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DECAMERON di Giovanni Boccaccio - Vastacom.org

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<strong>Giovanni</strong> <strong>Boccaccio</strong> – Decameron<br />

pietà <strong>di</strong> Tito alla mia salute è omai troppo tarda. Tito<br />

d'altra parte <strong>di</strong>ceva:- Pretore, come tu ve<strong>di</strong>, costui è<br />

forestiere, e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e<br />

veder puoi la sua miseria dargli cagione <strong>di</strong> voler morire; e<br />

per ciò liberalo, e me, che l'ho meritato, punisci.<br />

Maravigliossi Varrone della instanzia <strong>di</strong> questi due, e già<br />

presummeva niuno dovere essere colpevole, e pensando<br />

al modo della loro assoluzione, ed ecco venire un<br />

giovane, chiamato Publio Ambusto, <strong>di</strong> perduta speranza e<br />

a tutti i Romani notissimo ladrone, il quale veramente<br />

l'omici<strong>di</strong>o aveva commesso; e conoscendo niuno de' due<br />

esser colpevole <strong>di</strong> quello che ciascun s'accusava, tanta fu<br />

la tenerezza che nel cuor gli venne per la innocenzia <strong>di</strong><br />

questi due, che, da gran<strong>di</strong>ssima compassion mosso, venne<br />

<strong>di</strong>nanzi a Varrone, e <strong>di</strong>sse:- Pretore, i miei fati mi<br />

traggono a dover solvere la dura quistion <strong>di</strong> costoro, e<br />

non so quale id<strong>di</strong>o dentro mi stimola e infesta a doverti il<br />

mio peccato manifestare; e per ciò sappi niun <strong>di</strong> costoro<br />

esser colpevole <strong>di</strong> quello che ciascuno sé medesimo<br />

accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi<br />

istamane in sul dì, e questo cattivello che qui è, là vid'io<br />

che si dormiva, mentre che io i furti fatti <strong>di</strong>videva con<br />

colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua<br />

fama è chiara per tutto, lui non essere uomo <strong>di</strong> tal<br />

con<strong>di</strong>zione; adunque liberagli, e <strong>di</strong> me quella pena piglia<br />

che le leggi m'impongono. Aveva già Ottaviano questa<br />

cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, u<strong>di</strong>r volle che<br />

cagion movesse ciascuno a volere essere il condannato, la<br />

quale ciascun narrò. Ottaviano li due, per ciò che erano<br />

innocenti, e il terzo per amor <strong>di</strong> loro liberò. Tito, preso il<br />

suo Gisippo, e molto prima della sua tiepidezza e<br />

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<strong>Giovanni</strong> <strong>Boccaccio</strong> – Decameron<br />

<strong>di</strong>ffidenzia ripresolo, gli fece maravigliosa festa, e a casa<br />

sua nel menò, là dove Sofronia con pietose lagrime il<br />

ricevette come fratello; e ricreatolo alquanto, e rivestitolo<br />

e ritornatolo nello abito debito alla sua virtù e gentilezza,<br />

primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece<br />

comune, e appresso, una sua sorella giovinetta, chiamata<br />

Fulvia, gli <strong>di</strong>è per moglie; e quin<strong>di</strong> gli <strong>di</strong>sse:- Gisippo, a<br />

te sta omai o il volere qui appresso <strong>di</strong> me <strong>di</strong>morare, o<br />

volerti con ogni cosa che donata t'ho in Acaia tornare.<br />

Gisippo, costrignendolo da una parte l'essilio che aveva<br />

della sua città e d'altra l'amore il qual portava<br />

debitamente alla grata amistà <strong>di</strong> Tito, a <strong>di</strong>venir romano<br />

s'accordò. Dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua<br />

Sofronia, sempre in una casa gran tempo e lietamente<br />

vissero, più ciascun giorno, se più potevano essere,<br />

<strong>di</strong>venendo amici. Santissima cosa adunque è l'amistà, e<br />

non solamente <strong>di</strong> singular reverenzia degna, ma d'essere<br />

con perpetua laude commendata, sì come <strong>di</strong>scretissima<br />

madre <strong>di</strong> magnificenzia e d'onestà, sorella <strong>di</strong> gratitu<strong>di</strong>ne e<br />

<strong>di</strong> carità, e d'o<strong>di</strong>o e d'avarizia nimica, sempre, senza<br />

priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente<br />

operare che in sé vorrebbe che fosse operato. Li cui<br />

sacratissimi effetti oggi ra<strong>di</strong>ssime volte si veggono in<br />

due, colpa e vergogna della misera cupi<strong>di</strong>gia de'mortali,<br />

la qual solo alla propria utilità riguardando, ha costei fuor<br />

degli estremi termini della terra in essilio perpetuo<br />

relegata. Quale amore, qual ricchezza, qual parentado<br />

avrebbe il fervore, le lagrime e'sospiri <strong>di</strong> Tito con tanta<br />

efficacia fatti a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò<br />

la bella sposa gentile e amata da lui avesse fatta <strong>di</strong>venir <strong>di</strong><br />

Tito, se non costei?Quali leggi, quali minacce, qual paura<br />

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