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Francesco Marotta, Scritture II, 2007 - Biagio Cepollaro, poesia

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Veramente bello quello che scrivi, Lorenzo. “Bello” non perché contenga un esplicito elogio dei<br />

testi (è un fattore secondario, per quanto mi riguarda), ma perché frutto di un’analisi accurata e<br />

profonda, resa ancora più significativa dalla “vicinanza” a quel tipo di scrittura. Lo sottoscrivo,<br />

perché completa la mia nota, tutta giocata invece sui testi di “Meccaniche”, che ritengo opera di<br />

assoluto valore, un “oggetto” non facilmente identificabile soprattutto perché sintetizza elementi<br />

stilistici e contenutistici che arrivano a ondate sulla pagina provenienti dai recettori di una<br />

sensibilità aperta a tutto orizzonte sul reale e le sue contraddizioni (anche storiche) profonde.<br />

Io credo, anche in controtendenza rispetto a quello che Adriano scrive nel suo ultimo commento,<br />

che tra “Meccaniche” e “Le parole cadute” - non a caso ho scelto testi dalle due opere, per far<br />

risaltare ancora di più quella che ritengo una “solo apparente” contrapposizione di scritture - esista<br />

un filo sottile, ma non per questo meno identificabile e resistente, che io individuo nella<br />

propensione (che personalmente prediligo) a provare la propria “voce” in contesti diversificati,<br />

assecondando il ritmo e la forma che la materia poematica reca in sé come sua cifra condizionante,<br />

prima ancora di calarsi nel bianco (nel deserto) della pagina e farsi “segno”. C’è chi “costringe”<br />

questa materia all’interno di un disegno predefinito (niente di male, per carità), e chi invece ne<br />

segue l’evoluzione regalandole la complicità e la libertà di uno sguardo che si fa uno con essa, cioè<br />

disponendosi ad accogliere il senso più profondo della sua natura erratica e metamorfica. Secondo<br />

me Adriano, ne sia o meno completamente consapevole, si muove all’interno di questa seconda<br />

opzione.<br />

La focalizzazione del mio discorso (la nota di cui sopra) su “Meccaniche”, deve molto al piacere di<br />

chi si imbatte, in ogni sezione dell’opera, in testi che hanno già tutti i crismi dell’esemplarità: con<br />

ciò intendo la forza intrinseca di una opzione di poetica già ben salda e definita. Un “sonetto” come<br />

“parole contro norma ed armonia” o la “gabbia” di “visionario realismo” (l’ossimoro è mio, e me ne<br />

assumo tutta la responsabilità) di “non una storia non un sogno questo silenzio semina”, sono<br />

testimonianza concreta (pietre già fissate al suolo) di questo percorso.<br />

(<strong>Francesco</strong> <strong>Marotta</strong>)<br />

Sempre proseguendo sul filo della riflessione precedente, e senza nessuna pretesa di<br />

assolutizzazione.<br />

Il punto di incontro (di “equilibrio”) tra “frontalità” e “trasversalità” è, forse, il “luogo della <strong>poesia</strong>”,<br />

tanto per usare un’espressione cara a Yves Bonnefoy. Una “frontalità” che esclude ogni altra<br />

possibilità di “convergenza”, riduce l’ “oggetto” unicamente alle categorie di chi “guarda”,<br />

iscrivendolo nel circolo della pura “rappresentazione” e “dicibilità”, cioè in un’opera di<br />

concettualizzazione, post o ante rem poco importa, che ne fa possesso definito (e definitivo). Ciò<br />

che manca a questa prospettiva, a mio modo di vedere, è la trasversalità che opera e parla dai<br />

“margini”: sarebbe a dire, tra le altre cose, lo spazio (possibile) in cui si manifesta una “visione”<br />

altra dell’oggetto, quella che l’oggetto ha di sé, l’unica che può definirlo come “volto”. Laddove il<br />

“volto”, che ama dirsi, e si dice, nel suo alfabeto spesso inudibile, e la prospettiva che definisce,<br />

“rappresentando”, si incontrano e si scambiano il “silenzio” del reciproco “ascolto”, allora il<br />

“mondo” (con tutti i possibili “reali” che il termine ingloba) mostra ben altre possibilità di senso e<br />

significazione.<br />

(<strong>Francesco</strong> <strong>Marotta</strong>)

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