ANTONELLA GANDOLFO LIMA RAMPOLLA
ANTONELLA GANDOLFO LIMA RAMPOLLA
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Al centro del corso, lo ricordo, c’era un bar coi tavolini fuori, le tovagliette a scacchi, civettuole<br />
e l’immancabile bicchiere alto, colmo d’acqua, per i cucchiaini. In un canto, ma assai poco discosto<br />
dal colorato disordine dei tavolini tondi, era l’orchestrina: un pianoforte, un violino e, con due occhi<br />
ispirati, una voce calda e struggente che sospirava melodie d’amore...<br />
Ai tavoli, sorbendo l’immancabile gelato o la granita al caffè, erano signore con figlie da marito,<br />
qualche coppia fresca del grande sì che sul tavolino si serrava la mano; qualche signore, quaranta e<br />
passa, solitario e sognante avventure da film e a volte dei gruppetti di giovani allegri e spensierati a<br />
cui piaceva quella comoda tribuna per lanciare occhiate e sommessi complimenti alle bellezze che<br />
sciamavano per via...<br />
Io, tredici anni appena, uno spaghino lungo ed ossuto, con i capelli ricci e scuri, fermati da un<br />
nastro marrone e due occhi di cerbiatta allagati di sogni, palpitavo d’attese e fantasie di misteriosi<br />
incontri...<br />
In quell’estate ero con i miei cugini, fratello e sorella, venuti da Palermo. Spesso, in loro<br />
compagnia, andavo a sedermi a quei tavoli, e mi pareva di tessermi attorno il bozzolo argenteo delle<br />
fiabe da cui lasciar uscire le farfalle dei miei sogni più rosa... Il mio cuore beveva quelle melodie<br />
che davano ali ai miei aquiloni.<br />
Una sera, lo ricordo ancora, indossavo un vestituccio di un verde foglia con piccoli fiori di un<br />
lillà sfumato: lo aveva cucito mia mamma e a me sembrava l’aerea veste di una fata! E poiché a<br />
volte il velo dell’illusione può dar la levità di un sorriso, io mi sentivo leggera, quasi un’essenza di<br />
quella sera odorosa...<br />
Ascoltavo il languore delle note dell’orchestrina, che erano carezze e fremiti e sussurri che il mio<br />
cuore stava per possedere.<br />
Ad un tavolo non discosto dal nostro, con altri due amici c’era...<br />
Lo avevo visto altre volte e le compagne che sapevan tutto, mi avevan detto che era un giocatore<br />
di pallone, venuto dal nord. Mi avevan detto che quegli occhi scuri e quei capelli biondi si<br />
chiamavan Palloro! Ma non sapevo se questo era il cognome o un attributo datogli qual giocatore<br />
sempre vincente. Però a me ciò non importava e, anzi, neanche osavo immaginare un nome: era<br />
Palloro e basta!... Invece era più dolce di una serenata quel suo sguardo intenso, languido e<br />
carezzevole... E come mi piaceva quella sua bocca di bimbo viziato e quei suoi occhi di velluto<br />
nero, grandi e lucenti, colmi, a me sembrava, di un ardore di passione.<br />
Suonava l’orchestrina, mesto e accorato, Il Tango del Mare ed io ero sulla spiaggia calda ad<br />
ascoltare lo sciabordio dell’onde che alitava supplici sospiri e romantiche promesse. La luna, velata<br />
di un soffuso vapor rosato, scioglieva su quello spumeggiare d’acqua sonora lunghi nastri<br />
d’argento...<br />
E su quel mare misterioso e fondo, creato dal fremito struggente del violino, erano gli occhi di<br />
lui, una carezza che qualche volta su di me sostava.<br />
Mia cugina, tre anni più di me, formosa e allettante, rideva con la bocca di geranio e poi scriveva<br />
un bigliettino per il cantante: “A gentile richiesta, Gelosia”. Così si usava fare e il cameriere su un<br />
piattino di lucente acciaio, portava via il messaggio.<br />
Intanto, piano piano il pianoforte spegneva le accorate note dell’addio e la mia piccola barca<br />
ancor restava nella baia dei sogni.<br />
Ma ecco che i miei occhi innamorati di sconosciuto amore s’incontrarono con quelle pupille<br />
brune, lucenti e carezzevoli... S’incontrarono per un attimo, il più lungo, il più breve!...<br />
Non so se il rossore dell’anima mia vestì il mio viso di bambina tramutata in donna... Non so se<br />
quell’ammiccar argentato di una fiabesca luna d’estate, fosse un sì o un no, o un sorriso lieve per<br />
quel bocciolo d’illusione... Non so perché un esile zufolar di brezza mi disegnò attorno mille cerchi<br />
turchini... So solamente che il battito impazzito del mio cuore mi impedì di capire che l’orchestrina<br />
stava suonando la canzone richiesta da mia cugina.<br />
E fu proprio lei che con una gomitata ed un accento ispirato fece ammainare la mia rossa vela...<br />
“Ascolta, stan suonando per me...”.<br />
Timidamente osai tornar a fissare quel tavolino: il giovane, ora, scriveva, lesto, un biglietto.