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soluzione fuori.<br />
Ero morto, sono morto un po’ anche io<br />
e volevo rinascere con la presunzione di<br />
poterlo affermare scrivendo. Ma non è<br />
così semplice, vivere l’unica tappa del<br />
viaggio che non ho scelto, che è la prima<br />
da cui sono partito. 33 mesi di viaggio<br />
interiore, 33 iniziati con un viaggio fisico,<br />
di spostamento, di ricerca, poi, a<br />
un tratto, come se tutto dovesse avere<br />
un ordine che io non ero più in grado di<br />
decidere, si è trasformato. E mi sono addentrato<br />
in quello che ero, sono e credevo<br />
non avrei più voluto e dovuto essere.<br />
Fine del cappello, o come pomposamente<br />
ho immaginato, del prolegomeni. A<br />
quello che state per leggere volevo dargli<br />
un nome, perché è la cosa più difficile<br />
da scrivere, quella che ha avuto mille<br />
inizi, la costruzione definitiva del disincanto:<br />
per me, per noi adulti e soprattutto<br />
per mia figlia grande (cosa c’entra<br />
non so ma sentivo il bisogno di dirlo). Ho<br />
passato in rassegna tutta la musica che<br />
ho ascoltato in questo periodo, Brunori<br />
SAS, Felix Laband, il duduk armeno,<br />
Dylan, Afrobeat in ogni dove e per<br />
quando avevo voglia di muovere il sedere,<br />
la playlist di Carla dal Forno, tanto<br />
tanto Postpunk, Sleaford Mods a profusione,<br />
Bowie che è morto e quindi come<br />
fai a non abusarne, Cat Power che ha<br />
scritto un pezzo da andirivieni nel cervello<br />
ed è lì che c’è la summa metaforica<br />
di questi 2 anni. Do a quanto segue il<br />
nome di un suo pezzo:<br />
Hate.<br />
Suona bene no?<br />
Io sono nato qui, posso quasi dire tanti<br />
anni fa e a 14 anni son scappato, mi<br />
sono dato alla fuga, quella più liberatoria,<br />
anche se mi stavo rinchiudendo in<br />
un collegio. Fuori dagli schemi familiari<br />
mi sono espanso, tornavo lieto a casa<br />
per le feste e le vacanze, delle parentesi<br />
dove potevo riappropriarmi della terra<br />
per un attimo. Ed ero felice, perché sapevo<br />
che la mia vita non era lì, che potevo<br />
cogliere tutto quello che mi andava<br />
e via. La Calabria e il meretricio sono<br />
un’unica cosa del resto, ed io non ho<br />
risparmiato abuso.<br />
È una terra superficiale, la gente che la<br />
anima è semplice, ridotta a non esigere<br />
nulla, disincantata (quale posto migliore<br />
per perdere l’incanto), spossata dagli<br />
abusi e dall’assenza dei suoi figli, o di<br />
quelli che la vivono e ne logorano lo spirito:<br />
tutto qui deve risultare percepibile<br />
ma mai manifesto. Non esiste comunità<br />
in senso pieno del termine, se non, per<br />
lo più, quella religiosa, che il più delle<br />
volte si disperde non appena si chiudono<br />
le porte della chiesa. Esiste solo l’individuo<br />
e il suo orto circostante, io qui<br />
soffoco come persona, nonostante la nostalgia<br />
mi prenda a tratti come una bestia<br />
feroce: ho passato una splendida<br />
infanzia, ho goduto della terra, profondamente<br />
bella, forse non delle persone.<br />
Ed ora che ci sono di nuovo dentro? Mi<br />
ostino a non capire quello che mi circonda<br />
perché mi ostino a non guardare<br />
la realtà, a ritagliarne i pezzi brutti, metterli<br />
da parte per costruire il puzzle da<br />
odiare per scappare. Una costruzione<br />
metodica, calcarea. Ma non è niente di<br />
nuovo, molti dei miei amici d’infanzia e<br />
della prima adolescenza sono andati via<br />
con le risposte chiare in tasca di chi ha<br />
scelto di fare il colletto bianco. Anche io<br />
ho fatto così, rapito dalle città del Nord,<br />
dalle occasioni che offriva e che mi hanno<br />
consunto come uno straccio; ad un<br />
certo punto mi sono fermato, ci siamo<br />
fermati, appositamente guardati negli<br />
FUOR ASSE 76<br />
Redazione Diffusa