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Francesco Marotta, Scritture II, 2007 - Biagio Cepollaro, poesia

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E’ inoltre da sottolineare questo paradossale effetto anarchico della precisione, che viola qualsiasi<br />

convenzione e allo stesso tempo tutte le osserva con scrupolo: l’effetto è di fortissima provocazione<br />

stilistica in un tempo, come il nostro, che ha forgiato infinite teorie estetico-linguistiche. L’estetica,<br />

non-voluta, non curata ma tuttavia (a me pare) ben evidente nelle sue mire, questa personalissima<br />

teoria estetica della lingua, a suo modo spazza via tutto con una smorfia e non dice più nulla, non<br />

fornisce – a differenza degli altri elementi della <strong>poesia</strong> di Pepe – nessuna traccia ripetibile o regola<br />

che vada oltre il suo unico caso di applicazione. E paradossalmente questo caos linguistico così ben<br />

strutturato, è l’effetto di un esasperante lavoro di lima, di una ricerca linguistica che – lo si intuisce<br />

– ha caratteristiche di una quasi ossessiva mira di perfezione formale ottenuta con un collage di<br />

parole rottamate. Personalmente trovo che le provocazioni linguistiche di Pepe, la sua paradossale<br />

idea di perfezione che arriva al caos come esito finale, la straordinaria coesione di questo mondo<br />

dentro-il-mondo creato dal sogno e dalla potenza dell’immaginazione (ma anche realistico se non<br />

iper-realistico poiche indubbiamente riflette con fedeltà e precisione un’esperienza pure estrema),<br />

questa integrazione del proprio Io mente-corpo fuori di sé in quel mondo altro-da-mondo ma pure<br />

dentro-il-mondo, questo coacervo insomma di antinomie e di antitesi che pure creano un inedito<br />

equilibrio, sia qualcosa da non sottovalutare nel panorama della <strong>poesia</strong> italiana e su cui riflettere.<br />

(Gianmario Lucini, dalla Postfazione a Di corpi franti e scampoli d’amore, op. cit.)<br />

*<br />

Rotte tracciate sulle mappe oscure<br />

(di <strong>Francesco</strong> <strong>Marotta</strong>)<br />

“Che cruna del fiore squarciando<br />

In palpebra sera sovviene”<br />

Forse basta un accenno di luce per riconoscersi uguali sul baratro – come sillabe perse, in attesa<br />

del verso mai scritto in cui ritornare sostanza di corpi e di voce. Quel grumo di assenza che serve,<br />

perché s’agiti e splenda il dipinto di giorni caduti, la piaga del vento, l’autunno che chiama a<br />

raccolta i suoi fiumi di polvere e si impasta di sere sul fondo degli occhi. L’imbrunire è uno sguardo<br />

lanciato a ritroso nel tempo, è accorgersi che c’è un’ombra che preme più forte all’altezza del cuore,<br />

che un’àncora precipita al suolo tutto il peso dell’ala, lo stringe alla terra in un nodo. Come fa la<br />

memoria – quando risale furtiva il sentiero dei volti per legare un grido alle labbra. E’ in quel suono<br />

deserto che si pianta la tenda – per ripararsi dal buio.<br />

*<br />

“D’un mosaico di vetro sotterrato<br />

Di cui ignoro origine e trapasso”<br />

Matura nel breviario anche la mano, quando cede al chiarore arso dei frammenti. Quando nel<br />

dubbio, macchiata di purezza, si profila la spina che accese il volo e la trappola azzurra d’ogni dire.<br />

Le carte del rimorso sono passi, l’arte della pelle<br />

a disquamarsi in grappoli. Ma l’eco che raccogli dentro il palmo non è un relitto, la preda superstite<br />

alla caccia, l’aroma che l’acqua schiuma e spinge fino al faro. Origine e trapasso – tu dici – sono<br />

l’anno geometrico che avvampa. Anno senza radici. Il prima e il mai di un verso – che l’uno senza<br />

l’altro è parabola di ciechi.

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