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ANTONELLA GANDOLFO LIMA RAMPOLLA

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Quando il respiro del vento forava i silenzi della notte, sgroppando giù per la mulattiera di San<br />

Biagio nei pendii e nei valloncelli, la si sentiva al paese e molti rabbrividivano. Dicevano che Lunìa<br />

faceva l’amore con la Luna!<br />

Allora dalla sella più bassa delle tre gobbe del Chiarello che facevano gradini alla cima uncinata<br />

del Fusile, si alzava una nebbia bassa e rada, protettiva, che pareva premere la faccia della luna con<br />

festoni cadenti, sbavati, velando quei lucori d’acciaio che pesavano sulle sagome brune degli alberi.<br />

La risata però si ripeteva ancora, lacerando il sonno della notte. Incurante di quel sipario di fiato<br />

d’aria, tre volte si ripeteva, come un segnale e in mezzo vi cadevano le pause come vallate, gonfie<br />

d’attese e sottese da un batticuore che chiede risposta...<br />

“Fa il suo richiamo...”, dicevano e nessuno osava formulare a chi...<br />

E forse, se non era un malefico gioco d’echi, un qualcuno rispondeva, poiché sembrava che uno<br />

strano suono modulato sgorgasse da oltre la nebbia.<br />

A volte pareva un canto di note gutturali lunghe e strascinate, a volte invece si aveva<br />

l’impressione d’udire le sonorità di uno scacciapensieri ampliato dagli spazi ora pieni ora vuoti...<br />

Poi colava l’alba e i monti d’Aspromonte si ergevano diversi, svuotati della loro sacralità<br />

fantastica, con un ceruleo livido, cristallizzato di secoli di vecchiaia e d’indifferenza alle umane<br />

storie.<br />

Allora i momenti sembravano lunghi, pesanti, quasi che il tempo camminasse incontro all’aurora<br />

con piedi decrepiti, strascicati.<br />

In quegli attimi, più veloce di una lepre inseguita, Lunìa tornava a casa, quasi temendo che la<br />

tempesta di luce rossa ed oro che esplodeva il sole tra il Chiarello e il Fusile uccidesse lei, creatura<br />

di notte e con lei la sua Luna di colloquio.<br />

In casa, poi, con la sua ermetica faccia spenta, cominciava, taciturna e lesta a fare i servizi. Né<br />

rispondeva alle domande di sua zia Filomena, ora ansiose ora iraconde, né alle insinuazioni di<br />

Vyrna e neppure al padre che molte volte, irritato e stufo, la aveva riempita di botte. Anzi il suo<br />

silenzio statuario fu così tenace che finì per stancare tutti e nessuno infine le chiese più nulla.<br />

Lavorava di buona lena, come se si fosse appena alzata. La sua voce la si conosceva appena, roca<br />

e sgraziata. Solo rarissimamente rotolava sillabe, accompagnate da violenti segni di assenso o<br />

diniego del capo. Sicché la sua sola maniera di espressione era lo sguardo.<br />

In particolare a chi le faceva qualche domanda sul suo strano modo di fare, inchiodava addosso<br />

quei suoi occhi lucidi e muti, allagati d’inquietudine e ravvivati di un fascino che avvinceva e<br />

stordiva.<br />

In quelle pupille passavano ombre, ombre, in cui l’interlocutore si smarriva non sapendo<br />

discernere tormenti e vacuità da dolenti tortuosità interiori.<br />

Sua zia Filomena diceva con una mesta rassegnazione: “Esti accussì i quandu nci muriu a<br />

matri...”. Lei faceva di sì con la testa. Ma questo gesto più che essere un segno d’accordo era un<br />

ordine di chiudere il discorso! Tuttavia avevano cercato di giungere in ogni modo al cuore di Lunìa<br />

per istituire un minimo di rapporto sociale e culturale; il parroco, don Rosario e Mariangela, la<br />

signorina della dottrina e la vecchia Margherita, la sorella del parroco che aveva conosciuto sua<br />

madre.<br />

Nulla! Lunìa pareva addirittura non sentire, quasi che fra lei e gli altri vi fossero immensità<br />

spaziali incolmabili. Così carità, stupore, curiosità erano caduti in una indifferenza tacita, dietro alla<br />

quale si nascondevano larve di antiche paure, di superstizioni mai sopite, medievali che allignavano<br />

come erbe matte tra i paesani. E non serviva la bonomìa rassicurante del buon don Rosario: ché tutti<br />

in cuor loro ritenevano la ragazza una creatura stregata, in preda a nefasti e folli malefìci...<br />

Peppe “l’arpinu” e Minicuzzu Rocchetta avevano tentato una volta di seguirla, mentre correva<br />

su, su, con quella sua strana andatura un po’ sbilenca, tutta rattrappita da un lato, in uno scatto di<br />

corsa che la vedeva fuggire rapidissima. Si era arrampicata per la stradicciola a fettuccia che girava<br />

il fianco della montagna e poi, giunta alla gobba dei castagni, era sparita dietro il Sasso Grande.<br />

Eran riusciti a tenerle dietro sin lì, ma poi l’avevan persa. Altro non si sapeva...

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