.185<br />
57 SCHEGGI, Concorrenza, trust, crisi,Napoli, 1954, p.96<br />
58 FRANCESCHELLI, Utilizzazione di marchi identici da parte di imprese collegate, in Studi<br />
riuniti di diritto industriale, Milano, 1959,p.190ss<br />
27
testo di Londra (1934) della Convenzione di Unione di Parigi” 59<br />
secondo il quale “l’ emploi simultané de la même marque sur des<br />
produits identiques ou similaires, par des établissements industriels<br />
ou commerciaux considérés comme copropriétaires de la marque d’<br />
après les dispositions de la loi nationale du pays où la protection est<br />
réclamée, n’empêchera pas l’ enregistrement” 60 . L‟ Autore citato<br />
afferma che “ l‟ oggetto del diritto al marchio si presenta come una<br />
cosa immateriale, analoga a quella che forma oggetto del diritto<br />
d‟autore o d‟inventore (e per le quali la possibilità di una comunione<br />
è espressamente sancita: art. 20 R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 per le<br />
privative industriali, art. 10 della l. 22 aprile 1941, n. 633 per il<br />
diritto d‟autore) e per di più indivisibile, sicché l‟ipotesi di una<br />
titolarità plurima contemporanea, che non si può a priori escludere, si<br />
realizza necessariamente sottoforma di comunione.” 61 L‟intricato<br />
nodo interpretativo cui abbiamo fatto riferimento all‟inizio di questo<br />
paragrafo, inizia a sciogliersi dopo la riforma del 1992, cioè dopo<br />
l‟abrogazione del regime di circolazione vincolata del marchio che<br />
“aveva costituito (o, quanto meno, che era stato visto come) il più<br />
serio ostacolo all‟ammissibilità di comunione e couso di marchio.” 62<br />
La contitolarità di marchio non veniva più soltanto ammessa ma<br />
affermata con maggiore vigore: “Pare opportuno precisare, per<br />
escludere il dubbio adombrato di un vuoto di normativa ed altresì in<br />
considerazione della funzione nomofilattica della Corte Suprema,<br />
che non può dubitarsi della possibilità di una comunione sul<br />
marchio, analogamente a ciò che la giurisprudenza ha chiarito in<br />
tema di brevetto per invenzione. Ciò (…) anche in considerazione di<br />
59FRANCESCHELLI, Saggio sulla cessione del marchio, in Studi riuniti di diritto industriale,<br />
Milano,1959, p. 142<br />
60 L‟uso simultaneo dello stesso marchio su prodotti identici o simili, da parte di stabilimenti<br />
industriali o commerciali, considerati come comproprietari del marchio secondo le disposizioni<br />
della legge nazionale del paese in cui è richiesta la protezione, non deve impedirne la<br />
registrazione.<br />
61 FRANCESCHELLI, op. cit., p.143<br />
62 DI CATALDO,op. cit., p.8<br />
28
iferimenti positivi nella disciplina del marchio europeo.<br />
Espressamente, infatti, l‟art. 1 punto 4) del regolamento di<br />
esecuzione del marchio europeo prevede la presentazione della<br />
domanda di registrazione da parte di più titolari e la possibilità della<br />
nomina di un rappresentante, mentre l‟ art. 16 punto 3) del<br />
regolamento menziona la contitolarità per la iscrizione di più persone<br />
nel registro apposito.” 63 La dottrina affermava quindi la sicura<br />
ammissibilità di comunione e couso di marchio. 64<br />
63 Cfr. Cass., 9 marzo 2001, n. 3444, in Giur. It., 2001<br />
64 In questo senso: SENA,op. cit.,p.88; DI CATALDO,op. cit., p8; PETTITI, op. cit., p.52<br />
29
1.4 Limiti e condizioni della fattispecie<br />
Risolto positivamente il problema dell‟ammissibilità della comunione di<br />
marchio è necessario riflettere sul fatto se il diritto vigente ponga alla<br />
fattispecie limiti o condizioni. “In assenza di regole e limiti dettati<br />
specificatamente per la comunione di marchio, si deve porre a confronto<br />
la fattispecie con le regole e i limiti di carattere generale. E‟ certo anche<br />
che l‟uso del marchio comune dovrà rispettare quello che, nel nuovo<br />
sistema è il dato centrale del diritto di marchio: il divieto di uso<br />
ingannevole del marchio (…) L‟uso del marchio comune dovrà svolgersi<br />
in modo che il pubblico non venga a trovare segnati con lo stesso<br />
marchio prodotti merceologicamente identici, ma sostanzialmente<br />
differenti, e cioè prodotti la cui qualità presenti sbalzi che il pubblico, per<br />
quel tipo di prodotto, considera rilevanti. La fattispecie della comunione<br />
del marchio sarà perciò legittima se (e soltanto se ) l‟uso del marchio<br />
comune si svolge nel rispetto di questo principio.” 65 Secondo un<br />
indirizzo dottrinale “la tutela del pubblico è un principio cardinale in<br />
tutta la dottrina dei marchi, sia considerati nella loro funzione, sia nel<br />
momento dinamico del loro trasferimento pieno o no. Un principio (…)<br />
che non potrà mai venir meno ove non si voglia trasformare i marchi da<br />
segni distintivi in segni di confusione di prodotti. (…) Così, la<br />
convenzione di Parigi, nel testo di Londra, là dove ammette l‟impiego<br />
simultaneo del marchio da parte di più imprese collegate (art. 5 c.3), lo<br />
condizione al fatto que ledit emploi n’ait pas pour effet d’ induire le<br />
public en erreur”. 66<br />
Concorde sull‟ importanza degli interessi dei consumatori nell‟ipotesi di<br />
contitolarità del marchio e uso plurimo dello stesso è un Autore, secondo<br />
il quale “poiché, infatti, il marchio può appartenere a più soggetti e,<br />
almeno in linea di principio, i contitolari possono egualmente far uso del<br />
65 DI CATALDO, op. cit., p. 10<br />
66 FRANCESCHELLI, op. cit., p. 146<br />
30
medesimo segno contemporaneamente, ci si potrà bene rendere conto di<br />
come questa ipotesi, ben più sensibilmente di altre, si presta a violare le<br />
norme poste a salvaguardia del diritto dei consumatori ad una scelta<br />
consapevole ed a non essere ingannati. 67 Ciò, naturalmente, non vuol dire<br />
che lo stato di contitolarità del marchio- sia esso originario o successivo<br />
rispetto alla registrazione- di per sé determini confusione presso il<br />
pubblico, bensì, ad avviso di chi scrive, rivela che la contitolarità del<br />
segno necessita di un più alto livello di guardia”. 68 Posto che il problema<br />
è quello di conciliare la possibile contitolarità del marchio con il rispetto<br />
del principio che vieta l‟uso ingannevole del marchio, 69 occorre<br />
individuare degli strumenti che garantiscano il corretto uso del marchio,<br />
ad esempio, un “regolamento” imperativo per i condomini, il quale fissi<br />
67Non essendo questa la sede per un‟ampia trattazione dell‟argomento della decettività<br />
richiamiamo in nota, per maggiore completezza, il pensiero di TRIGONA, Il marchio, la ditta,<br />
l’insegna, Padova, 2002, p. 150 “Nella decettività sopravvenuta giocano diversi fattori: il<br />
riconoscimento da parte del consumatore del messaggio incorporato nel segno; un<br />
deterioramento della qualità del prodotto , che non sia stato in qualche modo comunicato<br />
all‟esterno (l‟elemento oggettivo della fattispecie), accoppiato a modalità ingannevoli nell‟<br />
utilizzo del segno da parte del titolare (elemento soggettivo). E‟proprio tale sopravvenuta<br />
frattura nella trasparente continuità del messaggio qualitativo del marchio a costituire un danno<br />
potenziale nei confronti del consumatore (…) Sotto l‟aspetto del verificarsi dell‟elemento<br />
soggettivo costitutivo della fattispecie, si ritiene che sia sufficiente che il titolare del marchio si<br />
limiti: a sfruttare un inganno in cui il pubblico è caduto senza esservi stato indotto da<br />
particolari artifici o macchinazioni: la legge infatti dà rilievo anche all‟inganno generatosi dal<br />
contesto in cui il marchio è utilizzato. L‟elemento soggettivo della fattispecie si conferma, a<br />
contrario, nel fatto che un‟adeguata informazione del pubblico, attraverso la comunicazione<br />
commerciale e la pubblicità è in grado di eliminare la potenzialità ingannevole delle variazioni<br />
qualitative del prodotto”.<br />
68 DONATO, op. cit., p.45<br />
69 La violazione di questo principio è sanzionata con la decadenza del marchio ai sensi dell‟art.<br />
14.2 lett. a) , secondo il quale,“ il marchio d‟impresa decade se sia divenuto idoneo ad indurre<br />
in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o dei<br />
servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo<br />
consenso, per i prodotto o servizi per i quali è registrato”; prima dell‟ emanazione del CPI,<br />
l‟ipotesi dell‟uso ingannevole del marchio era contemplata dall‟art.11 l.m. “ Non è consentito<br />
di usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in ispecie, in modo da ingenerare un<br />
rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti<br />
o servizi altrui , o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura ,<br />
qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo o del contesto in cui viene<br />
utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo<br />
di terzi”. Secondo GUSTAVO GHID<strong>IN</strong>I e BIANCA MANUELA GUTIERREZ, Marchio<br />
decettivo e uso decettivo del marchio, in Il dir. ind., n.2/1994 “Anche se l‟art. 11 è sfornito di<br />
sanzione specifica, comunque l‟ipotesi prevista può fondare pur sempre un‟ azione inibitoria ai<br />
sensi delle norme in materia di concorrenza sleale”.<br />
31
convenzionalmente le modalità dell‟uso comune del marchio 70 . Una<br />
parte della dottrina 71 , ritiene questa idea solo in parte corretta, sostenendo<br />
che “quel che occorre, perché vi sia un uso non ingannevole del marchio,<br />
è che l‟uso comune si svolga di fatto in un certo modo: che i prodotti dei<br />
condomini, pur provenienti da imprese diverse, siano privi di differenze<br />
qualitative rilevanti, si presentino cioè al mercato come prodotti<br />
provenienti da una stessa impresa. Non importa, per contro, se vi sia, e<br />
che forma abbia, un regolamento pattizio di tale attività. (…) L‟ esistenza<br />
di un regolamento potrà solo costituire un indice della concertazione<br />
nell‟uso del marchio, dovendosi tuttavia sempre verificare la realtà<br />
fattuale della sua esecuzione”. 72 Secondo un‟altra parte 73 , invece,<br />
“attraverso il richiamo sistematico all‟art. 15, 2° comma, l.m., che<br />
prevedeva espressamente il couso da parte di più licenziatari esclusivi,<br />
purché essi si obbligassero ad utilizzare il marchio per contraddistinguere<br />
prodotti aventi caratteristiche uguali e predeterminate, ammette la<br />
comunione di marchio fra imprese indipendenti purché la domanda di<br />
registrazione sia accompagnata da un accordo di cooperazione, in base al<br />
quale i contitolari del marchio si impegnino ad utilizzarli per prodotti<br />
vincolati a un determinato disciplinare comune.” 74 Gli orientamenti<br />
dottrinali citati, concordi sulla necessità dell‟uso concertato del marchio,<br />
sostengono opinioni contrastanti sul grado di formalità dell‟accordo: il<br />
primo guarda alla realtà fattuale della sua esecuzione, il secondo ritiene<br />
necessario un accordo formale. A parere di chi scrive, l‟ inesistenza di un<br />
quadro pattizio formale non esclude che in concreto vi sia un uso<br />
concertato del marchio che consente ai contitolari di rispettare la qualità<br />
della merce già conosciuta, lo standard qualitativo della produzione ergo<br />
gli interessi dei consumatori.<br />
70 In questo senso le sentenze del caso “Fioravanti,” Trib. Milano, 11giugno 1992 e App.<br />
Milano, 20 giugno 1995, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />
71 DI CATALDO, op. cit., p. 10<br />
72 DI CATALDO, op. cit., p. 10<br />
73 SENA, op. cit., p. 126ss<br />
74 SENA, op. cit., p. 126ss<br />
32
1.5 Il couso del marchio<br />
L‟esame della fattispecie della comunione di marchio è stato finora<br />
condotto analizzando l‟aspetto della contitolarità, è ora opportuno<br />
soffermarsi su quello del couso e dei potenziali conflitti che potrebbero<br />
derivare dall‟uso del marchio da parte di più soggetti. Già a proposito dei<br />
limiti della comunione ho chiarito che vige il divieto dell‟uso decettivo<br />
del segno e che per evitare l‟uso ingannevole del marchio in comunione i<br />
contitolari possono adottare un regolamento il quale fissi le modalità di<br />
uso comune del marchio. L‟ art. 6 CPI prevede l‟applicabilità alla<br />
comunione di marchio delle disposizioni del codice civile relative alla<br />
comunione in quanto compatibili; quindi, per quello che qui interessa, si<br />
deve valutare la compatibilità dell‟ art. 1102 c.c., rubricato “Uso della<br />
cosa comune”. La norma in esame prevede che: “1. Ciascun partecipante<br />
può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e<br />
non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il<br />
loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni<br />
necessarie per il miglior godimento della cosa. 2. Il partecipante non può<br />
estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri<br />
partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo<br />
possesso”. Relativamente alla disciplina civilistica della comunione,<br />
Vincenzo Di Cataldo ritiene che: “la ragione di fondo che rende tale<br />
disciplina incapace di regolare la comunione di marchio sia proprio il<br />
fatto che essa non contiene alcuna regola che precisi come ciascun<br />
condomino debba usare il bene comune; laddove, per la comunione di<br />
marchio, l‟imperativo fondamentale è proprio questo, è che l‟uso di<br />
ciascun condomino si svolga in un certo modo, che i condomini svolgano<br />
le proprie distinte attività in modo coordinato. L‟art. 1102 c.c., infatti,<br />
non detta regole di ordine sostanziale, non precisa in alcun modo le<br />
modalità dell‟uso. Viceversa, la comunione di marchio esige una<br />
disciplina materiale dell‟attività comune, che non è l‟attività di uso del<br />
33
marchio, ma è, invece, l‟attività d‟impresa; esige che i condomini<br />
procedano in un certo modo (non all‟uso del marchio in sé, ma) alla<br />
propria attività di fabbricazione e commercializzazione del prodotto.” 75<br />
Circa l‟uso della cosa comune, un altro Autore osserva che “nel caso del<br />
marchio, l‟utilizzazione indipendente da parte di ciascun titolare (…)<br />
interferirebbe con l‟uso dello stesso marchio da parte degli altri<br />
partecipanti alla comunione; non può quindi trovare applicazione nella<br />
nostra materia il principio della libera utilizzazione plurima della cosa<br />
comune. L‟uso del marchio in comunione deve essere unitario, cioè<br />
limitato ad un solo soggetto, od eventualmente un uso plurimo, ma<br />
coordinato, quasi si trattasse della sua utilizzazione da parte di un‟unica<br />
impresa”. 76 Secondo altra dottrina,“lo sfruttamento da parte di ciascun<br />
contitolare deve essere condotto secondo uno standard qualitativo, che<br />
eviti l‟ inganno circa i caratteri (essenziali nell‟apprezzamento del<br />
pubblico) dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio comune e che<br />
presuppone una concertazione, quantomeno implicita, tra i medesimi<br />
partecipanti alla comunione, finendo così per rendere ciascuno di questi<br />
controllore dell‟attività degli altri. Occorre che i prodotti o servizi, pur<br />
provenendo da imprese diverse , siano privi di differenze qualitative<br />
rilevanti, a pena di decadenza.” 77<br />
Personalmente condivido l‟orientamento di Di Cataldo e, quindi, l‟idea<br />
che l‟art. 1102 c.c. sia inadatto ad indirizzare i contitolari del marchio<br />
sulle modalità di uso del segno dal momento che “il punto nodale della<br />
comunione di marchio attiene alla precisazione delle modalità di<br />
fabbricazione e/o commercializzazione del prodotto, operazioni che in<br />
senso proprio non sono modalità di uso del bene comune marchio.” 78 In<br />
questo senso si esprimono anche la sentenza del Tribunale di Milano<br />
dell‟ 11 giugno 1992, a mente della quale,“Fra le imprese interessate<br />
75 DI CATALDO, op. cit.,p. 12<br />
76 SENA, op. cit., p. 127<br />
77 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE,op. cit., p. 88<br />
78 DI CATALDO,op. cit., p. 12<br />
34
(dalla comunione di marchio) deve esistere una forma di adeguato<br />
collegamento, ed i prodotti realizzati devono essere fabbricati con un<br />
procedimento analogo e risultare provvisti di caratteristiche uguali o<br />
analoghe, sulla base di scambi di assistenza e informazioni” 79 e una parte<br />
della dottrina secondo la quale “poiché non è possibile un‟ utilizzazione<br />
del marchio che sia indipendente dall‟attività produttiva, ne consegue che<br />
la comunione del marchio in tanto è ammissibile in quanto esistano dei<br />
rapporti tra i comunisti che regolino lo svolgimento di tale attività.(…)<br />
Certamente bisogna escludere che il regime della comunione sia idoneo<br />
da solo a dar vita a quella regolamentazione dell‟uso del marchio e della<br />
relativa attività produttiva che è necessaria per fare del marchio il<br />
simbolo di un‟attività produttiva unitaria.” 80<br />
79 Cfr. Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />
80 AUTERI, op. cit., p. 392 ss<br />
35
1.6 Disciplina civilistica della comunione :analisi dell’applicabilità alla<br />
comunione di marchio degli artt. 1100 c.c. ss.<br />
Chiarito che cosa debba intendersi per marchio in comunione, occorre<br />
individuare le modalità di sfruttamento dello stesso, ossia la sua<br />
disciplina regolatrice. A questo fine l‟art. 6 CPI rinvia alle disposizioni<br />
del codice civile relative alla comunione in quanto compatibili senza<br />
fornire alcuna indicazione da seguire in questo giudizio sulla<br />
compatibilità. Nel trattare quest‟ultimo tema intendo analizzare gli<br />
orientamenti dottrinali antecedenti e successivi all‟ entrata in vigore nel<br />
2005 del CPI, ossia al formale riconoscimento legislativo della<br />
comunione di marchio e del rinvio alla disciplina civilistica della<br />
comunione per la regolamentazione del nuovo istituto 81 . Proprio perché i<br />
due orientamenti studiano l‟istituto della comunione di marchio in due<br />
momenti storici diversi, essi si collocano su due fronti contrapposti, ma<br />
entrambi ricchi di spunti di riflessione. In merito all‟applicabilità alla<br />
comunione di marchio degli artt. 1100 c.c. ss., la dottrina antecedente<br />
all‟entrata in vigore del CPI ritiene che gli artt. 1100 c.c. ss. siano del<br />
tutto inapplicabili ai segni distintivi, mentre quella successiva, sebbene<br />
ritenga che “la disciplina della comunione di marchio necessiti, più di<br />
qualsiasi altro caso di comunione, che i condomini adottino un<br />
regolamento per supplire alle carenze del codice civile” 82 non propende<br />
per la totale inapplicabilità della disciplina civilistica. La trattazione in<br />
questione sarà condotta analizzando articolo per articolo le norme del<br />
codice civile, evidenziando le particolarità della comunione di un bene<br />
immateriale, 83 quale è quella di marchio, rispetto a quella avente ad<br />
81 Per l‟analisi della comunione di marchio prima del 2005 vedi Di Cataldo, “Note in tema di<br />
comunione di marchio,” in Riv. dir. ind.,1997, pp.5 ss, mentre per la dottrina successiva al<br />
2005 si rinvia a RAMPONE, “Appunti in tema di comunione di marchio d’impresa,” in Riv.<br />
dir. ind., 2009, p.104<br />
82 RAMPONE, op. cit., p.105 nota 9<br />
83 Secondo l‟opinione prevalente la disciplina civilistica è applicabile anche ai diritti su beni<br />
immateriali. Vedi BRANCA, Della Comunione, in Commentario del Codice Civile, a cura di<br />
Antonio Scialoja e Giuseppe Branca, Bologna - Roma, 1972,p.43 ss.; GRECO, I diritti sui beni<br />
36
oggetto una cosa materiale, sulla quale è strutturato l‟istituto recepito dal<br />
codice civile, al fine di individuare le modalità di sfruttamento del<br />
marchio in comunione.<br />
immateriali, Torino, 1948, p.219 ss.; ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni<br />
immateriali, Milano, 1960, p. 597; di opinione contraria è FE<strong>DEL</strong>E, La comunione, in Tratt. di<br />
dir. civ., Milano, 1967, p. 76 ss.<br />
37
1.6.1 Art. 1101 c.c.(Quote dei partecipanti)<br />
L‟art. 1101 c.c. dispone che “1. Le quote dei partecipanti alla<br />
comunione si presumono uguali 84 . 2. Il concorso dei partecipanti,<br />
tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione, è in<br />
proporzione delle rispettive quote.”<br />
Il concetto di quota è legato al fatto che “la consistenza, sulla<br />
medesima cosa, dell‟uguale diritto di più persone si realizza<br />
mediante l‟ideale scomposizione della cosa in una pluralità di<br />
quote. Considerata idealmente la cosa comune si scompone in<br />
tante quote quanti sono i partecipanti: la quota è una sua frazione<br />
ideale, determinata aritmicamente. (…) Essa segna la misura<br />
della partecipazione di ciascuno alla comunione.” 85 Ha senso<br />
parlare di quota per la comunione di marchio? Secondo un<br />
Autore, “la risposta più ragionevole dovrebbe rapportare le quote<br />
alle percentuali di prodotto marcato che ciascun titolare mette in<br />
commercio (anche se non crede che la si possa davvero<br />
proporre). Secondo questa idea, infatti, le quote non sarebbero<br />
mai fisse; la regola che le fissasse sarebbe, o potrebbe essere, in<br />
conflitto con la normativa antitrust; e l‟entità di ciascuna quota<br />
sarebbe esposta a variazioni per effetto del comportamento degli<br />
altri contitolari. (…) Se questo ordine di idee viene condiviso, si<br />
può negare che si tratti di comunione, o affermare che di<br />
84 Secondo BRANCA, op. cit., p. 47 “Il 1° comma è sostanzialmente immutato rispetto al<br />
codice civile del 1865. Le parole “fino a prova contraria", che figuravano in questo, non sono<br />
state riprodotte per brevità e perché erano superflue. Che la cosiddetta presunzione di<br />
uguaglianza delle quote sia ancora iuris tantum e perciò ammetta la prova contraria, è principio<br />
intuitivo”.<br />
85 GALGANO, op. cit., p.552; Secondo SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p. 87 “La<br />
quota è la partecipazione ad un diritto comune, che può fornire un criterio oggettivo per la<br />
ripartizione del godimento solo in quanto i partecipanti alla comunione lo abbiano<br />
espressamente e volontariamente stabilito (e regolato): dunque, quando il godimento rimane<br />
indifferenziato o promiscuo la quota di partecipazione offre un‟indicazione quantitativa a<br />
specificazione del criterio che impone a tutti di servirsi della cosa civiliter, criterio di reciproco<br />
rispetto la cui inosservanza concreta un abuso verso gli altri partecipanti”.<br />
38
comunione si tratta, ma comunione “a mani unite” 86 ; e però in<br />
entrambi i casi la disciplina della comunione civilistica (che<br />
certo non è “a mani unite”) non sarebbe direttamente<br />
applicabile.” 87 Per un altro Autore 88 , l‟indirizzo dottrinale prima<br />
citato, “benché condivisibile, non comporta necessariamente<br />
l‟abbandono delle norme codicistiche le quali, sebbene in tema<br />
di comunione adottino per lo più una prospettiva romanistica,” 89<br />
dopo essere state filtrate dall‟interprete, possono essere applicate<br />
alla comunione di marchio; infatti, a suo avviso, “la quota è la<br />
misura del diritto spettante a ciascuno ed è tradotta in termini di<br />
volume o tipo di prodotti ed estensione del territorio.” 90<br />
A parere di chi scrive, si può parlare di quota a proposito di<br />
comunione di marchio e, pensando ad una comunione originaria,<br />
questa potrebbe essere calcolata facendo riferimento all‟apporto<br />
di ciascun contitolare alla creazione del marchio per quanto<br />
riguarda il contenuto creativo dello stesso (l‟idea), il valore<br />
estetico (la grafica), le spese di registrazione ecc. La percentuale<br />
calcolata in questo modo, rappresenterebbe la misura della<br />
partecipazione di ciascuno “nei vantaggi quanto nei pesi della<br />
comunione”. Per quanto riguarda invece la comunione derivata<br />
mortis causa, la quota di partecipazione alla comunione<br />
corrisponderebbe a quella testamentaria o legittima; nella<br />
86 DONATO, op. cit., p.65 nota 102 “E‟ pacifico in dottrina e in giurisprudenza che la<br />
comunione disciplinata dagli artt. 1100 e ss. è la comunione di tipo romanistico, caratterizzata<br />
dalla presenza di quote di appartenenza individuali, in cui ciascuno può disporre della propria<br />
quota così come il creditore personale di quest‟ultimo può far espropriare la cosa nei limiti di<br />
tale quota, in quanto elemento del patrimonio individuale del comunista- debitore. a questa<br />
comunione si contrappone la c.d. comunione a mani riunite (Gemeinschaft zur gesamten hand),<br />
istituto tipico del diritto germanico caratterizzato proprio dalla mancanza di quote di<br />
appartenenza individuale del bene comune: in tale forma di contitolarità, di conseguenza, non è<br />
riconosciuto ai singoli compartecipi un diritto suscettibile di disposizione che sia anche oggetto<br />
di responsabilità patrimoniale”.<br />
87 DI CATALDO, op. cit., p.14<br />
88 RAMPONE, op. cit., p. 106, nota 11<br />
89RAMPONE, op. cit., p. 106, nota 11<br />
90 RAMPONE, op. cit., p. 123<br />
39
comunione derivata per atto inter vivos, corrisponderebbe al<br />
valore del corrispettivo pagato dal cessionario.<br />
40
1.6.2 Art. 1102 c.c.(Uso della cosa comune)<br />
Ai sensi dell‟art. 1102 c.c. “1. Ciascun partecipante può servirsi<br />
della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non<br />
impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il<br />
loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le<br />
modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. 2.<br />
Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune<br />
in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a<br />
mutare il titolo del suo possesso”. 91 La norma in questione<br />
sembra far riferimento unicamente all‟uso individuale da parte di<br />
ciascun comproprietario, tralasciando il fatto che il marchio in<br />
comunione è suscettibile di diverse modalità di sfruttamento:<br />
esercizio dei diritti uti singulis ; di concerto tra tutti i contitolari,<br />
sfruttamento che può essere diretto o indiretto (detto anche<br />
negoziale). Per quanto riguarda l‟ esercizio diretto dei diritti uti<br />
singulis, occorre innanzitutto chiarire se un singolo comunista<br />
possa fare del marchio un uso diretto senza il consenso degli altri<br />
contitolari e quindi se l‟art. 1102 c.c. sia compatibile con la<br />
fattispecie della contitolarità del marchio. Per rispondere a<br />
questo interrogativo è opportuno analizzare separatamente i due<br />
commi della norma in esame. Quanto al primo comma, secondo<br />
un indirizzo dottrinale, esso sembra deporre in senso positivo<br />
circa l‟ammissibilità di un uso diretto senza il consenso degli<br />
altri contitolari prevedendo solo un paio di limiti, ovvero il<br />
rispetto della destinazione della cosa comune e della facoltà<br />
degli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro<br />
91 Cfr. Cass. civ., Sez. II, 5 settembre 1994, n. 7652, in Giust. civ. Mass. 1994, p.1129 “l‟<br />
art.1102 c.c. intende assicurare al singolo partecipante, per quel che concerne l‟esercizio del<br />
suo diritto, la maggior possibilità di godimento della cosa comune, nel senso che, purché non<br />
resti alterata la destinazione del bene comune e non venga impedito agli altri partecipanti di<br />
fare parimenti uso del bene, egli deve sentirsi libero di servirsi della cosa stessa anche per fine<br />
esclusivamente proprio, traendo ogni possibilità di utilità, senza che possano costituire vincolo<br />
per lui forme più limitate di godimento attuate in passato dagli altri partecipanti, e può<br />
scegliere, tra i vari possibili usi quello più confacente ai suoi personali interessi”.<br />
41
diritto. In merito al primo limite, l‟indirizzo dottrinale citato,<br />
ritiene che “nel caso di marchio per destinazione non deve<br />
intendersi la funzione distintiva, la quale è connaturata al bene<br />
stesso, bensì il messaggio del marchio, ovvero il significato ad<br />
esso impresso con l‟uso e la pubblicità. (… ) Ogni volta che<br />
l‟utilizzo diretto del marchio da parte di un condomino implichi<br />
una modifica del suo significato, ciò non potrà che essere<br />
deliberato collegialmente; relativamente al secondo limite,(…)<br />
data l‟espressione “secondo il loro diritto” sembrerebbe che,<br />
benché tutti abbiano diritto di utilizzare un marchio comune<br />
direttamente per immettere nel mercato i propri prodotti e<br />
servizi, nessuno di loro possa farlo in misura tale da ostacolare di<br />
fatto l‟ingresso degli altri comunisti nello stesso mercato.” 92 In<br />
conclusione, per la dottrina prima richiamata, non occorre<br />
giungere all‟estrema conseguenza di negare in radice ogni<br />
possibilità di utilizzo indipendente del marchio comune, come<br />
ritiene chi vede nella comunione di beni immateriali<br />
esclusivamente una comunione di tipo germanico o che teme la<br />
polverizzazione dell‟esclusiva, ma si deve ammettere che l‟art<br />
1102 1°comma sia compatibile con la natura trascendente del<br />
marchio. In senso contrario un‟altra parte della dottrina nega la<br />
suddetta compatibilità ritenendo che i limiti ex art. 1102<br />
all‟utilizzazione individuale della cosa comune non sembrino<br />
ben adattarsi al caso della comunione di marchio. Quanto al<br />
limite della destinazione della cosa comune, l‟orientamento<br />
dottrinale ora citato, richiamando il concetto di destinazione<br />
elaborato dal Branca 93 , sostenendo quindi la prevalenza della<br />
volontà dei comunisti sulla naturale destinazione del bene,<br />
constata come “il suddetto limite ben poco vale nell‟ambito della<br />
92 RAMPONE, op. cit., p.120 ss.<br />
42
comunione di marchio dal momento che il principio della<br />
supremazia della volontà dei condomini, ovviamente, mal si<br />
concilia con il sistema dei marchi, dove il segno svolge una o più<br />
funzioni tipiche che difficilmente potrebbero essere travolte dalla<br />
volontà del titolare o dei titolari. (…) Il presupposto della<br />
disciplina codicistica è che il comunista può fare uso della cosa<br />
comune, oltre che della propria quota, liberamente purché non<br />
intacchi la destinazione naturale del bene. Al contrario, il<br />
principio posto alla base della fattispecie della comunione di<br />
marchio richiede che i contitolari si pongano in relazione ad un<br />
limite ulteriore rispetto alla destinazione del bene (il marchio in<br />
comunione), ossia quello di dare vita a prodotti identici, benché<br />
originati da attività aziendali diverse” 94 .<br />
Quanto all‟ ultimo periodo del primo comma, per un Autore,<br />
“occorre innanzitutto distinguere il miglior godimento<br />
contemplato da questo articolo da quello contemplato dagli artt.<br />
1106 e 1108 c. c.. Nel primo caso, infatti, si fa riferimento alle<br />
sole modificazioni che servono al migliore godimento della cosa<br />
da parte del comunista che le compie. Nel secondo caso, invece,<br />
si tratta delle innovazioni che permettono il miglior godimento<br />
da parte di tutti i comunisti e che, perciò, richiedono almeno il<br />
consenso della maggioranza. La ratio di questa distinzione è che<br />
fino a quando un singolo comunista può modificare la cosa<br />
comune senza farne ricadere gli effetti sul patrimonio degli altri<br />
(ovvero senza innovare, ma introducendo mutamenti che<br />
riguardano lui solo e non turbano il godimento pieno dei<br />
compartecipi), la legge glielo permette” 95 . A suo avviso, posto<br />
che un singolo comunista possa modificare il marchio per il<br />
miglior godimento, l‟unica modifica possibile è la registrazione a<br />
94 DONATO, op. cit.,p. 68-69<br />
95 RAMPONE,op. cit., p.124ss.<br />
43
nome di un singolo comunista di un marchio di fatto in comune.<br />
Un altro Autore 96 analizza il problema partendo da una<br />
prospettiva diversa, cioè partendo dal presupposto che i<br />
contitolari del marchio devono rispettare le esigenze di stretto<br />
coordinamento perché sia salvaguardato l‟interesse collettivo (a<br />
suo avviso, questa è la condizione legittimante la comunione).<br />
Su tale basi, ritiene incompatibile con la comunione di marchio<br />
ogni alterazione del suddetto coordinamento, ergo in questo caso<br />
ritiene incompatibili le modificazioni della cosa ad opera del<br />
singolo partecipante, poiché esse consentono, anche se entro<br />
certi confini, la possibilità di apportare delle modifiche al bene.<br />
L‟Autore prima citato afferma che “ se si volesse pensare alle<br />
modificazioni in relazione ai prodotti contrassegnati dal marchio,<br />
magari anche in senso migliorativo, ecco che verrebbe meno la<br />
condizione legittimante di cui abbiamo sempre parlato. Può<br />
accadere, infatti, che una divaricazione sostanziale della qualità<br />
dei prodotti fabbricati e commercializzati dai condomini derivi<br />
dal fatto che uno di essi realizzi un miglioramento della qualità<br />
del proprio prodotto. La variazione in melius realizzata da parte<br />
di uno solo dei contitolari del marchio, può infatti causare le<br />
condizioni di un uso decettivo del segno provocato dal<br />
permanere del prodotto non migliorato nella sfera degli altri<br />
utilizzatori” 97 .<br />
Quanto al secondo comma dell‟art 1102 c.c., Rampone propende<br />
per la sua compatibilità con la natura trascendente dei marchi<br />
affermando che “è sufficiente che ciascun comunista rispetti il<br />
pari diritto degli altri nella misura della quota di ciascuno; entro<br />
96 DONATO, op. cit., p. 71<br />
97 DONATO, op. cit., p. 71<br />
44
tali limiti potrà cedere la quota e concedere licenze sulla<br />
stessa” 98 .<br />
A parere di chi scrive l‟orientamento più condivisibile è quello di<br />
Rampone, dal momento che non può ignorarsi il dato positivo<br />
dell‟art. 6 CPI e si deve cercare, così come fa l‟Autore del quale<br />
abbracciamo la tesi, di adattare la normativa codicistica alla<br />
comunione di marchio.<br />
All‟inizio di questo paragrafo si è fatto riferimento allo<br />
sfruttamento di concerto tra i contitolari del marchio ricordando<br />
che esso può essere diretto o indiretto. Per uso indiretto (o<br />
sfruttamento negoziale) si intende la concessione di uso in<br />
godimento a terzi (o reciproca tra i condomini 99 ); invece, l‟uso<br />
diretto (o sfruttamento produttivo) implica, per la natura stessa<br />
del marchio, lo svolgimento di un‟ attività d‟impresa nell‟ambito<br />
della quale, se svolta collettivamente con altri contitolari del<br />
marchio,” 100 dà luogo ad una società di fatto, ergo trova<br />
applicazione la disciplina societaria. Lo sfruttamento produttivo<br />
richiede delle precisazioni sul rapporto tra società e<br />
comunione 101 . Ogni volta che i contitolari utilizzano il marchio<br />
nell‟ambito di un‟attività d‟impresa comune, allora, essendo<br />
inammissibile la “comunione d‟impresa” 102 , dal momento che il<br />
codice civile contempla, all‟art 2248, 103 unicamente la<br />
98 RAMPONE, op. cit., p.123<br />
99 L‟ammissibilità di una licenza interna alla comunione, e cioè concessa da uno ad altro<br />
contitolare, è fuori discussione tanto più che è stata confermata da Trib. Milano 11giugno<br />
1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />
100 RAMPONE, op. cit., p.118<br />
101 BRANCA, op. cit., p. 18, “Una cosa sarebbe l‟esercizio di un‟ attività produttiva<br />
(comunione d‟esercizio o dinamica, società), altra sarebbe invece il godimento, che si attua<br />
mantenendo un‟attitudine passiva, conservando i beni alla loro destinazione normale<br />
(comunione di godimento o statica, comunione).<br />
102 GALGANO, op. cit., p.568, “Ricorre una comunione d‟impresa quando più persone<br />
utilizzano i beni, dei quali sono comproprietari, esercitando in comune un‟attività d‟impresa e,<br />
tuttavia, fra esse non è intercorso un contratto, quale il contratto di società, diretto a modificare<br />
la condizione giuridica dei beni utilizzati, i quali restano, perciò, beni in comunione”.<br />
103 Art. 2248 c.c. “La comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o<br />
più cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III ( artt. 1100ss.)”.<br />
45
comunione a scopo di godimento, si costituisce una società di<br />
fatto “la cui disciplina regolerà i rapporti tra condomini e<br />
l‟utilizzo del marchio nell‟ambito di un‟attività d‟impresa<br />
comune, ma sopravvive anche la comunione di marchio per<br />
regolare i rapporti tra i comunisti in quanto tali e non in quanto<br />
soci” 104 .<br />
104 RAMPONE, op. cit., p.117; Relativamente ai rapporti tra i comunisti in quanto tali e non in<br />
quanto soci “Le regole della comunione regoleranno i rapporti tra i condomini in merito ai<br />
termini e condizioni entro cui concedere l‟uso dello stesso alla società di fatto nonché, ad<br />
esempio, il diritto di disporre della quota di marchio ex art. 1103 c.c.; oppure il diritto di agire<br />
in giudizio per la conservazione del diritto ex art.1104 c.c.<br />
46
1.6.3 Art. 1103 c.c.(Disposizione della quota)<br />
L‟art. 1103 c.c. dispone che “1. Ciascun partecipante può<br />
disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa<br />
nei limiti della sua quota. 2. (…)”. La norma in esame riguarda il<br />
profilo dello sfruttamento negoziale o indiretto del marchio cioè<br />
gli atti di disposizione della quota e le licenze del titolo che<br />
ciascun contitolare può porre in essere. L‟ applicazione del<br />
principio della libertà di disposizione della quota ex art. 1103<br />
c.c. alla comunione di marchio, suscita la preoccupazione che “le<br />
decisioni di uno solo o di alcuni o anche della maggioranza<br />
possano alterare gli equilibri concorrenziali esistenti tra i<br />
partecipanti alla comunione, favorendo l‟ingresso, a vario titolo,<br />
di terzi nel mercato dello sfruttamento del bene comune” 105 .<br />
Nonostante le suddette preoccupazioni, non si può negare la<br />
lettera dell‟art. 1103 c.c., infatti, per quanto riguarda gli atti di<br />
disposizione della quota, è opinione diffusa che il singolo<br />
comunista possa cedere la propria quota liberamente,<br />
personalmente ritengo che esso possa farlo a favore di uno o più<br />
aventi causa scelto/i anche al di fuori del gruppo dei comunisti.<br />
Ritengo che, una volta ammessa la libera cessione della quota,<br />
non abbia senso discutere se sia consentita soltanto a favore di<br />
un unico avente causa ovvero se il singolo contitolare possa<br />
frazionare liberamente la propria quota tra più aventi causa, dal<br />
momento che i problemi legati alla contitolarità del marchio e<br />
all‟uso plurimo dello stesso restano sempre gli stessi sia che il<br />
numero dei contitolari resti invariato sia che lo stesso aumenti.<br />
Quanto alla scelta dell‟ avente causa o degli aventi causa, ritengo<br />
che anch‟essa debba essere libera cioè nego che in capo agli altri<br />
105 SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE,op. cit., p. 88<br />
47
contitolari ci sia il diritto di prelazione, 106 salvo il caso in cui si<br />
tratti di comunione derivata mortis causa. Alcuni Autori 107<br />
hanno ricavato la sussistenza di tale diritto dal rinvio generale<br />
dell‟ art. 1116 c.c. alle norme in tema di divisione ereditaria e, in<br />
particolare, all‟art. 732 c.c., 108 sul retratto successorio. “Tale<br />
norma, però, oltre ad avere carattere eccezionale, 109 non è<br />
sistematicamente riconducibile alla divisione ereditaria e,<br />
soprattutto, è in contrasto con l‟art. 1103 c.c. che, invece,<br />
stabilisce la libera cedibilità della quota”. 110<br />
Per quanto riguarda la licenza, al fine di stabilire se il singolo<br />
comunista possa “cedere ad altri il godimento della cosa comune<br />
nei limiti della sua quota”, la dottrina maggioritaria 111 riconduce<br />
tale contratto alla figura della locazione e, sulla base del disposto<br />
dell‟ art. 1108.3 c.c., 112 afferma che se la licenza ha durata<br />
ultranovennale occorre il consenso unanime dei comunisti,<br />
mentre se ha durata infranovennale è ritenuta un atto di ordinaria<br />
amministrazione, ergo deve essere concessa con le maggioranze<br />
ex art. 1105 c.c. Altra dottrina 113 distingue tra licenze esclusive e<br />
106 In questo senso SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 89; RAMPONE, op. cit., p.<br />
123 nota 52.<br />
107 Per un ampio dibattito dottrinale sull‟argomento si veda UBERTAZZI, op. cit., p. 183<br />
108 Art. 732 c.c.( Diritto di prelazione) “1. Il coerede, che vuole alienare ad un estraneo la sua<br />
quota o parte di essa, deve notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri<br />
coeredi, i quali hanno diritto di prelazione. Questo diritto deve essere esercitato nel termine di<br />
due mesi dall‟ultima delle notificazioni. In mancanza della notificazione, i coeredi hanno<br />
diritto di riscattare la quota dall‟acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura lo<br />
stato di comunione ereditaria. 2. Se i coeredi che intendono esercitare il diritto di riscatto sono<br />
più, la quota è assegnata a tutti in parti uguali.”<br />
109 In questo senso BRANCA, op. cit., p. 155 “ L‟art. 1103 c.c. non pone altri limiti che quello<br />
della quota al potere di disposizione del singolo compartecipe. Perciò l‟ art. 732 non è<br />
estensibile alla comunione in generale, tanto più che è nato e si è consolidato per ragioni<br />
particolari nella sola comunione ereditaria”; SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 89.<br />
110 RAMPONE, op. cit., p. 123 nota 52.<br />
111; GUIDI, sub art. 20 l. i., in UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza,<br />
terza ed., Padova, 2004, p.1543. Per un ampio dibattito dottrinale sull‟argomento si veda<br />
UBERTAZZI, op. cit., p. 183.,<br />
112 Art. 1108.3 c.c. “E‟ necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o<br />
di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove<br />
anni”.<br />
113 VANZETTI- DI CATALDO, op. cit., p. 370<br />
48
non esclusive, altra 114 ancora abbandona qualunque distinzione e<br />
richiede sempre e comunque l‟ espressione della unanimità dei<br />
consensi da parte dei contitolari. A parere di chi scrive, l‟ art.<br />
1103 c.c. è applicabile alla comunione di marchio e il principio<br />
della libera disposizione della quota da parte del contitolare deve<br />
essere concretamente attuato consentendo a ciascun contitolare<br />
di stipulare contratti di licenza a prescindere dalla volontà degli<br />
altri contitolari. Si ritiene che lo sfruttamento negoziale attuato<br />
mediante i contratti di licenza non alteri le modalità dell‟uso<br />
plurimo del marchio dal momento che il licenziante, attraverso le<br />
clausole del contratto, ha la possibilità di impartire al<br />
licenziatario delle direttive sull‟uso del segno, di controllare che<br />
le stesse vengano attuate e di risolvere il contratto di licenza nel<br />
caso di violazione delle suddette direttive.<br />
114 LEVI, Cenni sulla comunione d’invenzione, in Probl. attuali. dir. ind., Milano, 1977, p. 705<br />
49
1.6.4 Art. 1104 c.c.(Obblighi dei partecipanti)<br />
Ai sensi dell‟art. 1104 c.c.“1. Ciascun partecipante deve<br />
contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il<br />
godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla<br />
maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà<br />
di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”. Secondo<br />
un‟opinione dottrinale, “questa norma implicitamente riconosce<br />
che tutti i partecipanti sono obbligati a conservare e mantenere la<br />
cosa comune idonea al normale godimento secondo la<br />
destinazione impressale dal costituente o dalla maggioranza ex<br />
art. 1108 c.c.”. 115 Per un Autore, le spese funzionali al godimento<br />
della cosa comune “devono essere a carico di tutti non tanto<br />
perché ciascuno beneficia dei vantaggi della cosa (cuius<br />
commoda eius et incommoda) quanto perché (…) è un interesse<br />
della comunione tenere il bene in istato di poter servire. In breve<br />
la norma che commentiamo si limita a dire che a mantenere la<br />
cosa in quello stato e nella sua capacità di godimento sono<br />
obbligati tutti i compartecipi”. 116 A parere di chi scrive, la norma<br />
in esame è sicuramente applicabile alla comunione di marchio<br />
perché in questo contesto è necessaria una disposizione che<br />
individui i soggetti obbligati al pagamento di alcune spese<br />
necessarie, addirittura, all‟esistenza del bene in comunione. Mi<br />
riferisco alle spese necessarie per testimoniare l‟uso del marchio,<br />
quali ad esempio le spese per la pubblicità, le tasse di rinnovo<br />
della registrazione, a quelle necessarie ad evitare l‟uso decettivo<br />
del segno, quali ad esempio quelle per realizzare un uso<br />
concertato del marchio attraverso l‟adozione delle stesse<br />
modalità di fabbricazione e commercializzazione dei prodotti<br />
115 RAMPONE, op. cit., p. 126<br />
116 BRANCA, op. cit., p. 155<br />
50
marcati (il non uso del marchio e l‟uso decettivo dello stesso<br />
sono cause di decadenza).<br />
51
1.6.5 Art. 1105 c.c.(Amministrazione) e Art. 1108 c.c.<br />
(Innovazioni e altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione)<br />
“ La ratio che distingue gli atti di cui agli artt. 1105-1108, è<br />
frutto della tensione che si avverte in tutto il Titolo VII e che<br />
caratterizza le due opposte prospettive con cui considerare il<br />
fenomeno della comunione, intesa come sintesi oppure come<br />
somma delle singole volontà di ciascun partecipante. La<br />
soluzione adottata dal codice è di modulare il grado di<br />
partecipazione collegiale alle decisioni dei comunisti in funzione<br />
della rilevanza dell‟atto da compiere sul bene comune.” 117 L‟art.<br />
1105, 2°comma, infatti, per gli atti di ordinaria amministrazione<br />
stabilisce che le relative deliberazioni devono essere assunte<br />
dalla maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore<br />
delle loro quote, mentre l‟art. 1108 commi 1° e 2°, per le<br />
innovazioni e gli altri atti eccedenti l‟ordinaria amministrazione,<br />
richiede una maggioranza diversa, cioè la maggioranza dei<br />
partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore<br />
complessivo della cosa comune. Quanto alla compatibilità delle<br />
norme in esame con la contitolarità di marchio, un orientamento<br />
dottrinale sostiene che “la disciplina civilistica incontri difficoltà<br />
a gestire anche i momenti organizzativi e procedurali della<br />
comunione di marchio” 118 mentre un altro 119 , cerca di<br />
individuare gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione<br />
relativi alla comunione di marchio al fine di applicare gli articoli<br />
1105 e 1108 c.c. Per l‟orientamento appena citato, sono atti di<br />
ordinaria amministrazione quelli conservativi funzionali ma non<br />
necessari al godimento della cosa comune (in tali atti rientrano<br />
quelli di pianificazione e realizzazione della pubblicità quando<br />
117 RAMPONE,op. cit., p. 129<br />
118 DI CATALDO,op. cit., p. 13<br />
119 RAMPONE,op. cit., p. 129<br />
52
iguardino iniziative diverse quanto a modalità e costi rispetto a<br />
quelle già effettuate in passato senza tuttavia spingersi fino ad<br />
innovare il messaggio), quelli che si limitano alla regolare<br />
gestione del bene comune nonché quelli volti ad una sua più<br />
proficua o più comoda utilizzazione qualora ciò non importi né<br />
innovazione né mutamento della destinazione economica (ad<br />
esempio la cura dei rapporti con i licenziatari, la conclusione di<br />
contratti di licenza infranovennale, l‟ estensione del marchio per<br />
altri servizi o prodotti della stessa specie di quelli già<br />
contraddistinti); sono atti di straordinaria amministrazione, gli<br />
atti che importano innovazione (cioè gli atti che mutano il<br />
contenuto del diritto di esclusiva, ad esempio, la registrazione di<br />
un marchio di fatto nel caso in cui il marchio comune abbia<br />
assunto rinomanza ex art. 20.1c) CPI tale da garantirgli una<br />
protezione ultramerceologica) o che mutano la destinazione della<br />
cosa comune ( cioè gli atti che mutano il messaggio insito nel<br />
marchio). Personalmente condivido la classificazione effettuata<br />
dalla dottrina ora ricordata, ma dubito che gli artt. 1105 e 1108<br />
c.c., anche se ritenuti compatibili con la comunione di marchio,<br />
possano trovare concreta applicazione. Ritengo ad esempio<br />
inapplicabile l‟art. 1105, 4° comma 120 in quanto “ l‟assenza di<br />
accordi tra i condomini per l‟uso comune del marchio, ed a<br />
maggior ragione il rifiuto, da parte di taluno di essi, di addivenire<br />
ad intese del genere, non può certo dare spazio alla creazione di<br />
un regolamento da parte del giudice”. 121 A sostegno di questa<br />
posizione ricordiamo la sentenza del Tribunale di Milano dell‟11<br />
giugno 1992 nella quale si legge “l‟ordine di ottemperare al<br />
120 Art. 1105.4 c.c. “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l‟amministrazione della<br />
cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene<br />
eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all‟autorità giudiziaria. Questa provvede in camera<br />
di consiglio e può anche nominare un amministratore”.<br />
121 DI CATALDO, op. cit., p. 13 ss.<br />
53
principio secondo il quale i partecipanti alla comunione hanno<br />
diritto di concorrere all‟amministrazione della cosa comune e il<br />
dovere di osservare le modalità concordate relative all‟uso del<br />
marchio non può essere adottato dal Tribunale perché riflette un<br />
comportamento generale ed astratto previsto come tale dalla<br />
norma dell‟art 1105 c.c. e non l‟attuazione del diritto nel caso<br />
concreto”. 122<br />
122 Cfr. Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 921ss<br />
54
1.6.6 Art. 1106 c.c.(Regolamento della comunione e nomina di<br />
amministratore)<br />
L‟art. 1106 c.c. prevede che “1. Con la maggioranza calcolata<br />
nel modo indicato nell‟articolo precedente, può essere formato<br />
un regolamento per l‟ordinaria amministrazione e per il miglior<br />
godimento della cosa comune”. Secondo un Autore 123 , le norme<br />
contenute negli artt. 1100 ss. c.c. sono essenzialmente dispositive<br />
pertanto “sono ammissibili anche quei regolamenti della<br />
comunione aventi fonte e meccanismo di formazione più o meno<br />
diversi. Non si contesta e il silenzio del codice non permette<br />
tuttavia di contestare che essi possano essere formati dal<br />
costituente nella disposizione testamentaria con cui si dà origine<br />
alla comunione ereditaria o ovviamente da tutti i compartecipi se<br />
si ecceda l‟ordinaria amministrazione. A parte tali differenze<br />
questi regolamenti hanno in comune di essere destinati, con un<br />
insieme di regole, a disciplinare in futuro l‟ azione dei<br />
compartecipi in merito al bene”. 124 A parere di chi scrive, l‟ art.<br />
1106 è la norma che presenta meno dubbi di compatibilità perché<br />
nella comunione di marchio il coordinamento tra comunisti è<br />
fondamentale e il regolamento in questione rappresenta, appunto,<br />
uno strumento di concertazione nell‟uso del marchio. Già a<br />
proposito del couso del segno ho evidenziato la necessità che i<br />
prodotti marcati abbiano le stesse caratteristiche se si vogliono<br />
evitare ipotesi di inganno del pubblico e l‟idoneità del<br />
regolamento della comunione a soddisfare tale necessità<br />
attraverso la disciplina delle modalità di fabbricazione e<br />
commercializzazione del prodotto. 125<br />
123 BRANCA, op. cit., p. 200<br />
124 BRANCA, op. cit., p. 200<br />
125 In questo senso RAMPONE, op. cit., p. 135; DI CATALDO, op. cit., p.12, il quale accosta<br />
concettualmente il regolamento della comunione di marchio ad un accordo consortile per<br />
organizzare “lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”( art. 2602 c.c.)<br />
55
Quanto all‟esecuzione coattiva del regolamento, personalmente<br />
ritengo che essa sia impensabile dal momento che “il<br />
regolamento punta all‟integrazione dell‟attività di produzione e<br />
commercializzazione del prodotto, esso quindi, con tutta<br />
evidenza, si traduce in tutta una rete di prestazioni di fare, come<br />
tali sicuramente incoercibili”. 126 Nel caso “Fioravanti”, 127 ad<br />
esempio, la domanda degli attori, i quali chiedevano al giudice di<br />
ordinare ai convenuti di ottemperare al principio secondo il quale<br />
tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell‟<br />
amministrazione della cosa comune (art. 1105 c.c.) e il dovere di<br />
osservare le modalità concordate, nella sentenza di primo<br />
grado 128 , è stata respinta con la motivazione prima ricordata a<br />
proposito dell‟inapplicabilità dell‟art. 1105.4 c.c. (vedi p. 46) e,<br />
nella sentenza di appello, 129 è stata parimenti respinta con la<br />
seguente motivazione: “Pur dandosi atto che, nel caso in esame,<br />
non si tratta di astratta enunciazione della volontà legislativa,<br />
stante la documentata controversia in atti, si deve comunque<br />
confermare l‟ improponibilità della domanda, sul rilievo che una<br />
siffatta pretesa non trova nel nostro ordinamento la possibilità di<br />
una tutela coattiva: il regolamento di comunione deve essere<br />
spontaneamente negoziato ed accettato dai comunisti, né può<br />
essere imposto dall‟autorità giudiziaria”.<br />
Un‟ ultima notazione relativa al regolamento della comunione<br />
riguarda la differenza tra questo tipo di accordo e quei contratti<br />
126 DI CATALDO, op. cit., p.15<br />
127 Il caso “Fioravanti” riguarda la controversa titolarità del marchio “Fioravanti.” Il Tribunale<br />
di Milano, nella sentenza dell‟ 11giugno 1992, dichiara che tra i tre fratelli Fioravanti, Mario,<br />
Guido e Corrado, esiste la comunione dell‟omonimo marchio; la Corte d‟Appello di Milano,<br />
nella sentenza del 20 giugno 1995, dichiara la Corrado Fioravanti s.r.l. decaduta dal marchio<br />
comune a decorrere dal 1981 e conferma tutte le altre statuizioni del primo giudice; la Corte di<br />
Cassazione, nella sentenza del 9 marzo 2001, rigetta i ricorsi davanti alla stessa proposti. A<br />
titolo informativo ricordiamo che dal 2008 il marchio “Fioravanti”,a seguito di una cessione,<br />
appartiene in esclusiva al Nuovo Pastificio Italiano s. r. l..<br />
128 Trib. Milano, 11giugno 1992, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 927<br />
129 App. Milano, 20 giugno,1995, in Il dir. ind. n.10/1995, p. 935s<br />
56
noti nella prassi come “accordi di coesistenza”. Secondo un<br />
Autore “questi ultimi non servono a regolare i rapporti tra<br />
condomini, quanto –al contrario- proprio ad evitare che lo<br />
sconfinamento delle attività di diversi imprenditori titolari di<br />
marchi limitrofi porti nel tempo a costituire tra loro una<br />
comunione incidentale di marchio.” 130 La Corte di Cassazione,<br />
tuttavia, nella sentenza 19 ottobre 2004, n. 20472 ha precisato<br />
come detti accordi “possono riguardare anche l‟utilizzazione di<br />
uno stesso marchio, come nell‟ipotesi della comunione di<br />
marchio o dei marchi di gruppo, ovvero nel caso di<br />
frammentazione di un complesso produttivo unitario in una<br />
pluralità di imprese distinte e indipendenti (…)”. Anche se<br />
ritengo applicabili gli accordi di coesistenza alla comunione di<br />
marchio, devo precisare che gli accordi in questione hanno una<br />
natura profondamente diversa da quella del regolamento ex art.<br />
1106 c.c. . “Quest‟ultimo ha infatti natura normativa, frutto di<br />
una potestà regolamentare avente fonte nella legge; laddove gli<br />
accordi di coesistenza hanno natura contrattuale. Ancora, il<br />
regolamento ha efficacia propter rem, l‟ accordo di coesistenza<br />
ha efficacia personale; il regolamento vincola anche la<br />
minoranza dissenziente, l‟accordo di coesistenza vincola solo le<br />
parti che hanno manifestato il loro consenso.” 131 Per coloro che<br />
vedono delle similitudini tra contitolarità del marchio e marchio<br />
collettivo, 132 può essere di qualche interesse evidenziare anche la<br />
differenza tra il regolamento ex art. 1106 c.c. e il regolamento<br />
del marchio collettivo. Il regolamento, nel caso del marchio<br />
130 RAMPONE, op. cit., p. 136<br />
131 RAMPONE, op. cit., p. 137<br />
132 In questo senso DONATO, op. cit., p. 101, “Le due fattispecie, naturalmente ,non sono<br />
identiche; non vi è dubbio, infatti, che molte siano le differenze in atto: innanzitutto la<br />
questione della titolarità.(…) Però in entrambi i casi l‟uso è plurimo e in entrambi i casi si<br />
avverte l‟esigenza che i vari utilizzatori, pur liberi di far uso del segno, non ingenerino<br />
confusione verso il pubblico”.<br />
57
collettivo, è elemento necessario per ottenere la registrazione e<br />
deve prevedere un preciso disciplinare che fissi le modalità<br />
dell‟uso del marchio tra i vari utilizzatori, pena la decadenza dal<br />
diritto. L‟art. 157 CPI, infatti, a pena di irricevibilità della<br />
domanda di registrazione, richiede che unitamente alla domanda<br />
medesima sia allegato il regolamento di cui all‟art. 11 CPI; 133<br />
l‟adozione del regolamento cui fa riferimento l‟ art. 1106 c.c.,<br />
invece, è facoltativa e la norma ora citata non prevede un<br />
contenuto minimo dell‟accordo tra i comunisti né alcuna forma<br />
di controllo sull‟attuazione dello stesso così come avviene per il<br />
marchio collettivo.<br />
133 Art. 11.2 CPI “I regolamenti concernenti l'uso dei marchi collettivi, i controlli e le relative<br />
sanzioni devono essere allegati alla domanda di registrazione; le modificazioni regolamentari<br />
devono essere comunicate a cura dei titolari all'Ufficio italiano brevetti e marchi per essere<br />
incluse tra i documenti allegati alla domanda”.<br />
58
1.6.7 Art. 1111 c.c.(Scioglimento della comunione)<br />
L‟art. 1111c.c. consente ad ogni comunista di chiedere lo<br />
scioglimento della comunione salvo che il giudice imponga una<br />
dilazione (non superiore a cinque anni) ove lo scioglimento<br />
immediato pregiudichi gli altri comunisti; il un patto relativo alla<br />
durata della comunione non potrà comunque impedire lo<br />
scioglimento per un periodo superiore a dieci anni e consente<br />
all‟autorità giudiziaria, se gravi circostanze lo richiedono, di<br />
ordinare lo scioglimento della comunione prima del tempo<br />
convenuto. L‟ art. 1112 c.c. esclude poi il diritto di chiedere lo<br />
scioglimento “quando si tratta di cose che, se divise,<br />
cesserebbero di servire all‟uso cui sono destinate.” Ad avviso di<br />
chi scrive, tale norma è inapplicabile alla comunione di marchio<br />
perché essa fa riferimento alla divisione in natura di un bene<br />
materiale, problema che non si pone per il diritto di marchio in<br />
quanto è un bene immateriale che, pertanto, può essere diviso<br />
senza cessare di servire all‟uso cui è destinato. Personalmente<br />
ritengo che lo scioglimento può riguardare unicamente l‟intera<br />
comunione, 134 quindi, ritenendo che esso coinvolga tutti i<br />
contitolari, nego il riconoscimento a ciascuno di essi della facoltà<br />
di provocare lo scioglimento della comunione e sostengo che<br />
questo debba essere deciso di concerto tra tutti i comunisti (in<br />
via eccezionale, considero ammissibile tale facoltà nell‟ipotesi in<br />
cui sia in pericolo l‟esistenza stessa del diritto di proprietà<br />
industriale, cioè nell‟ipotesi di decadenza del marchio imputabile<br />
al comportamento di un singolo comunista). Per questo motivo,<br />
ritengo l‟ art. 1111c.c. inapplicabile alla comunione di marchio e<br />
134 In senso contrario SCUFFI -FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 93, “Lo scioglimento della<br />
comunione del titolo di proprietà industriale può essere parziale, cioè relativo alla posizione di<br />
uno o più contitolari, permanendo così la comunione tra gli altri”.<br />
59
inoltre perché le ragioni poste alla base della norma in questione<br />
devono essere ritenute incompatibili con la struttura e la<br />
funzione dei diritti di proprietà industriale. La prima delle<br />
ragioni suddette “è collegata al disfavore per la comunione,<br />
dovuto all‟ imperfezione dei mezzi che regolano i rapporti tra i<br />
contitolari e alla limitazione che la comunione stessa arreca al<br />
concetto di proprietà, inteso come signoria generale<br />
illimitata,” 135 la seconda è collegata, invece, al disfavore per i<br />
vincoli potenzialmente perpetui. Ad avviso di chi scrive si deve<br />
propendere per l‟ incompatibilità della prima ratio perché,<br />
“qualora si ritenga che il singolo partecipante alla comunione<br />
possa sfruttare liberamente, in via diretta o produttiva, il bene<br />
comune, vengono meno le ragioni di diffidenza verso la<br />
comunione che anzi, paradossalmente, introduce una sia pur<br />
limitata (ai contitolari) libera concorrenza all‟ interno della<br />
posizione di esclusiva riconosciuta dal titolo. Inoltre, a differenza<br />
della comunione di diritti relativi a beni materiali regolata dal<br />
codice civile, rispetto alla quale non è possibile predeterminare<br />
una durata massima, la durata del diritto di proprietà industriale<br />
comune è invece prefissata per legge, facendo così venir meno la<br />
seconda ratio della norma”. 136 Si ricorda che, ai sensi dell‟art.<br />
138.1 lett. c) CPI, l‟atto di divisione deve essere trascritto presso<br />
l‟UIBM. Per quanto riguarda la divisione del diritto di marchio<br />
in conseguenza dello scioglimento della comunione, secondo una<br />
parte della dottrina 137 “essa deve ritenersi ammissibile<br />
limitatamente alle ipotesi di divisione per classi<br />
135 SCUFFI -FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 93<br />
136 SCUFFI - FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 94, secondo i quali “uno spunto a favore<br />
dell‟ inapplicabilità dei limiti temporali posti dall‟ art. 1111c.c. si può poi ritrovare nell‟art.<br />
159.5, a proposito della rinnovazione della registrazione di marchio. La regola non avrebbe<br />
senso, infatti, se non si ammettesse la possibilità della durata del patto di rimanere in<br />
comunione superiore a dieci anni”.<br />
137 SENA, op. cit., p. 126<br />
60
merceologiche”, 138 secondo un‟altra parte 139 , invece, essa può<br />
essere eseguita con “attribuzione a ciascuno dei condomini di un<br />
equivalente in denaro delle loro quote attraverso la<br />
concentrazione delle stesse in capo ad un partecipante o per<br />
cessione ad un terzo estraneo” 140 .<br />
138 SENA, op. cit., p. 126<br />
139 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />
140 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />
61
1.7 Decadenza del marchio<br />
Un caso particolare di scioglimento della comunione ricorre nell‟ipotesi<br />
di decadenza del marchio. Posto che può aversi decadenza del marchio<br />
per uso ingannevole dello stesso oppure nel caso di illiceità sopravvenuta<br />
ai sensi dell‟art 14.2 CPI, per volgarizzazione del segno ai sensi dell‟art.<br />
13.4 CPI e per non uso ai sensi dell‟art. 24.1 CPI, devono distinguersi le<br />
diverse ipotesi e verificare se l‟istituto in questione sarà applicabile nei<br />
confronti di tutti i comunisti anche nel caso in cui il comportamento che<br />
dà origine alla dichiarazione di decadenza sia stato posto in essere da uno<br />
solo di loro. Secondo un Autore 141 , quando la sanzione della decadenza è<br />
posta a salvaguardia dei consumatori, cioè nei casi ex artt. 13.4 e 14.2<br />
CPI, essa investe il marchio nella sua interezza anche se dipende dal<br />
comportamento di un singolo comunista. “In tal caso, l‟unica<br />
consolazione dei condomini che non abbiano provocato la decadenza<br />
sarà l‟esercizio dell‟azione extracontrattuale di risarcimento del danno ex<br />
art. 2043c.c. e la pubblicazione della sentenza.” 142 Quando, invece,<br />
l‟istituto in parola non ha l‟obiettivo di tutelare i terzi, bensì di evitare<br />
l‟accaparramento di un segno impedendo a terzi l‟uso effettivo nel<br />
mercato, cioè nel caso ex art. 24.1CPI, l‟Autore citato ritiene che “nei<br />
rapporti esterni, tra comunisti e terzi, per interrompere la decadenza a<br />
vantaggio di tutti i partecipanti sia sufficiente l‟uso del marchio da parte<br />
anche di un solo comunista; nei rapporti interni si verifichi un‟ipotesi di<br />
decadenza pro quota”. 143 Per un orientamento dottrinale 144 , “l‟unicità del<br />
diritto di marchio in comunione, se da un lato provoca la decadenza del<br />
diritto anche in capo al condomino che con il suo comportamento non ha<br />
causato l‟uso ingannevole del marchio, vale, per altro verso, a salvare da<br />
decadenza per non uso il condomino che non usi il marchio, quando vi<br />
141 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />
142 RAMPONE, op. cit., p. 139<br />
143 RAMPONE, op. cit., p. 140<br />
144 DI CATALDO, op. cit., p. 17<br />
62
sia uso da parte di altro condomino”. 145 Si ricorda che il problema è stato<br />
affrontato anche nel già citato caso “Fioravanti.” 146 La decisione di<br />
primo grado ha escluso la decadenza del diritto del condomino per non<br />
uso mentre la decisione di secondo grado e quella della Cassazione<br />
l‟hanno ammessa. Un‟ Autrice 147 , riguardo alla massima 148 della Corte<br />
d‟Appello di Milano, afferma che “la stessa non può essere condivisa per<br />
la considerazione che nel caso del mancato uso del marchio oggetto della<br />
comunione da parte di uno solo dei comunisti non ricorre la ratio della<br />
decadenza, la quale risiede nella necessità di restituire il marchio<br />
inutilizzato alla possibilità di adozione da parte di qualsiasi terzo come<br />
segno distintivo dei suoi prodotti. (…) Il non uso al quale consegue la<br />
decadenza è per definizione un non uso del marchio in assoluto”. 149 A<br />
parere di chi scrive, quando la sanzione della decadenza è posta a<br />
salvaguardia dei consumatori, essa investe il marchio nella sua interezza<br />
anche se dipende dal comportamento di un singolo comunista e, in<br />
questo caso, il condomino che tema l‟estinzione per fatto di altro<br />
condomino potrà adire il giudice, anche in via d‟urgenza, per chiedere<br />
l‟inibitoria dell‟uso del marchio nei confronti del soggetto che, con il suo<br />
comportamento ha messo in pericolo l‟esistenza del segno e per chiedere<br />
la divisione della comunione 150 .<br />
Per quanto riguarda la decadenza per non uso, ritengo che essa abbia<br />
luogo solo nei confronti del comunista che non usi effettivamente 151 il<br />
145 DI CATALDO, op. cit., p. 17, in questo senso anche Trib. Reggio Emilia,11 giugno 2002,<br />
in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4501,291, secondo il quale “l‟uso del marchio da parte di uno<br />
dei condomini impedisce la decadenza del diritto in capo a ciascun condomino”.<br />
146 Trib. Milano, 11giugno 1992, App. Milano, 20 giugno 1995, in Il dir. ind. n.10/1995.p. 927;<br />
Cass., 9 marzo 2001, n.3444, in Giur. ann. dir. ind.,2003, n. 4476,46<br />
147 CAV<strong>ALL</strong>ARO, Commento al caso Fioravanti, in Il dir. ind. n.10/1995,p. 939<br />
148 “La Corte ha statuito che dall‟ inattività di uno dei contitolari nell‟uso del marchio in<br />
comunione non può non derivare la decadenza di costui dal diritto di usare il marchio già<br />
comune, a far tempo da quando l‟ inattività si è protratta per il periodo necessario a far<br />
maturare la decadenza stessa”<br />
149 CAV<strong>ALL</strong>ARO, op. cit., in Il dir. ind. n.10/1995, p. 939<br />
150 In questo senso anche DI CATALDO, op. cit., p16<br />
151 RAMPONE,op. cit., p. 140 “Il mancato uso di un condomino dovrà essere effettivo e non<br />
sostanziarsi, per esempio, in una licenza, ad uno o più degli altri comunisti”; cfr. App. Torino,<br />
63
marchio in quanto, proprio perché è vero che “il non uso al quale<br />
consegue la decadenza è per definizione un non uso del marchio in<br />
assoluto”, non deve dimenticarsi che il segno continua ad essere usato<br />
dagli altri comunisti.<br />
9 marzo 2005, in Giur. ann. dir. ind. 2005, 752; App. Milano, 28 marzo 1980, in Giur. ann.<br />
dir. ind, 1980, 313<br />
64
Capitolo 2 Accordi di coesistenza<br />
2.1Definizione e funzioni degli accordi di coesistenza<br />
Gli accordi di coesistenza sono contratti di diritto privato attraverso i<br />
quali due o più titolari di diritti di marchio (o di altri segni distintivi),<br />
potenzialmente interferenti, riconoscono il rispettivo diritto sul proprio<br />
marchio e stabiliscono le modalità di utilizzo dei propri segni. 152 L‟utilità<br />
di questi accordi è di evitare lo sconfinamento dei marchi in mercati<br />
concorrenti con reciproca sottrazione di clientela, nonché di proteggere la<br />
loro idoneità distintiva. Dal punto di vista temporale la stipulazione degli<br />
accordi in esame può avvenire prima della registrazione, allo scopo di<br />
predeterminare gli ambiti di utilizzo di segni in rapporto di interferenza,<br />
ma anche successivamente, con finalità tipicamente transattive. Secondo<br />
un‟opinione dottrinale, anche se “in non poche circostanze 153 , e forse<br />
quasi sempre i patti di coesistenza mettono fine ad una lite giudiziaria o<br />
mirino a prevenirne il sorgere, (…) non si può escludere che un accordo<br />
di delimitazione dei marchi sia fatto al di là dell‟esistenza di una lite<br />
pendente o minacciata, come pura e semplice manifestazione dell‟<br />
autonomia privata e dell‟ iniziativa economica dei titolari dei marchi.<br />
(…) Pertanto, se è vero che di regola gli accordi di delimitazione sono<br />
anche delle transazioni, non è escluso che essi diano vita ad accordi del<br />
tutto atipici.” 154 Non è mancato chi, infatti, nello sforzo di dare<br />
all‟istituto una qualificazione giuridica, ne ha riconosciuto la natura di<br />
152 L‟<strong>IN</strong>TA (International Trademark Association) definisce l‟ accordo di coesistenza come “an<br />
agreement by two or more persons that similar trademarks can coexist without any likelihood<br />
of confusion; allows the parties to set rules by which the marks can peacefully coexist” “Un<br />
accordo tra due o più persone (il quale stabilisce che) marchi simili possano coesistere senza<br />
alcun rischio di confusione; (esso) consente alle parti di definire le regole in base alle quali i<br />
marchi possono coesistere pacificamente.”<br />
153 Natura di transazione hanno gran parte degli accordi di coesistenza tra marchi sui quali la<br />
nostra giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi: Cfr. Trib. Roma, 24 settembre 1984, in<br />
Giur. ann. dir. ind., 1986, p.532 ( caso “Valentino”); App. Milano, 9 maggio 1986, in Giur.<br />
ann. dir. ind,1987, p.183 ( caso “Ciocca/ Filatura di Tollegno”); Lodo arb., 2 settembre 1998,<br />
in Giur. ann. dir. ind, 1998, p. 3837/3 (caso “Zegna”)<br />
154 SPOLIDORO, Il consenso del titolare e gli accordi di coesistenza, in AA.VV., Segni e<br />
forme distintive, Milano, 2001, p. 218<br />
65
negozio atipico, “ la cui causa è di trasferire in regolamento contrattuale<br />
l‟osservanza di determinate regole di comportamento concorrenziale che<br />
traggono origine dalla legge; ciò nell‟interesse di entrambe le parti sotto<br />
il profilo di una maggior certezza dei reciproci rapporti<br />
concorrenziali”. 155<br />
Quanto ai tratti caratterizzanti tali accordi, si può affermare che i segni<br />
distintivi, la cui sfera di rilevanza viene disciplinata dalla pattuizione,<br />
appartengono a soggetti diversi e tra loro indipendenti e sono<br />
potenzialmente interferenti per l‟identità o la confondibilità dei segni<br />
ovvero per l‟identità o l‟affinità dei prodotti.<br />
155 CASABURI, Diritto civile e diritto industriale: un rapporto difficile. Riflessione<br />
estemporanea sugli accordi di coesistenza tra i marchi, a margine del caso Zegna, in Il dir.<br />
ind., n. 5/2004, p. 441<br />
66
2.1.1Accordi relativi al medesimo marchio<br />
Per la maggioranza della dottrina gli accordi di coesistenza<br />
propriamente detti sono solo quelli che hanno ad oggetto marchi<br />
interferenti; secondo un Autore, infatti, i patti stipulati da<br />
contitolari di un medesimo marchio non fanno parte della<br />
categoria degli accordi di coesistenza perché “ questi ultimi non<br />
servono a regolare i rapporti tra condomini, quanto –al contrario-<br />
proprio ad evitare che lo sconfinamento delle attività di diversi<br />
imprenditori titolari di marchi limitrofi porti nel tempo a<br />
costituire tra loro una comunione incidentale di marchio” 156 .<br />
Personalmente ritengo, invece, che si possa parlare di patti di<br />
delimitazione anche con riferimento al marchio in comunione 157 .<br />
In questo senso si è espressa anche la Suprema Corte, secondo la<br />
quale gli accordi di coesistenza, “possono riguardare anche<br />
l‟utilizzazione di uno stesso marchio, come nell‟ipotesi della<br />
comunione di marchio o dei marchi di gruppo, ovvero nel caso<br />
della frammentazione di un complesso produttivo unitario in una<br />
pluralità di imprese distinte e indipendenti.” 158 A livello<br />
comunitario 159 nel caso di contitolarità del segno si è infatti<br />
sostenuta l‟ammissibilità di accordi aventi ad oggetto la<br />
regolamentazione dell‟uso plurimo del segno (in particolare in<br />
caso di limitazioni territoriali) nella misura in cui detta<br />
regolamentazione permette di evitare l‟uso decettivo del segno<br />
stesso. A parere di chi scrive, la possibilità di stipulare accordi di<br />
coesistenza aventi ad oggetto l‟uso di un marchio in comunione,<br />
trova il proprio fondamento normativo nell‟art. 6 CPI, il quale<br />
statuisce l‟applicabilità alla contitolarità di un diritto di proprietà<br />
156 RAMPONE, op. cit., p. 136<br />
157 In questo senso anche SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p. 91<br />
158 Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2004, n. 20472, in Guida al Diritto, 2004, 49, 67<br />
159 Cfr. Sentenza Hag II ,Corte di Giustizia CE, 17 ottobre 1990, causa C- 10/89, HAG GF, in<br />
Raccolta, 1990, I- 3711<br />
67
industriale delle norme del codice civile in materia di comunione<br />
in quanto applicabili, facendo salva la possibilità che<br />
intervengano convenzioni in contrario. Ad avviso di chi scrive<br />
l‟autonomia privata gioca un importante ruolo nella disciplina<br />
del marchio in comunione, soprattutto nella regolamentazione di<br />
quegli aspetti per i quali la disciplina civilistica risulta<br />
incompatibile. L‟art. 6 CPI (D. Lgs. 30/05) sancisce formalmente<br />
la validità di “convenzioni” dei contitolari ma ritengo che, di<br />
fatto, tale validità fosse riconosciuta anche prima del 2005. Nel<br />
più volte citato caso “Fioravanti,” 160 infatti, si fa riferimento ad<br />
una scrittura privata risalente al 1962 attraverso la quale si attua<br />
una delimitazione territoriale dei mercati sui quali utilizzare il<br />
marchio in comunione fra i tre fratelli Fioravanti 161 . La<br />
delimitazione territoriale costituisce uno dei possibili contenuti<br />
degli accordi di coesistenza.<br />
160 Trib. Milano, 11 giugno 1992, in Il dir. ind. n. 10/95, p.923<br />
161 Questa la suddivisione territoriale concordata: a Guido fu assegnato il laboratorio per la<br />
produzione di gnocchi di Milano con riserva di sfruttamento nella Lombardia e nel Piemonte a<br />
nord del fiume Po; a Corrado fu assegnato il laboratorio per la produzione di gnocchi di Trieste<br />
con riserva di sfruttamento nelle tre Venezie e all‟estero; a Mario fu assegnato il laboratorio<br />
per la produzione di gnocchi di Genova con riserva di sfruttamento in tutto il territorio<br />
nazionale a sud del fiume Po.<br />
68
2.1.2Accordi relativi a marchi interferenti:il Caso Apple<br />
Gli accordi di coesistenza hanno ad oggetto, nella maggior parte<br />
dei casi, segni potenzialmente interferenti. L‟interferenza può<br />
derivare dall‟identità o dalla somiglianza tra i marchi ovvero<br />
dall‟affinità o identità dei prodotti o dei servizi che i marchi<br />
interessati contraddistinguono. Si ricorda che ai sensi dell‟art.<br />
20.1 lett. a-b CPI e dell‟art 9.1 lett. a-b del Regolamento sul<br />
marchio comunitario 162 , il marchio conferisce al titolare della<br />
registrazione il diritto di vietare a terzi l‟uso nell‟attività<br />
economica di un segno identico o simile per prodotti o servizi<br />
identici o affini quando, a causa dell‟identità o somiglianza tra i<br />
segni e a causa dell‟identità o somiglianza tra i prodotti o servizi,<br />
possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che<br />
può anche consistere in un rischio di associazione tra i due<br />
segni. 163 “La possibilità di confusione tra marchi significa che il<br />
complesso di informazioni che un consumatore ricollega ad un<br />
certo marchio può erroneamente essere ricollegato ad un marchio<br />
simile. Questo può derivare sia dal fatto che il pubblico ritiene<br />
che l‟origine dei prodotti sia comune, sia dal fatto che il pubblico<br />
ritiene che l‟origine dei prodotti non sia comune ma sia in<br />
qualche modo collegata”. 164 Secondo un orientamento dottrinale,<br />
i patti di coesistenza “si traducono specificamente nel consenso<br />
all‟utilizzazione di segni teoricamente confondibili, ma non<br />
162 Reg. CE 20 dicembre 1993, n. 40/94. Regolamento del Consiglio sul marchio comunitario,<br />
da ora in avanti r. m.c.<br />
163 Gli artt. 20.1 lett. c) e 9.1 lett. c) R. m.c. prevedono con riferimento ai marchi che godono di<br />
rinomanza, che il titolare del diritto può altresì vietare a terzi l‟uso di un segno identico o<br />
simile per prodotti identici o simili se l‟uso del segno senza giusto motivo consente di trarre un<br />
indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio ovvero rechi<br />
pregiudizio agli stessi.<br />
164 FRANZOSI, Sulla funzione del marchio e sul rischio di associazione, in Riv. dir. ind., 1999,<br />
p. 279; l‟autore ritiene che le lesioni ad un marchio possono essere effettuate mediante l‟uso di<br />
marchi che diano luogo a: confusione in concreto; rischio di confusione; rischio di<br />
associazione; annacquamento della capacità distintiva; deterioramento dell‟immagine del<br />
marchio.<br />
69
sentiti come “pericolosi” dal titolare, in quanto estranei al<br />
concreto messaggio che il primo marchio vuole recare ai<br />
consumatori per volontà del suo titolare”. 165 Un esempio di patto<br />
avente ad oggetto marchi interferenti è rappresentato<br />
dall‟accordo di coesistenza intervenuto tra le società Apple<br />
Corps 166 e Apple Computers 167 al fine di evitare lo<br />
sconfinamento dei marchi in mercati concorrenti con reciproca<br />
sottrazione di clientela. Al fine di meglio comprendere la portata<br />
della somiglianza tra i marchi riporto di seguito i rispettivi loghi<br />
nella grafica originale.<br />
Apple Computers Apple Corps<br />
Nel 1989, Apple Corps, la casa discografica dei The Beatles,<br />
siglò un accordo di coesistenza con Apple Computer. L‟accordo<br />
riconobbe la somiglianza tra i rispettivi marchi e stabilì delle<br />
regole per disciplinare la pacifica coesistenza dei due marchi<br />
interferenti. Secondo i termini dell‟accordo, Apple Computers<br />
avrebbe avuto il diritto esclusivo di usare il proprio marchio su<br />
componentistica per computers, accettando di non utilizzarlo per<br />
contraddistinguere computer equipments per la registrazione e<br />
per la riproduzione musicale; Apple Corps avrebbe avuto il<br />
diritto esclusivo di usare il proprio logo in relazione ad ogni<br />
165 SPOLIDORO, op. cit., p. 204<br />
166 La Apple Corps Ltd. è stata fondata nel gennaio del 1968 dal gruppo musicale dei Beatles.<br />
Il nome dell'azienda fu ideato da McCartney sotto l'influenza di un quadro di René Magritte, il<br />
logo fu disegnato da Gene Mahon.<br />
167 La Apple Computer Inc. (dal 2007 Aplle Inc.) venne fondata da Steve Jobs e Steve Wozniak<br />
nel 1976 a Cupertino, nella Silicon Valley in California. Il primo logo di Apple Computer è<br />
stato progettato da Jobs e Wayne e raffigura Sir Isaac Newton seduto sotto un albero di mele.<br />
Quasi subito, però, questo logo è stato sostituito da Rob Janoff's con la sagoma di una mela<br />
morsicata color arcobaleno (Rainbow apple). Dal 1998 il rainbow "bitten" logo è stato<br />
sostituito dalle versioni monocromatiche, nei colori bianco o nero.<br />
70
servizio o prodotto il cui principale contenuto fosse la musica o<br />
la riproduzione musicale. Entrambe le parti inoltre non<br />
avrebbero tentato di invalidare le registrazione dei rispettivi<br />
marchi. Come rileva un‟Autrice, 168 i problemi legati a questo<br />
trademark coexistence agreement nacquero “quando la Apple<br />
computers lanciò il software iTunes, un iTunes store (un negozio<br />
virtuale dal quale la musica poteva essere scaricata mediante<br />
l‟utilizzo dell‟ iTunes software) e l‟iPod , la Apple Corps citò la<br />
Apple Computers sostenendo la violazione dell‟accordo di<br />
coesistenza in virtù dello sconfinamento perpetrato in uno dei<br />
fields riservati ad Apple Corps. La Corte inglese adita non<br />
accolse la pretesa della parte attrice ritenendo che il logo venisse<br />
utilizzato per contraddistinguere un programma informatico e<br />
non in relazione alla musica riprodotta dallo stesso”. 169 Si può<br />
affermare che le società in questione non si dimostrarono<br />
particolarmente lungimiranti in quanto non furono in grado di<br />
prevedere lo sviluppo della tecnologia nei software e le proprie<br />
prospettive di espansione sul mercato 170 . Ad avviso di una parte<br />
della dottrina, “malgrado gli sforzi di anticipare contrattualmente<br />
i futuri sviluppi, il rapporto che si instaura con l‟accordo di<br />
coesistenza è normalmente destinato ad una serie di successivi<br />
adattamenti (…). Per questi motivi i contratti di coesistenza sono<br />
contratti “incompleti”, suscettibili di modifiche e variazioni<br />
concordate fra le parti nel corso della loro attuazione e che<br />
168 DI BON, Gli accordi di coesistenza tra rischio di confusione e normativa antitrust, in PMI<br />
N. 6/2008, p. 24<br />
169 DI BON, op. cit., p. 24<br />
170 DI BON, op. cit., p. 27 “Particolare attenzione dovrà essere riservata alla pianificazione<br />
futura dell‟ attività: è essenziale che l‟impresa si prefiguri i possibili sviluppi della propria<br />
presenza sul mercato, in particolare individuando i settori merceologici ovvero i territori<br />
geografici nei quali, ragionevolmente, potrebbe espandersi e nei quali potrebbe confliggere con<br />
le altre imprese parti dell‟ accordo. Di tale essenziale aspetto dovrà rendersi conto nella<br />
redazione del testo contrattuale”.<br />
71
presuppongono una certa collaborazione tra esse.” 171 Per<br />
concludere l‟analisi del caso Apple si ricorda che ogni<br />
controversia relativa al marchio “Apple” si è definitivamente<br />
conclusa nel 2007, anno in cui Apple Corps ha ceduto il proprio<br />
marchio alla Apple Computers (oggi Apple Inc.). Proprio con<br />
una cessione si è conclusa un‟altra vicenda che ha coinvolto un<br />
altro marchio della Apple Inc.: il marchio“iPhone”. La società<br />
di Cupertino aveva registrato in Cina il marchio “iPhone” nel<br />
2002, ma compì l‟errore di legarlo specificatamente ad hardware<br />
e software e non ad apparecchi e dispositivi telefonici, per questo<br />
due anni dopo il marchio "i-phone” fu astutamente registrato da<br />
una piccola società cinese (Hanwang Technology) legandolo ad<br />
“apparecchi e dispositivi telefonici" in maniera completamente<br />
legale (tanto che furono messi in commercio telefoni cellulari<br />
contrassegnati con il marchio “i-phone” appena registrato). Dopo<br />
lo sbarco dell' iPhone in Cina, si verificò un caso di coesistenza<br />
di marchi interferenti: “i-phone” ed “iPhone.” Il 5 gennaio 2010<br />
il marchio “i-phone” è stato ceduto dalla società cinese Hanwang<br />
Technology alla Apple Inc.<br />
171 SPOLIDORO, op. cit., p. 216<br />
72
2.2Validità e fondamento giuridico<br />
La questione della validità di accordi che possono lasciar convivere<br />
marchi simili per prodotti affini, che vengono stipulati per risolvere<br />
controversie che potrebbero concludersi con una declaratoria di nullità<br />
del o dei marchi di una delle parti in conflitto e/o con una condanna per<br />
contraffazione, ha dato luogo ad un intricato nodo interpretativo che<br />
analizzerò tenendo distinti i periodi antecedente e successivo l‟entrata in<br />
vigore del D. Lgs. n. 480/1992 e le correlate posizioni della<br />
giurisprudenza e della dottrina e considerando anche il profilo<br />
dell‟eventuale inganno per il pubblico. Posto che non esiste una<br />
disciplina propria del contratto, legislativamente tipizzata, la dottrina ha<br />
individuato nell‟accordo di coesistenza un contratto atipico e quindi un<br />
implicito riferimento alla validità di quest‟ultimo nell‟art. 1322,<br />
2°comma, c.c. 172 dal momento che si ritiene che il patto in questione<br />
persegua “un interesse meritevole di tutela”. Secondo un orientamento<br />
dottrinale , 173 tra le principali caratteristiche socialmente apprezzabili<br />
degli accordi dei quali ci occupiamo, si deve ricordare “l‟idoneità a<br />
risolvere in modo concordato e durevole una situazione di incertezza<br />
dannosa per le parti; l‟idoneità a circoscrivere la portata delle facoltà<br />
negative del titolare riducendole alle reali esigenze di tutela dello<br />
sfruttamento delle facoltà positive, con conseguente apertura di spazi<br />
disponibili ai concorrenti in settori affollati di registrazione (…).”<br />
Chiarito che gli accordi di coesistenza devono essere valutati<br />
positivamente alla stregua dell‟art.1322, 2° comma, c.c., occorre<br />
ricordare che “resta il limite secondo il quale in tanto l‟accordo di<br />
coesistenza è valido in quanto sia adeguato a raggiungere lo scopo in<br />
vista del quale esso appare degno di protezione giuridica: questo<br />
172 Art. 1322.2 c. c. “Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi,<br />
aventi una disciplina particolare , purché siano diretti a realizzare un interesse meritevole di<br />
tutela secondo l‟ordinamento giuridico”.<br />
173 SPOLIDORO, op. cit., p.212; MAGGI, Sulla validità e sugli effetti degli accordi di<br />
coesistenza dei diritti di marchio nei confronti dei terzi, in Riv. dir. ind., 2004, II, p.311<br />
73
controllo è infatti necessario ogni volta che si tratti di applicare l‟art.<br />
1322, 2°comma, c. c.. Questo principio si traduce in pratica soprattutto<br />
nella necessità di considerare non validi gli accordi di delimitazione che<br />
(…) siano ex ante manifestamente inadeguati a realizzare in concreto<br />
l‟obiettivo di evitare incertezze per le parti e d‟impedire l‟inganno del<br />
pubblico sui prodotti e sui servizi.” 174 Un altro riferimento normativo<br />
che, secondo un Autore, 175 implicitamente conferma la legittimità degli<br />
accordi di coesistenza, è rappresentato dall‟art. 43, 4°comma, r.m.c., il<br />
quale, disciplinando l‟esame dell‟opposizione, stabilisce espressamente<br />
che “l‟Ufficio può, a sua discrezione, invitare le parti ad addivenire ad<br />
una conciliazione”. La maggioranza della dottrina, 176 inoltre, ha da<br />
sempre individuato la base normativa della validità degli accordi che ci<br />
interessano, prima dell‟emanazione del CPI, nell‟art. 1, 1° comma,<br />
l.m. 177 e, ora, nell‟art.20, 1° comma, CPI 178 . Le norme in questione<br />
prevedono che il titolare di un diritto di marchio possa vietare ai terzi di<br />
utilizzare un segno con esso interferente “salvo proprio consenso”.<br />
Secondo Spolidoro, il consenso cui fanno riferimento le norme<br />
menzionate è un consenso di “grado uno”, cioè, “un‟espressa<br />
autorizzazione dell‟uso potenzialmente oggetto di un‟azione inibitoria,<br />
che può essere il contenuto di una dichiarazione di volontà unilaterale o<br />
174 SPOLIDORO, op. cit., p. 212<br />
175 SPOLIDORO, op. cit., p. 211<br />
176 Cfr. SPOLIDORO, op. cit., p. 211; MAGGI, op. cit., p. 309; CASABURI, op. cit., p. 442;<br />
SENA, op. cit., p. 185<br />
177 Art. 1, 1° comma, l.m. “ 1. I diritti del titolare del marchio d'impresa registrato consistono<br />
nella facoltà di far uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo<br />
proprio consenso, di usare: a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a<br />
quelli per cui esso è stato registrato;b) un segno identico o simile al marchio registrato, per<br />
prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identità o somiglianza fra i segni e<br />
dell'identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il<br />
pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;<br />
c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi non affini, se il<br />
marchio registrato goda nello Stato di rinomanza e se l'uso del segno senza giusto motivo<br />
consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del<br />
marchio o reca pregiudizio agli stessi.<br />
178 L‟ art. 20, 1°comma, CPI riproduce il testo del vecchio art. 1, 1°comma l.m.<br />
74
di un vero e proprio accordo contrattuale.” 179 A questo proposito, è<br />
opportuno ricordare che l‟inciso “salvo il proprio consenso” è stato<br />
introdotto nell‟art. 1, 1° comma, l.m. con la riforma attuata dal D. Lgs. 4<br />
dicembre 1992, n. 480, ma che anche nel vigore della vecchia legge del<br />
1942, gli accordi di delimitazione nell‟uso di marchi erano stati<br />
riconosciuti legittimi dalla giurisprudenza. A titolo di esempio si può<br />
ricordare il caso “Ciocca/Tollegno” 180 : in primo grado il Tribunale di<br />
Milano 181 aveva riconosciuto la legittimità degli accordi in oggetto sul<br />
presupposto che i diritti sui marchi rientrano fra i diritti disponibili, di cui<br />
un soggetto può disporre mediante rinuncia; in secondo grado, la Corte<br />
d‟Appello di Milano 182 , in senso contrario, statuiva che “l‟accordo<br />
transattivo con il quale il titolare di un marchio concede ad un terzo l‟uso<br />
di un segno distintivo confondibile con il proprio è sostanzialmente un<br />
atto dispositivo del proprio segno, ossia il cedere al terzo il diritto di<br />
usare il marchio unitamente al titolare, concretando la coesistenza di<br />
marchi confondibili, ed è nullo in quanto ha per oggetto diritti rispetto ai<br />
quali sussiste soltanto una limitata capacità dispositiva”. 183 Infine la<br />
Corte di Cassazione, 184 ha cassato la sentenza della Corte d‟ Appello,<br />
ribadendo che “una transazione nella quale si preveda che una delle parti<br />
possa proseguire nell‟uso di un marchio, pur simile e confondibile con<br />
altro marchio del cui brevetto è titolare l‟altra parte, non costituisce atto<br />
179 SPOLIDORO, op. cit., p. 194, distingue tre gradi del consenso: grado zero (il consenso è<br />
inespresso, è una tolleranza cosciente come quella evocata dall‟art. 48, 1° comma, l.m. per la<br />
convalidazione del marchio); grado uno (il consenso è un‟espressa autorizzazione dell‟uso<br />
potenzialmente oggetto di un‟azione inibitoria, che può essere il contenuto di una dichiarazione<br />
di volontà unilaterale o di un vero e proprio accordo contrattuale); grado due (questa espressa<br />
autorizzazione è assorbita nell‟ atto di disposizione del diritto di marchio: un atto di<br />
disposizione consistente, in senso specifico, nella costituzione di un‟investitura in capo al<br />
licenziatario di taluni dei poteri del titolare del marchio sulla registrazione)<br />
180 Il caso riguardava un accordo transattivo con il quale una parte (Ciocca) accettava di<br />
rinunciare ad ogni segno distintivo che contenesse la parola “gatto” e l‟altra parte (Tollegno)<br />
accettava che Ciocca continuasse ad usare come proprio segno distintivo un marchio che<br />
contenesse la figura stilizzata di un gatto.<br />
181 Trib. Milano, 3 maggio 1984, in Rep. Foro it., 1986 n. 12<br />
182 App. Milano, 9 maggio 1986, in Giur. ann. dir. ind., 1987, p. 183<br />
183 Ricordiamo che, anteriormente alla riforma attuata dal D. Lgs. 480/92, la disposizione dei<br />
diritti di marchio era vincolata al trasferimento dell‟ azienda o del ramo d‟azienda<br />
184 Cass. ,19 aprile 1991, n. 4225, in Rep. Foro it., 1991, n. 109<br />
75
di disposizione del diritto di esclusiva di quest‟ultima e non è quindi<br />
affetta da nullità”. La giurisprudenza successiva alla riforma del 1992 ha<br />
senz‟altro riconosciuto la validità degli accordi di coesistenza. 185 Sotto il<br />
profilo dell‟inganno dei consumatori che potrebbe derivare dagli accordi<br />
di coesistenza che cristallizzano la convivenza di marchi confondibili,<br />
personalmente ritengo che, in forza di questi accordi, non dovrà<br />
comunque mai consentirsi un uso decettivo del marchio e che, in via<br />
analogica, debba trovare applicazione l‟art. 23,4° comma, CPI. Il patto di<br />
coesistenza è un atto dispositivo, il CPI all‟art. 23, 4° comma, 186 per altre<br />
ipotesi di disposizione del diritto di marchio, prevede che “in ogni caso,<br />
dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno<br />
in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali<br />
nell‟apprezzamento del pubblico” ergo il consenso del titolare non può<br />
comunque tradursi in inganno per il pubblico; “quando tale<br />
ingannevolezza sussiste, il contratto (consenso o accordo di coesistenza)<br />
sarà nullo e la nullità del marchio successivo per difetto di novità potrà<br />
essere fatta valere, ai sensi dell‟art. 59,1° comma, l.m. 187 (ora art. 122,<br />
2°comma, CPI 188 ) dal titolare del diritto anteriore, il quale potrà anche<br />
185 La validità di accordi di coesistenza tra marchi è attestata da Trib. Milano, 26 febbraio 1996,<br />
in Rep. Foro it.,1999, p. 98; Trib. Milano, 16 marzo 2000, e App. Milano, 9 gennaio 2004,<br />
entrambe in Riv. dir. ind., 2004, , p. 277 ; Cass. civ.,Sez. I, 19 ottobre 2004, n. 20472, in Guida<br />
al Diritto, 2004, 49, 67 “Gli accordi di coesistenza non hanno carattere “dispositivo”, poiché<br />
non danno luogo ad alcun trasferimento dei diritti di esclusiva del titolare del marchio (…)”<br />
186 Anteriormente all‟ emanazione del CPI l‟art. 15,4°comma, l.m. conteneva la stessa<br />
disposizione.<br />
187Ricordiamo che il D. Lgs. 8 ottobre 1999, n. 447, ha sancito il passaggio dal regime di<br />
nullità assoluta a quella relativa, ha cioè soppresso la legittimazione dei terzi e del Pubblico<br />
Ministero all‟ azione di nullità, quando essa sia fondata sul conflitto con anteriori diritti di<br />
marchio. Il regime di nullità relativa si collega al rilievo del consenso del titolare del marchio e<br />
alla liberà di scelta di quest‟ultimo se agire o non agire per la contraffazione del marchio.<br />
FRASSI, Nullità assoluta e relativa del marchio. Osservazioni in margine al D. Lgs. 447/99, in<br />
Riv. dir. ind.,2000, p. 164, secondo la quale “Fino alla riforma del 1999, gli accordi di<br />
coesistenza erano sempre soggetti alla spada di Damocle che un terzo agisse per far dichiarare<br />
la nullità per mancanza di novità del segno successivo (…) sono oggi più stabili perché la<br />
questione del difetto di novità è, nel sistema della nullità relativa, una questione divenuta<br />
disponibile.”<br />
188 Art. 122, 2°comma, CPI “L‟azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di un<br />
marchio per la sussistenza di diritti anteriori (…) può essere esercitata soltanto dal titolare dei<br />
diritti anteriori e dal suo avente causa o avente diritto”<br />
76
agire in contraffazione.” 189 Per un orientamento dottrinale, “non è<br />
plausibile l‟ipotesi che sia automaticamente (o anche solo normalmente)<br />
ingannevole la coesistenza di segni simili o identici per prodotti uguali o<br />
affini. Perché ci sia inganno occorre insomma qualcosa di più di quello<br />
che giustificherebbe, dal punto di vista del titolare del marchio anteriore,<br />
un‟azione di contraffazione o di nullità della registrazione posteriore,<br />
oppure un‟ opposizione alla registrazione.” 190 E‟ mia convinzione che i<br />
patti di coesistenza che legittimano la presenza sul mercato di segni<br />
interferenti non siano causa, sic et simpliciter, di un inganno del<br />
pubblico; tale inganno può essere evitato dalle parti attraverso l‟adozione<br />
di distinguishing additions oppure attraverso un‟adeguata informazione<br />
del consumatore, o la differenziazione dei prodotti confondibili.<br />
189 SENA, op. cit., p. 187<br />
190 SPOLIDORO, op. cit., p. 199<br />
77
2.3Efficacia degli accordi di coesistenza<br />
Quanto agli effetti degli accordi in questione, la giurisprudenza che si è<br />
pronunciata sull‟argomento ha affermato che essi hanno efficacia<br />
obbligatoria inter partes. 191 Ciò significa che questi patti non limitano la<br />
possibilità del titolare del marchio che ha sottoscritto un accordo di<br />
coesistenza con un certo soggetto di far valere il suo diritto di esclusiva<br />
nei confronti di altri soggetti che non hanno preso parte alla stipulazione<br />
e che utilizzano un marchio interferente con il suo. 192 Questa tesi è stata<br />
seguita nel “Caso Valentino”, nel quale emerge anche il principio<br />
secondo il quale gli accordi di coesistenza, essendo dei normali contratti<br />
di diritto privato (ergo si applica l‟art. 1372 c.c.), producono i loro effetti<br />
nei confronti delle parti e dei loro eredi. “Il caso in esame trae origine da<br />
un accordo concluso in sede transattiva nel 1979 da una serie di società<br />
facenti capo allo stilista Valentino Garavani, da un lato, e ad un altro<br />
stilista, Mario Valentino (in seguito deceduto) e dalla sua società Mario<br />
Valentino s.p.a., dall‟altro lato, accordo con il quale le parti, che<br />
pretendevano entrambe di essere titolari del marchio “Valentino”, si<br />
erano divise i rispettivi diritti di esclusiva in relazioni alle varie classi<br />
merceologiche. In base all‟originario accordo del 1979 l‟uso del marchio<br />
“Valentino” da solo era stato attribuito a Mario Valentino per il settore<br />
delle calzature e della pelletteria e a Valentino Garavani per gli altri<br />
settori. Viceversa, nel settore della pelletteria e delle calzature, Valentino<br />
191 In questo senso si veda Trib. Milano, 26 febbraio 1996, in Rep. Foro it.,1999, n. 98, secondo<br />
cui gli accordi in parola regolano gli ambiti territoriali e merceologici di utilizzo di marchi<br />
interferenti determinando la mera insorgenza di rapporti obbligatori a carico di ciascuna delle<br />
parti; Cass. civ., Sez. I, 10 ottobre 2008, n. 24909 , in Mass. Giur. It., 2008 “Tali convenzioni<br />
hanno efficacia meramente obbligatoria "inter partes" e non limitano la tutela del marchio nei<br />
confronti dei terzi, salvo il caso in cui abbiano assunto indirettamente un rilievo esterno,<br />
contribuendo ad una diversa delimitazione reale dell'ambito di protezione del segno, con effetti<br />
potenzialmente irreversibili anche nei confronti dei terzi e dei consumatori”<br />
192 In questo senso MAGGI, op. cit., p. 311; SPOLIDORO, op. cit., p. 218; cfr Cass. civ. Sez.<br />
I, 10 ottobre 2008, n. 24909 , in Mass. Giur. It., 2008 “Il carattere relativo di tale vincolo<br />
giuridico non impedisce alla società Valentino di agire per opporsi all‟ingresso, nello stesso<br />
mercato dei prodotti delle classi 18 e 25, di altri operatori concorrenti, né costituisce ostacolo<br />
all‟esercizio, da parte della medesima società, delle azioni di tutela dei propri marchi anteriori<br />
contenenti il nome “Valentino” verso l‟altrui pretesa- contra legem –di fare uso di marchi con<br />
essi interferenti.<br />
78
Garavani si era impegnato ad usare il segno “Valentino” accompagnato<br />
dal cognome Garavani, mentre Mario Valentino e l‟omonima s.p.a. si<br />
erano impegnati ad utilizzare il segno “Valentino” accompagnato dal<br />
nome Mario nel settore dell‟abbigliamento. I marchi oggetto di questa<br />
transazione erano: “Valentino”, “Mario Valentino”, “Valentino<br />
Garavani”. Dopo alcuni anni di coesistenza fra i marchi di cui si è detto,<br />
entrava nei mercati cui si riferiva l‟accordo con il marchio “Giovanni<br />
Valentino” l‟omonimo stilista, figlio di Mario Valentino, il quale<br />
concedeva poi alla società inglese Florence Fashion Jersey Limited la<br />
facoltà di registrare e di utilizzare il segno costituito dal suo nome”. 193<br />
Nel “Caso Valentino” alcune società facenti capo a Valentino Garavani<br />
avevano convenuto la società Florence Fashion per ottenere la<br />
declaratoria di nullità della registrazione del marchio “Giovanni<br />
Valentino”, in quanto contenente il segno “Valentino”, nonché la<br />
contraffazione di esso da parte del marchio “Giovanni Valentino.” La<br />
Florence Fashion si era difesa invocando l‟efficacia anche a favore di<br />
Giovanni Valentino dell‟accordo transattivo stipulato dal di lui padre, in<br />
ragione del fatto che questo accordo era stato sottoscritto da Mario<br />
Valentino anche in proprio e che quindi Giovanni, in qualità di erede,<br />
avrebbe dovuto succedere al de cuius anche nei diritti derivanti<br />
dall‟accordo stesso. La sentenza di primo grado 194 ha accolto le ragioni<br />
della Florence Fashion, ritenendo che Giovanni Valentino dovesse essere<br />
considerato erede di Mario e come tale suo successore nell‟accordo in<br />
questione. La sentenza di secondo grado 195 ha affermato che l‟accordo di<br />
cui si trattava aveva effetto solo tra le parti che lo avevano<br />
originariamente sottoscritto e che sarebbe stato quindi privo di efficacia<br />
nei confronti di Giovanni Valentino e della Florence Fashion. Con la<br />
conseguenza che le società di Valentino Garavani, nonostante la<br />
193 Sul punto v. MAGGI, op. cit., p. 307<br />
194 Trib. Milano, 16 marzo 2000, in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 277<br />
195 App. Milano, 9 gennaio 2004, in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 277<br />
79
sottoscrizione dell‟accordo delimitativo del 1979, avrebbe mantenuto i<br />
diritti di marchio sul nome “Valentino” nel settore delle calzature e della<br />
pelletteria e avrebbe potuto azionare questi diritti nei confronti dei terzi.<br />
La sentenza della Corte di Cassazione 196 ha confermato la decisione<br />
della Corte d‟Appello, la quale non ha negato che Giovanni Valentino<br />
fosse uno degli eredi di Mario Valentino, il quale sottoscrisse anche in<br />
proprio l‟accordo transattivo del 1979, ma ha sottolineato un profilo<br />
importantissimo: l‟irrilevanza della qualità di erede di Giovanni<br />
Valentino in ragione della diversità del marchio in contestazione.<br />
Ritornando all‟efficacia puramente obbligatoria del patto di coesistenza,<br />
“si dovrebbe pensare che esso, per la parte in cui non ha già avuto<br />
esecuzione ed in quella in cui determina l‟insorgere di un rapporto di<br />
durata, di per sé non circoli con il marchio, salvo che un‟apposita<br />
clausola non lo preveda specificatamente. Detta clausola ha peraltro<br />
effetto solo per i contraenti e non per l‟eventuale terzo acquirente che<br />
ovviamente non può essere vincolato dall‟accordo, cui è pur sempre<br />
estraneo. Sono ormai di stile, nei modelli contrattuali più diffusi, le<br />
clausole con cui i diritti contrattuali delle parti vengono estesi a beneficio<br />
dei relativi licenziatari e alle imprese del gruppo.” 197<br />
Quanto all‟efficacia probatoria dell‟accordo di coesistenza, secondo la<br />
Decisione della Quarta Commissione di Ricorso UAMI del 30 aprile<br />
2003, 198 sembra che essa “debba ritenersi limitata a quel preciso<br />
regolamento di interessi privati in esso pattuiti, vale a dire che le parti<br />
hanno deciso di non ostacolarsi a vicenda. E‟ assai più discutibile se tale<br />
efficacia probatoria debba includere l‟ assenza di confusione sul mercato.<br />
Infatti, se da un lato, quest‟ultima è spesso indicata come fondamento<br />
196 Cass. civ., Sez. I Sent., 10 ottobre 2008, n. 24909, in Mass. Giur. It., 2008<br />
197 SPOLIDORO, op. cit., p. 220,<br />
198 Decisione della Quarta Commissione di Ricorso UAMI del 30 aprile 2003, procedimento<br />
R35/2002-4, reperibile sul sito www. oami. europa. eu. L‟ UAMI è l‟Ufficio per<br />
l‟armonizzazione a livello di mercato interno con sede ad Alicante<br />
80
dell‟accordo di coesistenza, dall‟altro, si potrebbe ritenere che se non vi è<br />
rischio di confusione, l‟accordo è inutile”.<br />
81
2.4Contenuto degli accordi di coesistenza<br />
Gli accordi in esame hanno ad oggetto “la concreta delimitazione delle<br />
sfere di protezione, con lo scopo di eliminare sia il conflitto economico<br />
fra i titolari dei marchi sia il pericolo di inganno per i consumatori. La<br />
delimitazione può riguardare la sfera merceologica della registrazione o<br />
dell‟utilizzo, la composizione del segno, il territorio in cui esso viene<br />
usato, i canali distributivi, la destinazione dell‟offerta o altri aspetti.<br />
Nulla vieta che più tipi di delimitazioni concorrano fra loro. 199 Secondo<br />
una parte della dottrina, 200 l‟accordo può avere ad oggetto anche un patto<br />
di non aggressione, cioè un patto contenente l‟impegno di non aggredire<br />
le rispettive registrazioni. “Esso è senz‟altro valido, quando l‟oggetto<br />
della rinuncia sia il diritto a far valere la contraffazione oppure un<br />
impedimento relativo alla registrazione. Il patto di non aggressione non<br />
sarebbe valido nella parte in cui il contraente si impegnasse a non far<br />
valere impedimenti assoluti o decadenze, con la sola eccezione della<br />
decadenza per non uso” 201 .<br />
199 SPOLIDORO, op. cit., p. 227<br />
200 DI BON, op. cit., p. 26; SPOLIDORO, op. cit., p. 224<br />
201 SPOLIDORO, op. cit., p. 224<br />
82
2.5Durata degli accordi di coesistenza<br />
Quanto alla durata, la dottrina è divisa sull‟applicabilità agli accordi di<br />
coesistenza dell‟art. 2596 c.c. . 202 Secondo un orientamento, “la risposta<br />
dovrebbe essere affermativa con riferimento alle pattuizioni intercorse tra<br />
soggetti che esercitino attività d‟impresa;” 203 secondo un altro<br />
orientamento, invece, il limite temporale ex art. 2596 c.c. non è<br />
applicabile perché “il patto di coesistenza normalmente è stipulato per un<br />
lungo periodo, o quantomeno presenta caratteri di stabilità. Se la durata e<br />
le cause di recesso o di risoluzione sono espressamente disciplinate, con<br />
l‟eventuale preavviso, non si pone alcuna questione. (…) Se nulla è detto<br />
circa la durata, il contratto dovrebbe intendersi a tempo indeterminato,<br />
con la conseguente applicabilità del principio che ciascuna parte può<br />
recedere in qualunque momento con un congruo preavviso.” 204 Secondo<br />
un importante lodo arbitrale, però, “le obbligazioni nascenti da un<br />
accordo di delimitazione tra segni distintivi hanno una durata correlata<br />
alla durata della situazione reale (l‟esclusiva) cui accedono in rapporto di<br />
funzionalità, cosicché non si applica ad esse il principio della recedibilità<br />
dalle obbligazioni perpetue”. 205 E‟ mia convinzione che il limite<br />
quinquennale previsto dall‟art. 2596 c.c. non sia applicabile agli accordi<br />
che ci interessano perché la ratio della norma citata è quella di evitare<br />
lunghi limiti contrattuali alla concorrenza ma, a mio avviso, gli accordi<br />
di coesistenza hanno un effetto pro-concorrenziale. Essi, infatti, se fanno<br />
in modo che il pubblico sia in grado di percepire che sul mercato sono<br />
presenti due diversi marchi, se contengono una chiara disciplina delle<br />
modalità di utilizzo dei segni confondibili, possono essere fonte di<br />
202 Art. 2596 c.c. (Limiti contrattuali della concorrenza) “1. Il patto che limita la concorrenza<br />
deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una<br />
determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. 2.Se la durata del patto non è<br />
determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di<br />
un quinquennio.”<br />
203 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p. 92, afferma l‟applicabilità dell‟art. 2596 c.c.<br />
anche RAMPONE, op. cit., p. 136<br />
204 SPOLIDORO, op. cit., p. 225<br />
205 Lodo arb., 2 settembre 1998, in Giu. ann. dir. ind., 1998, 3837/3<br />
83
vantaggio sia per i consumatori, i quali non rischiano di essere ingannati<br />
dalla coesistenza sul mercato di segni simili o identici per prodotti affini<br />
o identici, sia per i titolari dei marchi confondibili, in quanto i loro segni<br />
distintivi, agli occhi del pubblico, sono riferibili a due origini<br />
imprenditoriali diverse ergo non c‟è rischio di “sviamenti di clientela”.<br />
Secondo la Corte di Cassazione, “sia le norme che regolano la materia di<br />
segni distintivi propri (ditta, marchio, insegna) sia la disciplina della<br />
concorrenza, non sono limitazioni della concorrenza, ma strumenti per<br />
garantire che la concorrenza sia legittima, autentica e piena. (…) Gli<br />
accordi di coesistenza consentono la distinzione tra le attività delle<br />
imprese e concorrono quindi a far sì che il mercato sappia discernere<br />
bene un prodotto da un altro, una impresa da un‟altra, senza cadere nella<br />
confusione che potrebbe sorgere per l'uso di segni confondibili” 206<br />
206 Cass. ,.10 dicembre 1988, n. 6715, in Giu. ann. dir. ind.,1988, 2244/2 (caso Dolomiten<br />
Loden)<br />
84
2.5.1Accordo di coesistenza e convalidazione<br />
Un Autore 207 si è posto la domanda se il consenso contenuto in<br />
un patto di coesistenza possa avere gli stessi effetti della<br />
tolleranza di cui parla l‟art. 28 CPI a proposito dell‟istituto della<br />
convalidazione, con la conseguenza che, se il contratto di<br />
coesistenza durasse più dei cinque anni previsti dalla norma<br />
(fermi ovviamente gli altri requisiti previsti dalla stessa), il<br />
titolare del marchio più antico perderebbe il diritto di<br />
avvalersene contro quello più recente, che sarebbe ad ogni<br />
effetto convalidato. Egli, riconoscendo la profonda diversità tra<br />
le rationes sottese ai due istituti, rileva che “l‟accordo di<br />
coesistenza regola il rapporto tra le registrazioni per tutta la sua<br />
durata e può anche contenere stipulazioni la cui efficacia si<br />
proietta al di là della durata temporale del rapporto ad esecuzione<br />
continuata (avente ad oggetto l‟obbligo di tollerare l‟uso altrui)<br />
assunto dai contraenti. Ma è appunto sulla base del contratto e<br />
della sua interpretazione che si può stabilire se, al termine della<br />
sua efficacia, per qualsivoglia motivo, i rispettivi diritti dei<br />
titolari riprendono anche inter partes l‟estensione originaria<br />
oppure no.” 208 A parere di chi scrive, alla domanda suddetta si<br />
deve dare risposta negativa perché le ragioni che stanno alla base<br />
dei due istituti in questione sono diverse e perché, se dagli<br />
accordi di coesistenza derivasse la convalidazione del marchio<br />
successivo, nessuno più li stipulerebbe con la conseguenza di un<br />
aumento del rischio di inganno per il pubblico.<br />
207 SPOLIDORO, op. cit., p.219<br />
208 SPOLIDORO, op. cit., p.219<br />
85
2.6 Accordi di coesistenza e contratti di licenza di marchio: differenze e<br />
similitudini<br />
Entrambi i contratti in esame danno vita ad un rapporto obbligatorio di<br />
durata ma lo schema tipico dei due negozi è profondamente diverso. Nel<br />
contratto di licenza, che ha ad oggetto un solo marchio, il titolare cerca di<br />
sfruttare l‟avviamento incorporato nel marchio, attraverso la concessione<br />
dell‟uso dello stesso a terzi, nello stesso mercato nel quale egli opera<br />
ovvero in mercati in cui non è presente ed ove non intende svolgere<br />
direttamente alcuna attività imprenditoriale; negli accordi di coesistenza,<br />
invece, l‟oggetto dell‟accordo sono due o più marchi l‟uso dei quali<br />
viene disciplinato dai rispettivi titolari per evitare che “l‟immagine dei<br />
propri prodotti o servizi interferisca con quella dei prodotti o dei servizi<br />
dell‟altro titolare. Per ottenere questo, occorre impedire che il messaggio<br />
recato da un marchio vada a contaminarsi con quello recato dall‟altro,<br />
offuscandosi ed offuscandolo. Nella licenza, al contrario, il licenziatario<br />
ha normalmente tutto l‟interesse a mantenersi agganciato al titolare<br />
(...).” 209 Nonostante queste differenze di fondo, vi possono essere<br />
fattispecie in cui queste contrapposizioni finiscono per confondersi: si<br />
può citare, ad esempio, quella della “licenza apparente, nella quale la<br />
licenza è in realtà inesistente e le parti realizzano in via indiretta la stessa<br />
finalità pratica di un accordo di coesistenza; e quella speculare<br />
dell‟accordo di coesistenza apparente, nel quale i marchi che coesistono<br />
sono talmente simili (al limite identici) e coprono prodotti e servizi<br />
talmente vicini (al limite uguali) che in realtà si deve concludere che il<br />
marchio è uno solo e che i contraenti hanno l‟uno concesso e l‟altro<br />
ricevuto licenza d‟uso.” 210<br />
209 SPOLIDORO, op. cit., p.214<br />
210 SPOLIDORO, op. cit., p.215<br />
86
2.7 Compatibilità degli accordi di coesistenza con il diritto antitrust<br />
Relativamente agli accordi di coesistenza, una parte della dottrina teme<br />
che gli stessi “possano essere utilizzati come strumento per eludere la<br />
normativa antitrust, in particolare attraverso la fissazione di limiti alla<br />
produzione o alla commercializzazione o attraverso restrizioni<br />
territoriali.” 211 La medesima preoccupazione è avvertita anche negli Stati<br />
Uniti, paese in cui la prassi di stipulare “Trademark Coexistence<br />
agreements” è molto frequente; secondo un‟Autrice, infatti, “Coexistence<br />
agreement possibly violate antitrust laws. If coexistence agreements have<br />
the effect of reducing competition in the way proscribed by antitrust<br />
laws, then they may be simply illegal. Even if technically these<br />
agreements are within the bounds of antitrust laws, they may still reduce<br />
competition among manufacturers of similar products to the public’s<br />
detriment” 212 . Ritornando al diritto nazionale, secondo l‟orientamento<br />
maggioritario, 213 la potenziale contrarietà degli accordi di coesistenza al<br />
diritto antitrust è l‟eccezione, non la regola. Ho già avuto modo, a<br />
proposito della questione dell‟applicabilità del limite temporale ex art.<br />
2596 c.c., di evidenziare gli effetti pro-concorrenziali dei patti di<br />
delimitazione, pertanto anch‟io ritengo che non possa sostenersi, in tutti i<br />
casi, l‟incompatibilità degli stessi con la disciplina antitrust. Solo nelle<br />
ipotesi in cui dagli accordi di coesistenza derivino realmente alterazioni<br />
degli equilibri concorrenziali, allora gli stessi potranno essere vietati<br />
dall‟art. 81 TCE. 214<br />
211 SCUFFI-FRANZOSI-FITTANTE, op. cit., p.92<br />
212MOSS, Trademark “Coexistence” Agreements: Legitimate Contracts or Tools of<br />
Consumer?, in Loyola Consumer Law Review, 2005, vol.18, n.2, p. 197. “Gli accordi di<br />
coesistenza possono violare il diritto antitrust. Se gli accordi di coesistenza hanno l‟effetto di<br />
ridurre la concorrenza nel modo prescritto dal diritto antitrust, essi sono semplicemente illegali.<br />
Anche se tecnicamente questi accordi rientrano nei limiti delle leggi antitrust, essi possono<br />
comunque ridurre la concorrenza tra produttori di prodotti simili a danno del pubblico (dei<br />
consumatori).”<br />
213 SPOLIDORO, op. cit., p.228; DI BON, op. cit., p. 26<br />
214Trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Roma il 25 marzo 1957 e ratificato<br />
dall'Italia con legge 14 ottobre 1957, n. 1203; l‟art. 81 paragrafo 1° comma dispone che “sono<br />
vietati, in quanto incompatibili con il mercato comune, tutti gli accordi tra imprese, tutte le<br />
87
Capitolo 3 La comunione di altri diritti di<br />
proprietà intellettuale<br />
3.1I vari tipi di creazione intellettuale suscettibili di tutela<br />
Volendo raggruppare in via generale i vari tipi di creazione intellettuale<br />
suscettibili di tutela e i relativi diritti di proprietà intellettuale, 215 è<br />
possibile indicare tre categorie. Una prima categoria è quella delle opere<br />
dell‟ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla<br />
letteratura, alla musica, alle arti figurative, all‟architettura, al teatro e alla<br />
cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Ai<br />
sensi dell‟art. 2575 c.c. 216 e dell‟ art. 1 l. aut. 217 le opere suddette<br />
formano oggetto del diritto d‟autore. Per “creatività” dell‟opera si<br />
intende non solo il risultato dell‟attività intellettiva umana, ma anche la<br />
novità e l‟originalità di quel risultato. Va precisato che il grado di<br />
“originalità” può anche essere minimo, purché in grado di mostrare<br />
l‟apporto personale del suo autore. “La richiesta di originalità dell‟opera<br />
decisioni di associazioni d‟ imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il<br />
commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o<br />
falsare il gioco della concorrenza all‟interno del mercato comune” ma al 3° paragrafo prevede<br />
che, in alcuni casi, “tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate<br />
inapplicabili.”<br />
215 Ai sensi dell‟art. 2 viii) della Convenzione istitutiva dell‟organizzazione mondiale della<br />
proprietà intellettuale per “proprietà intellettuale” si intendono i diritti relativi:- alle opere<br />
letterarie, artistiche e scientifiche;- alle interpretazioni degli artisti interpreti e alle esecuzioni<br />
degli artisti esecutori, ai fonogrammi e alle emissioni di radiodifussione; - alle invenzioni in<br />
tutti i campi dell‟ attività umana; -alle scoperte scientifiche; -ai disegni e modelli industriali; -<br />
ai marchi di fabbrica, di commercio e di servizio, ai nomi commerciali e alle denominazioni<br />
commerciali; -alla protezione contro la concorrenza sleale; e tutti gli altri diritti inerenti all‟<br />
attività intellettuale nei campi industriale, scientifico, letterario e artistico.<br />
216 Art. 2575 c.c. (Oggetto del diritto) “Formano oggetto del diritto d‟autore le opere<br />
dell‟ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica,<br />
alle arti figurative, all‟architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la<br />
forma di espressione.”<br />
217 Ai sensi dell‟art 1 L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d‟autore e di altri diritti<br />
connessi al suo esercizio, in G.U. n.166 del 16 luglio 1941, da ora in avanti l. aut.. “1. Sono<br />
protette ai sensi di questa legge le opere dell‟ingegno di carattere creativo che appartengono<br />
alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all‟architettura, al teatro e alla cinematografia,<br />
qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. 2. Sono altresì protetti i programmi per<br />
elaboratori come opere letterarie ai sensi della Convenzione di Berna sulla protezione delle<br />
opere letterarie e artistiche ratificata e resa esecutiva con legge 20 giugno 1978, n. 399,nonché<br />
le banche dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione<br />
intellettuale dell‟autore”.<br />
88
attiene alla forma dell‟esposizione, e non al contenuto esposto così anche<br />
le notizie di dominio pubblico possono confluire in un‟opera<br />
dell‟ingegno quando esse siano espresse in una forma che rechi, in<br />
qualsiasi modo, l‟impronta di una elaborazione personale dell‟autore.” 218<br />
Altra caratteristica dell‟opera deve essere la “novità” che consiste nella<br />
somma di tutti gli elementi che compongono l‟opera dell‟ingegno e che<br />
nel loro insieme determinano un sufficiente grado di distinzione<br />
dell‟opera rispetto ad altre analoghe o preesistenti. Riguardo<br />
“all‟appartenenza alle scienze ed alle arti in genere,” l‟elenco indicato<br />
all‟articolo 1 l. aut. è stato ulteriormente specificato ad opera<br />
dell‟articolo 2 l. aut. 219 . Inoltre l‟opera deve possedere almeno una<br />
“forma espressiva” concreta, ossia un “vestito” in grado di rappresentare<br />
l‟idea e renderla fruibile ai terzi. Per concretezza non necessariamente si<br />
intende una forma materiale, potendo costituire “espressione” anche<br />
quella resa verbalmente. A rendere tutelabile l‟opera con un diritto<br />
all‟esclusività, non sono dunque i contenuti, ma il modo nel quale i<br />
contenuti sono proposti. Ritornando alla classificazione dei vari tipi di<br />
creazione intellettuale, una seconda categoria è quella delle creazioni<br />
218 Cass., 19 luglio 1990, n. 7397, in Giust. civ. Mass., 1990, fasc. 7, p. 1140<br />
219 Art. 2 l. aut. “In particolare sono comprese nella protezione:1) le opere letterarie,<br />
drammatiche, scientifiche, didattiche, religiose, tanto se in forma scritta quanto se orale; 2) le<br />
opere e le composizioni musicali, con o senza parole, le opere drammatico- musicali e le<br />
variazioni musicali costituenti di per sé opera originale; 3) le opere coreografiche e<br />
pantomimiche, delle quali sia fissata la traccia per iscritto o altrimenti; 4) le opere della<br />
scultura, della pittura, dell‟arte del disegno, della incisione e delle arti figurative similari,<br />
compresa la scenografia; 5) i disegni e le opere dell‟architettura; 6) le opere dell‟arte<br />
cinematografica, muta o sonora, sempreché non si tratti di semplice documentazione protetta ai<br />
sensi delle norme del Capo V del Titolo II; 7) le opere fotografiche e quelle espresse con<br />
procedimento analogo a quello della fotografia sempre che non si tratti di semplice fotografia<br />
protetta ai sensi delle norme del Capo V del Titolo II; 8) i programmi per elaboratore, in<br />
qualsiasi forma espressi purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell‟autore.<br />
Restano esclusi dalla tutela accordata dalla presente legge le idee e i principi che stanno alla<br />
base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce. Il<br />
termine programma comprende anche il materiale preparatorio per la progettazione del<br />
programma stesso. 9) le banche di dati di cui al secondo comma dell‟articolo 1, intese come<br />
raccolte di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti<br />
ed individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo. La tutela delle<br />
banche di dati non si estende al loro contenuto e lascia impregiudicati diritti esistenti su tale<br />
contenuto. 10) Le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e<br />
valore artistico.”<br />
89
intellettuali a contenuto tecnologico, tutelate dai diritti derivanti dal<br />
brevetto. In questa categoria rientrano le invenzioni industriali e i<br />
modelli di utilità. L'invenzione industriale può essere definita come la<br />
soluzione ad un problema tecnico non ancora risolto. Essa si realizza<br />
come un nuovo metodo o processo di lavorazione industriale, uno<br />
strumento, utensile o dispositivo meccanico che costituisce<br />
un'innovazione rispetto allo stato della tecnica, atto ad essere applicato in<br />
campo industriale. “Il modello di utilità 220 si differenzia dall‟invenzione<br />
perché costituisce l‟idea di soluzione dello specifico problema tecnico di<br />
conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego<br />
intervenendo sulla forma delle macchine o parti di esse, degli strumenti,<br />
degli utensili e degli oggetti di uso in genere.” 221<br />
Nella terza e ultima categoria è possibile porre le creazioni intellettuali di<br />
segni distintivi, cioè degli elementi che hanno funzione di identificare un<br />
determinato imprenditore (ditta), un determinato luogo dove si esercita<br />
l‟impresa (insegna), un determinato prodotto (marchio), necessari per<br />
differenziarli agli occhi del pubblico dei consumatori. In particolare, si<br />
ricorda che i marchi d‟impresa e quelli di servizio sono tutelati attraverso<br />
la registrazione del segno distintivo e, in alcuni casi, anche<br />
indipendentemente da quest‟ultima. (Mi riferisco, ad esempio, alla tutela<br />
del preuso del marchio).<br />
220 Art. 82, 1° comma, CPI “Possono costituire oggetto di brevetto per modello di utilità i nuovi<br />
modelli atti a conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego a<br />
macchine, o parti di esse, strumenti, utensili od oggetti di uso in genere, quali i nuovi modelli<br />
consistenti in particolari conformazioni, disposizioni, configurazioni o combinazioni di parti.”<br />
221 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit., p. 185<br />
90
3.2 La comunione di diritto d’autore<br />
L‟opera dell‟ingegno può costituire il frutto della collaborazione creativa<br />
di più autori anziché di uno solo e, a seconda della o delle categorie di<br />
opere coinvolte, della presenza o assenza di accordi tra i collaboratori o<br />
di un coordinatore dei lavori, è possibile distinguere diverse tipologie di<br />
opere complesse: opere in comunione, opere composte e opere collettive.<br />
Nelle cd. opere in comunione, “la concorrenza di più autori concerne la<br />
stessa creazione, sì che il contributo di ciascun creatore è obiettivamente<br />
inscindibile da quello dell‟altro; sì che non può separarsi nell‟opera la<br />
parte dell‟uno e la parte dell‟altro.” 222 I rapporti tra i diversi coautori<br />
sono disciplinati dall‟art. 10 l. aut. che rinvia alla comunione civilistica.<br />
Nelle opere composte, invece, “il concorso dei vari autori concerne parti<br />
autonome a loro volta considerabili come opere dell‟ingegno ancorché<br />
concorrenti poi a loro volta in un‟ opera dell‟ingegno (ché anzi non è<br />
allora escluso che poi una singola parte sia frutto di più autori e così<br />
oggetto di comunione, verificandosi nei suoi confronti l‟ipotesi<br />
precedente) definibile come unica data un‟ unità di funzione e vuoi che le<br />
parti appartengano ad uno stesso genere - come avviene per i vari capitoli<br />
di un romanzo o di un manuale -vuoi che appartengano ad un genere<br />
diverso- come per le parole e per l‟accompagnamento musicale. Potrà<br />
allora distinguersi l‟opera che diremo complessa dalle singole sue parti e<br />
può anzi aversi un‟utilizzazione o circolazione simultanea vuoi<br />
dell‟opera complessa vuoi delle singole parti isolate che a loro volta<br />
rappresentano opere dell‟ingegno non concorrendo – come invece<br />
nell‟ipotesi precedente- in un tutto inscindibile” 223 . Esempi di opere<br />
composte da contributi di generi artistici diversi, che sono quindi non<br />
solo distinguibili, ma anche utilizzabili separatamente, sono: le opere<br />
liriche, le operette, le composizioni musicali con parole (melologhi e<br />
222<br />
ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali,Milano, 1960, p. 773<br />
223<br />
ASCARELLI, op. cit., pp. 773,774<br />
91
canzoni), le opere composte di musica, di parole e di danza o mimica<br />
(particolarmente le opere coreografiche e pantomimiche) nonché le opere<br />
cinematografiche. Le ipotesi suddette sono regolate dagli artt. 33 ss. l.<br />
aut. e 44 ss. l. aut.. Le opere collettive sono opere create mediante<br />
l‟unione di lavori o frammenti di lavori di autori diversi e riuniti da un<br />
coordinatore per un scopo determinato, per lo più divulgativo, didattico o<br />
scientifico. Le opere collettive, 224 quindi a differenza di quelle composte<br />
hanno un coordinatore che sceglie, decide e coordina il lavoro delle<br />
diverse parti dell‟opera. Un esempio potrebbero essere: le enciclopedie, i<br />
giornali, le antologie, le riviste ecc…<br />
224 Art. 3 l. aut. “Le opere collettive, costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che<br />
hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un<br />
determinato fine letterario, scientifico didattico, religioso, politico od artistico, quali le<br />
enciclopedie, i dizionari, le antologie, le riviste e i giornali sono protette come opere originali,<br />
indipendentemente e senza pregiudizio dei diritti di autore sulle opere o sulle parti di opere di<br />
cui sono composte”.<br />
92
3.2.1 Le cd. opere in comunione<br />
L‟art. 10 l .aut. prevede che “1. Se l‟opera è stata creata con il<br />
contributo indistinguibile ed inscindibile di più persone, il diritto<br />
di autore appartiene in comune a tutti i coautori. 2.Le parti<br />
indivise si presumono di valore uguale, salvo la prova per iscritto<br />
di diverso accordo. 3.Sono applicabili le disposizioni che<br />
regolano la comunione. La difesa del diritto morale può peraltro<br />
essere sempre esercitata individualmente da ciascun coautore e<br />
l‟opera non può essere pubblicata, se inedita, né può essere<br />
modificata o utilizzata in forma diversa da quella della prima<br />
pubblicazione, senza l‟accordo di tutti i coautori. Tuttavia, in<br />
caso di ingiustificato rifiuto di uno o più coautori, la<br />
pubblicazione, la modificazione o la nuova utilizzazione<br />
dell‟opera può essere autorizzata dall‟autorità giudiziaria, alle<br />
condizioni e con le modalità da essa stabilite”. E‟ opportuno<br />
premettere che la norma in esame fa riferimento alla comunione<br />
originaria dei diritti d‟autore 225 e che “deve ritenersi tale non<br />
solo quella che ha luogo all‟atto della creazione originaria di<br />
un‟opera, quando questa cioè sorga fin dal principio come frutto<br />
di una collaborazione fra le attività intellettuali creative di più<br />
persone, ma altresì quella che si verifichi in un secondo tempo,<br />
per rifare, perfezionare, adattare o aggiornare un‟opera, come<br />
spesso accade dopo la morte dell‟autore in base ad accordo fra<br />
gli eredi e la persona incaricata di procedere a quelle<br />
elaborazioni.” 226 Il 1° comma della norma in esame individua i<br />
tre elementi necessari della fattispecie costitutiva della<br />
comunione: il concorso di una pluralità di soggetti nella<br />
creazione della medesima opera, il carattere creativo dei loro<br />
225 Art. 2576 c.c. (Acquisto del diritto)“Il titolo originario dell'acquisto del diritto di autore è<br />
costituito dalla creazione dell'opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale.<br />
226 GRECO, I diritti sui beni immateriali, Torino, 1948, p. 219<br />
93
contributi e l‟indistinguibilità e inscindibilità dei contributi<br />
medesimi. Posto che più soggetti devono prendere parte alla<br />
creazione dell‟opera, ciascuno apportando un proprio contributo,<br />
è necessario che tale contributo sia creativo, pertanto “non è<br />
coautore di un‟opera chi, ad esempio, si limiti prestare consigli o<br />
suggerimenti; a fornire un supporto tecnico/organizzativo alla<br />
creazione; ad eseguire operazioni materiali di mera attuazione di<br />
un progetto altrui; a visionare una tesi di laurea.” 227 Ai sensi<br />
dell‟art. 10 l. aut., infine, i contributi dei coautori devono essere<br />
“indistinguibili ed inscindibili” ma, secondo un orientamento<br />
dottrinale, 228 il carattere indistinguibile dei contributi creativi<br />
non è un elemento necessario della fattispecie dal momento che<br />
la disciplina della norma in esame si applica certamente quando i<br />
contributi sono tra loro indistinguibili, ma non vi è ragione per<br />
escludere e non estendere l‟applicazione dell‟art. 10 anche<br />
all‟ipotesi in cui i contributi dei diversi coautori possano tra loro<br />
essere distinti logicamente e di fatto. Secondo un orientamento<br />
dottrinale, 229 la fattispecie rilevante ex art. 10 l. aut. deve<br />
comprendere anche un ulteriore elemento costituito<br />
dall‟esistenza di un rapporto di collaborazione tra i diversi<br />
coautori; per un‟altra parte della dottrina, invece, “anche se<br />
l‟ipotesi dell‟esistenza di un rapporto di collaborazione è la più<br />
frequente anche quella dell‟inesistenza del rapporto in questione<br />
può tuttavia ricorrere: come può avvenire ad esempio nelle<br />
ipotesi di formule matematiche scritte a quattro mani, di<br />
improvvisazioni di jazz di più musicisti che si trovino per caso a<br />
suonare insieme.” 230 Ritornando all‟analisi dell‟art. 10 l. aut., il<br />
2° comma “postula un principio generale secondo cui le quote<br />
227 UBERTAZZI, op. cit.,p. 1523<br />
228 UBERTAZZI, Spunti sulla comunione di diritti d’autore,in AIDA, 2003,p.507<br />
229 PIOLA CASELLI,Codice del diritto d’autore, Torino,UTET,1943, p.262<br />
230 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 508<br />
94
dei comunisti sono proporzionali alla qualità e quantità degli<br />
apporti alla creazione comune dell‟opera; introduce tuttavia una<br />
presunzione iuris tantum di uguaglianza delle loro quote; vara<br />
con ciò (non soltanto una regola probatoria ma) anche una norma<br />
relativa ai rapporti sostanziali tra gli interessati; consente di<br />
superare la presunzione iuris tantum con ogni possibile mezzo;<br />
qualifica come derogabili sia il principio di proporzione delle<br />
quote agli apporti sia la regola di diritto materiale implicita nella<br />
presunzione; prescrive la forma scritta ad probationem per la<br />
deroga negoziale ora detta.” 231 Quanto al 3° comma della norma<br />
che ci interessa, “questo prevede espressamente l‟applicabilità<br />
delle disposizioni che regolano la comunione, ma detta pure<br />
alcune deroghe richieste dalla natura e dal complesso contenuto<br />
del diritto d‟autore, specialmente per la tutela dei diritti morali,<br />
anche se il loro esercizio costituisce, come per la pubblicazione,<br />
un presupposto dell‟utilizzazione economica, dato che il loro<br />
carattere strettamente personale e individualistico non può<br />
rimanere sopraffatto dal principio maggioritario, quale impera<br />
nel regime ordinario della comunione.” 232 Relativamente alla<br />
durata dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera in<br />
comunione, l‟art. 26, 1° comma, l. aut. dispone che “nelle opere<br />
indicate nell‟art. 10 (…) la durata dei diritti di utilizzazione<br />
economica spettanti a ciascuno dei coautori o dei collaboratori si<br />
determina sulla vita dell‟autore che muore per ultimo.”<br />
3.2.2.Le opere composte<br />
231 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 510<br />
232 GRECO, op. cit., p. 220<br />
95
Gli artt. 33-37 l. aut. disciplinano alcuni tipi di opere composte<br />
da contributi di generi artistici diversi, che sono quindi non solo<br />
distinguibili, ma anche utilizzabili separatamente, e precisamente<br />
le opere liriche, le operette, i melologhi, le composizioni<br />
musicali con parole, i balli e balletti musicali. L‟art. 33 l. aut.<br />
prevede che i collaboratori possano, con apposite convenzioni,<br />
derogare alla disciplina contenuta negli artt. 34-36, disciplina<br />
diversa da quella ex art. 10 l. aut. proprio in virtù del fatto che<br />
nelle opere composte i diversi contributi che le compongono<br />
sono distinguibili e separabili. L‟art. 34 l. aut., infatti, non rinvia<br />
sic et simpliciter alla disciplina della comunione civilistica ma<br />
prevede che “l‟esercizio dei diritti di utilizzazione economica<br />
spetta all‟autore della parte musicale, salvi tra le parti i diritti<br />
derivanti dalla comunione. Il profitto della utilizzazione<br />
economica è ripartito in proporzione del valore del rispettivo<br />
contributo letterario o musicale. Nelle opere liriche si considera<br />
che il valore della parte musicale rappresenti la frazione di tre<br />
quarti del valore complessivo dell‟opera. Nelle operette, nei<br />
melologhi, nelle composizioni musicali con parole, nei balli e<br />
balletti musicali, il valore dei due contributi si considera uguale.<br />
Ciascuno dei collaboratori ha diritto di utilizzare separatamente e<br />
indipendentemente la propria opera, salvo il disposto dei casi<br />
seguenti”. Un altro tipo di opera composta è rappresentato<br />
dall‟opera cinematografica che è prevista sia nell‟elenco delle<br />
opere protette dagli artt. 1 l. aut. 233 e 2575 c.c. sia in quello<br />
233 Art. 1, 1° comma, l. aut. “Sono protette ai sensi di questa legge le opere dell‟ingegno di<br />
carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative,<br />
all‟architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di<br />
espressione.<br />
96
dell‟art 2 l. aut.. 234 ed è disciplinata agli artt. 44-50 l. aut.<br />
L‟opera cinematografica è “il risultato di numerosi contributi di<br />
carattere creativo, in parte preesistenti (come le opere letterarie),<br />
in parte realizzati appositamente (soggetto, sceneggiatura e<br />
musica), che vengono elaborati nel corso del processo creativo<br />
sotto la direzione del regista. ” 235 La realizzazione dell‟opera<br />
cinematografica, quindi, rappresenta il “frutto della<br />
collaborazione creativa di più autori, i cui contributi<br />
(distinguibili ma inscindibili) sono non soltanto artistici, ma<br />
anche tecnici, economici ed organizzativi del soggetto<br />
produttore, tutti finalizzati alla realizzazione dell‟opus quale<br />
risultato diverso dalla somma degli apporti di ciascuno” 236 .<br />
L‟opera in questione, pertanto, presenta caratteristiche comuni<br />
alle opere composte e alle opere collettive: alle opere composte,<br />
in quanto i contributi che concorrono a formarla le conferiscono<br />
una struttura complessa; alle opere collettive, in quanto gli stessi<br />
contributi vengono coordinati e profondamente elaborati dal<br />
regista. L‟art. 44 l. aut. prevede che “si considerano coautori<br />
dell‟opera cinematografica l‟autore del soggetto, l‟autore della<br />
sceneggiatura, l‟autore della musica ed il direttore artistico”ma,<br />
non specifica quali contributi all‟opera cinematografica<br />
conferiscano la dignità di coautore. Secondo una pronuncia del<br />
Tribunale di Napoli “il termine contributo indica l‟apporto<br />
consapevole e volontario del proprio lavoro in vista del<br />
raggiungimento di un fine al quale concorrono e collaborano più<br />
234 Art. 2 n. 6 l. aut. “In particolare sono ricomprese nella protezione: le opere dell‟arte<br />
cinematografica, muta o sonora, sempreché non si tratti di semplice documentazione protetta ai<br />
sensi delle norme del Capo V del Titolo II.”<br />
235 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA,op. cit., p.518<br />
236 PESIRI, In tema di coautore dell’opera cinematografica. L’interesse dell’autore<br />
all’integrità ideale dell’opera e la configurabilità di un danno esistenziale per uso svilente, in<br />
Giur. Merito, 2001, p.1273<br />
97
persone.” 237 La pronuncia suddetta è stata emanata in relazione<br />
ad un caso in cui si discuteva della possibilità di riconoscere la<br />
qualità di autore della musica - e quindi di coautore dell‟opera<br />
cinematografica in cui è inserita - a colui che si limiti ad<br />
autorizzare l‟inserimento in colonna sonora di una canzone da lui<br />
precedentemente composta senza riferimento alcuno al film e<br />
alla sceneggiatura. Secondo il Tribunale di Napoli “non apporta<br />
un contributo in senso tecnico chi si limiti ad assentire<br />
all‟impiego in un film di una canzone da lui composta in un<br />
momento precedente, senza consapevole connessione con la<br />
sceneggiatura (ancor meno chi, come nel caso specifico, è autore<br />
della sola parte letteraria della canzone medesima, della cui<br />
musica è autore altro soggetto)”. In altre parole, perché l‟autore<br />
della canzone o della musica possa essere riconosciuto coautore<br />
dell‟opera cinematografica, è necessario che si instauri un<br />
legame funzionale, oltre che strutturale, tra la prima e la seconda.<br />
La ricostruzione proposta segue una sentenza del Tribunale di<br />
Milano, per la quale “è coautore della parte letteraria di un‟opera<br />
musicale chi abbia prestato la sua collaborazione riguardante il<br />
vero e proprio processo creativo che caratterizza l‟opera<br />
dell‟ingegno e non si sia limitata ad elementi di natura tecnica od<br />
organizzativa o in semplici suggerimenti o consigli di indole<br />
teorica o generica.” 238 Quanto ai diritti patrimoniali relativi<br />
all‟opera cinematografica, ai sensi dell‟art. 45, 1° comma, l. aut.<br />
“l‟esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera<br />
cinematografica spetta a chi ha organizzato la produzione<br />
dell‟opera stessa, nei limiti indicati dai successivi articoli” e, ai<br />
sensi dell‟art. 46, commi 3° e 4,° l. aut., “3. gli autori della<br />
237 Trib. Napoli, 24 gennaio 2001, in Giur. merito 2001, p.1270<br />
238 Trib. Milano, 5 ottobre 1995, in Annali it. dir. autore,1996, p. 597<br />
98
musica, delle composizioni musicali e delle parole che<br />
accompagnano la musica hanno diritto di percepire direttamente<br />
da coloro che proiettano pubblicamente l‟opera un compenso<br />
separato per la proiezione. Il compenso è stabilito, in difetto di<br />
accordo fra le parti, secondo le norme del regolamento. 4.Gli<br />
autori del soggetto e della sceneggiatura e il direttore artistico,<br />
qualora non vengano retribuiti mediante una percentuale sulle<br />
proiezioni pubbliche dell‟opera cinematografica, hanno diritto,<br />
salvo patto contrario quando gli incassi abbiano raggiunto una<br />
cifra da stabilirsi contrattualmente col produttore, a ricevere un<br />
ulteriore compenso, le cui forme e la cui entità saranno stabilite<br />
con accordi da concludersi tra le categorie interessate”.<br />
99
3.2.3Le opere collettive<br />
L‟art. 3 l. aut. prevede che “le opere collettive, costituite dalla<br />
riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di<br />
creazione autonoma, come risultato della scelta e del<br />
coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico<br />
didattico, religioso, politico od artistico, quali le enciclopedie, i<br />
dizionari, le antologie, le riviste e i giornali sono protette come<br />
opere originali, indipendentemente e senza pregiudizio dei diritti<br />
di autore sulle opere o sulle parti di opere di cui sono composte”.<br />
Quanto all‟autore dell‟opera collettiva, ai sensi dell‟art. 7, 1°<br />
comma l. aut., è considerato tale chi organizza e dirige la<br />
creazione stessa. Dalla norma in commento emerge, quindi, la<br />
profonda differenza che passa tra le opere semplici o composte<br />
dovute alla collaborazione creativa di più persone e le opere<br />
collettive: mentre nelle prime ci sono più coautori dell‟opus,<br />
nelle seconde vi è un solo autore dal momento che gli autori<br />
delle opere o delle parti di opere riunite nell‟opera collettiva non<br />
sono considerati coautori della stessa ma solo autori dei<br />
contributi (aventi carattere di creazione autonoma) che la<br />
compongono. L‟art. 7 valorizza, quindi, l‟apporto creativo<br />
rappresentato dalla “scelta” o dal “coordinamento” ad un<br />
determinato fine delle opere riunite o raccolte. Secondo un<br />
orientamento dottrinale, “ciò che caratterizza l‟opera collettiva<br />
non è tanto l‟elemento strutturale (riunione di opere o di parti di<br />
opere che hanno carattere di creazione autonoma) quanto<br />
l‟esistenza di due distinti livelli creativi: quello dei singoli<br />
contributi che compongono l‟opera e quello della progettazione<br />
dell‟opera complessiva e della scelta e coordinamento dei<br />
contributi o dell‟organizzazione e direzione dell‟attività creativa<br />
100
svolta dai collaboratori.” 239 Quanto ai diritti patrimoniali<br />
sull‟opera collettiva, l‟art. 38 l. aut. prevede che “1.Nell‟opera<br />
collettiva, salvo patto in contrario, il diritto di utilizzazione<br />
economica spetta all‟editore dell‟opera stessa, senza pregiudizio<br />
derivante dall‟applicazione dell‟art. 7. 2.Ai singoli collaboratori<br />
dell‟opera collettiva è riservato il diritto di utilizzare la propria<br />
opera separatamente, con l‟osservanza dei patti convenuti, e in<br />
difetto, delle norme seguenti”. Si può aggiungere che gli autori<br />
delle singole parti dell‟opera vantano il diritto di aggiornare il<br />
proprio contributo in caso di nuove edizioni dell'opera e, ex art.<br />
20, 1° comma, l. aut., “indipendentemente dai diritti esclusivi di<br />
utilizzazione economica dell‟opera,” il diritto di opporsi a<br />
qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a<br />
ogni altro atto a danno dell'opera stessa, che possa essere di<br />
pregiudizio al loro onore o alla loro reputazione. Relativamente<br />
alla durata dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera<br />
collettiva, l‟art. 26, 2° comma, l. aut., prevede che “Nelle opere<br />
collettive la durata dei diritti di utilizzazione economica spettante<br />
ad ogni collaboratore si determina sulla vita di ciascuno. La<br />
durata dei diritti di utilizzazione economica dell‟opera come un<br />
tutto è di settant‟anni dalla prima pubblicazione, qualunque sia la<br />
forma nella quale la pubblicazione è stata effettuata, salve le<br />
disposizioni dell‟art. 30 per le riviste, i giornali e le altre opere<br />
periodiche.”<br />
239 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA,op. cit., p.516<br />
101
3.3 La comunione di brevetto<br />
Il brevetto rappresenta la tecnica di protezione giuridica delle invenzioni<br />
che presentano il requisito della novità, che implicano un‟attività<br />
inventiva e sono atte ad avere un‟applicazione industriale. Esso è, infatti,<br />
l‟atto amministrativo in virtù del quale la privativa, cioè la riserva di<br />
produzione e di commercio in esclusiva dei prodotti che costituiscono<br />
l‟applicazione industriale dell‟invenzione, è costituita. Quando<br />
l‟invenzione industriale è imputabile a più soggetti, allora gli stessi sono<br />
anche contitolari del diritto al brevetto. La contitolarità del diritto in<br />
oggetto può essere a titolo originario (è il caso dell‟invenzione realizzata<br />
da più coautori) o a titolo derivativo (è il caso di più coeredi o più aventi<br />
causa pro quota dell‟unico inventore). Affinché ricorra l‟ipotesi di<br />
contitolarità a titolo originario occorre che “vi sia, in primo luogo,<br />
concorso nell‟attività inventiva, non dunque una semplice collaborazione<br />
di carattere esecutivo, come quella rivolta, sotto l‟impulso e la direzione<br />
di chi persegue un‟idea inventiva, a compiere ricerche, analisi o<br />
esperimenti preparatori e, in secondo luogo, occorre che i coautori<br />
abbiano operato d‟intesa tra di loro o, comunque, siano pervenuti<br />
congiuntamente a compiere l‟invenzione.” 240 Possono essere considerati,<br />
quindi, coinventori dell‟invenzione di gruppo (invenzione realizzata da<br />
più operatori che lavorano assieme, sulla base di un progetto unitario),<br />
“solo i membri del gruppo che hanno svolto attività inventiva in rapporto<br />
alla ricerca che è sfociata nell‟invenzione, e non anche i membri del<br />
gruppo che hanno svolto solo altre linee di ricerca, o che hanno prestato<br />
solo attività non inventiva, ma puramente esecutiva”. 241 Quanto alla<br />
disciplina applicabile alla comunione di brevetto, l‟art. 20 l. inv. 242<br />
prevedeva che “se l'invenzione industriale è dovuta a più autori, i diritti<br />
240 GRECO, op. cit., p. 439<br />
241 VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.414<br />
242 Regio decreto 29 giugno 1939, n. 1127, in Gazz. Uff., 14 agosto 1939, n. 189, da ora in<br />
avanti legge invenzioni (l. inv.)<br />
102
derivanti dal brevetto sono regolati, salvo convenzioni in contrario, dalle<br />
disposizioni del codice civile relative alla comunione. Salvo convenzione<br />
contraria, il trasferimento dei diritti derivanti dal brevetto importa<br />
nell‟acquirente l‟obbligo di pagare le relative tasse; e se il trasferimento<br />
avvenga a favore di più persone, congiuntamente o per quote, tutte sono<br />
tenute solidalmente al pagamento di dette tasse”. Il CPI ha abrogato la<br />
legge invenzioni ma, all‟art. 6, ha riconfermato, in generale,<br />
l‟ammissibilità dell‟istituto della comunione dei diritti di proprietà<br />
industriale e, relativamente all‟applicabilità della disciplina della<br />
comunione civilistica, salvo convenzioni in contrario, ha aggiunto il<br />
limite della compatibilità. La Convenzione sul Brevetto Europeo (di<br />
seguito CBE), 243 in merito al diritto al brevetto, all‟art. 59 prevede che<br />
“la domanda di brevetto europeo può anche essere depositata sia da più<br />
richiedenti sia da corrichiedenti che designano Stati contraenti diversi”.<br />
Secondo un orientamento dottrinale 244 , la disciplina nazionale appena<br />
ricordata “è del tutto inadeguata alla complessità del fenomeno delle<br />
invenzioni di gruppo, non fosse altro perché non distingue chiaramente<br />
fra il diritto al brevetto, cioè il diritto a presentare la domanda di<br />
brevetto, ed il diritto di brevetto quando il brevetto stesso sia intestato<br />
congiuntamente a più persone.”Al di là della legittimazione alla domanda<br />
di brevetto, secondo un Autore 245 “ad ogni coautore deve essere<br />
riconosciuta un‟autonoma legittimazione ad agire in negatoria contro chi,<br />
a torto, si attribuisca la qualità di coautore, dovendosi escludere un<br />
litisconsorzio necessario, attivo o passivo, dei diversi coautori<br />
dell‟invenzione nei giudizi di accertamento, positivo o negativo, della<br />
copaterinità della invenzione.”<br />
243 Convenzione di Monaco del 5 ottobre 1973<br />
244 AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op. cit., , p.233<br />
245 UBERTAZZI, op. cit., p. 422<br />
103
3.3.1Il diritto al brevetto<br />
“Se la molteplicità delle persone che concorrono all‟ottenimento<br />
dell‟invenzione è organizzata nelle forme del lavoro dipendente<br />
allora il problema della presentazione della domanda di brevetto<br />
non si pone, perché legittimato è comunque sempre e soltanto il<br />
datore, sia che l‟unità di ricerca sia inserita in un contesto più<br />
ampio di attività economica, sia che si tratti di un‟unità di ricerca<br />
organizzata al solo scopo di ottenere invenzioni brevettabili” 246 .<br />
Quando, invece, la molteplicità delle persone impegnate nello<br />
svolgimento dell‟attività di ricerca non svolge tale attività nelle<br />
forme del lavoro subordinato, ma nelle forme di una<br />
collaborazione autogestita ancorché funzionalmente preordinata<br />
all‟ottenimento del risultato inventivo, la dottrina non è concorde<br />
nell‟individuare i coinventori legittimati a presentare la domanda<br />
di brevetto. Una parte della dottrina 247 ritiene che i contitolari del<br />
diritto al brevetto si presentino come altrettanti creditori solidali<br />
del futuro bene immateriale e afferma che, in applicazione<br />
dell‟art. 1319 c.c. 248 , ciascun contitolare è legittimato a<br />
presentare la domanda di brevetto, anche in caso di dissenso<br />
degli altri. Un‟altra parte, invece, pur concordando<br />
nell‟ammettere che la contitolarità del diritto al brevetto è<br />
regolata dalla disciplina della comunione, si divide sulla<br />
qualificazione da dare all‟atto della presentazione della domanda<br />
di brevetto e, conseguentemente, sulla norma del codice civile da<br />
applicare. Vi è infatti chi 249 , considerando la presentazione della<br />
domanda come una modificazione necessaria per il miglior<br />
246<br />
AUTERI-F<strong>LO</strong>RIDIA-MANG<strong>IN</strong>I-OLIVIERI-RICOLFI-SPADA, op .cit., p.234<br />
247<br />
SANT<strong>IN</strong>I,I diritti della personalità nel diritto industriale,Padova,1959, p. 84<br />
248<br />
L‟art. 1319, 1° comma, c.c. prevede che “Ciascuno dei creditori può esigere l'esecuzione<br />
della intera prestazione indivisibile.”<br />
249<br />
LEVI, Cenni sulla comunione d’ invenzione industriale, in Probl. attuali dir. ind.,<br />
Milano,1977, p. 700<br />
104
godimento della cosa, ritiene che ogni titolare sia legittimato ad<br />
effettuare il deposito; chi 250 , invece, considera il deposito della<br />
domanda di brevetto come un atto di ordinaria amministrazione,<br />
sostiene che la relativa decisione debba essere approvata dalla<br />
comunità dei contitolari con la maggioranza semplice di cui<br />
all‟art. 1105 c.c.(maggioranza dei partecipanti calcolata secondo<br />
il valore delle loro quote); al contrario, chi 251 lo qualifica come<br />
un atto eccedente l‟ordinaria amministrazione, postula la<br />
necessità della maggioranza qualificata di cui all‟art. 1108 c.c.<br />
(maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi<br />
del valore complessivo della cosa comune). Infine, secondo un<br />
altro orientamento dottrinale, “la decisione anche di un solo<br />
contitolare di procedere alla brevettazione deve sempre prevalere<br />
perché qualunque atto di sfruttamento dell‟invenzione segreta è<br />
(quantomeno potenzialmente) suscettibile di mettere in pericolo<br />
la segretezza e, come tale, di recare pregiudizio ai diritti degli<br />
altri partecipanti alla comunione, che si troverebbero in un<br />
perenne stato di incertezza.” 252 In senso contrario, altra dottrina<br />
non ritiene che il problema possa essere risolto semplicemente<br />
affermando che la decisione di brevettare, anche quando presa da<br />
uno solo dei coinventori, dovrebbe prevalere sulla decisione di<br />
non brevettare, perché il regime brevettuale sarebbe comunque<br />
“preferibile” al regime di segreto. Essa afferma che “a parte la<br />
difficoltà di rintracciare un base testuale sicura per tale<br />
preferibilità, va ricordato che il conflitto di solito attiene non<br />
all‟alternativa tra brevetto e segreto, ma a decisioni più sottili e<br />
più complesse, relative alla scelta del momento in cui si giudica<br />
l‟invenzione matura per la brevettazione, alla decisione se<br />
250 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.414<br />
251 GRECO, Lezioni di diritto industriale,Torino, 1956, p.161<br />
252 GAND<strong>IN</strong>, La comunione di brevetto: appunti per un’indagine comparatistica, in Contr. e<br />
impr., 1992, p.1192<br />
105
affrontare in proprio la procedura di brevettazione o cedere a<br />
terzi il diritto al rilascio del brevetto, all‟individuazione del<br />
consulente brevettuale, alla scelta del brevetto (nazionale, estero,<br />
europeo) da chiedere. Che tutte queste decisioni spettino al<br />
singolo sembra francamente eccessivo ed ingiustificabile.” 253 A<br />
parere di chi scrive, l‟indirizzo dottrinale che affida la decisione<br />
di presentare la domanda di brevetto al consenso della<br />
maggioranza ex art. 1105 c.c. appare quello preferibile,<br />
risultando il più equilibrato. Gli stessi sostenitori di questo<br />
indirizzo, tuttavia, osservano che “affidando alla maggioranza la<br />
legittimazione alla domanda di brevetto si crea il problema del<br />
trattamento della domanda presentata da uno solo, o da una<br />
minoranza dei coinventori, senza menzionare gli altri o senza il<br />
consenso della maggioranza” 254 e concludono, in via dubitativa,<br />
che tale domanda dovrebbe essere considerata una domanda del<br />
non avente diritto e che gli altri coinventori potrebbero valersi<br />
della disciplina di cui all‟art. 118 CPI. 255 Personalmente ritengo<br />
che tale soluzione non sia condivisibile , dal momento che, come<br />
peraltro ammesso anche dai suoi sostenitori, il coinventore “pur<br />
253 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.415<br />
254 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.415<br />
255 Art. 118 (Rivendica) comma 2° “ Qualora con sentenza passata in giudicato si accerti che il<br />
diritto alla registrazione oppure al brevetto spetta ad un soggetto diverso da chi abbia<br />
depositato la domanda, questi può, se il titolo di proprietà industriale non e' stato ancora<br />
rilasciato ed entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza:a) assumere a proprio<br />
nome la domanda di brevetto o la domanda di registrazione, rivestendo a tutti gli effetti la<br />
qualità di richiedente;b) depositare una nuova domanda di brevetto oppure di registrazione la<br />
cui decorrenza, nei limiti in cui il contenuto di essa non ecceda quello della prima domanda o<br />
si riferisca ad un oggetto sostanzialmente identico a quello della prima domanda, risale alla<br />
data di deposito o di priorità della domanda iniziale, la quale cessa comunque di avere effetti;<br />
depositare, nel caso del marchio, una nuova domanda di registrazione la cui decorrenza, nei<br />
limiti in cui il marchio contenuto in essa sia sostanzialmente identico a quello della prima<br />
domanda, risale alla data di deposito o di priorità della domanda iniziale, la quale cessa<br />
comunque di avere effetti;c) ottenere il rigetto della domanda”. Comma 3° “Se il brevetto e'<br />
stato rilasciato oppure la registrazione e' stata effettuata a nome di persona diversa dall'avente<br />
diritto, questi può in alternativa: a) ottenere con sentenza il trasferimento a suo nome del<br />
brevetto oppure dell'attestato di registrazione a far data dal momento del deposito;<br />
b) far valere la nullità del brevetto o della registrazione concessi a nome di chi non ne aveva<br />
diritto”.<br />
106
non essendo il solo inventore non è neppure un non- inventore”.<br />
In questo senso dispone anche la sentenza del Tribunale di<br />
Milano dell‟ 11 novembre del 1999, nella quale si legge<br />
“l'esclusione del comunista dalla brevettazione della invenzione<br />
realizzata in comunione può fondare azioni a tutela della sua<br />
posizione morale ed economica ma non legittima la domanda di<br />
nullità della brevettazione (da parte dello stesso comunista o di<br />
terzi in caso di inerzia del primo) sotto il profilo della<br />
brevettazione del non avente diritto disciplinata dall'art. 27 bis l.<br />
inv. 256 ” 257 Secondo un Autore 258 , se si ammette l‟applicabilità<br />
dell‟art. 118 CPI all‟ipotesi in esame, la stessa deve essere<br />
necessariamente circoscritta: “i contitolari estromessi potrebbero<br />
intervenire nel procedimento di brevettazione per “assumere” la<br />
domanda anche a loro nome ( art. 118, 2° comma lett. a), o per<br />
chiedere il “trasferimento” anche a loro nome del brevetto (art.<br />
118, 3° comma lett. a); non potrebbero, invece,né presentare una<br />
nuova domanda , né chiedere il rigetto della stessa, né la nullità<br />
del brevetto che sia stato concesso.” Concludendo questo breve<br />
excursus sul diritto al brevetto, ricordiamo che l‟art. 6 CPI,<br />
mentre prevede l‟applicabilità della disciplina civilistica della<br />
comunione, fa salvo un diverso accordo delle parti e, secondo un<br />
orientamento dottrinale, 259 “questa norma di salvezza per una<br />
diversa pattuizione vale sia per il diritto di brevetto (cui è<br />
espressamente rivolta), sia per il diritto al rilascio del brevetto.<br />
Conseguentemente, qualora l‟attività di ricerca risulti regolata da<br />
un accordo societario, ogni decisione relativa all‟invenzione (tra<br />
le quali, ovviamente, anche quella riguardante l‟opportunità o<br />
meno di presentare la domanda di brevetto) costituirà un atto di<br />
256 Il disposto dell‟art. 27 bis l. inv. è ora trasposto nell‟art. 118 CPI<br />
257 Trib. Milano, 11 novembre, 1999, in Dir. ind., 2000, p. 213<br />
258 UBERTAZZI, Profili soggettivi del brevetto, Milano, 1985, p. 304<br />
259 VANZETTI-DI CATALDO,op. cit., p.416<br />
107
gestione, assoggettato alle disposizioni che regolano i poteri<br />
amministrativi di quel tipo di società”. Le considerazioni sopra<br />
riportate si riferiscono unicamente all‟ipotesi dell‟invenzione<br />
industriale realizzata da più operatori che lavorano assieme sulla<br />
base di un progetto unitario, dal momento che l‟ipotesi di<br />
concorso tra più inventori indipendenti è disciplinata in modo<br />
diverso. In quest‟ultima ipotesi (cd. incontri fortuiti), nell‟ambito<br />
del medesimo ordinamento giuridico, il conflitto tra più inventori<br />
autonomi è risolto a favore di chi per primo presenta la<br />
domanda. 260 In tale ipotesi, infatti, entrambi i soggetti sono<br />
titolari del diritto al brevetto, ma il diritto di esclusiva spetterà<br />
soltanto a chi sarà titolare di un valido brevetto. L‟art. 46, 3°<br />
comma, CPI, infatti, stabilisce che la precedente domanda<br />
comporta una divulgazione potenziale del suo contenuto dalla<br />
data del deposito, ergo,il brevetto depositato successivamente<br />
sarà nullo, anche se il richiedente era titolare del diritto al<br />
brevetto. Nel caso in cui gli inventori indipendenti appartengano<br />
a distinti ordinamenti giuridici, può verificarsi la coesistenza di<br />
più validi brevetti.<br />
260 L‟art. 60, 2° comma della Convenzione di Monaco, prevede che “se più persone hanno<br />
realizzato l‟invenzione indipendentemente l‟una dall‟altra, il diritto al brevetto europeo<br />
appartiene a quella che ha depositato la domanda di brevetto la cui data di deposito è più<br />
remota; tuttavia, questa disposizione è applicabile unicamente se la prima domanda è stata<br />
pubblicata a norma dell‟art. 93 e ha effetto solo negli Stati contraenti designati in questa prima<br />
domanda quale è stata pubblicata”.<br />
108
3.3.2 Il diritto di brevetto<br />
Quanto alla disciplina del godimento diretto e indiretto del<br />
brevetto in comunione da parte dei coinventori, il più volte citato<br />
art. 6 CPI rinvia, sic et simpliciter, alle disposizioni del codice<br />
civile relative alla comunione in quanto compatibili, fatte salve<br />
convenzioni in contrario, senza tener conto delle peculiarità del<br />
diritto di brevetto. Esaminerò, pertanto, gli orientamenti della<br />
giurisprudenza e della dottrina circa i limiti di applicabilità degli<br />
artt. 1100 ss. c. c. alla comunione di brevetto. Relativamente allo<br />
sfruttamento indiretto del brevetto intestato congiuntamente a<br />
più persone, secondo un primo indirizzo della Corte di<br />
Cassazione, risalente agli anni ottanta,“il contratto di licenza<br />
d'uso dei diritti derivanti da un'invenzione brevettata dovuta a<br />
più autori richiede, per il suo perfezionamento, il consenso<br />
unanime dei contitolari del brevetto, oltre che nel caso di<br />
convenzione con durata ultranovennale, anche nell'ipotesi di<br />
concessione al licenziatario dell'esclusiva, poiché questa priva i<br />
suddetti contitolari di ogni possibilità di sfruttamento diretto o<br />
indiretto dell‟invenzione comune in virtù del comma 1 dell'art.<br />
1108. In conseguenza, nella predetta ipotesi trattandosi di<br />
contratto con parte complessa, cioè formata da più soggetti<br />
costituenti un unico centro di interessi, nel quale il regime di<br />
esclusiva, non potendo esistere che nei confronti di tutti i<br />
contitolari del brevetto, conferisce carattere di indivisibilità<br />
all'oggetto del contratto e, pertanto, determina unità di interessi<br />
tra i predetti, si configura la necessità che tutti costoro<br />
partecipino al giudizio promosso per ottenere la risoluzione del<br />
negozio, in quanto diretto a modificare, attraverso l'eliminazione<br />
del titolo contrattuale, la situazione plurisoggettiva inscindibile<br />
109
da esso disciplinata” 261 . La Suprema Corte, più recentemente,<br />
nella sentenza del 22 aprile 2000, n°5281, pur riconfermando<br />
che “il contitolare di un brevetto per invenzione industriale non<br />
può concedere ad un terzo una licenza avente per oggetto il<br />
brevetto stesso, in assenza di una deliberazione espressa dei<br />
partecipanti alla comunione secondo quanto previsto dall'art.<br />
1108 c.c., in quanto la licenza implica la facoltà tipica del<br />
titolare del brevetto di vietare ad altri l'utilizzazione della stessa<br />
idea inventiva, il che priverebbe, pertanto, i contitolari del diritto<br />
di esclusiva,” 262 abbandona il precedente indirizzo del consenso<br />
unanime dei contitolari del brevetto e prevede che “con la<br />
maggioranza dei due terzi si può provvedere alla necessità di<br />
dare in licenza che non superi i nove anni il brevetto comune,<br />
oppure si può decidere di sfruttare direttamente il brevetto da<br />
parte della stessa maggioranza dando alla minoranza residua il<br />
controvalore dei suoi diritti di sfruttamento, in quota.” 263 La<br />
Corte di Cassazione, inoltre, nella sentenza citata precisa che “la<br />
norma dell'art. 1108 chiude il sistema rendendo credibile il<br />
rinvio alla disciplina della comunione appunto perché risolve<br />
anche il problema del concreto governo delle facoltà tipicamente<br />
esclusive ed in quanto tali non esercitabili unilateralmente dal<br />
singolo contitolare, ma non per questo inesistenti solo per tale<br />
contitolarità.” 264 Quanto alla dottrina, la maggioranza delle<br />
posizioni 265 è abbastanza concorde sull‟impossibilità dello<br />
sfruttamento da parte del singolo tramite concessione di licenza,<br />
infatti solo una posizione minoritaria, 266 ammette la possibilità<br />
261 Cass. Civile,13 gennaio 1981 n. 265, in Foro it., 1981, I,p.1042.<br />
262 Cass. Civile, sez. I,22 aprile 2000, in Giur. It., 2001,p. 1894<br />
263 Cass. Civile , sez. I,22 aprile 2000, in Giur. It., 2001,p. 1894<br />
264 Cass. Civile , sez. I,22 aprile 2000, in Giur. It., 2001,p. 1894<br />
265 ALBERT<strong>IN</strong>I, La comunione di brevetto tra sfruttamento diretto e indiretto,individuale e<br />
collettivo, in Giust. Civ., 2000, p. 2243; VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.415<br />
266 LUZZATTO,Teoria e tecnica dei brevetti di invenzione, Milano, 1960, p. 574<br />
110
dello sfruttamento da parte del singolo coinventore tramite<br />
concessione di licenza, pur contemplando la possibilità per i<br />
comunisti contrari di esigere un compenso. Un Autore 267 ha<br />
analizzato la questione della sorte spettante al licenziatario del<br />
contitolare, che abbia stipulato il contratto in assenza del<br />
consenso degli altri partecipanti alla comunione. Egli afferma<br />
che “costui non debba essere considerato contraffattore: la sua<br />
posizione è infatti piuttosto singolare. Se tale licenziatario<br />
dovesse essere considerato contraffattore, allo stesso modo<br />
dovrebbero essere qualificati il licenziante, che pure è contitolare<br />
del brevetto, o il partecipante alla comunione che sfrutti in<br />
proprio il brevetto stesso. Pare francamente eccessivo giungere<br />
ad una tale conclusione. Eppure i dubbi permangono. Molto più<br />
coerente è la regola statunitense che, partendo dal presupposto<br />
secondo il quale il contitolare ha la più ampia libertà nello<br />
sfruttamento (produttivo e negoziale) del brevetto, senza dovere<br />
rendere conto del proprio operato agli altri, pretende che tutti i<br />
partecipanti alla comunione esercitino congiuntamente l‟azione<br />
di contraffazione.” 268 Relativamente alla possibilità di<br />
sfruttamento diretto del brevetto intestato congiuntamente a più<br />
persone, si registra uno scontro dottrinale: una parte della<br />
dottrina 269 sostiene che la norma ex art. 1102 c.c., secondo la<br />
quale ciascuno dei partecipanti può servirsi della cosa comune se<br />
non ne altera la destinazione e non impedisce agli altri<br />
partecipanti di farne parimenti uso, permette lo sfruttamento<br />
diretto dell‟invenzione al singolo contitolare; un‟altra, 270 invece,<br />
nega la legittimità dell‟uso da parte del singolo della cosa<br />
267 GAND<strong>IN</strong>, Uno per tutti e tutti per uno:comunione di brevetto e istruzioni per l’uso in un<br />
precedente della suprema corte , in Giur. It., 10 / 2001, p. 1350<br />
268 GAND<strong>IN</strong>,op. cit., p.1350<br />
269 AMMENDOLA, La brevettabilità nella Convenzione di Monaco, Milano, 1981, p.255<br />
270 ALBERT<strong>IN</strong>I, op. cit., p.2244<br />
111
comune proprio perché lo stesso si pone in contrasto con i<br />
divieti ex art. 1102 c.c. Secondo quest‟ultima posizione<br />
dottrinale, quanto al divieto di alterare la destinazione della cosa<br />
comune, “se la privativa consiste nel potere di decidere la<br />
quantità di beni immessi nel mercato o, più in generale, di<br />
decidere il tasso di diffusione nel mercato della tecnologia<br />
brevettata, ne segue che legittimare il singolo allo sfruttamento<br />
diretto significa togliere agli altri il potere di prendere tali<br />
decisioni e, quindi, fare venire meno il loro diritto di esclusiva. Il<br />
vero interesse del titolare non è tanto la possibilità di utilizzare<br />
l‟invenzione, bensì quello di essere il solo ad utilizzarla,<br />
giovandosi dello ius excludendi alios. ” 271 Quanto al secondo<br />
divieto posto dall‟art. 1102 c.c., l‟orientamento in questione<br />
sostiene che l‟uso da parte del singolo della cosa comune rende<br />
potenzialmente più difficile agli altri “di farne parimenti uso”:<br />
infatti il valore di mercato della tecnologia non può certo<br />
crescere, ma solo diminuire, forse anche pesantemente, con<br />
l‟ampliarsi della sua diffusione. A parere di chi scrive, dalla<br />
scelta di affidare le decisioni relative alle modalità di<br />
sfruttamento diretto del bene comune alla volontà del gruppo dei<br />
coinventori, può derivare il rischio che i comunisti non<br />
raggiungano un accordo e si arrechi pregiudizio agli interessi<br />
collettivi violando il principio della sufficiente attuazione<br />
dell‟invenzione posto dall‟art. 69, 1° comma, CPI. 272 Secondo un<br />
Autore, 273 il rischio ora prospettato rappresenta un falso<br />
problema dal momento che, ai sensi dell‟art. 70 CPI, 274 alla<br />
271 ALBERT<strong>IN</strong>I, op. cit., p.2244<br />
272 Art. 69, 1° comma CPI (Onere di attuazione) “L'invenzione industriale che costituisce<br />
oggetto di brevetto deve essere attuata nel territorio dello Stato in misura tale da non risultare<br />
in grave sproporzione con i bisogni del Paese”<br />
273 ALBERT<strong>IN</strong>I, op. cit., p.2245<br />
274 Art. 70 CPI (Licenza obbligatoria per mancata attuazione) “ Trascorsi tre anni dalla data di<br />
rilascio del brevetto o quattro anni dalla data di deposito della domanda se questo termine<br />
112
mancata o insufficiente attuazione dell‟invenzione consegue non<br />
la decadenza dal brevetto, ma solo la possibilità di licenza<br />
obbligatoria dello stesso, salva la decadenza nel caso di protratta<br />
inattuazione dell‟invenzione per due anni dopo la concessione di<br />
licenza obbligatoria. Lo stesso Autore ritiene che differenziare i<br />
termini di durata del brevetto e aumentare progressivamente le<br />
tasse brevettuali col passare degli anni, così come avviene in<br />
Germania, potrebbe costituire un ulteriore, non trascurabile,<br />
disincentivo contro gli stalli decisionali dei contitolari. E‟<br />
opportuno tenere presente che i contrasti giurisprudenziali e<br />
dottrinali cui ho fatto sopra riferimento nascono dal fatto che<br />
l‟art. 6 CPI, per disciplinare i casi in cui il diritto di brevetto sia<br />
intestato contemporaneamente a più soggetti, rinvia sic et<br />
simpliciter alla disciplina della comunione civilistica, prevista<br />
per i beni materiali, senza tener conto delle peculiarità del diritto<br />
di brevetto che, invece, è un bene immateriale. “Proprio per<br />
evitare i riflessi di una disciplina pensata esclusivamente per la<br />
contitolarità dei beni «materiali», come appunto è quella<br />
codicistica, la maggior parte degli ordinamenti stranieri si è data<br />
una regolamentazione ad hoc. (…) La regola nei vari diritti<br />
scade successivamente al precedente, qualora il titolare del brevetto o il suo avente causa,<br />
direttamente o a mezzo di uno o più licenziatari, non abbia attuato l'invenzione brevettata,<br />
producendo nel territorio dello Stato o importando oggetti prodotti in uno Stato membro della<br />
Unione europea o dello Spazio economico europeo ovvero in uno Stato membro<br />
dell'Organizzazione mondiale del commercio, ovvero l'abbia attuata in misura tale da risultare<br />
in grave sproporzione con i bisogni del Paese, può essere concessa licenza obbligatoria per<br />
l'uso non esclusivo dell'invenzione medesima, a favore di ogni interessato che ne faccia<br />
richiesta. La licenza obbligatoria di cui al comma 1 può ugualmente venire concessa, qualora<br />
l'attuazione dell'invenzione sia stata, per oltre tre anni, sospesa o ridotta in misura tale da<br />
risultare in grave sproporzione con i bisogni del Paese. La licenza obbligatoria non viene<br />
concessa se la mancata o insufficiente attuazione e' dovuta a cause indipendenti dalla volontà<br />
del titolare del brevetto o del suo avente causa. Non sono comprese fra tali cause la mancanza<br />
di mezzi finanziari e, qualora il prodotto stesso sia diffuso all'estero, la mancanza di richiesta<br />
nel mercato interno del prodotto brevettato od ottenuto con il procedimento brevettato. La<br />
concessione della licenza obbligatoria non esonera il titolare del brevetto o il suo avente causa<br />
dall'onere di attuare l'invenzione. Il brevetto decade, qualora l'invenzione non sia stata attuata<br />
entro due anni dalla data di concessione della prima licenza obbligatoria o lo sia stata in misura<br />
tale da risultare in grave sproporzione con i bisogni del Paese”.<br />
113
stranieri è quella che pretende l‟unanimità dei consensi da parte<br />
dei contitolari per la concessione della licenza del loro brevetto.<br />
Si pongono, tuttavia, come eccezioni significative le soluzioni<br />
elaborate nel diritto francese e nel diritto statunitense.<br />
L‟ordinamento francese è passato dal silenzio (sul tema della<br />
copropriété de brevet) della legge del 1844, alla declamazione,<br />
contenuta nel testo originario dell‟art. 42 della loi sur les brevets<br />
d’invention del 1968, della necessità del consenso di tutti i<br />
contitolari, declamazione poi stravolta dalla riforma del 1978,<br />
che ha portato alla regola che oggi si può leggere nell‟art. 613-29<br />
del Code de la Propriété Intellectuelle 275 . L‟accordo di tutti i<br />
275 Art. 613- 29 La copropriété d'une demande de brevet ou d'un brevet est régie par les<br />
dispositions suivantes:<br />
La comproprietà di una domanda di brevetto o di un brevetto è disciplinato dalle seguenti<br />
disposizioni:<br />
a) Chacun des copropriétaires peut exploiter l'invention à son profit, sauf à indemniser<br />
équitablement les autres copropriétaires qui n'exploitent pas personnellement l'invention ou<br />
qui n'ont pas concédé de licences d'exploitation. A défaut d'accord amiable, cette indemnité est<br />
fixée par le tribunal de grande instance.<br />
a)Ogni comproprietario può sfruttare l'invenzione a proprio vantaggio, salvo che indennizzi<br />
equamente gli altri proprietari che non sfruttano personalmente l'invenzione o che non hanno<br />
concesso alcuna licenza. In mancanza di accordo amichevole, tale indennità è fissata dal<br />
“Tribunal de Grande Instance”.<br />
b) Chacun des copropriétaires peut agir en contrefaçon à son seul profit. Le copropriétaire qui<br />
agit en contrefaçon doit notifier l'assignation délivrée aux autres copropriétaires; il est sursis<br />
à statuer sur l'action tant qu'il n'est pas justifié de cette notification.<br />
b)Ogni comproprietario può agire in contraffazione a proprio vantaggio. Il comproprietario che<br />
agisce in contraffazione deve notificare l'atto di citazione agli altri proprietari, il procedimento<br />
è sospeso finchè egli non dà prova dell‟ avvenuta notificazione.<br />
c) Chacun des copropriétaires peut concéder à un tiers une licence d'exploitation non<br />
exclusive à son profit, sauf à indemniser équitablement les autres copropriétaires qui<br />
n'exploitent pas personnellement l'invention ou qui n'ont pas concédé de licence d'exploitation.<br />
A défaut d'accord amiable, cette indemnité est fixée par le tribunal de grande instance.<br />
c)Ciascun comproprietario può concedere ad un terzo una licenza di sfruttamento non esclusiva<br />
per proprio vantaggio, salvo che indennizzi equamente gli altri comproprietari che non<br />
sfruttano personalmente l'invenzione o che non hanno concesso una licenza. In mancanza di<br />
accordo amichevole, tale indennità è fissata dal « Tribunal de Grande Instance »<br />
Toutefois, le projet de concession doit être notifié aux autres copropriétaires accompagné<br />
d'une offre de cession de la quote-part à un prix déterminé.<br />
Tuttavia, il progetto di concessione (della licenza di sfruttamento) deve essere notificato agli<br />
altri comproprietari accompagnato da un 'offerta di cessione della loro quota (del brevetto<br />
comune) ad un prezzo fisso.<br />
Dans un délai de trois mois suivant cette notification, l'un quelconque des copropriétaires peut<br />
s'opposer à la concession de licence à la condition d'acquérir la quote-part de celui qui désire<br />
accorder la licence.<br />
114
contitolari vale soltanto per le licenze esclusive. Per le licenze<br />
non esclusive, principio fondamentale è quello secondo il quale,<br />
pur essendo oggetto della licenza l‟intero brevetto, parte del<br />
contratto è soltanto il contitolare che lo stipula. Da tale principio<br />
discende il corollario del riconoscimento di un‟indennità a favore<br />
di quei contitolari che non siano in grado di procedere in proprio<br />
ad uno sfruttamento produttivo o negoziale del brevetto.<br />
Tuttavia, prima di procedere alla stipulazione della licenza non<br />
esclusiva, il contitolare deve comunicare agli altri il projet de<br />
concession, offrendo ai dissenzienti la possibilità di acquistare la<br />
sua quota: questi hanno quindi la opportunità di evitare la<br />
concorrenza dell‟aspirante licenziatario, a patto però di<br />
«liquidare» il copropriétaire. Decisamente più liberale è la<br />
Entro tre mesi dalla notifica, ogni comproprietario può opporsi alla concessione della licenze a<br />
condizione di acquisire la quota di coloro che intendono concedere la licenza.<br />
A défaut d'accord dans le délai prévu à l'alinéa précédent, le prix est fixé par le tribunal de<br />
grande instance. Les parties disposent d'un délai d'un mois à compter de la notification du<br />
jugement ou, en cas d'appel, de l'arrêt, pour renoncer à la concession de la licence ou à l'achat<br />
de la part de copropriété sans préjudice des dommages-intérêts qui peuvent être dus ; les<br />
dépens sont à la charge de la partie qui renonce.<br />
In mancanza di accordo entro il termine stabilito nel paragrafo precedente, il prezzo è fissato<br />
dal “Tribunal de Grande Instance”. Le parti hanno un periodo di un mese dalla notifica della<br />
decisione o, in caso di appello, per rinunciare alla concessione della licenza o all‟acquisto della<br />
quota di proprietà, senza pregiudizio del risarcimento dei danni che possono essere dovuti;le<br />
spese sono a carico della parte rinuncia.<br />
d) Une licence d'exploitation exclusive ne peut être accordée qu'avec l'accord de tous les<br />
copropriétaires ou par autorisation de justice.<br />
d) Una licenza di sfruttamento esclusiva non può essere concessa che con il consenso di tutti i<br />
comproprietari o con l'autorizzazione del tribunale.<br />
e) Chaque copropriétaire peut, à tout moment, céder sa quote-part. Les copropriétaires<br />
disposent d'un droit de préemption pendant un délai de trois mois à compter de la notification<br />
du projet de cession. A défaut d'accord sur le prix, celui-ci est fixé par le tribunal de grande<br />
instance. Les parties disposent d'un délai d'un mois à compter de la notification du jugement<br />
ou, en cas d'appel, de l'arrêt, pour renoncer à la vente ou à l'achat de la part de copropriété<br />
sans préjudice des dommages-intérêts qui peuvent être dus ; les dépens sont à la charge de la<br />
partie qui renonce.<br />
e) Ogni comproprietario può, in qualsiasi momento, cedere la sua quota. I comproprietari<br />
hanno un diritto di prelazione per un periodo di tre mesi dalla notifica del progetto di cessione.<br />
In mancanza di accordo sul prezzo, è fissato dal “Tribunal de Grande Instance”. Le parti hanno<br />
un periodo di un mese dalla notifica della decisione o, in caso di appello, per rinunciare alla<br />
vendita o all'acquisto della quota di comproprietà senza pregiudizio per il risarcimento dei<br />
danni che possono essere dovuti, le spese sono a carico della parte che rinuncia.<br />
115
egola statunitense. Una giurisprudenza costante, recepita nella<br />
legge federale, consente a ciascun contitolare di concedere la<br />
licenza per proprio conto, senza coinvolgere gli altri<br />
comunisti.” 276<br />
276 GAND<strong>IN</strong>, op. cit., p. 1351<br />
116
Capitolo 4 Il marchio di gruppo<br />
4.1Introduzione<br />
L‟oggetto principale della trattazione è il marchio di gruppo inteso come<br />
il segno distintivo che viene utilizzato contestualmente dalle imprese o<br />
società che fanno parte del medesimo gruppo. Il marchio in questione<br />
“appartiene in senso formale ad un soggetto, ordinariamente alla<br />
capogruppo, e viene utilizzato, insieme al titolare o a prescindere dalla<br />
utilizzazione che il titolare ne faccia, da vari altri soggetti, per<br />
contrassegnare le rispettive attività produttive.” 277 Secondo un Autore 278 ,<br />
l‟evoluzione del marchio di gruppo è collegata alla tendenza alla<br />
razionalizzazione della struttura societaria di un medesimo gruppo di<br />
imprese. Egli sostiene che “a partire specialmente dagli anni „90 questa<br />
tendenza ha condotto i gruppi multinazionali di imprese a concentrare<br />
per quanto possibile la titolarità degli asset relativi alla proprietà<br />
intellettuale e dunque anche dei marchi nelle mani di una e possibilmente<br />
di una sola società; a predisporre una ragnatela di contratti e di rapporti<br />
di licenza tra la società ora detta e le altre società del medesimo gruppo;<br />
a prevedere spesso che questi rapporti siano onerosi e facciano rifluire<br />
royalties dalla periferia al centro del gruppo; ad organizzare questa<br />
ragnatela in modo da scremare gli utili della periferia a favore del centro;<br />
e per corollario a collocare per quanto possibile la società titolare degli<br />
asset di IP (Intellectual property) negli Stati a tassazione<br />
complessivamente più favorevole.” 279 Senza allontanarmi dallo studio<br />
del tema principale ritengo che, per comprendere appieno le<br />
problematiche connesse all‟utilizzazione plurisoggettiva del marchio di<br />
277 PETTITI, op. cit., p. 1<br />
278 UBERTAZZI, Il valore del marchio di gruppo nell’era della tecnologia, in Diritto<br />
dell'Internet, 1 / 2006, p. 5<br />
279 UBERTAZZI, op. ult. cit., p.5<br />
117
gruppo, non si possa prescindere dall‟analisi della ratio del gruppo di<br />
società e da quella dei particolari rapporti che devono intercorrere tra la<br />
società capogruppo e le società controllate o collegate e tra queste ultime<br />
(solo in presenza di questi rapporti, infatti, è garantita una costanza<br />
qualitativa, presupposto essenziale per il couso dello stesso marchio da<br />
parte di soggetti che non ne sono titolari). Quanto alla ragione<br />
dell‟esistenza dell‟istituto del gruppo di società, occorre considerare la<br />
tendenza degli odierni organismi economici alle concentrazioni, ossia<br />
alla riunione del maggior numero di imprese, anche se di ridotte<br />
dimensioni, esercenti il medesimo ramo d‟industria o di commercio, o di<br />
rami tra loro affini e connessi sotto una direzione unitaria, la quale segue<br />
criteri tecnici o amministrativi uniformi. “Gli ultimi decenni hanno visto<br />
in Europa alcune grandi stagioni di concentrazioni, di cui la prima è<br />
iniziata negli anni ottanta quando le imprese hanno voluto prepararsi<br />
all‟unificazione del mercato europeo programmata per il 1992 cercando<br />
di aumentare le proprie dimensioni per posizionarsi appropriatamente su<br />
questo mercato. Una seconda stagione di concentrazioni è iniziata in<br />
vista dell‟adesione di 10 nuovi stati dell‟est all‟Unione europea avvenuta<br />
nel 2005” 280 . Il fine delle coalizioni tra imprese è rappresentato<br />
dall‟esigenza di disciplinare la produzione e la distribuzione dei beni o<br />
dei servizi in modo da ridurne i costi mediante una concentrazione di<br />
mezzi che rende più agevole il sistema produttivo e dall‟esigenza di<br />
vincere la concorrenza, sia a livello nazionale sia a livello internazionale.<br />
Di qui sorge anche la necessità della presenza di un‟impresa capogruppo<br />
la quale, o esercita esclusivamente la funzione di razionalizzare la fase<br />
produttiva, ovvero la esercita, essendo al tempo stesso una delle imprese<br />
che partecipano al ciclo produttivo o distributivo. Tra i vantaggi di una<br />
tale organizzazione imprenditoriale vi è inoltre la possibilità di creare<br />
gruppi internazionali nei quali la società madre detiene il controllo di<br />
280 UBERTAZZI, op. ult. cit., p.5<br />
118
società figlie in vari stati esteri. Gruppi di questo genere consentono<br />
“l‟accesso ai mercati esteri, l‟impiego della manodopera esistente nei<br />
vari paesi, la possibilità di adeguare la produzione alle esigenze<br />
particolari dei mercati nazionali e il risparmio dei dazi di<br />
importazione.” 281 Quanto ai rapporti che devono intercorrere tra la<br />
società capogruppo e le società controllate o collegate e tra queste ultime,<br />
per rendere legittima l‟utilizzazione da parte dei diversi centri di<br />
imputazione del gruppo dello stesso segno distintivo, è possibile dire che<br />
i rapporti in questione possono ben avere la loro fonte in un rapporto<br />
contrattuale ma di regola essi sorgono attraverso una partecipazione di<br />
capitale. Si rende necessario, pertanto, un breve excursus sulla struttura<br />
del gruppo di società (o imprese) e sui rapporti di controllo e di<br />
collegamento tra la capogruppo e le varie affiliate.<br />
281 LIUZZO, Problematiche del marchio di gruppo, in Riv. dir. ind.,1982, II, p.416<br />
119
4.2 Il gruppo: analisi della sua struttura e dei rapporti di controllo e di<br />
collegamento tra la capogruppo e le varie affiliate<br />
Premetto che nel nostro ordinamento manca non solo una disciplina<br />
organica, ma anche una definizione giuridica di gruppo di imprese o di<br />
società. 282 Il legislatore, nell‟emanare il D. Lgs. n. 6/2003, infatti, pur<br />
agendo in attuazione della delega ad esso attribuita dalla Legge del 3<br />
ottobre 2001 283 , ha preferito non affrontare direttamente il fenomeno dei<br />
gruppi di società attraverso regole definitorie e di disciplina, così come<br />
lo autorizzava la norma delegante (art. 10 284 ). Anche dopo la riforma del<br />
diritto societario, pertanto, è presente, nel nostro ordinamento, non una<br />
disciplina organica del fenomeno ma una disciplina giuridica relativa a<br />
singole fattispecie inerenti al gruppo di società 285 . Un riferimento al<br />
gruppo di società, ad esempio, è contenuto nella disciplina dei<br />
provvedimenti urgenti per l‟amministrazione straordinaria delle grandi<br />
imprese in crisi, nella quale si prevede che l‟assoggettamento<br />
all‟amministrazione straordinaria di una società del gruppo può<br />
comportare la soggezione alla stessa procedura delle altre società del<br />
282<br />
Nella pratica vengono costituiti più frequentemente gruppi di società anziché gruppi di<br />
imprese, il che ovviamente non esclude che, sia pure con un‟incidenza (sotto un profilo<br />
statistico) di gran lunga inferiore, esistano gruppi dei quali fanno parte imprese individuali.<br />
283<br />
Legge del 3 ottobre 2001, n. 366, Delega al Governo per la riforma del diritto societario, in<br />
Gazz. Uff., 8 ottobre, n. 234<br />
284<br />
Art. 10, 1°comma (Gruppi) “ La riforma in materia di gruppi è ispirata ai seguenti principi e<br />
criteri direttivi: a) prevedere una disciplina del gruppo secondo principi di trasparenza e tale da<br />
assicurare che l'attività di direzione e di coordinamento contemperi adeguatamente l'interesse<br />
del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime; b) prevedere che<br />
le decisioni conseguenti ad una valutazione dell'interesse del gruppo siano motivate; c)<br />
prevedere forme di pubblicità dell'appartenenza al gruppo; d) individuare i casi nei quali<br />
riconoscere adeguate forme di tutela al socio al momento dell'ingresso e dell'uscita della<br />
società dal gruppo, ed eventualmente il diritto di recesso quando non sussistono le condizioni<br />
per l'obbligo di offerta pubblica di acquisto.”<br />
285<br />
Ad esempio legge n.2 del 28 gennaio 2009, che ha convertito con modifiche il c.d. Decreto<br />
Anticrisi, rende operative le modifiche normative in materia di gruppi d'imprese, riguardanti<br />
soprattutto: l'informativa societaria, il bilancio di esercizio, l'allineamento della tassazione delle<br />
attività d'impresa in Italia a quella degli altri Stati europei, il coordinamento della fiscalità<br />
societaria con quella dei soci, la struttura finanziaria dell'impresa, i nuovi istituti tributari del<br />
consolidato fiscale nazionale e della trasparenza, la disciplina fiscale delle controllate estere,<br />
l'esterovestizione delle holding.<br />
285<br />
PETTITI, op. cit., p.8<br />
120
gruppo. L‟art. 80, 1° comma lett. b) del D. Lsg. n. 270/1999, 286 infatti,<br />
dispone che, ai fini dell‟applicazione delle disposizioni del capo<br />
sull‟estensione dell‟amministrazione straordinaria alle imprese del<br />
gruppo, per “imprese del gruppo” si intendono “le imprese che<br />
controllano direttamente o indirettamente la società sottoposta alla<br />
procedura madre; le società direttamente o indirettamente controllate<br />
dall‟impresa sottoposta alla procedura madre o dall‟impresa che la<br />
controlla; le imprese che, per la composizione degli organi<br />
amministrativi o sulla base di altri concordanti elementi, risultano<br />
soggette ad una direzione comune a quella dell‟impresa sottoposta alla<br />
procedura madre.” Posto che esiste solo una disciplina giuridica relativa<br />
a singole fattispecie inerenti al gruppo di società e che, secondo<br />
un‟opinione dottrinale 287 , “le finalità delle produzioni normative che, più<br />
o meno esplicitamente, fanno riferimento al concetto di gruppo sono<br />
assai diverse, e ciò influenza la configurazione della fattispecie di volta<br />
in volta delineata”, personalmente ritengo che sia impossibile ricavare<br />
un‟unica nozione di gruppo. Ad avviso di chi scrive è possibile<br />
individuare i tratti caratterizzanti del gruppo partendo dall‟analisi dei<br />
suoi aspetti fattuali e attraverso lo studio e l‟applicazione della disciplina<br />
dettata dal codice sul controllo societario. In termini molto generali,<br />
quindi, è possibile affermare che il gruppo di società consiste in una<br />
aggregazione di società giuridicamente autonome dal punto di vista<br />
soggettivo e patrimoniale ma collegate sul piano organizzativo e soggette<br />
alle direttive della società capogruppo. Secondo un‟opinione dottrinale<br />
“quando si parla di gruppo si fa riferimento ad una pluralità di imprese<br />
legate l‟una all‟altra e inserite in una medesima struttura. Le singole<br />
unità, per un verso, rappresentano ciascuna un centro di imputazione<br />
286 D. Lgs. dell‟ 8 luglio 1999, n. 270, Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria<br />
delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della l. 30 luglio 1998, n. 27,<br />
in Gazz. Uff., 9 agosto 1999 , n.185<br />
287 AMMENDOLA, Unitarietà direzionale e organizzazione nel rapporto di gruppo, in Riv.<br />
delle società,1986, p. 1264<br />
121
distinto e hanno ciascuna propria personalità giuridica, (…) per altro<br />
verso, sono in qualche modo connesse tra loro, inserite in un‟attività<br />
economica unitaria e condividono la “soggezione” nei confronti del<br />
medesimo soggetto posto al vertice del gruppo.” 288 Al quesito se dai<br />
legami tra i diversi centri di imputazione possa scaturire un‟impresa di<br />
gruppo piuttosto che una pluralità di imprese nel gruppo, un<br />
orientamento giurisprudenziale degli anni novanta rispondeva negando la<br />
pluralità di imprese nel gruppo e sostenendo che “il gruppo o<br />
collegamento di società è tale solo in senso economico e, sul piano<br />
giuridico, è considerato ai limitati effetti previsti dal codice (art. 2359;<br />
2424 comma 1 n. 10; 2624 c.c.), sicché, in ordine ad esso, non può<br />
parlarsi di personalità giuridica e neppure di una qualsiasi forma di<br />
soggettività ovvero di centro di imputazione.” 289 La dottrina prima citata,<br />
invece, ritiene che “per quanto le imprese o società del gruppo possano<br />
essere funzionalmente collegate tra loro e rappresentare nel loro<br />
complesso un‟attività economica unitaria, esse rimangono centri di<br />
imputazione ben distinti. L‟unitarietà economica o, meglio,<br />
l‟individuazione tra le diverse imprese di un‟attività economica unitaria,<br />
non può comunque portare all‟individuazione di un‟impresa unica. Ciò<br />
che può assumere rilevanza nel gruppo è il coordinamento delle attività<br />
produttive delle rispettive imprese, la loro connessione per il<br />
raggiungimento di fini ulteriori rispetto a quelli delle singole imprese,<br />
non già la soppressione o l‟annullamento delle stesse a favore di<br />
un‟impresa unica.” 290 A parere di chi scrive, il gruppo è un complesso o<br />
un‟aggregazione di più imprese, ma esso complessivamente inteso,<br />
invece, non ha una propria soggettività, un proprio centro di imputazione<br />
288 PETTITI, op. cit., p.8<br />
289 Cass. civ. Sez. Lav., 9 dicembre 1991, n. 13226, in Giur. It., 1992, II, p. 1952; nello stesso<br />
senso App. Roma, 23 giugno 1988, in Foro it. 1989, p.420 “La figura del gruppo di società<br />
costituisce nel nostro ordinamento giuridico una formula descrittiva di un fenomeno di natura<br />
meramente economica, giuridicamente rilevante soltanto nelle materie espressamente regolate<br />
da specifiche disposizioni di legge e per i fini da queste perseguiti”.<br />
290 PETTITI, op. cit., p.9<br />
122
giuridica: non vi sono propriamente organi del gruppo, ma solo organi<br />
delle singole entità che ne fanno parte, i rapporti giuridici continuano a<br />
far capo alle singole entità e non al gruppo complessivamente inteso. In<br />
questo senso, il gruppo si pone su un piano distinto da quello del gruppo<br />
europeo di interesse economico 291 , “il quale ha la capacità a proprio<br />
nome di essere titolare di diritti e di obbligazioni di qualsiasi natura, di<br />
stipulare contratti o di compiere altri atti giuridici e di stare in giudizio.<br />
Gli Stati membri stabiliscono se i gruppi hanno o no personalità<br />
giuridica” 292 . Ritornando ai tratti caratterizzanti del gruppo di società è<br />
opportuno precisare che dello stesso fanno parte più società<br />
giuridicamente indipendenti, collegate da mutui legami azionari e tutte<br />
subordinate alla politica del gruppo determinata dalla società “madre”.<br />
Per politica di gruppo deve intendersi “non una politica imposta dalla<br />
capogruppo alle affiliate, mere pedine, ma una politica nella quale tutte<br />
le affiliate si ritrovano per realizzare il proprio interesse e quello del<br />
gruppo complessivamente inteso allo stesso tempo.” 293 Il potere di<br />
influire della capogruppo, che deriva dal controllo che la stessa ha sulle<br />
affiliate, (che comunque conservano la propria personalità giuridica)<br />
varia a seconda del tipo di gruppo. A seconda dei legami che sussistono<br />
tra le diverse entità, i gruppi si distinguono in patrimoniali, finanziari,<br />
industriali o imprenditoriali. “Nei gruppi patrimoniali l‟influenza della<br />
291 Il Gruppo Europeo di Interesse Economico (GEIE) è una figura creata nell'ordinamento<br />
europeo con il Regolamento comunitario n.2137 del 25 luglio 1985. Si tratta di una figura<br />
giuridica proposta dall' Unione europea avendo come riferimento il francese GIE (Group<br />
d'Interet Economique) con lo scopo di unire le conoscenze e le risorse di attori economici di<br />
almeno due paesi appartenenti all'Unione. Nelle intenzioni dei legislatori europei, questo<br />
dovrebbe permettere a piccole e medie imprese di poter partecipare a progetti più grandi di<br />
quanto le loro dimensioni permetterebbero. Il fine del GEIE, tuttavia, non è quello di ottenere<br />
un profitto, per quanto questo non sia vietato, quanto piuttosto fornire un ausilio alle attività<br />
delle imprese europee che lo costituiscono. Caratteristica principale di un GEIE è che deve<br />
essere costituito da aziende di almeno due paesi appartenenti all'Unione Europea mentre non è<br />
permesso ad aziende di paesi terzi di partecipare; inoltre, al momento della costituzione, si può<br />
decidere se dare o meno una scadenza predeterminata al GEIE.<br />
292 PETTITI, op. cit., p.11<br />
293 PETTITI, op. cit., p.13<br />
123
capogruppo è assai esigua. Essa si sostanzia in un‟attività di<br />
massimizzazione della redditività degli investimenti compiuti e non<br />
investe l‟attività di gestione delle singole controllate. (…) Nei gruppi<br />
finanziari l‟intervento della capogruppo è sempre ridotto, anche se<br />
leggermente più accentuato che nei gruppi patrimoniali. La capogruppo<br />
non si interessa direttamente dell‟attività produttiva delle affiliate, della<br />
politica di vendita, della qualità ecc., ma decide sull‟erogazione dei<br />
finanziamenti ed è quindi indirettamente in grado di influire sulla<br />
produzione bloccando o incentivando i progetti di produzione delle<br />
controllate. (…) Nei gruppi industriali e imprenditoriali, invece,<br />
l‟influenza della capogruppo è assai più ampia. Essa non riguarda solo la<br />
politica degli investimenti e l‟erogazione di prestiti, ma si estende alla<br />
produzione e alla gestione industriale.” 294 Il potere di influire della<br />
capogruppo deriva dal controllo che la capogruppo ha sulle affiliate.<br />
294 PETTITI, op. cit., pp. 15-16<br />
124
4.2.1Il controllo<br />
Come rileva un Autore 295 ,“ fondamentale importanza riveste il<br />
problema dei rapporti tra le nozioni di controllo e gruppo, onde<br />
accertare se la prima coincida con la seconda, oppure se ne<br />
rappresenti solo una componente, o ancora, se invece ne<br />
costituisca un elemento non necessario ma solo accidentale a<br />
prescindere dalla frequenza del suo riscontro nella<br />
pratica.” 296 Quanto al concetto di controllo occorre richiamare<br />
l‟articolo 2359 297 del codice civile, rubricato “Società controllate<br />
e società collegate”, secondo il quale “sono considerate società<br />
controllate: 1) le società in cui un‟altra società dispone della<br />
maggioranza dei voti esercitabili nell‟assemblea ordinaria; 2) le<br />
società in cui un‟altra società dispone di voti sufficienti per<br />
esercitare un‟influenza dominante nell‟assemblea ordinaria; 3) le<br />
società che sono sotto influenza dominante di un‟altra società in<br />
virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.. Ai fini<br />
dell‟applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si<br />
computano anche i voti spettanti a società controllate, a società<br />
fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti<br />
spettanti per conto di terzi. Sono considerate collegate le società<br />
sulle quali un‟altra società esercita un‟influenza notevole.<br />
L‟influenza si presume quando nell‟assemblea ordinaria può<br />
essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se<br />
la società ha azioni quotate in mercati regolamentati”. Dalla<br />
295 AMMENDOLA, op. cit., p. 1269<br />
296 AMMENDOLA, op. cit., p. 1269<br />
297 L‟art. 2359 c.c. , prima della modifica operata dal D. Lgs. 9 aprile 1991, n. 127 ,disponeva :<br />
“Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un‟altra società, in virtù delle azioni o<br />
quote possedute, dispone della maggioranza richiesta per le deliberazioni dell‟assemblea<br />
ordinaria; 2) le società che sono sotto l‟influenza dominante di un‟altra società in virtù delle<br />
azioni o quote da questa possedute o di particolari vincoli contrattuali con essa; 3) le società<br />
controllate da un‟altra società mediante le azioni o quote possedute da società controllate da<br />
queste. Sono considerate collegate le società nelle quali si partecipa in misura superiore al<br />
decimo del loro capitale ovvero in misura superiore al ventesimo se si tratta di società con<br />
azioni quotate in borsa.”<br />
125
lettera della norma in commento emergono due fondamentali<br />
concetti, quello del controllo e quello del collegamento,<br />
espressione di due livelli distinti di esercizio dell‟influenza di un<br />
soggetto sull‟altro. “Il controllo giuridicamente si manifesta<br />
quando una società è capace di esercitare un‟influenza<br />
dominante su di un‟altra, quando la controllante ha il potere di<br />
imporre alla controllata le proprie direttive nella certezza che<br />
queste vengano seguite dalle controllate e quindi anche di<br />
imporre una politica di gruppo. Il collegamento invece si<br />
manifesta quando, pur in assenza di questo potere preponderante<br />
di determinazione, un soggetto può influenzare notevolmente un<br />
altro. Più precisamente l‟art. 2359 c.c. prevede due diverse forme<br />
di controllo: quello interno (o azionario) e quello esterno (o<br />
contrattuale). Il controllo interno, a sua volta, può essere diretto<br />
(o di diritto) oppure indiretto (o di fatto). Il controllo interno<br />
diretto si ha nelle ipotesi in cui una società “dispone della<br />
maggioranza di voti esercitabili nell‟assemblea ordinaria” di<br />
un‟altra società (art. 2359, 1° comma, n° 1). Questa sorta di<br />
presunzione assoluta dell‟esistenza di una situazione di controllo<br />
societario è fondata sul presupposto secondo cui la disponibilità<br />
della maggioranza dei voti consente all‟azionista di nominare o<br />
l‟amministratore unico o l‟intero consiglio di amministrazione,<br />
nonché l‟organo di controllo della società: senza dubbio,<br />
l‟esercizio di questo potere di nomina pone la società<br />
controllante in condizione di orientare l‟attività della controllata<br />
verso linee di programmazione economica e finanziaria da essa<br />
prestabilite. Il controllo interno indiretto si ha nelle ipotesi in cui<br />
una società “dispone di voti sufficienti per esercitare<br />
un‟influenza dominante nell‟assemblea ordinaria” di un‟altra<br />
società (art. 2359, 1° comma, n° 2). Infatti, quando il capitale<br />
126
sociale risulta frammentato in numerose partecipazioni e quando<br />
si riscontra un costante e diffuso assenteismo degli azionisti, una<br />
società può controllarne un‟altra anche senza disporre della<br />
maggioranza dei voti. L‟influenza dominante - che può essere<br />
identificata, in prima approssimazione, con il potere di indirizzo<br />
dell‟attività della controllata - finisce, anche qui, per coincidere<br />
con la possibilità di nominare gli amministratori: una società,<br />
azionista minoritaria di un‟altra, ne eserciterà, dunque, il<br />
controllo quando sarà stabilmente in grado di determinare la<br />
nomina dell‟organo gestorio. A norma del 2° comma dell‟art.<br />
2359, sia nel caso di controllo diretto, sia in quello indiretto, per<br />
il computo dei voti si deve tenere conto anche di quelli “spettanti<br />
a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta;<br />
non si computano i voti spettanti per conto terzi”. Le fattispecie<br />
contemplate da questo comma sono caratterizzate dalla<br />
circostanza che la società controllante non instaura direttamente<br />
il rapporto di controllo, bensì indirettamente, cioè mediante altra<br />
società o persona. Occorre tenere conto, infatti, che è<br />
particolarmente frequente, nel sistema dei gruppi, il controllo<br />
indiretto per il tramite di società controllate (c.d. catena di<br />
società o “controllo a cascata”): la società A controlla la società<br />
B, la quale, a sua volta controlla la società C, e così via. In tal<br />
modo, la società A è, attraverso la controllata B, controllante<br />
indiretta di C. Inoltre, sempre il 2° comma dell‟art. 2359 estende<br />
il controllo azionario indiretto anche a fattispecie che non si<br />
presentano sotto la forma del controllo a cascata: tale norma,<br />
infatti, imputa alla società controllante le partecipazioni,<br />
ancorché non di controllo, detenute dalle società controllate in<br />
altra società. L‟espressione “per interposta persona” non<br />
identifica uno specifico rapporto giuridico e viene generalmente<br />
127
interpretata in senso lato, includendovi anche qualsiasi ipotesi in<br />
cui le azioni, pur essendo intestate a terzi, siano state acquistate<br />
dalla società o per conto della stessa, se il terzo ha l‟obbligo di<br />
trasferirle a quest‟ultima quando ne venga fatta richiesta.<br />
L‟interposizione, ad esempio, può attuarsi mediante rapporti<br />
fiduciari, di cui l‟intestazione a società fiduciarie rappresenta una<br />
sottospecie. Al contrario, come si è visto, la norma prevede che<br />
non si computino i voti spettanti per conto terzi: nel caso che<br />
interposta sia la società, infatti, non si tiene conto dei voti che ad<br />
essa spettano per conto terzi, proprio in quanto ciò che rileva è la<br />
disponibilità effettiva dei diritti di voto. In conclusione, il 2°<br />
comma dell‟art. 2359 equipara, ai fini dell‟accertamento del<br />
controllo indiretto, le partecipazioni dirette a quelle indirette e<br />
stabilisce che, in ogni caso, le une si sommano alle altre:<br />
controllante può essere, quindi, sia la società che ha frazionato<br />
tutte le partecipazioni e non risulta essere titolare neppure di<br />
un‟azione o quota, sia la società che è titolare di una<br />
partecipazione di per sé priva di influenza, ma determinante per<br />
disporre della maggioranza assoluta o relativa insieme alle<br />
partecipazioni indirette. Il controllo esterno, invece, si ha tutte le<br />
volte in cui una società è “sotto l‟influenza dominante di un‟altra<br />
società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”<br />
(art. 2359, 1° comma, n° 3). Secondo una parte della dottrina 298<br />
“la “particolarità” del vincolo contrattuale prevista nel testo<br />
vigente dall‟art. 2359, n. 3, c.c., appare idonea a ricomprendere<br />
non soltanto fattispecie “negoziali” dirette fra le parti, ma anche<br />
situazioni di fatto che rinvengano la loro fonte nella fase<br />
funzionale ed esecutiva di un accordo, intervenuto al limite fra le<br />
parti formalmente diverse, ma la cui efficacia si estenda anche ai<br />
298 MUSSO, Il controllo societario mediante “particolari vincoli contrattuali”, in Contratto e<br />
impresa ,I, 1995, p. 25<br />
128
terzi per volontà dei contraenti o per gli effetti legali che<br />
dall‟accordo scaturiscono.” 299 Per la dottrina ora citata, quindi, la<br />
formulazione della norma relativa ai vincoli contrattuali è<br />
idonea a ricomprendere ulteriori forme di controllo esterno quali,<br />
ad esempio, la coincidenza di fatto degli amministratori o la<br />
nomina di loro parenti stretti nelle società in collegamento; 300 i<br />
patti parasociali; la nomina di amministratori “formali” nelle<br />
varie società da parte di una società terza o del suo socio di<br />
maggioranza che operi quale effettivo amministratore “occulto”<br />
o di “fatto” nei confronti delle prime, pur senza detenervi<br />
partecipazioni rilevanti. “Dalle considerazioni finora esposte<br />
discendono diversi corollari particolarmente significativi per<br />
individuare più concretamente i presupposti della fattispecie in<br />
esame. In primo luogo, mentre il possesso della maggioranza di<br />
voti nell‟assemblea ordinaria consente di presumere di “diritto”<br />
l‟esistenza di un‟influenza dominante, nelle ipotesi “di fatto”,<br />
qual è il controllo attuato mediante contratto, appare<br />
indispensabile che l‟influenza in parola sia accertata in concreto<br />
mediante l‟esame di tutti i vincoli derivanti dall‟accordo e<br />
consista nella possibilità, per una parte, di determinare<br />
stabilmente la politica produttiva o commerciale dell‟altra,<br />
condizionandone di fatto le scelte di mercato. (…) In secondo<br />
luogo deve escludersi che esista una tipologia contrattuale<br />
unitaria tale da integrare di per se stessa il particolare vincolo in<br />
esame. In Germania - dove pure un siffatto accordo è previsto<br />
dall‟ordinamento nel c.d. “contratto di dominazione”, mediante il<br />
299 MUSSO, op. ult. cit., p. 25<br />
300 MUSSO, op. cit.,p. 25 “In quest‟ipotesi ,pertanto, un diretto patto fiduciario tra la società<br />
controllante e la società controllata ovvero un accordo parasociale o perfino un gentlemen’ s<br />
agreement fra l‟azionista di maggioranza della società dominante e i singoli amministratori<br />
della società controllata, appaiono costituire vincoli “contrattuali” sufficienti per integrare il<br />
primo presupposto dell‟art. 2359 n.3, c.c., mentre l‟effettiva identità personale degli organi<br />
gestori o di loro parenti in aggiunta alla prova dell‟unitarietà direzionale potrà risultare idonea<br />
per manifestare il carattere particolare dell‟accordo , ai fini previsti dalla norma medesima.”<br />
129
quale una società si assoggetta completamente al controllo di<br />
un‟altra, versandole eventualmente tutti gli utili, con correlativa<br />
responsabilità a carico della società dominante per le perdite<br />
della società dominata e con tutela degli azionisti di minoranza<br />
della seconda mediante garanzia di un dividendo minimo e<br />
opzione di acquisto delle azioni della società dominante - si è<br />
segnalata la suscettibilità di numerosi altri contratti d‟impresa a<br />
consentire il controllo in esame. Nello stesso tempo, anche la<br />
dottrina italiana, nell‟escludere l‟ammissibilità di uno specifico<br />
contratto di dominazione nel nostro ordinamento giuridico, ha<br />
evidenziato a maggior ragione la potenzialità dei vari “ordinari”<br />
contratti d‟impresa a consentire l‟influenza dominante richiesta<br />
per integrare il controllo contrattuale.” 301 Secondo un<br />
orientamento dottrinale 302 , si deve trattare di rapporti giuridici<br />
“la cui costituzione ed il perdurare dei quali rappresentino<br />
condizioni di esistenza e di sopravvivenza della capacità<br />
d‟impresa di una delle società contraenti”. Si indicano, tra gli<br />
altri, contratti di finanziamento, di agenzia, di licenza di<br />
brevetto, di commissione, di somministrazione in esclusiva, di<br />
franchising e di know-how. Ritornando al problema dei rapporti<br />
tra la nozione di controllo e quella di gruppo, cui abbiamo fatto<br />
riferimento all‟inizio di questo paragrafo, un orientamento<br />
dottrinale sostiene che “la semplice sussistenza del controllo non<br />
sia requisito sufficiente per identificare tra diverse società dei<br />
vincoli di gruppo e che sia indispensabile che questo potere di<br />
influire derivante dal controllo, venga di fatto esercitato. Come<br />
se il controllo corrispondesse ad una situazione potenziale e<br />
l‟esercizio concreto del potere determinasse l‟esistenza di un<br />
301 MUSSO, op. cit., p. 34<br />
302 PIRAS - CERRAI, Gruppi di società, in AA.VV., Diritto Commerciale, Bologna,1999, p.<br />
495 e ss.<br />
130
gruppo. Dunque, si è detto, il gruppo presuppone il controllo ma<br />
non tutte le fattispecie di controllo presuppongono il gruppo.” 303<br />
303 PETTITI, op. cit., p. 20<br />
131
4.2.2Controllo e direzione unitaria<br />
Posto che il controllo rappresenta un elemento necessario del<br />
gruppo, elemento la cui sussistenza deve essere accertata in<br />
concreto, si pongono divergenze in dottrina sull‟identificazione<br />
di un eventuale ulteriore requisito del gruppo che deve porsi<br />
accanto al controllo. Per una parte della dottrina 304 , infatti, la<br />
sussistenza di un gruppo richiede non soltanto la relazione di<br />
controllo fra le società ma altresì un‟ effettiva “direzione<br />
unitaria” della società holding sulle controllate; al contrario, per<br />
altra parte della dottrina 305 la stesso nozione di controllo è<br />
sufficiente per identificare il fenomeno del gruppo. Un Autore 306 ,<br />
che condivide il secondo orientamento dottrinale, rileva che “il<br />
requisito di una “direzione unitaria” risulta omesso dalle norme<br />
più recenti che hanno posto una correlazione fra “controllo” e<br />
“gruppo”, quali ad esempio l‟art. 60 del T.U. delle leggi in<br />
materia bancaria e creditizia (dove l‟attività di direzione e<br />
coordinamento della società capogruppo appare richiamata<br />
unicamente quale presupposto del controllo , nello specifico<br />
settore creditizio) (…) e che la sufficienza del rapporto di<br />
controllo è stata accolta anche nell‟ambito della disciplina<br />
comunitaria 307 per configurare il gruppo quale “unica impresa”<br />
sia pure ai fini antitrust.” 308 A parere di chi scrive, la tesi<br />
secondo la quale la nozione di controllo è sufficiente per<br />
identificare il fenomeno del gruppo è la più condivisibile.<br />
Personalmente ritengo che il potere in capo alla società<br />
capogruppo o alla holding di dirigere e influenzare le società<br />
304<br />
SCHIANO DI PEPE, Il gruppo di imprese, Milano, 1990, p. 17 ss.<br />
305<br />
GALGANO, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 1995, p. 225<br />
306<br />
MUSSO, op. cit.,p. 42<br />
307<br />
Comm. CEE, 21 dicembre 1988, in Giur. ann. dir. ind.,1990, p. 973 “Il fatto che le società<br />
madri abbiano il controllo delle rispettive affiliate è sufficiente per considerare i gruppi singole<br />
imprese”.<br />
308<br />
MUSSO, op. cit.,p. 42<br />
132
affiliate, finalizzato all‟attuazione della politica del gruppo, non<br />
rappresenti un requisito ulteriore rispetto al controllo ma derivi<br />
esso stesso dal controllo. Secondo un orientamento dottrinale 309 ,<br />
“l‟art. 2497- sexies 310 c.c. individua nel controllo una mera<br />
presunzione della sussistenza dell'attività di direzione e<br />
coordinamento. La direzione è, dunque, nozione più ampia del<br />
controllo, che della prima è il genere prossimo. Se è vero cioè<br />
che dalla presenza del controllo può inferirsi la sussistenza della<br />
direzione unitaria, è anche vero però che, trattandosi di<br />
presunzione juris tantum, può essere fornita la prova contraria, la<br />
quale non può che consistere, appunto, nella dimostrazione che,<br />
pur in presenza del controllo, non sussistono tuttavia ulteriori<br />
elementi, tali da poter affermare l'esistenza anche della direzione<br />
unitaria” 311 . Quanto all‟accertamento della sussistenza della<br />
direzione unitaria, che dovrà essere svolto in concreto, di volta in<br />
volta, rileverà ogni fatto o atto che, unito ad altri, configuri<br />
un'attività permanente e sistematica di incisione sulle scelte<br />
gestorie della società subordinata. Rileveranno dunque, a tal fine,<br />
atti formali a carattere negoziale, quali deliberazioni o accordi<br />
contrattuali, tra le società interessate; atti di indirizzo, quali<br />
ordini di servizio, istruzioni, regole di comportamento; meri fatti,<br />
comunque idonei ad influenzare significativamente le scelte<br />
gestionali della società.. Attività di direzione e coordinamento,<br />
tuttavia, non significa totale eterodirezione delle singole imprese<br />
da parte della società capogruppo o della holding, non significa<br />
309<br />
MONTALENTI, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in<br />
Riv. soc., 2007, 2-3,p. 317<br />
310<br />
Art. 2497-sexies (Presunzioni) “Ai fini di quanto previsto nel presente capo, si presume<br />
salvo prova contraria che l'attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla<br />
società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi<br />
dell'articolo 2359”.<br />
311 MONTALENTI, op. ult. cit.,p. 317<br />
133
espropriazione dell'autonomia gestionale delle società<br />
subordinate, non significa compressione completa del potere di<br />
autodeterminazione. La società madre, infatti, non deve<br />
esercitare influenza esclusivamente per la realizzazione dei<br />
propri interessi recando pregiudizio alle controllate, ma deve<br />
agire secondo lealtà. Le decisioni assunte dalla capogruppo<br />
vanno verificate alla luce delle scelte possibili in modo da non<br />
ledere gli interessi della controllata.<br />
134
4.3Nozione del marchio di gruppo e funzione<br />
“Il marchio di gruppo è quel marchio dotato delle caratteristiche<br />
costitutive ed essenziali del marchio individuale e caratterizzato dal fatto<br />
di essere utilizzato contestualmente da più soggetti giuridici distinti<br />
appartenenti ad un gruppo. Esso è ordinariamente intestato ad un<br />
soggetto che può o meno farne uso direttamente ed è sfruttato da una<br />
pluralità di altri soggetti che, pur avendo il diritto di farne uso, non hanno<br />
titolo per disporne.” 312 Secondo un Autore 313 , “i presupposti necessari<br />
per il sorgere della figura in esame (marchio di gruppo) sono: a)<br />
l‟esistenza di più imprese titolari o utenti di uno stesso marchio (o di più<br />
marchi uguali, depositati e/o usati in ordinamenti giuridici diversi); b)<br />
una situazione di collegamento economico tra tali imprese, pur restando<br />
le stesse autonome da un punto di vista giuridico; c) una direzione<br />
unitaria, sia essa individuale (capogruppo) o frutto di decisioni di un<br />
organo collettivo (comitato di coordinamento o similare). 314 Nel diritto<br />
dei marchi degli Stati Uniti, il marchio di gruppo si fonda<br />
prevalentemente sulla licenza del marchio. Nel Lanham Act 315 si<br />
riconosce che spesso in a group of affiliated companies, one company<br />
will hold ownership of all the trademark (and other) properties that are<br />
used by the other affiliates 316 . In particolare la normativa citata (15 USC<br />
1055 Use by related companies 317 affecting validity and registration)<br />
prevede che “Where a registered mark or a mark sought to be registered<br />
312 PETTITI, op. cit., p. 41<br />
313 GUGLIELMETTI, I c.d. marchi di gruppo, in Riv. dir. ind., 1983, p. 297<br />
314 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 297<br />
315 The Lanham (Trademark) Act (title 15, chapter 22 of the United States Code) is a piece of<br />
legislation that contains the federal statutes of trademark law in the United States.<br />
316 “In un gruppo di società affiliate una società avrà la proprietà di tutti i marchi e delle altre<br />
proprietà che sono usate dalle altre affiliate.”<br />
317 15 USC 1127 Construction and definitions; intent of chapter : “The term "related company"<br />
means any person whose use of a mark is controlled by the owner of the mark with respect to<br />
the nature and quality of the goods or services or in connection with which the mark is used”.<br />
“Il termine “società collegata” indica qualsiasi soggetto il cui utilizzo del marchio è controllato<br />
dal titolare di quest‟ultimo per quanto riguarda la natura e la qualità dei beni o dei servizi o in<br />
relazione ai quali il marchio è utilizzato.”<br />
135
is or may be used legitimately by related companies, such use shall inure<br />
to the benefit of the registrant or applicant for registration, and such use<br />
shall not affect the validity of such mark or of its registration, provided<br />
such mark is not used in such manner as to deceive the public. If first use<br />
of a mark by a person is controlled by the registrant or applicant for<br />
registration of the mark with respect to the nature and quality of the<br />
goods or services, such first use shall inure to the benefit of the<br />
registrant or applicant, as the case may be” 318 . Dalla normativa citata<br />
emerge che il limite dell‟uso plurimo del marchio da parte delle related<br />
companies è rappresentato dal divieto di ingannare il pubblico dei<br />
consumatori. Il rapporto tra le società, pertanto, deve esplicitamente<br />
prevedere che “the use of a mark is controlled by the owner of the mark<br />
with respect to the nature and quality of the goods or services or in<br />
connection with which the mark is used and that the trademark is not<br />
used in such manner as to deceive the public.” 319 Ritornando al diritto<br />
italiano dei marchi, posso affermare che, anche nel nostro ordinamento,<br />
il limite dell‟uso plurimo del marchio di gruppo è rappresentato dal<br />
divieto di uso ingannevole del segno distintivo. Anche se il CPI non<br />
contiene alcun riferimento esplicito all‟uso del marchio di gruppo,<br />
ritengo, infatti, applicabile alla fattispecie in commento l‟art. 14, 2°<br />
comma lett. a), CPI, 320 il quale fa riferimento all‟uso ingannevole “a<br />
causa del modo o del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il<br />
318 “Laddove un marchio registrato o un marchio in procinto di essere registrato è o potrebbe<br />
essere usato legittimamente da società collegate, tale uso dovrebbe essere effettuato a<br />
vantaggio del registrante o di colui che effettua la registrazione, e tale uso non dovrebbe<br />
inficiare la validità del marchio o della sua registrazione, purché tale marchio non sia utilizzato<br />
in modo decettivo per il pubblico. Se il primo utilizzo del marchio da parte di un soggetto è<br />
controllato dal registrante o da colui che effettua la registrazione del marchio per quanto<br />
riguarda la natura e la qualità dei beni o servizi, tale primo utilizzo dovrebbe essere effettuato a<br />
vantaggio del registrante o di colui che effettua la registrazione, come il caso richiederebbe.”<br />
319 “L‟uso del marchio è controllato dal titolare del marchio per quanto riguarda la natura e la<br />
qualità dei beni o servizi cui il marchio si riferisce o per i quali il marchio è usato e per fare in<br />
modo che il marchio non sia utilizzato in modo decettivo per il pubblico.”<br />
320 Art. 14, 2° comma lett. a) “Il marchio d‟impresa decade se sia divenuto idoneo ad indurre in<br />
inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a<br />
causa del modo o del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i<br />
prodotti o servizi per i quali è registrato”.<br />
136
suo consenso”. L‟utilizzo del marchio di gruppo da parte delle società<br />
affiliate, infatti, avviene sicuramente con il consenso del titolare.<br />
Secondo un orientamento dottrinale 321 ,infatti, “l‟utilizzazione contestuale<br />
dello stesso marchio non richiede necessariamente un accordo<br />
contrattuale tra il titolare e gli imprenditori che ne traggono profitto, ma<br />
trova fondamento e giustificazione in una sorta di autorizzazione del<br />
titolare del marchio e in una sostanziale unione tra gli imprenditori<br />
interessati, le cui rispettive attività appaiono funzionalmente collegate o<br />
coordinate.” 322 Per evitare l‟uso decettivo del marchio e, quindi, la<br />
conseguente decadenza ex art. 14, 2° comma lett. a), CPI, occorre che le<br />
società appartenenti al gruppo rispettino i medesimi standard produttivi e<br />
qualitativi in modo che i prodotti contrassegnati dal marchio di gruppo<br />
appaiano, al pubblico dei consumatori, provenienti da un‟unica impresa.<br />
“La semplice appartenenza al gruppo non è di per se circostanza<br />
sufficiente a legittimare il couso del marchio di gruppo quando ad essa<br />
non corrisponda un collegamento o coordinamento a livello delle<br />
attività.” 323 Secondo la sentenza del Tribunale di Chieti del 31 gennaio<br />
1986, infatti, “è ammissibile, nel vigente ordinamento, l‟uso<br />
contemporaneo del medesimo marchio da parte di più distinti soggetti,<br />
alla condizione però - e solo alla condizione - che gli stessi risultino uniti<br />
da vincoli di natura finanziaria, personale o contrattuale, per effetto dei<br />
quali la rispettiva attività produttiva venga ad essere diretta e controllata<br />
da un unico centro decisionale, che conguagli la molteplicità delle<br />
soggettività giuridiche nell‟unità di una sola effettiva impresa,<br />
assicurando uniformità nei metodi di fabbricazione e nei livelli<br />
qualitativi dei prodotti”. 324 Relativamente alle ragioni che inducono le<br />
related company ad utilizzare il marchio del gruppo, ad avviso di chi<br />
scrive, l‟adozione di un marchio comune può rispondere a vari ordini di<br />
321 PETTITI, op. cit., p. 42<br />
322 PETTITI, op. cit., p. 42<br />
323 PETTITI, op. cit., p. 42<br />
324 Trib. Chieti, 31 gennaio 1986, in Riv. dir. ind., II, p. 58<br />
137
esigenze: “può fondarsi sull‟esigenza di limitare i costi di registrazione<br />
dei marchi, di consentire un‟agevole circolazione dello stesso marchio<br />
all‟interno del gruppo oppure esser dettata da interessi familiari o diretta<br />
conseguenza dello smembramento di un‟attività imprenditoriale unitaria<br />
o della diversificazione di una produzione unitaria in varie<br />
sottoproduzioni” 325 . Quanto alla funzione del marchio di gruppo, in<br />
primo luogo, esso ricollega i prodotti o servizi contrassegnati non<br />
soltanto all‟impresa che li ha prodotti ma a tutte le imprese dello stesso<br />
gruppo. In secondo luogo, esso, come ogni altro segno distintivo<br />
trasmette un messaggio, e, in particolare, comunica la politica, il<br />
prestigio del gruppo. E‟ da tenere presente che “l‟impresa posta al vertice<br />
del gruppo ordinariamente adotta un segno sufficientemente<br />
rappresentativo e generico da poter essere utilizzato da tutte le affiliate,<br />
nelle loro rispettive produzioni- spesso piuttosto diverse – e le imprese<br />
del gruppo ne fanno uso affiancando eventualmente a questo marchio un<br />
marchio speciale.” 326<br />
325 PETTITI, op. cit., p. 42<br />
326 PETTITI, op. cit., p. 42<br />
138
4.3.1Titolarità del marchio di gruppo<br />
La questione della titolarità del marchio di gruppo è strettamente<br />
connessa a quella dell‟individuazione del soggetto che,<br />
all‟interno del gruppo, ha il potere di direzione e coordinamento<br />
sulle società affiliate. La titolarità del marchio, infatti, deve<br />
spettare al soggetto in grado di emettere le direttive vincolanti<br />
nei confronti delle affiliate e coinvolgenti la stessa utilizzazione<br />
del marchio. Dunque al soggetto che per la sua posizione di<br />
supremazia esercita concretamente il controllo nei confronti<br />
delle altre entità. Alla luce di quanto appena detto analizzerò due<br />
distinte questioni, cioè, se il marchio possa essere di titolarità di<br />
una delle società controllate ed utilizzato anche dalle altre (in<br />
questo caso la titolarità risulterebbe in capo ad un soggetto<br />
sottomesso alle direttive della capogruppo, allo stesso modo<br />
delle altre coutilizzatrici del marchio) oppure se possa essere di<br />
titolarità della società holding. Quanto alla prima questione,<br />
secondo un orientamento dottrinale 327 , si deve distinguere a<br />
seconda che la controllata titolare del marchio occupi una<br />
posizione a sua volta di dominio nei confronti delle altre entità<br />
del gruppo, sia cioè controllante verso queste ultime, o sia in<br />
posizione di parità verso le stesse, ossia siano allo stesso modo<br />
controllate da una controllante non titolare del marchio (nel<br />
primo caso le entità fanno parte di un gruppo a cascata o<br />
verticale, nel secondo, di un gruppo orizzontale). Secondo la<br />
dottrina citata è ammissibile la titolarità del marchio da parte di<br />
una controllata, a sua volta controllante delle altre entità<br />
coutilizzatrici del marchio. “Anche in questo caso infatti il<br />
soggetto titolare del marchio avrebbe il potere di esercitare il<br />
controllo ed emettere direttive vincolanti riguardo l‟utilizzazione<br />
327 PETTITI, op. cit., p. 102<br />
139
del marchio, in modo che tutti i soggetti che facciano uso dello<br />
stesso marchio seguano criteri di produzione uniformi. La<br />
titolare sarebbe a sua volta vincolata alle direttive della<br />
capogruppo necessariamente più generiche di quelle da essa<br />
stessa emesse e compatibili con queste ultime.” 328 Relativamente<br />
alla fattispecie della titolarità del marchio di gruppo da parte di<br />
una controllata che non abbia a sua volta il potere di controllare<br />
le altre entità, invece, l‟orientamento dottrinale citato nega<br />
questa possibilità. “In questo caso infatti, si verrebbe a creare<br />
una sorta di dicotomia tra il soggetto da cui sostanzialmente<br />
promana la politica concernente l‟utilizzazione del marchio e il<br />
soggetto cui risulta intestato il marchio. A quest‟ultimo<br />
spetterebbero i diritti che derivano dall‟intestazione, al primo la<br />
determinazione dei criteri di utilizzazione del marchio.” 329<br />
Quanto alla questione dell‟intestazione del marchio di gruppo<br />
alla società holding, questa riguarda la possibilità<br />
dell‟intestazione formale del segno distintivo del gruppo in capo<br />
ad un soggetto che non ha un‟impresa propria nella quale<br />
utilizzarlo ma si limita ad esercitare l‟attività istituzionale di<br />
capogruppo. La holding, infatti, è una società finanziaria di<br />
controllo, la quale non ha un‟impresa propria, ma si limita ad<br />
amministrare unitariamente le società dipendenti. E‟ possibile<br />
affermare che non ci sono dubbi circa l‟ammissibilità della<br />
fattispecie in questione dal momento che l‟art. 22, 1° comma, l.<br />
m. 330 (nel testo modificato dal D. Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480),<br />
nel prevedere che il titolare del marchio possa anche non avere<br />
una propria attività nella quale utilizzare il marchio se esercita il<br />
328 PETTITI, op. cit., p. 102<br />
329 PETTITI, op. cit., p. 102<br />
330 Art. 22, 1°comma, l.m.(oggi art. 19 CPI) “Può ottenere una registrazione per marchio<br />
d'impresa chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di<br />
prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il<br />
controllo o che ne facciano uso con il suo consenso.”<br />
140
controllo nei confronti del soggetto che lo utilizza nella propria<br />
attività produttiva, ha riconosciuto definitivamente la legittimità<br />
dell‟intestazione del marchio alla holding, recependo ciò che la<br />
prassi già da tempo conosceva. Un caso giurisprudenziale degli<br />
anni settanta 331 evidenziava, ad esempio, che il marchio<br />
“Chevron” era utilizzato in Italia dalla Chevron Oil Italiana<br />
s.p.a., che però non era titolare della relativa registrazione; essa<br />
era controllata dalla Chevron Oil Europe Inc., controllata dalla<br />
California Texas Oil Corp., a sua volta interamente posseduta<br />
dalla Standard Oil Company of California, che era titolare del<br />
marchio italiano “Chevron,” ma non lo usava. Posto che<br />
l‟intestazione del marchio di gruppo in capo alla holding è<br />
legittima, occorre precisare che il controllo dalla stessa esercitato<br />
sugli utilizzatori non deve consistere solo in un mero rapporto di<br />
partecipazione o finanziamento, ma deve comportare l‟adozione<br />
di una politica comune che coinvolga necessariamente<br />
l‟utilizzazione del marchio. Come rileva un‟opinione<br />
dottrinale 332 , infatti, “la holding deve dettare criteri comuni di<br />
produzione, di qualità, deve predisporre determinati servizi per<br />
l‟ausilio delle affiliate e controllare il rispetto delle direttive<br />
impartite, in modo da assicurare l‟uniformità della produzione e<br />
il rispetto del consumatore. (…) Titolare del marchio di gruppo<br />
deve essere quel soggetto che, pur non utilizzando in proprio lo<br />
stesso, ne determina le caratteristiche di utilizzazione e i criteri<br />
di produzione per effetto di quei poteri e quella posizione di<br />
supremazia che gli sono connaturali.” 333<br />
331 Trib. Catania, 25 gennaio 1977, in Riv. dir. ind., 1977,n. 917, p.396<br />
332 PETTITI, op. cit., p. 102<br />
333 PETTITI, op. cit., p. 102<br />
141
4.4 Ammissibilità del marchio di gruppo<br />
Come ho già anticipato a proposito dell‟intestazione del marchio di<br />
gruppo in capo alla holding, l‟ammissibilità della fattispecie in esame è<br />
fuori dubbio soprattutto alla luce del disposto dell‟art. 19 CPI secondo il<br />
quale “Può ottenere una registrazione per marchio d‟impresa chi lo<br />
utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di<br />
prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese<br />
di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso. Non<br />
può ottenere una registrazione per marchio d‟impresa chi abbia fatto la<br />
domanda in mala fede.” Il testo della norma citata riproduce quello<br />
dell‟art. 22 l.m., il quale discendeva dal D. Lgs. n. 480/92, con cui è stata<br />
recepita la direttiva CE 88/104, sul ravvicinamento delle legislazioni<br />
degli stati membri in materia di marchi d‟impresa. La novella del 1992<br />
ha sostanzialmente svincolato la titolarità del marchio dalla qualità di<br />
imprenditore 334 . Tale conclusione sarebbe supportata dalla locuzione<br />
“che ne facciano uso con il suo consenso” con cui il legislatore avrebbe<br />
disposto che anche chi non sia imprenditore né intenda diventarlo possa<br />
validamente depositare un marchio al fine di farlo usare da altri. 335<br />
E‟ da ricordare che il generale riconoscimento della possibilità di<br />
registrare un marchio da parte di chiunque a seguito della novella<br />
legislativa ha posto fine ad un intenso dibattito circa la legittimità del<br />
marchio di gruppo. “La legittimità di tale ipotesi è stata, prima della<br />
riforma del 1992, valutata alla stregua della normativa sulla cessione del<br />
marchio. In un primo tempo, l‟idea della circolazione “libera” del<br />
marchio all‟interno del gruppo venne poggiata sul concetto di licenza<br />
334 In questo senso vedi Trib. Milano, 8 novembre, 2005, in Giustizia a Milano, p. 76 “L'art. 22<br />
l. marchio per effetto della modifica introdotta dal d.lgs. n. 480 del 1992 ha eliminato la<br />
necessità che il soggetto registrante rivesta la qualità di imprenditore, posto che il deposito di<br />
un segno può essere eseguita anche solo al fine di concederne l'uso effettivo a terzi.”<br />
335 In questo senso UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e<br />
concorrenza, Padova, 2007, p.182; SCUFFI- FRANZOSI- FITTANTE, op. cit., p.154 “Dopo<br />
la riforma del 1992 occorre ancora un‟intenzione d‟uso ma questa può consistere<br />
nell‟intenzione che altri facciano uso del marchio registrato.”<br />
142
implicita, 336 e cioè sull‟idea che la situazione di gruppo implicasse degli<br />
accordi in ordine all‟utilizzazione dei marchi. In un secondo momento<br />
tale idea, palesemente artificiosa (perché nessuna licenza era davvero<br />
rintracciabile), fu abbandonata, ma la stessa soluzione rimase in piedi,<br />
affermandosi che la situazione di gruppo realizza una sostanziale unità<br />
d‟impresa, che si sovrappone alla pluralità formale delle società del<br />
gruppo.” 337 Secondo un Autore, 338 i primi riferimenti alla fattispecie del<br />
marchio di gruppo risalgono -almeno per quel che concerne l‟Europa -<br />
intorno al 1928, quando “in Germania, il Mints, il Meinhardt, il Baum, in<br />
sede di preparazione dell‟allora imminente congresso di Roma<br />
dell‟Associazione Internazionale per la protezione della proprietà<br />
industriale, si domandarono se le necessità proprie delle grandi<br />
concentrazioni industriali, colleganti insieme in vario modo imprese<br />
formalmente autonome, non rendessero necessario un distacco del<br />
marchio dall‟impresa, e maggiori possibilità nella cessione di quello a, o<br />
tra, imprese dipendenti o collegate.” 339 L‟Autore citato ricorda inoltre<br />
che nel 1934, alla conferenza di Londra per la revisione della<br />
Convenzione d‟Unione, la delegazione americana propose che all‟art. 5<br />
della Convenzione, il quale disciplina appunto l‟utilizzazione del<br />
marchio, venisse aggiunta la seguente disposizione: “Les pays de<br />
l’Union permettront l’ emploi de la même marque par des sociétés<br />
affiliées les unes aux autres de telle manière que les produits vendus par<br />
elles sont fabriqués d’ après les même procédés et formules techniques,<br />
en sorte que leur aspect et leur nature sont équivalents, pourvu que ces<br />
336 In questo senso vedi Trib. Milano, 5 maggio, 1975, in Giur. ann. dir. ind., 1975, n.722<br />
“Quando un marchio è registrato a nome di una società ed è usato da altra società ad essa<br />
collegata, quest‟uso è imputabile anche alla prima, stante l‟evidente rapporto di licenza<br />
implicita fra di esse”; Trib. Milano, 26 febbraio, 1976, in Giur. ann. dir. ind, 1976, n. 813<br />
“L‟esistenza di un contratto di licenza di marchio tra una società straniera ed una italiana può<br />
essere provata dalle presunzioni ricavabili dal fatto che la società licenziataria è stata costituita<br />
per operare nel territorio italiano sotto il controllo della società estera concedente”<br />
337 DI CATALDO, I segni distintivi, Milano, 1993, p. 30<br />
338 FRANCESCHELLI, Utilizzazione di marchi identici da parte di imprese collegate, in Studi<br />
Riuniti di diritto industriale, Milano,1959, p. 168<br />
339 FRANCESCHELLI, op. ult. cit., p. 168<br />
143
procédés soient dûment marqués avec le nom de la société qui les met en<br />
vente, avec l’indication du pays ou du lieu où ils sont fabriqués ou<br />
produits. 340 ” La proposta americana fu poi rielaborata e il suddetto<br />
articolo 5 assunse la seguente formulazione “l’ emploi simultané de la<br />
même marque sur des produits identiques ou similaires, par des<br />
établissements industriels ou commerciaux considérés comme<br />
copropriétaires de la marque d’ après les dispositions de la loi nationale<br />
du pays où la protection est réclamée, n’empêchera pas l’<br />
enregistrement . 341 L‟Autore citato ritiene che “il difetto fondamentale<br />
dell‟art. 5 della Convenzione d‟Unione, nella formulazione suddetta, è<br />
che esso sembra legare la possibilità di impiego simultaneo dello stesso<br />
marchio su prodotti identici o similari ma provenienti da diverse imprese,<br />
ad un‟ipotesi di comproprietà in senso tecnico.” 342 A conferma della<br />
tendenza a rinvenire il fondamento della legittimità del marchio di<br />
gruppo nel concetto di comproprietà o in quello di licenza implicita, si<br />
può ricordare alcune pronunce giurisprudenziali degli anni settanta quali,<br />
ad esempio, la sentenza del Tribunale di Milano del 16 novembre 1976 343<br />
ove si legge che “la teoria dei marchi di gruppo conduce correttamente<br />
ad ipotizzare una contitolarità dello stesso marchio in capo a più imprese<br />
collegate che ne facciano uso contemporaneamente secondo decisioni<br />
unitarie di politica industriale, prese nell‟ambito del gruppo e<br />
singolarmente”; la sentenza del Tribunale di Milano del 21 febbraio<br />
1977, 344 in cui è ammesso espressamente il concetto di marchio di<br />
340 “I Paesi dell‟Unione permettono l‟impiego del medesimo marchio da parte di società<br />
collegate in modo che i prodotti venduti dalle stesse siano fabbricati in base ai medesimi<br />
processi e formule tecniche, in modo che il loro aspetto e la loro natura sia uguale, a<br />
condizione che i processi siano correttamente contrassegnati dal marchio con il nome della<br />
società che li mette in vendita, con l‟indicazione del paese o del luogo dove esso è stato<br />
fabbricato o prodotto”.<br />
341 “L‟uso simultaneo dello stesso marchio su prodotti identici o simili, da parte di stabilimenti<br />
industriali o commerciali, considerati come comproprietari del marchio secondo le disposizioni<br />
della legge nazionale del paese in cui è richiesta la protezione, non deve impedirne la<br />
registrazione.”<br />
342 FRANCESCHELLI, op. cit., p. 168<br />
343 Trib. Milano, 16 novembre, 1976, in Giur. ann. dir. ind, 1976, n .915<br />
344 Trib. Milano, 21 febbraio, 1977, in Giur. ann. dir. ind, 1977, n. 1923, p. 850<br />
144
gruppo, distinguendo l‟uso comune del marchio ad opera delle imprese<br />
collegate, che si accompagni ad una situazione di contitolarità,<br />
dall‟ipotesi in cui il marchio risulta in titolarità esclusiva di una delle<br />
imprese mentre l‟uso dello stesso da parte di altre imprese del gruppo si<br />
configura come esecuzione di una licenza. E‟ stato infatti affermato che,<br />
“benché la teoria dei marchi di gruppo conduca correttamente ad<br />
ipotizzare una contitolarità dello stesso marchio in capo a più imprese<br />
collegate che ne facciano uso contemporaneamente secondo decisioni<br />
unitarie di politica industriale prese nell‟ambito del gruppo ed eseguite<br />
singolarmente, ciononostante, quando una delle imprese collegate si sia<br />
riservata la titolarità esclusiva del marchio mediante un acquisto a titolo<br />
originario, l‟uso dello stesso marchio da parte di altra impresa collegata<br />
può avvenire soltanto mediante un contratto di licenza e non certo in base<br />
alla semplice appartenenza allo stesso gruppo.” 345 Analizzerò ora la<br />
seconda tendenza cui ho fatto prima riferimento, quella secondo la quale<br />
la situazione di gruppo realizza una sostanziale unità d‟impresa, che si<br />
sovrappone alla pluralità formale delle società del gruppo. Un Autore 346<br />
afferma che “l‟utilizzazione del medesimo marchio da parte di una<br />
pluralità di imprese con la funzione distintiva, implicante la costante<br />
connessione del segno con una fonte unitaria di produzione/vendita del<br />
prodotto, viene ammessa allorché si consideri il gruppo di imprese come<br />
un‟unità economica, risultante dalle varie imprese, come un‟unica<br />
impresa, e le varie aziende come “rami” di un‟unica organizzazione<br />
aziendale. Nell‟ambito del gruppo, l‟uso del marchio compiuto dalle<br />
imprese collegate è imputabile alla società controllante, anche in assenza<br />
di veri e propri contratti di licenza. La tutela dei consumatori alla luce<br />
dell‟art. 15 l.m., 347 è assicurata dal fatto stesso che il marchio circoli fra<br />
società facenti parte di un unico complesso produttivo, con la relativa<br />
345 Trib. Milano, 21 febbraio, 1977, in Giur. ann. dir. ind, 1977, n. 1923, p. 850<br />
346 LIUZZO, Problematiche del marchio di gruppo, in Riv. dir. ind., I, 1982, p. 415ss<br />
347 Oggi art. 23 CPI<br />
145
messa a disposizione dei processi di fabbricazione e degli elementi<br />
necessari per la realizzazione di un prodotto corrispondente nei suoi<br />
caratteri essenziali a quello fabbricato dal titolare del marchio.” 348<br />
348 LIUZZO, op. ult. cit., p. 415ss<br />
146
4.4.2 Ammissibilità del marchio comunitario di gruppo<br />
Il marchio comunitario di gruppo riguarda un gruppo<br />
multinazionale o anche solo uninazionale di imprese che operi in<br />
una pluralità di Stati, in ciascuno dei quali aspiri ad una<br />
protezione dei propri marchi. La dottrina ha iniziato ad<br />
interessarsi al marchio comunitario di gruppo già nella fase della<br />
Proposta di regolamento del Consiglio istitutivo di un marchio<br />
comunitario, 349 quando un Autore 350 subito intravide, nella<br />
realizzazione di un mercato comune, la possibilità di instaurare<br />
condizioni giuridiche che avrebbero consentito alle imprese di<br />
adattare rapidamente alle dimensioni della Comunità la loro<br />
attività di fabbricazione e di distribuzione di beni, operando<br />
attraverso un marchio che avrebbe consentito ad esse di<br />
contraddistinguere i rispettivi prodotti o servizi in modo identico<br />
in tutta la Comunità. L‟Autore citato riteneva che “in tal modo<br />
parte dei problemi inerenti al marchio, di cui fosse stato titolare<br />
una società capogruppo ed utilizzato attraverso società affiliate<br />
collegate, sarebbero stati risolti legislativamente alla luce del<br />
futuro regolamento: con l‟applicazione, ad esempio, dell‟art 13,<br />
3° comma, che si esprime nel senso di ritenere “l‟uso del<br />
marchio comunitario da parte di un licenziatario o da parte di<br />
una persona economicamente legata al titolare del marchio<br />
comune (…) come effettuato dal titolare.” 351 Un altro Autore, 352<br />
sostenne che “il sistema dei marchi comunitari è destinato ad<br />
essere ampiamente utilizzato proprio dai gruppi di imprese a<br />
vocazione internazionale e, alla lunga, a sostituire per essi i<br />
349<br />
Proposta di regolamento (Cee) del Consiglio sul marchio comunitario, presentata dalla<br />
Commissione al Consiglio il 25 novembre 1980, in Guce 31 dicembre 1980 C 351<br />
350<br />
LIUZZO, op. cit., p. 444<br />
351<br />
LIUZZO, op. cit., p. 444<br />
352<br />
UBERTAZZI, I marchi comunitari di gruppo, in Il diritto comunitario degli scambi<br />
internazionali, 1998,I, p. 7<br />
147
diversi sistemi nazionali dei marchi dei singoli Stati membri<br />
della CEE.” 353 Quest‟ultimo Autore, partendo dal presupposto<br />
che il problema centrale dei marchi di gruppo è quello relativo<br />
all‟ammissibilità della contitolarità e del couso di un medesimo<br />
segno da parte di più imprese facenti parte di un unico<br />
gruppo, 354 osservava che “il regolamento consente e disciplina<br />
una pluralità di modelli, e precisamente almeno quattro<br />
modelli 355 alternativi semplici di attribuzione/diffusione della<br />
titolarità del marchio comunitario all‟interno del gruppo.” 356 Tra<br />
questi quattro modelli consentiti dal regolamento vi è quello di<br />
un unico marchio comunitario registrato da un‟unica impresa,<br />
che successivamente ne consente l‟uso alle altre imprese del<br />
medesimo gruppo. Secondo la Commissione, “non è affatto<br />
richiesto che il titolare di un marchio comunitario possegga<br />
un‟impresa né, qualora ne possegga una, che il marchio<br />
comunitario sia destinato ad identificare i suoi prodotti o i suoi<br />
servizi. Ciò risulta già dal testo dell‟art. 3. 357 Nulla vieta,<br />
pertanto, quanto meno nel diritto comunitario dei marchi, ad una<br />
società di partecipazione finanziaria di essere proprietaria di un<br />
marchio comunitario, né, più in generale, ad uno dei membri di<br />
353 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 7<br />
354 Ricordiamo che prima della novella del 1992, cui abbiamo sopra fatto cenno, una parte della<br />
dottrina ipotizzava una contitolarità del marchio di gruppo in capo a più imprese collegate per<br />
giustificare l‟uso da parte delle stesse del medesimo segno distintivo.<br />
355 Secondo il primo modello, ex art. 16, 3° comma r. m. c., una medesima domanda di marchio<br />
comunitario può essere depositata da più persone , con la conseguenza che varie persone<br />
possono essere iscritte nel registro dei marchi comunitari come richiedenti, e che il marchio<br />
comunitario può essere registrato a favore contemporaneamente di una pluralità di soggetti; il<br />
secondo modello, data la disciplina della novità del segno, consente alle diverse imprese del<br />
medesimo gruppo di registrare ciascuna un differente marchio comunitario relativo al<br />
medesimo segno; il terzo è quello di un unico marchio comunitario registrato da un‟unica<br />
impresa, che successivamente ne consente l‟uso alle altre imprese del medesimo gruppo; il<br />
quarto è quello dei marchi collettivi comunitari.<br />
356 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 9<br />
357 Art. 3 r. m. c.(Capacità di agire) “ Ai fini dell‟applicazione del presente regolamento sono<br />
assimilate a persone giuridiche le società e gli altri enti giuridici che, a norma della legislazione<br />
loro applicabile, hanno la capacità, in nome proprio, di essere titolari di diritti e di obblighi di<br />
qualsiasi natura, di stipulare contratti o di compiere altri atti giuridici e di stare in giudizio”.<br />
148
un gruppo di società di detenere un marchio comunitario per<br />
l‟insieme delle società.” 358 “Il regolamento comunitario non<br />
configura come rigidamente alternativi uno all‟altro i modelli<br />
organizzativi semplici ora ricordati della titolarità del marchio di<br />
gruppo: e ciò consente alla dinamica dell‟impresa e dei gruppi di<br />
optare di volta in volta anche per modelli organizzativi più<br />
complessi, e che in vario modo combinino alcuni o tutti i<br />
modelli semplici sin qui ricordati.” 359 Il regolamento sul marchio<br />
comunitario lascia, pertanto, all‟autonomia privata spazi assai<br />
ampi per la disciplina del couso del segno da parte delle imprese<br />
del medesimo gruppo ma non senza prevedere alcuni limiti quale<br />
in primis il principio art. 50, 1° comma lett. c), 360 secondo cui il<br />
marchio non deve “trarre in inganno il pubblico soprattutto circa<br />
la natura, la qualità o la provenienza geografica del prodotto o<br />
del servizio.” Relativamente all‟interesse della dottrina per<br />
l‟istituto del marchio comunitario dopo l‟emanazione del<br />
Regolamento sul marchio comunitario, 361 un Autore 362 afferma<br />
che “Gli orientamenti comunitari hanno particolare rilievo in<br />
materia di marchi di gruppo, poiché è assai frequente una<br />
ripartizione per stati dell‟ambito di attività delle singole società<br />
facenti capo al gruppo: in quest‟ambito è da registrare la<br />
tendenza ad un superamento del frazionamento delle singole<br />
entità giuridiche, rappresentate dalle singole società, attribuendo<br />
invece, la massima importanza all‟unitarietà in senso economica<br />
358<br />
Relazione della Commissione alla proposta di regolamento, in Riv. dir. ind., 1982, I, p. 131<br />
359<br />
UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 11<br />
360<br />
Art. 50,1° lett. c), r. m c.(Cause di decadenza) “se, a seguito dell‟uso che ne viene fatto dal<br />
titolare del marchio o col suo consenso per i prodotti o servizi per i quali è registrato, il<br />
marchio è tale da poter indurre in errore il pubblico, particolarmente sulla natura, qualità o<br />
provenienza geografica di tali prodotti o servizi”;<br />
361<br />
Reg. CE 20 dicembre 1993, n. 40/94. Regolamento del Consiglio sul marchio comunitario,<br />
in Guce – n. L 11 del 14 gennaio 1994, da ora in avanti r. m. c.<br />
362<br />
UBERTAZZI,Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza,<br />
Padova, 2007, p. 263<br />
149
del loro operato, sino ad escludere l‟applicabilità delle regole di<br />
concorrenza tra società madre e società figlia. 363 ” 364<br />
363 In questo senso Corte di Giustizia, caso Centrafarm/Winthrop del 31 ottobre 1974, in<br />
GADI, 1974, p. 1480 “L' art. 85 del trattato non colpisce accordi o pratiche concordate fra<br />
imprese appartenenti allo stesso gruppo, come società madre ed affiliata, qualora esse<br />
costituiscano un' unità economica nell' ambito della quale l' affiliata non dispone di effettiva<br />
autonomia nella determinazione del proprio comportamento sul mercato, e gli accordi o<br />
pratiche di cui trattasi abbiano semplicemente lo scopo di effettuare una ripartizione di compiti<br />
all' interno gruppo”; Corte di giustizia, caso Continental can del 21 febbraio1973, in GADI<br />
1973, p.1595<br />
364 UBERTAZZI, op. ult. cit., p. 263<br />
150
4.5Disciplina<br />
Come ho già anticipato nel paragrafo 4.3, la normativa italiana sui segni<br />
distintivi non contiene alcuna norma specificamente relativa ai marchi di<br />
gruppo. Per individuare la disciplina applicabile alla fattispecie in esame,<br />
pertanto, bisogna procedere dall‟analisi delle funzioni del marchio per<br />
verificare se, ed in che limiti, sia con esse compatibile l‟uso di un<br />
medesimo marchio da parte di più imprese di un stesso gruppo e, alla<br />
luce di questa verifica, è necessario individuare quali disposizioni del<br />
CPI siano applicabili ai marchi di gruppo. Relativamente alla questione<br />
della compatibilità dell‟uso plurimo del marchio di gruppo con le<br />
funzioni del marchio d‟impresa, 365 personalmente ritengo che il segno<br />
distintivo in questione, a prescindere dal numero dei soggetti giuridici<br />
che ne fanno uso, abbia una funzione distintiva, una funzione di garanzia<br />
di qualità e una funzione attrattiva. Il marchio di gruppo, infatti, è idoneo<br />
ad assicurare al consumatore l‟identità di origine del prodotto<br />
contrassegnato dal marchio, consentendogli di distinguere senza rischio<br />
di confusione questo prodotto da quelli di provenienza diversa; esso,<br />
inoltre, in forza del potere/dovere in capo alla società capogruppo di<br />
impartire alle società affiliate delle direttive in ordine agli standards<br />
qualitativi dei prodotti e dei servizi che saranno contrassegnati dal<br />
marchio di gruppo, è idoneo a garantire la costanza qualitativa (intesa<br />
come mantenimento nel tempo di identiche caratteristiche<br />
merceologiche) dei prodotti e dei servizi contraddistinti dal segno del<br />
gruppo; il marchio di gruppo, infine, veicolando la politica del gruppo,<br />
non è solo un nome (cioè un segno di collegamento ideale tra parola e<br />
cosa) ma costituisce, in presenza di determinate condizioni, una “qualità”<br />
del prodotto, cioè esso è in se stesso visto come un pregio del prodotto.<br />
Analizzerò di seguito alcune vicende del marchio di gruppo e cercherò di<br />
365 Per un riepilogo sulle funzioni del marchio d‟impresa si veda il paragrafo 1.1(Definizione e<br />
funzioni del marchio d‟impresa) p. 1<br />
151
individuare la relativa disciplina alla luce di quanto prevede il CPI per il<br />
marchio d‟impresa.<br />
152
4.5.1 Cessione e Licenza del marchio di gruppo<br />
Le caratteristiche peculiari del marchio di gruppo si riflettono<br />
anche sulle condizioni del suo trasferimento, sia esso cessione<br />
oppure concessione in licenza. Quanto alla cessione del marchio,<br />
essa può essere interna, cioè da una all‟altra impresa del gruppo,<br />
oppure esterna, cioè ad impresa estranea all‟organizzazione del<br />
gruppo. Per quanto riguarda il primo tipo di cessione, un<br />
orientamento dottrinale rileva che “già prima della modifica<br />
dell‟art. 15 l.m., 366 che ha soppresso il requisito della<br />
contestualità del trasferimento marchio-azienda, il marchio di<br />
gruppo poteva essere ceduto da un‟impresa all‟altra dello stesso<br />
gruppo, senza necessità di trasferire contestualmente l‟azienda e<br />
senza una vera e propria comunicazione delle conoscenze<br />
tecniche indispensabili.” 367 Il suddetto rilievo è confermato da un<br />
indirizzo giurisprudenziale degli anni settanta il quale riteneva<br />
prevalente la considerazione dell‟unitarietà del gruppo e<br />
considerava sufficiente, per la circolazione del marchio<br />
all‟interno del gruppo, un semplice atto permissivo della società<br />
titolare del marchio. 368 A parere di chi scrive, l‟art. 23, 4°<br />
comma CPI, relativo al trasferimento del marchio d‟impresa, in<br />
quanto esprime il principio generale della tutela del<br />
consumatore, è applicabile anche al trasferimento del marchio di<br />
gruppo. Pertanto, posto che dal trasferimento di un segno<br />
distintivo “in ogni caso non deve derivare inganno in quei<br />
366 Oggi art. 23 CPI<br />
367 PETTITI, op. cit., p. 123<br />
368 In questo senso Trib. Roma, 5 giugno 1986, in Foro pad., 1987, I, p.264 , secondo cui “Fra<br />
imprese appartenenti allo stesso gruppo il marchio può circolare liberamente e cioè la sua<br />
titolarità o il diritto di farne uso possono essere trasferiti senza che occorrano<br />
contemporaneamente cessioni di aziende o di loro rami”; Trib. Catania, 25 gennaio 1977, in<br />
Riv. dir. ind., 1977, n. 917, p.396, secondo cui “Nel caso di società collegate la circolazione<br />
dell‟uso del marchio può avvenire liberamente nel senso che basta un qualsiasi atto permissivo<br />
della società titolare o un qualsiasi genere di accordo senza alcun limite inerente alla natura o<br />
alla forma dell‟atto e alla tutela del pubblico.”<br />
153
caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali<br />
nell‟apprezzamento del pubblico”, credo che la cessione interna<br />
del marchio di gruppo sia legittima se il cessionario del marchio<br />
sia in grado di assicurare il medesimo livello qualitativo della<br />
produzione contrassegnata dal marchio. Solo se il nuovo titolare<br />
del segno distintivo, infatti, è in grado di esercitare (così come<br />
faceva il cedente) il controllo nei confronti delle entità<br />
coutilizzatrici del marchio, al fine di garantire un‟uniforme<br />
utilizzazione del marchio, si garantisce un uso non ingannevole<br />
del segno distintivo. Concludendo nel senso della legittimità<br />
della cessione interna del marchio di gruppo, è da precisare che<br />
quest‟ipotesi non è molto frequente. “Nella maggior parte dei<br />
casi il marchio viene intestato alla capogruppo o comunque a<br />
quell‟entità che esercita il controllo nei confronti delle altre in<br />
modo da potere essere utilizzato da tutte le sue controllate.<br />
Quando infatti il marchio è intestato ad una controllata che non<br />
occupa a sua volta una posizione di dominio verso altre entità,<br />
solo questa può farne uso.” 369 Per quanto riguarda la cessione<br />
esterna del marchio di gruppo, ipotesi poco frequente nella<br />
prassi, essa può configurarsi come trasferimento ad altro gruppo<br />
o ad un singolo imprenditore (solo se il marchio fosse costituito<br />
da un termine che sottolineasse l‟esistenza di un gruppo, non<br />
potrebbe essere ceduto ad un imprenditore singolo). Anche in<br />
questo caso il presupposto della validità della cessione è<br />
rappresentato dalla garanzia di costanza qualitativa dei prodotti<br />
contrassegnati dal segno distintivo ceduto. “Il cessionario, sia<br />
esso gruppo oppure singolo imprenditore, deve essere in grado di<br />
mantenere inalterata la qualità della merce e dunque deve essere<br />
opportunamente informato delle tecniche produttive già<br />
369 PETTITI, op. cit., p. 125<br />
154
utilizzate e apprezzate dal consumatore.” 370 E‟opportuno<br />
precisare che finora abbiamo fatto riferimento alla cessione del<br />
marchio di gruppo da parte del soggetto giuridico intestatario<br />
dello stesso, ossia la società capogruppo o la holding, dal<br />
momento che le singole società affiliate hanno solo il potere di<br />
utilizzare il marchio di gruppo, ma non anche quello di disporne<br />
in modo autonomo. La giurisprudenza ha infatti più volte<br />
ribadito l‟indisponibilità del marchio di gruppo da parte delle<br />
società affiliate, ad esempio, nella sentenza del Tribunale di<br />
Chieti del 31 gennaio del 1986, si legge che “Nel caso di<br />
marchio di gruppo, non può ammettersi - e se compiuto deve<br />
ritenersi nullo in riferimento all‟art. 15 cpv. l. marchio - il<br />
trasferimento autonomo da parte di una società affiliata, in<br />
qualunque forma effettuato, ed anche se accompagnato alla<br />
cessione dell‟intera azienda, dei diritti ad essa comunque<br />
spettanti sul marchio in favore di un terzo estraneo al gruppo cui<br />
la prima appartiene, determinando siffatto negozio<br />
l‟utilizzazione concorrenziale del segno distintivo da parte di<br />
imprese diverse anche sotto il profilo economico-sostanziale e<br />
dunque un inganno per il pubblico dei consumatori.” 371 Si può<br />
inoltre ricordare la sentenza del Tribunale di Terni del 26<br />
settembre del 1989 secondo cui “il fatto che una società figlia<br />
possa fare uso dei marchi della capogruppo non vale ad attribuire<br />
alla prima i poteri propri del titolare del marchio;” 372 la sentenza<br />
del Tribunale di Palermo del 30 maggio del 1991 per la quale “è<br />
escluso che una società appartenente al gruppo abbia il diritto di<br />
370 PETTITI, op. cit., p. 125<br />
371 Trib. Chieti, 31 gennaio 1986, in Riv. dir. ind., II, p. 58. Nel caso di specie, dichiarato il<br />
fallimento di una società affiliata ad un gruppo industriale multinazionale, gli organi<br />
fallimentari avevano alienato l'intero suo patrimonio aziendale ad altra società all'uopo<br />
costituita, e dunque estranea al predetto gruppo, la quale pretendeva di aver in tal guisa<br />
acquisito anche il diritto di valersi del marchio del gruppo, già appartenente, in forza di licenza<br />
senza esclusiva, alla società fallita.<br />
372 Trib. Terni, 26 settembre l 1989, in Giur. ann. dir. ind., 1990, p. 246<br />
155
sub concedere a terzi ad esso estranei, senza l‟implicito o<br />
esplicito consenso della società capogruppo, un marchio di cui<br />
quest‟ultima sia titolare esclusiva.” 373 Prima di esaminare la<br />
fattispecie della licenza del marchio di gruppo mi soffermo<br />
brevemente su un‟ultima ipotesi di trasferimento del marchio di<br />
gruppo, quella del trasferimento del marchio di gruppo<br />
coincidente con la ditta. L‟ipotesi in esame riguarda il caso in cui<br />
il segno prescelto come marchio di gruppo sia utilizzato allo<br />
stesso tempo come ditta o nome sociale. E‟ da ricordare che ai<br />
sensi dell‟art. 2563, 2° comma, c.c. “La ditta, comunque sia<br />
formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla<br />
dell'imprenditore, salvo quanto è disposto dall'art. 2565” e che ai<br />
sensi dell‟art. 2565, 1° comma, c. c “La ditta non può essere<br />
trasferita separatamente dall'azienda,” pertanto, potrebbe<br />
ritenersi che il trasferimento del marchio di gruppo- ditta, per un<br />
verso, non potrebbe avere luogo indipendentemente dal<br />
trasferimento dell‟azienda, per altro, violerebbe il principio della<br />
connessione tra ditta e imprenditore. Un orientamento<br />
dottrinale, 374 ritiene legittimo il trasferimento del marchio di<br />
gruppo-ditta se si ammette il superamento della connessione<br />
citata, “la pratica di utilizzare lo stesso segno come marchio e<br />
come ditta o nome nell‟ambito del gruppo, dimostra ancora che<br />
il nome può essere utilizzato anche indipendentemente<br />
dall‟azienda cui ha fatto originariamente capo, purché il nuovo<br />
imprenditore condivida le caratteristiche fondamentali<br />
dell‟attività produttiva e il nuovo uso non sia di inganno per il<br />
consumatore.” 375<br />
373 Trib. Palermo, 30 maggio 1991, in Giur. ann. dir. ind., 1991, p. 556<br />
374 PETTITI, op. cit., p. 128<br />
375 PETTITI, op. cit., p. 128<br />
156
Analizzerò ora la legittimità della fattispecie del licenza del<br />
marchio di gruppo e il conseguente uso contemporaneo dello<br />
stesso marchio da parte di imprenditori del gruppo e imprenditori<br />
che non appartengono al gruppo. E‟ da precisare che anche a<br />
questo proposito ci riferiamo al contratto di licenza del marchio<br />
di gruppo stipulato dal soggetto giuridico intestatario dello<br />
stesso, ossia la società capogruppo o la holding, dal momento<br />
che le singole società affiliate hanno solo il potere di utilizzare il<br />
marchio gruppo ma non anche quello di disporne in modo<br />
autonomo. L‟ammissibilità della fattispecie in esame dipende<br />
dall‟importanza che si attribuisce al requisito dell‟ appartenenza<br />
al gruppo. Se si ritiene che l‟appartenenza al gruppo sia<br />
essenziale per usare il marchio di gruppo, allora si deve<br />
necessariamente negare la configurabilità della concessione della<br />
licenza. Se, invece, si afferma che l‟appartenenza non è<br />
indispensabile, allora può concludersi per la legittimità della<br />
concessione della licenza del marchio di gruppo. Secondo un‟<br />
Autrice, 376 “L‟appartenenza è un presupposto e una conseguenza<br />
dell‟uso del marchio di gruppo. Presupposto, perché per effetto<br />
dell‟appartenenza al gruppo viene assicurata quell‟uniformità<br />
produttiva richiesta alle imprese che fanno uso dello stesso<br />
marchio. Conseguenza, perché attraverso l‟uso del marchio una<br />
certa impresa viene associata al gruppo nel suo complesso. Ma il<br />
concetto di appartenenza non deve essere interpretato in modo<br />
rigidamente formalistico e astratto.” 377 A parere di chi scrive,<br />
quello dell‟ appartenenza al gruppo non è il vero presupposto<br />
dell‟uso plurisoggettivo del marchio di gruppo in quanto ciò che<br />
davvero conta è, oltre ad una sorta di consenso implicito o<br />
esplicito del titolare, la condivisione di una medesima politica<br />
376 PETTITI, op. cit., p. 133<br />
377 PETTITI, op. cit., p. 133<br />
157
produttiva. Se il presupposto del marchio di gruppo è<br />
l‟uniformità produttiva, nulla vieta di ritenere che anche<br />
un‟impresa estranea al gruppo, licenziataria del marchio di<br />
gruppo, possa fare uso del marchio qualora sia condizionata al<br />
rispetto della medesima uniformità produttiva. Personalmente<br />
affermo quindi la legittimità dell‟utilizzo del marchio di gruppo<br />
anche da parte di uno o più soggetti allo stesso estranei perché,<br />
così come ho sostenuto a proposito della licenza del marchio in<br />
comunione, quello che davvero conta non è il numero degli<br />
utilizzatori del segno distintivo o la loro appartenenza al gruppo<br />
o alla comunione, ma è il rispetto degli standards qualitativi<br />
fissati dalla capogruppo o dall‟insieme dei comunisti, vero<br />
presupposto che deve sussistere per rispettare il divieto di uso<br />
decettivo del marchio. In conclusione è da ricordare che “sono<br />
comunque piuttosto rari i casi in cui una capogruppo deve<br />
licenziare il marchio ad un‟impresa esterna al gruppo. Data<br />
l‟organizzazione, il numero delle imprese del gruppo e la<br />
conseguente specializzazione di ciascuna entità, sembra difficile<br />
che vi possa essere un interesse alla concessione di licenza. Se la<br />
capogruppo intendesse espandere la produzione, potrebbe<br />
ricorrere ad una riorganizzazione dell‟attività delle varie imprese<br />
del gruppo, piuttosto che alla cooperazione di un‟impresa<br />
esterna” 378 .<br />
378 PETTITI, op. cit., p. 135<br />
158
4.5.2 Decadenza del marchio di gruppo<br />
Un caso particolare di estinzione del marchio di gruppo ricorre<br />
nell‟ipotesi di decadenza del marchio. Posto che può aversi<br />
decadenza del marchio per uso ingannevole dello stesso oppure<br />
nel caso di illiceità sopravvenuta ai sensi dell‟art 14.2 CPI, per<br />
non uso ai sensi dell‟art. 24.1 CPI, per volgarizzazione del segno<br />
ai sensi dell‟art. 13.4 CPI, bisogna verificare quali delle suddette<br />
ipotesi sono applicabili al marchio di gruppo e se esse incidono<br />
sul segno distintivo di gruppo anche nel caso in cui il<br />
comportamento che dà origine alla dichiarazione di decadenza<br />
sia stato posto in essere da una sola delle società affiliate.<br />
Relativamente alla prima ipotesi di decadenza, personalmente<br />
ritengo applicabile al marchio di gruppo l‟art. 14, 2° comma CPI,<br />
secondo il quale “Il marchio d'impresa decade: a) se sia divenuto<br />
idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la<br />
natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di<br />
modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il<br />
suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali e' registrato; b)<br />
se sia divenuto contrario alla legge, all‟ordine pubblico o al buon<br />
costume; c) per omissione da parte del titolare dei controlli<br />
previsti dalle disposizioni regolamentari sull'uso del marchio<br />
collettivo.” Sostengo l‟applicabilità della norma citata, in primo<br />
luogo, perché l‟art. 14, 2° comma lett. a) fa riferimento all‟uso<br />
ingannevole “a causa del modo o del contesto in cui viene<br />
utilizzato dal titolare o con il suo consenso” e il modo e il<br />
contesto in cui viene utilizzato il marchio di gruppo da parte<br />
delle affiliate è riconducibile al consenso della capogruppo,<br />
titolare del marchio; in secondo luogo perché credo che il<br />
controllo che la capogruppo deve esercitare sulle società<br />
utilizzatrici del marchio di gruppo sia assimilabile a quello cui fa<br />
159
iferimento l‟art. 14, 2° comma lett. c); in terzo luogo perché, al<br />
di là dei suddetti argomenti letterali, ritengo che l‟esigenza di<br />
tutela del pubblico dei consumatori sia particolarmente sentita<br />
nelle ipotesi di utilizzazione plurima dello stesso segno distintivo<br />
e in particolare nell‟ipotesi di utilizzazione del marchio di<br />
gruppo la cui legittimità è legata alla costanza qualitativa dei<br />
prodotti o servizi dallo stesso contrassegnati. Per quanto riguarda<br />
la decadenza per non uso, ad avviso di chi scrive, l‟art. 24, 1°<br />
comma, CPI 379 è teoricamente applicabile al marchio di gruppo<br />
dal momento che la ratio della norma citata, evitare<br />
l‟accaparramento di un segno impedendo a terzi l‟uso effettivo<br />
nel mercato, esprime un principio generale del diritto dei marchi.<br />
Anche se ho parlato di una teorica applicabilità dell‟art. 24, 1°<br />
comma, CPI, devo precisare che la dottrina 380 è concorde nel<br />
ritenere che la decadenza del marchio di gruppo per non uso è<br />
piuttosto improbabile, perché per prodursi il marchio non<br />
dovrebbe essere utilizzato da nessuna delle imprese del gruppo.<br />
Già nel 1982, infatti, un Autore scriveva che “l‟ipotesi della<br />
decadenza del marchio per non uso è da escludersi, in quanto<br />
l‟uso da parte di altri imprenditori fra loro collegati non<br />
presuppone una rinuncia alla tutela del marchio da parte della<br />
società titolare, la quale, in sostanza provvede all‟attuazione del<br />
marchio attraverso altri soggetti ad essa legati da un rapporto<br />
giuridico che giustifica tale utilizzazione nell‟interesse della<br />
titolare; viene insomma riferita al gruppo, e di riflesso alle<br />
singole società che ne fanno parte, l‟attività svolta dalle altre<br />
379 Art. 24,1° comma CPI (Uso del marchio) “A pena di decadenza il marchio deve formare<br />
oggetto di uso effettivo da parte del titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i<br />
quali e' stato registrato, entro cinque anni dalla registrazione, e tale uso non deve essere<br />
sospeso per un periodo ininterrotto di cinque anni, salvo che il mancato uso non sia giustificato<br />
da un motivo legittimo”.<br />
380 Vedi ad esempio PETTITI, op. cit., p. 153<br />
160
società.” 381 A parere di chi scrive l‟utilizzo del marchio da parte<br />
delle società affiliate è idoneo ad evitare la decadenza del<br />
marchio anche se la titolare dello stesso non ne fa uso, infatti,<br />
l‟art. 24, 1° comma, CPI considera sufficiente l‟ uso effettivo del<br />
marchio con il consenso del titolare e, affinché abbia luogo la<br />
decadenza per non uso, il marchio non dovrebbe essere utilizzato<br />
da nessuna delle imprese del gruppo. Nel caso di un gruppo<br />
multinazionale la questione è più complessa per la necessità di<br />
rispondere al quesito preliminare se l‟uso del marchio all‟estero<br />
possa essere imputato all‟impresa italiana titolare del marchio,<br />
cioè se l‟uso da parte di un‟impresa del gruppo situata all‟estero<br />
sia idoneo ad evitare la decadenza del marchio in Italia. Secondo<br />
un orientamento dottrinale anteriore all‟istituzione del marchio<br />
comunitario “Non sembra di poter dare risposta positiva al<br />
quesito. L‟uso richiesto ad evitare la decadenza è quello che si<br />
produce nel territorio italiano. Pertanto, se l‟impresa del gruppo<br />
faccia uso del marchio solo all‟estero, il marchio italiano dovrà<br />
considerarsi necessariamente decaduto, mentre l‟impresa<br />
straniera potrà continuare ad avvalersene anche solo come<br />
marchio di fatto.” 382 Nello stesso senso un altro Autore 383<br />
afferma che “Qualora il gruppo operi su scala internazionale non<br />
è indifferente da parte di quale impresa del gruppo il marchio sia<br />
usato. Ciò che gli ordinamenti si propongono di ottenere,<br />
esigendo l‟obbligo di utilizzare il marchio, è che l‟uso avvenga<br />
nel territorio dello Stato e pertanto se altra società, pur<br />
appartenente allo stesso gruppo, ha fatto uso del marchio solo<br />
all‟estero, l‟eventuale marchio (uguale) registrato in Italia<br />
decadrà qualora l‟uso non avvenga nel nostro Paese entro i<br />
381 LIUZZO, op. cit., p. 438<br />
382 PETTITI, op. cit., p. 154<br />
383 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 298<br />
161
termini stabiliti dalla legge italiana. Sarà necessario, pertanto,<br />
per impedire la decadenza, un uso sul territorio italiano, quanto<br />
meno sotto forma di importazioni per la vendita in Italia di<br />
prodotti fabbricati all‟estero e/o di svolgimento di attività<br />
pubblicitaria in Italia di prodotti contrassegnati da detto marchio<br />
all‟estero, ove si ritenga che la (sola) pubblicità salvi il marchio<br />
dalla decadenza.” 384 A seguito dell‟istituzione del marchio<br />
comunitario, è mia convinzione che l‟uso del marchio da parte di<br />
una società del gruppo multinazionale, effettuato in qualsiasi<br />
Stato della Comunità, sia idoneo ad evitare la decadenza del<br />
marchio del quale la capogruppo è titolare. Sostengo questa tesi<br />
alla luce della ratio dell‟art. 24,1° comma, CPI e della tendenza<br />
dei gruppi multinazionali ad adottare marchi comunitari di<br />
gruppo. Per quanto riguarda il primo argomento, l‟ idoneità<br />
dell‟uso da parte di un‟impresa del gruppo situata all‟estero ad<br />
evitare la decadenza del marchio in Italia non contrasta con lo<br />
scopo della norma citata, cioè non integra un accaparramento del<br />
segno impedendo a terzi l‟uso effettivo nel mercato. In relazione<br />
al secondo argomento, credo che il sistema dei marchi<br />
comunitari sia destinato ad essere ampiamente utilizzato proprio<br />
dai gruppi di imprese a vocazione internazionale. Posto che nella<br />
maggior parte dei casi il marchio di gruppo è un marchio<br />
comunitario, ai sensi dell‟art. 50,1° comma lett. a) r. m.c. “il<br />
titolare del marchio comunitario è dichiarato decaduto dai suoi<br />
diritti (…) se il marchio, per un periodo ininterrotto di cinque<br />
anni, non ha formato oggetto di un uso effettivo nella Comunità<br />
per i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato.” Ai fini<br />
della decadenza del marchio comunitario di gruppo, quindi,<br />
rileva l‟uso effettivo che dello stesso viene o non viene fatto non<br />
384 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 298<br />
162
in un singolo stato ma nell‟intera Comunità. Per concludere<br />
questo breve excursus sulle varie cause di decadenza e sulla<br />
compatibilità delle stesse con il marchio di gruppo, si deve<br />
ricordare l‟ultima ipotesi di decadenza, quella per<br />
volgarizzazione. Anche se il rischio della volgarizzazione del<br />
segno è maggiore in tutti i casi in cui il marchio viene usato<br />
contestualmente da più imprenditori, tuttavia, il pericolo di<br />
volgarizzazione del marchio di gruppo appare più teorico che<br />
reale perché difficilmente il marchio di gruppo rappresenta un<br />
solo prodotto e quindi viene associato dal consumatore solo a<br />
quello, quanto piuttosto i diversi prodotti provenienti dalle<br />
distinte attività produttive. Ciò a maggior ragione quando si<br />
consideri che il marchio di gruppo per poter essere comodamente<br />
utilizzato da parte delle varie imprese deve essere un marchio<br />
generale, in grado di individuare non un solo specifico prodotto,<br />
ma tutte le attività esercitate dalle imprese del gruppo.<br />
“L‟utilizzazione plurisoggettiva dello stesso marchio da parte dei<br />
soggetti del gruppo crea i presupposti per il conseguimento di<br />
un‟alta rinomanza del segno senza provocare con immediatezza<br />
la sua associazione al singolo prodotto e rischiare di sostituirsi<br />
alla sua denominazione propria.” 385<br />
385 PETTITI, op. cit., p. 152<br />
163
4.5.3 Altre cause di estinzione del marchio di gruppo<br />
“Il marchio di gruppo può estinguersi anche per cause particolari<br />
diverse da quelle che valgono per il marchio individuale. In<br />
particolare possono assumere rilevanza alcune circostanze<br />
afferenti all‟imprenditore singolo o al gruppo nel suo complesso.<br />
Dal punto di vista del singolo l‟estinzione del diritto di<br />
utilizzazione del marchio potrebbe conseguire alla sua uscita dal<br />
gruppo, se la condizione dell‟appartenenza fosse indispensabile<br />
per lo specifico marchio considerato o se per effetto dell‟uscita<br />
dal gruppo, il soggetto in questione non fosse in grado di<br />
mantenere quell‟uniformità produttiva richiesta. Dal punto di<br />
vista del gruppo, invece, l‟estinzione del marchio potrebbe<br />
conseguire allo scioglimento del gruppo.” 386 Per quanto riguarda<br />
le vicende che possono determinare l‟estinzione del diritto di<br />
utilizzare il marchio di gruppo in capo alla singola società<br />
affiliata, si può ricordare l‟ipotesi in cui quest‟ultima trae il<br />
diritto in questione da una licenza d‟uso. Relativamente a<br />
quest‟ipotesi la pronuncia del Tribunale di Chieti più volte citata<br />
prevede che “Nel caso di marchio di gruppo, lo scioglimento dei<br />
vincoli di appartenenza al gruppo industriale nei confronti di una<br />
società affiliata, la quale tragga il proprio diritto di utilizzazione<br />
del marchio da una licenza d‟uso a titolo non esclusivo<br />
accordatale dalla società madre, determina l‟immediata<br />
estinzione di detto diritto, venendo meno, con l‟uscita dal<br />
gruppo, quei poteri di direzione e controllo della società<br />
concedente su quella licenziataria che soli consentono di ritenere<br />
lecita, in riferimento al disposto degli artt. 2573 c.c. e 15 l.m., la<br />
licenza di marchio senza esclusiva.” 387 Riguardo all‟eventuale<br />
386 PETTITI, op. cit., p. 154<br />
387 Trib. Chieti, 31 gennaio 1986, in Riv. dir. ind., II, p. 58<br />
164
estinzione del marchio a seguito dello scioglimento del gruppo,<br />
viene da chiedersi se, nonostante detto scioglimento, il marchio<br />
possa essere utilizzato ancora dalla titolare capogruppo.<br />
(Naturalmente l‟interrogativo si pone solo in relazione al<br />
marchio di gruppo che non sia un marchio complesso costituito<br />
dal termine “gruppo” perché quest‟ultimo non potrebbe essere<br />
utilizzato dall‟imprenditore singolo e si estinguerebbe con<br />
l‟estinzione del gruppo). Secondo un orientamento dottrinale, 388<br />
la fattispecie in esame deve essere considerata da due angoli di<br />
visuale, quello della tutela del consumatore relativamente al<br />
rispetto della qualità della merce e quello della fiducia che questi<br />
investe nella consapevolezza che il marchio appartiene ad un<br />
gruppo, dunque ad una pluralità di imprese che cooperano per il<br />
buon nome e il prestigio dei prodotti e del marchio insieme.<br />
“Non sembrano esservi particolari problemi dal primo angolo di<br />
visuale. La qualità del prodotto dovrebbe restare inalterata ai fini<br />
della tutela del consumatore. (…) Dal secondo angolo di visuale<br />
la questione è più complessa. Bisognerebbe stabilire infatti fino a<br />
che punto il consumatore è interessato alla circostanza che il<br />
marchio di gruppo viene utilizzato da diversi imprenditori che<br />
insieme collaborano per il perfezionamento della produzione e il<br />
buon nome del marchio.” 389 La dottrina citata ammette<br />
l‟utilizzazione del marchio da parte del titolare della capogruppo<br />
a seguito dello scioglimento del gruppo, sul presupposto che ciò<br />
che interessa al consumatore è la qualità del prodotto o in senso<br />
lato dell‟attività produttiva e il rispetto delle caratteristiche<br />
sostanziali già apprezzate da parte di un nuovo soggetto che fa<br />
uso del marchio o di quello che continua a farne uso con<br />
presupposti diversi, non tanto la provenienza effettiva del<br />
388 PETTITI, op. cit., p. 155<br />
389 PETTITI, op. cit., p. 155<br />
165
prodotto. A parere di chi scrive l‟orientamento dottrinale sopra<br />
ricordato è pienamente condivisibile perché quello che davvero<br />
conta per il consumatore medio, il quale quasi sempre ignora le<br />
connessioni tra marchio e gruppo, è sapere che il prodotto<br />
contrassegnato da un certo marchio continua a presentare le<br />
caratteristiche qualitative già sperimentate.<br />
166
4.6Tutela del marchio di gruppo<br />
Il tema del marchi di gruppo emerge anche sotto il profilo della<br />
individuazione dei soggetti legittimati ad agire a difesa del marchio di<br />
gruppo. Il punto cruciale è stabilire se a difesa del marchio di gruppo<br />
possa agire solo la titolare o se invece sia individuabile un diritto di<br />
difesa anche delle imprese che ne fanno uso. Prima di considerare la<br />
fattispecie in esame, occorre considerare brevemente quali siano in<br />
generale i soggetti legittimati ad agire a tutela di un determinato marchio.<br />
Sicuramente lo sono il titolare e il licenziatario. Relativamente a<br />
quest‟ultimo, secondo un orientamento dottrinale 390 “Se la licenza di<br />
marchio o di brevetto è dunque equiparabile ad un contratto di locazione<br />
su bene immateriale, risulta solidamente fondata l'attribuzione dell'azione<br />
di contraffazione anche ad un detentore qualificato dell'oggetto di<br />
privativa qual è il licenziatario, come la dottrina e la giurisprudenza<br />
hanno ammesso dapprima unicamente in favore del licenziatario<br />
esclusivo, poi estendendo un'autonoma legittimazione al riguardo anche<br />
al licenziatario senza clausola di esclusiva”. 391 Ritornando al problema<br />
della legittimazione attiva delle società del gruppo ad agire a tutela del<br />
marchio di gruppo, si deve ricordare che su questo argomento c‟è una<br />
giurisprudenza contrastante. L‟ordinanza del Tribunale di Torino del 19<br />
ottobre 2004 nega la suddetta legittimazione, e nel caso “Atari Europe<br />
s.a. s. e Atari Italia s.p.a. c. New York New York s.r.l. e la Linea Magica<br />
s.r.l.”, dispone che “L‟eccezione di carenza di legittimazione attiva delle<br />
società ricorrenti, formulata da New York New York s.r.l., sia fondata.<br />
Risulta infatti documentalmente che titolare dei marchi dei quali viene<br />
richiesta tutela nel presente procedimento è solo la società statunitense<br />
Atari Interactive Inc. Si tratta pertanto di soggetto giuridico diverso e<br />
distinto da Atari Europe s.a. s. e Atari Italia s.p. a ancorché facente capo<br />
390 MUSSO, Azione di contraffazione ed azione di concorrenza sleale: alcune questioni sulla<br />
legittimazione ad agire dei licenziatari e dei distributori, in Riv. dir. ind., 1998, II, p.280<br />
391 MUSSO, op. ult. cit., p.280<br />
167
al medesimo gruppo societario internazionale, del quale, anzi, è il<br />
capogruppo.” 392 Nel caso in questione le società ricorrenti, per sostenere<br />
la propria legittimazione ad agire, si sono richiamate a quell‟opinione<br />
che riconosce a ciascuna delle imprese del gruppo, cui il marchio non è<br />
formalmente intestato, il potere di agire a sua tutela per effetto<br />
dell‟esistenza di una c.d. “licenza implicita” in capo a ciascuna società<br />
del gruppo, la quale risulterebbe così tacitamente investita di una licenza<br />
di marchio. Secondo l‟ordinanza citata “tale difesa non è però<br />
condivisibile, in quanto, come ha messo in evidenza la giurisprudenza<br />
che si è occupata dell‟argomento (Trib. Milano 10 dicembre del 1992 393 ),<br />
la stessa contrasta con la circostanza che i singoli patrimoni aziendali<br />
delle varie società del gruppo, patrimoni comprensivi delle componenti<br />
immateriali, sono del tutto autonomi e separati: di conseguenza,<br />
l‟autonomia giuridica e patrimoniale delle singole società facenti parte<br />
del gruppo non consente di attribuire alle stesse la titolarità di poteri<br />
propri esclusivamente della società del gruppo titolare del marchio.” 394<br />
Secondo un Autore “Ove si diffondesse e successivamente consolidasse<br />
la soluzione preferita dal provvedimento qui commentato, è chiaro che si<br />
renderebbe consigliabile la stipulazione per iscritto di contratti di licenza<br />
infragruppo.” 395 In senso contrario si esprime il Tribunale di Napoli,<br />
secondo il quale “È attivamente legittimata ad agire per contraffazione di<br />
marchio la società che, pur non essendo formalmente titolare dei diritti di<br />
marchio azionati, appartiene al gruppo cui fanno parte le società nel cui<br />
nome i marchi azionati sono registrati”. 396 Per quanto riguarda le<br />
posizioni della dottrina sull‟argomento, un‟Autrice 397 sostiene<br />
fermamente che il diritto di difesa del marchio di gruppo debba spettare<br />
anche alle imprese o società del gruppo che ne fanno uso nelle rispettive<br />
392 Trib. Torino,19 ottobre 2004, in Dir. ind. 2005, p. 16<br />
393 Trib. Milano, 10 dicembre 1992, in Foro it. 1994, I,p.1132<br />
394 Trib. Torino,19 ottobre 2004, in Dir. ind. 2005, p. 169<br />
395 VENTUREL<strong>LO</strong>, Marchio di gruppo e legittimazione ad agire, in Dir. ind. 2005, p. 171<br />
396 Trib. Napoli, 14 gennaio2003, in Riv. dir. ind., 2003,II, p.3<br />
397 PETTITI, op. cit., p. 137<br />
168
attività produttive dal momento che il marchio di gruppo finisce per<br />
identificare la capogruppo titolare e le stesse affiliate. L‟Autrice citata<br />
afferma che “Il diritto di agire a tutela del marchio spetta alle affiliate<br />
non tanto sul presupposto della semplice appartenenza al gruppo, ma su<br />
quello che il marchio di gruppo rappresenta anche le singole entità del<br />
gruppo. Ogni singola affiliata deve possedere la legittimazione attiva nei<br />
confronti dell‟imprenditore usurpatore indipendentemente dalle altre ed<br />
anche dalla titolare del marchio, non per effetto di una sorta di azione<br />
sostitutiva o surrogatoria, ma come portato del proprio autonomo diritto<br />
al couso e quindi della capacità di rappresentazione del marchio di<br />
gruppo della propria attività produttiva.” 398 A parere di chi scrive il<br />
diritto di agire a difesa del marchio deve essere riconosciuto alle imprese<br />
o società del gruppo, oltre che alla capogruppo. Questa soluzione<br />
comporta che la società affiliata che agisce in giudizio a tutela del<br />
marchio di gruppo, marchio che può utilizzare ma del quale non è<br />
titolare, debba dare una duplice prova: in primo luogo deve dimostrare<br />
che il marchio usurpato è un marchio di gruppo, in secondo luogo deve<br />
provare la propria appartenenza al gruppo e la propria legittimazione ad<br />
utilizzare il marchio di gruppo. Per quanto riguarda la prima prova, si<br />
deve tener presente che non esiste allo stato attuale un sistema di<br />
registrazione specifica del marchio di gruppo che consenta di individuare<br />
i soggetti legittimati al couso del marchio. Di fatto il marchio di gruppo<br />
viene registrato come qualsiasi altro marchio e utilizzato da una pluralità<br />
di imprese e società. “Non necessariamente un marchio è destinato ad<br />
essere utilizzato da una pluralità di soggetti fin dalla sua costituzione. E‟<br />
possibile infatti che venga dapprima utilizzato dal titolare e<br />
successivamente, per effetto dell‟articolazione o dell‟espansione<br />
dell‟attività produttiva iniziale o anche della disgregazione dell‟attività<br />
economica originariamente unica, venga utilizzato da una pluralità di<br />
398 PETTITI, op. cit., p. 138<br />
169
soggetti.” 399 Per quanto riguarda la seconda prova, non è sufficiente che<br />
la società affiliata dimostri di essere controllata o collegata alla società<br />
capogruppo in quanto la stessa deve provare anche l‟uniformità della<br />
propria attività produttiva alle direttive impartite dalla capogruppo, vero<br />
presupposto dell‟uso legittimo del marchio di gruppo. Ho finora parlato<br />
della legittimazione ad agire per la tutela del marchio di gruppo in capo<br />
alle società controllate, per quanto riguarda invece la legittimazione della<br />
società capogruppo, una pronuncia giurisprudenziale degli anni ottanta<br />
prevedeva che “In caso di gruppo di società, la società capogruppo è<br />
legittimata ad agire, per la tutela dei marchi intestati alle singole società<br />
del gruppo, allorché esse siano totalmente possedute dalla capogruppo,<br />
ovvero i marchi risultino intestati alle singole società del gruppo in base<br />
ad un accordo fiduciario con la capogruppo.” 400<br />
399 PETTITI, op. cit., p. 142<br />
400 Trib. Milano, 18 aprile, 1983, in Riv. dir. ind., 1983, p. 329<br />
170
4.7Marchio di gruppo e tutela dei consumatori<br />
Come rileva Giannantonio Guglielmetti, “la presenza di un unico<br />
marchio per contraddistinguere prodotti di imprenditori giuridicamente<br />
indipendenti è, in via di principio, potenzialmente idoneo a determinare<br />
confusione e ad impedire al marchio di svolgere la sua funzione<br />
distintiva. Le preoccupazioni della dottrina appaiono condivise anche<br />
dalla giurisprudenza, infatti, nell‟ordinanza del Pretore di Monza del 4<br />
luglio del 1988, si legge “L‟adozione, da parte di due distinte imprese,<br />
dello stesso marchio di gruppo per la commercializzazione di prodotti<br />
appartenenti alla medesima categoria merceologica, seppur in sé<br />
perfettamente legittima, comporta una potenziale confondibilità dei<br />
prodotti stessi, tale da richiedere, nell‟ipotesi di lamentati comportamenti<br />
di concorrenza sleale, una valutazione particolarmente rigorosa degli<br />
ulteriori elementi di confondibilità derivante dall‟attività posta in essere<br />
dall'impresa giunta sul mercato successivamente.” 401 Per poter “tollerare”<br />
che un marchio contrassegni prodotti di diversi imprenditori, vi è<br />
un‟esigenza ineliminabile da soddisfare: che la diversità di provenienza<br />
non si traduca in una causa d‟inganno.” 402 E‟ necessario, infatti, che<br />
l‟utilizzazione plurima e contestuale dello stesso marchio da parte di più<br />
soggetti giuridici autonomi abbia luogo in modo da rispettare il principio<br />
fondamentale di tutela del consumatore che costituisce criterio guida<br />
della disciplina del marchio. “Il consumatore non deve essere tratto in<br />
inganno sulle qualità dei prodotti contrassegnati dal marchio di gruppo,<br />
confidare ingenuamente nella loro bontà e poi scoprire che il nuovo<br />
prodotto contrassegnato dal marchio già conosciuto non è all‟altezza di<br />
quello precedente. L‟utilizzazione dello stesso marchio da parte di<br />
diversi imprenditori deve osservare determinati criteri di qualità, attuarsi<br />
in modo che la separazione delle rispettive attività produttive appaia in<br />
401 Pret. Monza, 4 luglio 1988, in Giur. Dir. Ind., 1988, p. 670<br />
402 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., in Riv. dir. ind., 1983, p. 298<br />
171
un certo senso formale e non sostanziale.” 403 Secondo un orientamento<br />
dottrinale, 404 il suddetto pericolo d‟inganno del consumatore è solo<br />
potenziale perché il marchio di gruppo è utilizzato solo dalle società<br />
specificamente individuate attraverso una decisione di gruppo e<br />
sottoposte alle direttive e al controllo della capogruppo, controllo che<br />
garantisce l‟uniformità produttiva necessaria ad evitare l‟uso decettivo<br />
del marchio. L‟orientamento citato sostiene che “il pericolo d‟inganno<br />
non sussiste perché la possibilità di utilizzazione del marchio dipende da<br />
una decisione di gruppo, e cioè, o della società capogruppo che può<br />
imporre la sua volontà agli altri o da una decisione coordinata, presa<br />
dagli imprenditori appartenenti al gruppo. (…) Pertanto il pubblico, sia<br />
che compri dall‟una che dall‟altra impresa del gruppo, non può cadere in<br />
errore perché, qualunque sia l‟impresa da cui esso acquisti il prodotto,<br />
esso avrà a disposizione un prodotto che in base ad un‟unica volontà<br />
decisionale di un gruppo reca quel marchio, sicché correttamente il<br />
marchio segnalerà la provenienza del prodotto dal gruppo, adempiendo<br />
così alla sua (essenziale) funzione distintiva.” 405 Riconosciuto quindi un<br />
possibile pericolo d‟inganno dei consumatori nell‟uso contemporaneo del<br />
marchio di gruppo da parte di imprese diverse, viene da chiedersi se la<br />
potenziale confusione del pubblico dei consumatori non possa o non<br />
debba essere in qualche maniera attenuata attraverso aggiunte<br />
differenziatrici, quali ulteriori elementi grafici, o l‟indicazione della<br />
specifica impresa produttrice, o la provenienza geografica, ecc.<br />
Relativamente alla necessità di elementi di differenziazione nei prodotti<br />
contrassegnati da un marchio di gruppo la maggioranza della dottrina<br />
nega detta necessità. Un Autore, 406 infatti, sostiene che “Sebbene in<br />
generale non appaia sussistere allo stato attuale un preciso obbligo in<br />
403 PETTITI, op. cit. p. 47<br />
404 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., in Riv. dir. ind., 1983, p. 301<br />
405 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., in Riv. dir. ind., 1983, p. 301<br />
406 ALBERTO MUSSO, Elementi di differenziazione ed elementi di confondibilità nei prodotti<br />
contrassegnati da un marchio di gruppo, in Riv. dir. ind., 1990, p. 95<br />
172
questo senso (…) per quanto concerne la figura del marchio di gruppo,<br />
può condividersi l‟affermazione secondo cui, in tal caso, il marchio non<br />
serve ad indicare il gruppo o l‟impresa leader, ma tutte le unità di quel<br />
prodotto che sotto il medesimo marchio vengono fabbricate e/o vendute<br />
da ciascuna impresa collegata. In questa prospettiva, il legittimo uso<br />
dello stesso segno distintivo fra società del gruppo non sembra<br />
comportare la necessità di alcuna integrazione aggiuntiva , a causa della<br />
già rilevata unitarietà del gruppo sotto il profilo economico.” 407 Nello<br />
stesso senso, un altro Autore, 408 tende ad escludere dai casi speciali in cui<br />
è opportuna l‟aggiunta di elementi differenziatori la figura del marchio di<br />
gruppo, “on the fact that products offered under the same mark by<br />
members of a group of companies or of a group of licensees will be<br />
substantially identical.” 409 Per evitare la confusione dei consumatori<br />
conseguente all‟utilizzazione plurima dello stesso segno distintivo da<br />
parte delle società del gruppo, a parere di chi scrive, anche se non può<br />
considerarsi necessaria l‟aggiunta di elementi di differenziazione nei<br />
prodotti contrassegnati dal marchio di gruppo, potrebbe essere utile<br />
apporre sui prodotti in questione l‟indicazione della specifica impresa<br />
produttrice. Quest‟ultima indicazione può essere utile anche ad altri fini:<br />
migliorare il controllo della società capogruppo sul rispetto, da parte<br />
delle società utilizzatrici del marchio di gruppo, degli standards<br />
qualitativi imposti. Se ad esempio un consumatore rileva un vizio di<br />
produzione del prodotto acquistato, egli rivolgerà le sue doglianze alla<br />
società capogruppo perché è l‟unico soggetto giuridico al quale può<br />
risalire attraverso il marchio. La società capogruppo, se ha conoscenza<br />
della società che ha messo in commercio il prodotto difettato, potrà<br />
407<br />
MUSSO, op. ult. cit., p. 95<br />
408<br />
BEIER<br />
409<br />
BEIER, Trademark conflicts in the Common Market: can they be solved by means of<br />
distinguishing additions?, in Int. rev. of ind. prop. and copyright law, 1978, p. 221. “Per il fatto<br />
che i prodotti offerti sotto il medesimo marchio da membri di un gruppo di società o di un<br />
gruppo di licenziatari saranno sostanzialmente uguali.”<br />
173
intervenire nei confronti di quest‟ultima ammonendola o addirittura<br />
vietandole di utilizzare il marchio del gruppo.<br />
174
4.8Altri casi di utilizzazione plurima dello stesso segno: analisi delle<br />
differenze.<br />
Personalmente ritengo che sia interessante analizzare altri casi in cui si<br />
produce l‟uso plurimo del medesimo marchio per confrontarli con quello<br />
del marchio di gruppo. Gli altri casi di utilizzazione plurima dello stesso<br />
segno che l‟ordinamento conosce sono quelli che conseguono alla<br />
concessione di licenza, alla comunione di marchio e alla registrazione di<br />
un marchio collettivo. Per quanto riguarda le differenze tra l‟istituto del<br />
marchio di gruppo e il contratto di licenza, si deve precisare innanzitutto<br />
che si intende fare riferimento ai casi in cui l‟uso del licenziatario sia<br />
contestuale a quello del licenziante e a quelli in cui ci siano più<br />
licenziatari. La legittimità della licenza si fonda sulla comunicazione da<br />
parte del licenziante al licenziatario delle conoscenze tecniche<br />
indispensabili per produrre un certo tipo di prodotto. In questo modo,<br />
sebbene il marchio venga usato da imprenditori diversi e autonomi, si<br />
instaura una sorta di uniformità produttiva. Con la comunicazione delle<br />
conoscenze tecniche produttive, infatti, il licenziatario è messo in<br />
condizione di rispettare la qualità del prodotto già conosciuta e nessun<br />
inganno può derivare al consumatore. Secondo un orientamento<br />
dottrinale, “diversamente nel marchio di gruppo l‟utilizzazione dello<br />
stesso marchio da parte delle affiliate non si fonda in via di principio su<br />
un accordo specifico, né propriamente sulla base di alcuna concessione o<br />
autorizzazione del titolare a favore di altri imprenditori , quanto meno<br />
analoga a quella della licenza. I rapporti tra gli imprenditori appaiono su<br />
un piano distinto da quello tra licenziante e licenziatario, quando non<br />
invertiti rispetto a questi. Mentre la sostanziale unitarietà tra i sistemi<br />
produttivi del licenziante e del licenziatario origina dalla conclusione del<br />
contratto ed è una condizione indispensabile per la sua validità,<br />
nell‟ambito del gruppo è presente fin dall‟inizio e presuppone la, e non<br />
175
consegue alla, utilizzazione plurima dello stesso marchio.” 410 Secondo un<br />
altro orientamento, invece, “Se è vero che in entrambi i casi si avrebbe<br />
un‟utilizzazione dello stesso marchio da parte di più imprese<br />
giuridicamente indipendenti, le due ipotesi, tuttavia, si<br />
differenzierebbero, perché nel caso della licenza non esclusiva il o i<br />
licenziatari sono anche economicamente autonomi rispetto ai titolari,<br />
mentre, per definizione, le imprese appartenenti al gruppo sono<br />
economicamente collegate fra loro.” 411 Relativamente al marchio<br />
collettivo, l‟art. 11, 1° comma, CPI dispone che “I soggetti che svolgono<br />
la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati<br />
prodotti o servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi<br />
come marchi collettivi ed hanno la facoltà di concedere l'uso dei marchi<br />
stessi a produttori o commercianti.” Dalla norma citata si desume che il<br />
marchio collettivo assolve la funzione di attestare l‟origine, la natura o la<br />
qualità di determinati prodotti o servizi, dunque di certificazione o<br />
attestazione e che gli imprenditori che lo utilizzano non ne sono titolari;<br />
infatti, la titolarità dello stesso spetta al soggetto che svolge la funzione<br />
di garantire l‟origine, la natura o la qualità dei prodotti o servizi<br />
contrassegnati dal marchio collettivo ed è tenuto pertanto ad esercitare un<br />
controllo di qualità sugli imprenditori utilizzatori. In merito ai<br />
presupposti del couso e alla tipologia dei legami che intercorrono tra le<br />
imprese utilizzatrici del marchio di gruppo e quelle che invece fanno uso<br />
del marchio collettivo, un‟Autrice afferma che “Il marchio collettivo è un<br />
marchio che più che contrassegnare il prodotto specifico e collegarlo<br />
all‟impresa produttrice , ne individua speciali qualità. Diversamente, nel<br />
marchio di gruppo prevale il collegamento tra il prodotto e la fonte<br />
produttrice su quello delle proprietà specifiche del prodotto, anzi, in un<br />
certo qual modo questo collegamento viene esaltato poiché il marchio<br />
rappresenta ad un tempo tutte le imprese che fanno parte della stessa<br />
410 PETTITI, op. cit., p. 49<br />
411 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 299<br />
176
organizzazione, in una parola, il gruppo. Ancora, il controllo che il<br />
titolare del marchio collettivo esercita sugli utilizzatori risponde<br />
all‟esigenza di mantenere nei prodotti contrassegnati quel livello di<br />
qualità promesso, mentre il controllo del titolare del marchio di gruppo<br />
risponde all‟esigenza meno peculiare di assicurare una certa uniformità<br />
nei prodotti, per modo che i diversi centri produttivi appaiano<br />
sostanzialmente unitari. Dalla funzione di garante della buona qualità del<br />
prodotto, deriva inoltre per il titolare del marchio collettivo il divieto di<br />
farne uso in proprio, divieto che non si produce per il titolare del marchio<br />
di gruppo che è libero di utilizzarlo nella propria impresa.” 412 Un altro<br />
Autore, invece, sostiene che “I marchi di gruppo rientrano tra i marchi<br />
individuali d‟impresa e non tra i marchi collettivi. Essi, infatti, sono<br />
destinati ad individuare la provenienza dei prodotti di talune imprese<br />
(quelle appartenenti al gruppo) e non a garantire l‟origine , la natura o la<br />
qualità dei prodotti che i marchi sono destinati a contrassegnare. Non si<br />
può, quindi, trarre argomento dal riconoscimento nel nostro ordinamento<br />
del marchio collettivo, per risolvere il problema dei marchi di gruppo. La<br />
società capogruppo non è, infatti, assimilabile all‟associazione o ente<br />
titolare di un marchio collettivo anche qualora sia l‟unica titolare di un<br />
marchio, utilizzato da più società collegate con essa, perché diversa è la<br />
funzione che il marchio esplica nei due casi: da un lato distinguere i<br />
prodotti delle imprese appartenenti al gruppo da quelli delle imprese<br />
esterne, dall‟altro garantire che i prodotti così marcati presentino<br />
un‟identica origine - intesa come provenienza da una località e non da<br />
un‟impresa -, natura o qualità.” 413 Secondo un altro orientamento<br />
dottrinale, invece, “I marchi di gruppo, al pari dei marchi collettivi,<br />
presentano la peculiarità di un marchio che appartiene non a chi lo usa,<br />
ma ad un ente o ad un “centro” che non lo usa affatto, ma lo fa o lascia<br />
utilizzare da altri ad esso “centro” legati, qui, da un vincolo strutturale di<br />
412 PETTITI, op. cit., p. 59<br />
413 GUGLIELMETTI, op. ult. cit., p. 298<br />
177
gruppo. Come le associazioni o gli enti che hanno il fine di garantire<br />
l‟origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o merci possono<br />
ottenere dei marchi collettivi di cui possono concedere l‟uso ai produttori<br />
o commercianti che appartengono agli stessi enti o associazioni, così qui<br />
le capogruppo che non utilizzano direttamente il marchio né si<br />
propongono di farlo ne concedono l‟uso ad una o più società<br />
collegate.” 414 A parere di chi scrive, data la diversità di funzioni alle<br />
quali assolvono, il marchio di gruppo e quello collettivo non sono<br />
assimilabili. Riconosco che sia fuorviante il fatto che in entrambi i casi ci<br />
sia un soggetto titolare del marchio e più soggetti utilizzatori dello stesso<br />
e riteniamo che, proprio per evitare un‟errata associazione tra i due<br />
istituti giuridici, sia necessaria una precisazione in merito nel CPI così<br />
come quella contenuta nel Lanham Act americano, che per il marchio<br />
appartenente a più soggetti che l‟utilizzano in comune distingue<br />
chiaramente tra certification marks 415 e collective marks 416 . Analizzerò<br />
414 FRANCESCHELLI, Osservazioni su marchi di gruppo, in Riv. dir. ind., 1988, p. 80<br />
415 15 USC 1127 (Construction and definitions; intent of chapter) The term "certification<br />
mark" means any word, name, symbol, or device, or any combination thereof-- used by a<br />
person other than its owner, or which its owner has a bona fide intention to permit a person<br />
other than the owner to use in commerce and files an application to register on the principal<br />
register established by this Act, to certify regional or other origin, material, mode of<br />
manufacture, quality, accuracy, or other characteristics of such person's goods or services or<br />
that the work or labor on the goods or services was performed by members of a union or other<br />
organization. “Il termine “marchio di certificazione” indica qualsiasi parola, simbolo, o<br />
dispositivo o qualsiasi combinazione di questi elementi utilizzato da un soggetto diverso dal<br />
suo titolare, o che il suo titolare, in buona fede, ha intenzione di concedere ad un altro soggetto<br />
di utilizzare nel commercio ed presenta una domanda di registrazione presso il registro istituito<br />
da questo Atto al fine di certificare l‟origine regionale o altra origine, il materiale, il metodo di<br />
manifattura, la qualità, la genuinità o altre caratteristiche dei beni o servizi di questo soggetto o<br />
che l‟opera o il lavoro su questi beni o servizi sono stati realizzati da un membro dell‟ unione o<br />
dell‟organizzazione.<br />
416 15 USC 1127 (Construction and definitions; intent of chapter) The term "collective mark"<br />
means a trademark or service mark--used by the members of a cooperative, an association, or<br />
other collective group or organization, or which such cooperative, association, or other<br />
collective group or organization has a bona fide intention to use in commerce and applies to<br />
register on the principal register established by this Act, and includes marks indicating<br />
membership in a union, an association, or other organization.<br />
“Il termine “marchio collettivo” indica un marchio di commercio o un marchio di servizio-<br />
usato dai membri di una cooperativa, un‟associazione o un altro gruppo collettivo o<br />
organizzazione oppure il marchio che tale cooperativa, associazione o altro gruppo collettivo o<br />
organizzazione abbia intenzione di utilizzare in buona fede nel commercio e di registrare nel<br />
registro principale istituito da questo Atto, ed include i marchi che indicano l‟appartenenza ad<br />
un‟ unione, un‟associazione o un‟altra organizzazione.<br />
178
ora il discorso sulla comunione del marchio per vedere, anche in questo<br />
caso, se sia possibile avvicinare a questa fattispecie il marchio di gruppo.<br />
Per un orientamento dottrinale, “il marchio di gruppo si differenzia dalla<br />
comunione di marchio perché mentre nella comunione si ha una vera e<br />
propria contitolarità del marchio che sfocia in una sostanziale parità dei<br />
comunitari, nel marchio di gruppo non esiste propriamente una<br />
contitolarità del diritto. Le varie imprese del gruppo possono fare uso del<br />
marchio intestato alla capogruppo, ma non possono disporne come se<br />
fossero titolari. Se dunque la comunione presuppone l‟esistenza di<br />
diversi soggetti giuridici autonomi che versano in una posizione<br />
sostanzialmente paritaria riguardo al marchio, il marchio di gruppo<br />
presuppone, almeno di norma, un soggetto titolare ed altri soggetti<br />
utilizzatori non titolari che, pur potendone fare uso a determinate<br />
condizioni, non possono disporne.” 417 Pur condividendo quest‟ultimo<br />
orientamento dottrinale, ritengo che a volte il confine tra le fattispecie<br />
della comunione di marchio e marchio di gruppo può essere labile. Mi<br />
riferisco a quelle ipotesi in cui le società affiliate siano contitolari del<br />
marchio di gruppo. A titolo di esempio si può esaminare il caso Soc.<br />
Termal c. Mitsubishi Electric Europe GmbH , deciso con ordinanza dal<br />
Pretore di Monza il 4 luglio del 1988, relativo al marchio “Mitsubishi.”<br />
Queste le vicende del marchio in questione: “dopo la cessazione della<br />
seconda guerra mondiale, l‟originaria società Mitsubishi di Tokio fu<br />
costretta, per determinazione delle nazioni vincitrici, ad una suddivisione<br />
in industrie autonome ed indipendenti. Tale divisione (giuridica ed<br />
economica) tuttavia, in seguito a specifici accordi, lasciò intatto il diritto<br />
di ciascuna delle nuove società costituite di utilizzare il marchio comune,<br />
formato dal nome “Mitsubishi” e da tre rombi rossi uniti per le punte.” 418<br />
In una situazione di questo genere viene da chiedersi se ricorre un‟ipotesi<br />
di comunione di marchio derivata o una di marchio di gruppo. Come<br />
417 PETTITI, op. cit., p. 53<br />
418 MUSSO, op. ult. cit., p. 90<br />
179
ileva un Autore 419 che ha commentato l‟ordinanza suddetta, infatti, “non<br />
risulta sufficientemente accertato se le società contitolari del segno<br />
distintivo “Mitsubishi” siano effettivamente collegate all‟interno di un<br />
gruppo (come si limita a richiedere una parte della dottrina per<br />
l‟applicabilità della figura del marchio di gruppo) 420 o se siano altresì<br />
soggette ad una direzione unitaria (come ulteriormente richiede<br />
l‟opinione prevalente), 421 o se siano invece industrie autonome e<br />
indipendenti, sia giuridicamente che economicamente, ancorché legate<br />
da rapporti complessi e articolati.” 422 In conclusione, ad avviso di chi<br />
scrive, pur essendo il marchio di gruppo e la comunione di marchio due<br />
istituti giuridici con funzioni e caratteristiche differenti, quando le società<br />
affiliate siano comproprietarie del marchio di gruppo è necessario<br />
analizzare attentamente il caso concreto (in particolari i legami che<br />
esistono tra le stesse) al fine di individuare la disciplina applicabile.<br />
419 MUSSO, op. ult. cit., p. 92<br />
420 GALGANO, Il marchio nei sistemi produttivi integrati:sub-forniture, gruppi di società,<br />
licenze, merchandising, in Contr. e impr., 1987, p. 173, il quale ritenendo irrilevante<br />
l‟accertamento di una direzione unitaria all‟interno del gruppo, considera che “il collegamento<br />
fra le fonti produttive è nello stesso rapporto di gruppo che unisce la società titolare del<br />
marchio alla società che ne fa uso”.<br />
421 LEVI, Circolazione del marchio tra società appartenenti allo stesso gruppo, in Riv. dir.<br />
ind., 1978, p. 188 “Non ci si dovrà accontentare della formale appartenenza al gruppo, bensì<br />
sarà necessario verificare che esistano in concreto fra i soggetti rapporti idonei a dar vita ad<br />
un‟attività di fabbricazione e/o di commercio unitaria e continuativa, assimilabile a quella che<br />
si ha in caso di impresa unica, e ciò con particolare riguarda all‟attività cui si riferisce il<br />
marchio.”<br />
422 MUSSO, op. ult. cit., p. 92<br />
180
4.9Marchio di gruppo e accordi di coesistenza<br />
Ho finora presupposto che l‟uso del marchio di gruppo, da parte delle<br />
società affiliate, fosse regolato dalle direttive a queste ultime impartite<br />
dalla società capogruppo. Esaminerò ora, invece, il caso in cui la<br />
regolamentazione dell‟uso in questione sia formalizzata in un contratto e,<br />
più precisamente, in un accordo di coesistenza. La Corte di Cassazione,<br />
infatti, nella sentenza del 19 ottobre 2004 n. 20472, ha sostenuto che gli<br />
accordi in questione “possono riguardare anche l‟utilizzazione dello<br />
stesso marchio, come nelle ipotesi della comunione di marchio o dei<br />
marchi di gruppo.” 423 La società capogruppo può quindi decidere di<br />
regolamentare in un contratto, cui devono aderire le società affiliate che<br />
vogliano utilizzare il marchio di gruppo, tutti gli aspetti relativi<br />
all‟utilizzo di quest‟ultimo, quali ad esempio i presupposti, le modalità,<br />
l‟area di utilizzo, le sanzioni connesse alle violazioni degli obblighi<br />
contrattuali (ad esempio divieto di continuare ad utilizzare il segno<br />
distintivo del gruppo), la possibilità per le società affiliate di registrare<br />
marchi speciali contenenti un riferimento al marchio di gruppo.<br />
Riconosciuta quindi l‟utilità e l‟ammissibilità degli accordi di<br />
coesistenza relativi all‟uso del solo marchio di gruppo, si intende ora<br />
verificare se i contratti in questione possano avere ad oggetto la<br />
disciplina di due marchi interferenti: il marchio di gruppo e il marchio<br />
registrato da una società del gruppo. A parere di chi scrive, questo caso<br />
di coesistenza di marchi interferenti può verificarsi, ad esempio, perché<br />
la società capogruppo non ha ritenuto opportuno agire per contraffazione<br />
contro la società affiliata. Nel momento in cui si verifichi la coesistenza<br />
suddetta, ritengo che la società capogruppo, per scongiurare l‟inganno<br />
dei consumatori, potrà decidere di stipulare un accordo di coesistenza<br />
con la controllata, titolare del marchio interferente. Il consumatore può<br />
423 Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2004, n. 20472, in Guida al Diritto, 2004, p. 49,<br />
181
cadere in inganno perché, non riuscendo a distinguere il marchio del<br />
gruppo da quello della società allo stesso appartenente, può essere<br />
portato a ritenere che anche il secondo sia un marchio del gruppo. A mio<br />
parere il pericolo d‟inganno potrebbe essere evitato attraverso la<br />
stipulazione di un contratto che, in primo luogo, preveda che il marchio<br />
di cui sia titolare la capogruppo faccia esplicito riferimento al gruppo e<br />
che, in secondo luogo, inibisca alla società affiliata di dare credito ai<br />
propri marchi attraverso il riferimento alla propria appartenenza al<br />
gruppo (ad esempio sarebbe vietato un marchio di questo tipo: marchio x<br />
della società appartenente al gruppo y).<br />
182
4.10 I marchi del gruppo<br />
Ho finora parlato di “marchio di gruppo”, ma è da ricordare che i grandi<br />
gruppi di imprese, per differenziare la loro produzione, le linee dei loro<br />
prodotti, sono spesso titolari di più “marchi di gruppo,” magari<br />
caratterizzati da elementi in comune, quali ad esempio la grafica, i colori,<br />
il prefisso, il suffisso. Per fare un esempio di “marchi di gruppo”<br />
caratterizzati da elementi comuni, si possono ricordare alcuni di quelli<br />
che sono nella titolarità di Max Mara Fashion Group s.r.l. (società<br />
holding del gruppo) e, proprio per dare rilievo agli elementi grafici che li<br />
accomunano, li riporto nella grafica originale<br />
Ad avviso di chi scrive, il problema legato ai marchi di gruppo è il<br />
seguente: il consumatore medio, poco attento ai segni che fanno<br />
presumere l‟origine comune dei diversi marchi (nel nostro esempio la<br />
parola “max” usata come prefisso, come suffisso, da sola e la<br />
somiglianza tra Mara e Marella), potrebbe ritenere che un marchio sia<br />
imitazione di un altro o, al contrario, egli, di fronte a due marchi<br />
individuali d‟impresa di cui uno sia uguale o simile all‟altro e utilizzato<br />
per prodotti uguali o affini, potrebbe pensare che entrambi siano marchi<br />
183
di gruppo. Ad esempio quest‟ultima associazione potrebbe riguardare i<br />
marchi “Refrigue” e “Refrigiwear” 424 , entrambi, infatti, contrassegnano<br />
capi di abbigliamento e in particolare giubbotti dotati di particolari<br />
caratteristiche isolanti e termiche. Anche in questo caso riporto la<br />
relativa grafica originale.<br />
In conclusione ritengo che per individuare correttamente i marchi di<br />
gruppo sarebbe necessaria un‟espressa indicazione del tipo “marchio x<br />
del gruppo y”. Se una tale dicitura fosse obbligatoria, il consumatore<br />
avrebbe ben chiara la fonte di provenienza del prodotto che trova sul<br />
mercato e non la riterrebbe un‟imitazione servile nei casi in cui, invece,<br />
si tratta di uno dei marchi del gruppo; inoltre non attribuirebbe<br />
erroneamente il prestigio legato ad un dato gruppo ad un marchio che<br />
invece non ha nulla a che fare con quest‟ultimo e che magari costituisce<br />
un‟imitazione servile; e sicuramente non potrebbe pensare a collegamenti<br />
economici e giuridici in casi in cui si tratta di due o più marchi d‟impresa<br />
indipendenti.<br />
424 In realtà i due marchi non sono riferibili ad un medesimo gruppo: il marchio Refrigiwear è<br />
americano ed è stato registrato per la prima volta nel 1954; Refrigue è un marchio portoghese<br />
ed è stato registrato per la prima volta nel 1977.<br />
184
CONCLUSIONE<br />
Alla fine di questo studio ho rilevato che non esiste una disciplina<br />
specifica e dettagliata della comunione di marchio e del marchio di<br />
gruppo, pertanto, in attesa che il legislatore de iure condendo intervenga<br />
in merito, personalmente ritengo che lo strumento migliore per<br />
disciplinare gli istituti esaminati e per evitare il pericolo di uso decettivo<br />
del segno utilizzato congiuntamente da più soggetti indipendenti sia la<br />
valorizzazione dell‟autonomia privata. Relativamente alla disciplina<br />
della comunione di marchio quindi, ritengo utile la stipulazione di un<br />
contratto da parte di tutti i contitolari avente ad oggetto la<br />
regolamentazione di ogni aspetto della gestione e sfruttamento del<br />
marchio comune, dei diritti di cui gode ciascun contitolare, come singolo<br />
e come membro della comunione. Immagino la stipulazione di un<br />
accordo di coesistenza che, in quanto al contenuto, segua in parte la<br />
disciplina civilistica della comunione, magari assistita dai funzionari<br />
dell‟UIBM e poi registrata presso quest‟ultimo ufficio, ai fini probatori.<br />
Anche per quanto riguarda la disciplina del marchio di gruppo considero<br />
utile la stipulazione di un accordo di coesistenza tra la società<br />
capogruppo o holding e le società o imprese affiliate al fine di regolare i<br />
presupposti, i limiti, le modalità dello sfruttamento del segno distintivo<br />
del gruppo.<br />
185
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Cass., 10 ottobre 2008, n. 24909, in Mass. Giur. It., 2008<br />
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