Su La distanza immedicata Due rive, parte del medesimo tutto, che si guardano, due rive non connesse se non da un qualcosa che divide e che nello stesso tempo segna un confine. Due rive tra cui non è stato gettato un ponte (che avvicina) bensì vi è una distanza, immedicata, non guaribile. Il risanamento è già escluso sin dal titolo: La distanza immedicata. […] Io non vedo però Guglielmin su un o sull’altra riva, bensì al centro dell’acqua. E su di lui e dentro lui che tutto scorre ed è lui che agisce per dividere le acque non già come il fiume divide le sponde ma come il figlio che trova salvezza – grazie agli accadimenti ed alle ferite- e che cresce, trova sostegno dalla memoria e divide le acque, lui perchè è parte dell’acqua, non spettatore ma elemento, non estraneità ma componente. Ciò che ci lascia è un testamento esperienziale da mettere nelle mani del figlio acché possa comprendere. (Fabiano Alborghetti) E’ di un respiro che si tratta, del continuo sussulto ondulatorio di un torace che racconta di un essere partorito dal “perfettibile di un uovo” (Marsilio Ficino). Ed è dai simboli primigeni che incalza il dire, troncato, spezzato, ansimato, poi di nuovo illuminato da parole chiave. Scorre, così, da un lato la pena, dall’altro l’esorcismo ad essa. (Gian Ruggero Manzoni) Laddove la <strong>poesia</strong> del precedente incontrava la filosofia, fino a farle da balia, declinandone i concetti in versi levigati (mentore Deleuze), qui si aprono sguardi sulla realtà, a partire da un nucleo intimamente letterario: la <strong>poesia</strong> si specchia nell’intera tradizione in volgare, per cogliere le rifrangenze del reale, i suoi scorci, le sue pieghe. (Luigi Metropoli) Frequenti, e finemente ammaestrati, come in un mirabile concerto per voce sola, sono i cambi di registro e tono che percorrono l’opera lungo tutto il corso. La lingua di Guglielmin è duttile, s’insinua sottile come acqua nella roccia, e insistente scava, fino a sfociare in un gorgo di complessità restituita in tutta la nobile bellezza di una rivelazione che pare palesarsi suo malgrado, e che pure in questo dispiegarsi sottovoce trova la sua forza espressiva più efficace e dilaniante. E i riferimenti letterari che innervano e come linfa nutrono i versi di Guglielmin sono dopotutto segni inequivocabili di un bagaglio meditato, fecondo e presente, ma al tempo stesso condiviso col lettore in un atto di una consapevole, generosa, matura umiltà. (Cristina Babino) È ancora possibile la <strong>poesia</strong>? E prima ancora, che cos’è la <strong>poesia</strong>, quale posto ha nel divenire del mondo? Questo nuovo libro di Stefano Guglielmin, certamente il più stilisticamente maturo e complesso, dà una risposta sconcertante, ma che nella sua persuasività sembra essere l’unica possibile, anzi che sembra essere lì da sempre: la <strong>poesia</strong> è ancora possibile proprio perché è il divenire stesso del mondo, è l’emblema stesso della continua lotta che caratterizza gli opposti che fanno essere la realtà. E quale immagine allegorica poteva essere più calzante di quella del fiume? […] Il fiume è sempre uguale a se stesso e sempre diverso; il fiume, pur nella sua apparente orizzontalità e staticità, scorre e cade dall’alto verso il basso; il fiume, pur non ergendosi come un muro, separa di fatto una riva dall’altra. E attorno al concetto di movimento, cioè di caduta e separazione, si impernia il libro… “ (Giovanna Frene)
Senza mai sottrarsi all’urgenza di trovare una possibile mediazione o medicazione fra il desiderio di ripristinare quell’unità-interezza primordiale e la limitatezza dell’esistere, egli accoglie e dà ascolto all’impulso a muoversi e all’andare incontro, accettando ad ogni passo la sfida, cui fa eco una rinnovata e ripetuta presa di consapevolezza della irrevocabile ferita, poi che anche l’altro è mutilato, e non basta la vicinanza per fare uno. E non basta il dire, non basta la parola per sollevarci da tanto peso, per liberarci dal giogo della caducità e recare salvezza, e nondimeno è la parola, quella poetica in particolare, a insistere e resistere, e a cui il poeta affida tutto il suo sentire, la sua sconsolata ma irriducibile e incessante invocazione perché l’uomo, la natura, la notte e il mondo, la vita e il suo canto trovino respiro e risonanza, la leggerezza del palpito che s’invola. (Ivana Cenci) *