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novembre dicembre 2011 - Club Alpino Italiano

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LA riviSTA 6 | <strong>2011</strong> 11<br />

E di vicende da riportare in superficie ne aveva tante.<br />

I suoi inizi di alpinista, per esempio. Anni bellissimi ma anche<br />

molto duri. Diceva di essere cresciuto a calci negli stinchi. Le sue<br />

prime grandi scalate erano spesso seguite dal silenzio, o da stroncature<br />

feroci. Invidia pura. Diversi anni dopo, dall’alpinismo estremo<br />

e dal suo ambiente aveva preso le distanze. Però non aveva<br />

mai divorziato dalla montagna. Non ce la faceva a resistere troppi<br />

mesi senza dare un’occhiata al Monte Bianco.<br />

Ma a tener banco, nei ricordi, c’era anche la sua passione per la<br />

fotografia. La sua prima fotocamera era stata una Voitgländer 6<br />

x 9 a soffietto, acquistata al mercato dell’usato. Bonatti se l’era<br />

portata nello zaino nelle prime salite in Grigna, sul Bianco, sulle<br />

montagne del Masino, in Lavaredo. Poco prima di partire per il<br />

K2 gli avevano dato una Ferrania Condoretta, una macchinetta a<br />

fuoco fisso, per portar giù dai campi alti qualche scatto buono. Poi,<br />

un paio d’anni dopo, era arrivata una sorpresa. Il suo primo datore<br />

di lavoro, un signore di Monza, gli aveva regalato la Leica che lui<br />

avrebbe usato fino all’assunzione a Epoca.<br />

Nei suoi racconti c’erano anche gli amici – Walter aveva un concetto<br />

altissimo dell’amicizia – i sogni ancora da realizzare, il senso<br />

profondo dell’avventura e dell’esplorazione, l’attrazione per<br />

l’ignoto. Una volta mi aveva confessato: “Certe esperienze ti fanno<br />

entrare in uno stato di grazia, hai come l’impressione di addentrarti<br />

per un momento nella dimensione del mistero. Sono come<br />

un lampo divino che ti mette in contatto con una dimensione<br />

sconosciuta”.<br />

Ragionandoci su, avevo avuto l’impressione che, prima in montagna<br />

e poi duranti i suoi viaggi avventurosi, Walter si fosse messo<br />

al centro di un grande esperimento sul campo. Ne avevo parlato<br />

con lui e la sua risposta era stata sorprendente. Mi aveva spiegato:<br />

“Ho fatto un esperimento su me stesso, senza sapere cosa<br />

esattamente mi sarei trovato a dover fronteggiare. Non potevo immaginare<br />

cosa mi avrebbero riservato il Dru, le savane, i deserti,<br />

l’Amazzonia o i grandi vulcani. All’inizio la cosa è avvenuta in<br />

maniera istintiva: volevo vedere, capire. Poi ho seguito una strada<br />

precisa: le terre remote, le regioni selvagge, l’inesplorato… Ho<br />

provato a rimettermi nei panni degli uomini che vivevano sulla<br />

Terra migliaia di anni fa, e non solo con l’immaginazione… Ho<br />

pensato spesso a cosa devono aver vissuto gli uomini del Paleolitico<br />

rispetto delle grandi eruzioni vulcaniche, e quanto la grande<br />

wilderness può aver nutrito e acceso l’intelligenza dei cosiddetti<br />

primitivi. È straordinario scoprire le reazioni dell’essere umano<br />

in certe situazioni, per esempio nell’impatto con la wilderness. Ci<br />

sono frangenti in cui capisci che di te stesso non sai nulla, e che il<br />

vero sconosciuto sei proprio tu”.<br />

Ma accanto al primo esperimento, però, è facile coglierne un secondo.<br />

L’osservazione delle reazioni della natura selvaggia nei<br />

confronti della presenza di un piccolo uomo indifeso (senz’armi e,<br />

in montagna, con il minimo dei mezzi). Un test che per Bonatti è<br />

avvenuto senza finzioni e in solitudine totale in Africa equatoriale,<br />

interagendo con leoni, leopardi, iene, bufali.<br />

In Patagonia, nella primavera australe del 1999, eravamo in quattro.<br />

Lavoravamo a un film del Museomontagna. Ripercorrevamo<br />

le tracce di padre Alberto Maria De Agostini. Walter era il protagonista<br />

del lungometraggio. Ogni giorno eravamo impegnati con<br />

le riprese. Ma la sera no. Quella era dedicata allo scambio dei punti<br />

di vista, alle idee, alla cena comune e alle chiacchiere. E laggiù,<br />

in fondo al mondo, m’è capitato di scoprire l’universo di Bonatti.<br />

Quello esterno, fatto di roccia e di ghiaccio. E poi quello interiore.<br />

La sua visione del mondo, le sue idee profonde, la capacità del suo<br />

sguardo. Per la prima volta ho potuto toccare con mano come il<br />

vedere e il guardare siano due cose diversissime. Una, un semplice<br />

fatto fisiologico; l’altra, una questione di immaginario, di sensibilità<br />

e di cultura.<br />

La possibilità di spingere lo sguardo oltre le apparenze è stata una<br />

delle grandi lezioni di Walter. Non l’unica. Nel corso degli anni me<br />

ne ha regalate anche altre. Ma un insegnamento mi accompagna<br />

più di tutti: la possibilità di vivere da uomo libero. «

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