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Francesco Marotta, Scritture II, 2007 - Biagio Cepollaro, poesia

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3<br />

“l’esatto del corpo senza mondo e poco giro<br />

d’aria intorno poco respiro”<br />

Tu – ora dici – parola è amore, verbo del passaggio di un giorno che si cerca in pieno vento.<br />

E’ terra che si consola di pioggia e sangue, di occhi presaghi e attenti, liberi di specchiarsi, da<br />

una frana d’anni, in forme rinate di stagioni. C’è vento sulle rive della Sorga, un vento naufrago,<br />

memoria di rovine, che si trascina lento l’ora inudibile colma di erbe e fame, la materia invisibile<br />

che si racconta all’acqua come fa l’ombra a ogni lume attento. La morte – è questo il suo supplizio,<br />

la sua pena – ricorda accento per accento il lembo di mondo che noi fummo, il canto che abitammo<br />

per fare posto al dolore e ai suoi mattini. E’ di questa memoria che si consuma – di questo stelo che<br />

passo dopo passo, spina dopo spina, muore.<br />

4<br />

“lume latte da versare<br />

colmo<br />

proprio nel petto della vita”<br />

Lasciare tracce di parole è allevare ricordi che cresceranno senza il nostro sguardo. Strappare<br />

alla notte il canto di stelle inesistenti, e dietro il velo d’ombre smarrirsi nell’altro che ci<br />

riconoscerà in un segno, nell’assenza che prende corpo e voce tra due accenti. Vivere l’astuzia<br />

della fiamma – che si offre in schegge di chiarore al respiro dell’ombra che l’assorbe. Cadere<br />

come cade un lume in trasparenze d’acqua, nell’acqua spegnersi, e dentro l’acqua iscrivere il<br />

senso della nascita e l’assenza. Fare di ogni sguardo, strappato all’abbandono, al vetro incrinato<br />

della resa, un’isola levigata da respiri d’onda. Di ogni gesto, il rogo materno dove la neve viene<br />

ad abitare, a riconoscersi in ogni rivolo di vita in cui si scioglie.<br />

5<br />

“da dove dico bocca prato dico salva<br />

la via dei canti<br />

salva la notte e il mondo”<br />

Qui sei chiarore che canta i suoi lampi e la ferita. Voce in forma d’ala che attraversa il guado<br />

e della notte raccoglie ogni ombra, la materia intrisa di mondo, di linfa e di silenzi, del giorno<br />

che era stata. E’ questo il gesto concesso a chi si cerca – seppellire nel cuore di una zolla ogni<br />

rifiuto, essere la via e l’approdo del suo stesso viaggio, lo sguardo che si guarda e si scopre<br />

nell’occhio delle cose che lo guardano. E’ questo il gesto, dimora, memoria e fraternità dell’acqua,<br />

il grido che si leva dall’opposta riva – morire e rinascere a ogni istante. E allora il canto è neve,<br />

pietra che s’inciela, veglia che ama, spina che si trafigge, attesa che si fa luce, luce che fugge e<br />

cade e si rialza – morte che si arrende, senza tregua, cacciata dal nido, dal suo rogo muto di cenere<br />

senza pietà di fiamma, dalla sua dimora di parole immobili, prive di pupille.

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