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un problema di ordine personale, che lo stato non può risolvere; e poi perché a questo si sono
aggiunte altre frustrazioni e umiliazioni. Un romeno che riusciva, dopo lunghe peregrinazioni ad
ottenere un passaporto per trasferirsi in Europa Occidentale, era facilmente riconoscibile in una
metropoli occidentale dal modo in cui guardava le vetrine scintillanti e dagli innumerevoli
“handicap” che crea il complesso della povertà (lasciando da parte il modo di vestirsi ecc.). Queste
esperienze imbarazzanti hanno accentuato ancora di più le differenze tra noi e gli abitanti
dell’Ovest, creandoci, col tempo, una psicologia di europei di seconda categoria. La cortina di
ferro esisteva dentro di noi, i nostri stessi complessi la sostenevano.
In queste condizioni diventa chiaro che l’Italia non può significare per noi, almeno per ora,
quel che significa per qualsiasi altro occidentale o quello che avrebbe potuto significare nelle
nostre rappresentazioni in tempi normali, se non ci fosse stata la storia imposta da dopo Yalta. Ed è
ugualmente chiaro che le relazioni interculturali prendono oggi un posto di secondo piano e che la
nostra reintegrazione in Europa è un problema più complicato da quanto possa sembrare ad un
primo sguardo. Mutatis mutandis la storia si ripete e, in qualche modo, anche oggi gli emigrati
romeni sentono qualcosa in comune con il disagio sentito dagli emigrati di qualche decennio fa.
Solo che le nuove generazioni sono meno propense a cogliere il problema politico di fondo e
invece più orientate a privilegiare il risolvere dei problemi personali, all’infuori del contesto
generale, abbandonandosi a suggestioni e nuove dimensioni che sfuggono anche al modello ed alle
istanze care ad un Culianu o un Mircea Popescu.
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