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Francesco Marotta, Scritture II, 2007 - Biagio Cepollaro, poesia

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“nominare le cose è un’estensione<br />

dolorosa della carne”<br />

Ci si muove nel solco di un esercizio etico, perché a ogni passo il simbolo in cui si inciampa è<br />

materia vivente, la parte superstite del giorno che incrocia nel volo il suo rovescio e riscrive il<br />

mondo, contemplando il suo ordine immutato, senza tempo, nella lingua impastata di fango delle<br />

radici. Ogni cosa che vive, muove sicura verso il suo orizzonte – fine musica di invisibili strumenti<br />

o carne in chiaroscuro, il silenzio nel suono cadenzato di sorgente o l’eco vociante che dalle paludi<br />

della notte si fa fiamma. L’unica tangibile presenza, nel dolore che segue a ogni incanto, è il volto<br />

radente che declina in spiga o fiore di granito, soglia dove l’umano è il nome che le cose regalano<br />

alle labbra – perché sia sacro e inviolato il respiro, la traccia assente delle parole segrete che poi<br />

diranno l’alba. Che mai potranno l’attimo, la legge impronunciabile di un mondo senza nascere e<br />

morire.<br />

“il corpo a cui la luce conferisce<br />

detrimento<br />

e dignità”<br />

Si cerca il varco come ci si abbandona al sonno, la crespatura dell’occhio che, simile a una pozza<br />

nelle mani del vento, nel suo moto irrequieto si fa onda e fondale, il punto di equilibrio su una<br />

mappa dove ogni segno svelato è finzione di estrema trasparenza. La prima parola, quella che<br />

ignara consegna al giorno i suoi arcani, nasconde nella crepa tra le sillabe pagine mai scritte del<br />

libro del buio e della luce. La quiete è solo un riflesso del vagare senza meta tra segni inudibili,<br />

indecifrabili palpiti di mondo.<br />

“scrivi ora il retaggio<br />

dell’alba<br />

su un mucchio di cenere”<br />

Specchiarsi in un albero – mentre d’inverno si spoglia, al lume delle nevi, del suo sudario di scorie,<br />

delle forme consunte di una stagione evasa dai suoi cardini, franata. Sapersi destinati, come una<br />

voce nel forse delle labbra, in muti transiti di senso, nel pudore che fermenta nell’aria l’inchiostro e<br />

la carta, la formula che rovescia i margini in regola di seme. Il verso esatto è il suo librarsi<br />

apparente, il suo stupore simile a una lama sospesa tra la terra e il cielo. Sui rami impietriti, la<br />

cenere superstite è il pensiero di un interminabile frangere contro la muraglia delle ombre – questo<br />

puro silenzio che impedisce alla voce di farsi parola, di essere, lontana dalla carne, il passo che<br />

rimane al suo svanire. Riconoscere qui il proprio volto – riflesso nel tempo di una goccia che stringe<br />

le infinite movenze di una danza, nel sonno indolente di una nuvola che sciama nel cristallo<br />

vermiglio di una luce rinata. Bruciante nell’eco che dall’informe ritesse lampi di roseto sul confine,<br />

trascorre nel giorno di ricordo in ricordo, verso il deserto che è soglia, madre di ogni fonte.

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