Francesco Marotta, Scritture II, 2007 - Biagio Cepollaro, poesia
Francesco Marotta, Scritture II, 2007 - Biagio Cepollaro, poesia
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In Itinere – Adriano PADUA<br />
“<strong>poesia</strong> è fare spiragli, produrre crepe,<br />
segnare filiture dentro<br />
il sipario, dentro la parete<br />
sbarrata”<br />
(Emilio Villa)<br />
Adriano Padua<br />
(Ragusa, 1978)<br />
Nota ai testi di Adriano Padua<br />
Siamo di fronte a una scrittura poetica che fa della “necessità” – che si esprime in una urgenza quasi<br />
fisica, archetipica della parola, nonostante le tematiche la precipitino in una contemporaneità<br />
dolente e notturna – e della “consapevolezza critica”, tanto delle ragioni teoriche quanto delle<br />
opzioni stilistiche da cui muove e alle quali approda, la cifra più riconoscibile dell’orizzonte di<br />
ricerca in cui concretamente opera. Adriano Padua è uno dei pochi autori che, consapevolmente, per<br />
predisposizione naturale e vicinanza di intenzione e di voce (come è possibile rilevare, ad esempio,<br />
in tante sequenze segniche di “Meccaniche”), va inoltrandosi con sempre più salda convinzione,<br />
con estremo rigore, nei territori di una parola che si cerca, e si osserva, nei suoi tentativi di<br />
ridefinirsi e rimembrarsi in altre forme, come un respiro che si ricompone mentre tenta di risalire e<br />
di emergere dal fondo della maceria, seguendo in questo tragitto la luce delle intuizioni più<br />
profonde e durature che si possono ricavare dall’attraversamento dell’opera di autori come Emilio<br />
Villa e Corrado Costa. Il che non significa riprenderne temi, atteggiamenti, soluzioni – tutte risorse<br />
praticamente impossibili da utilizzare nella veste in cui storicamente si danno –, ma viaggiare in<br />
solitario, senza temere l’ombra e la marginalità spesso destinate a chi si inoltra per sentieri poco<br />
battuti, con lo sguardo armato di stupore, da una parte, e rigore concettuale dall’altra. Tra stupore e<br />
rigore si apre una terra di nessuno che egli sa abbracciare in un solo sguardo, come in una visione<br />
che declina ogni differenza in un unicum sonoro e semantico nuovo, aperto alla contraddizione e<br />
alla moltiplicazione del senso, proprio nel momento in cui ne esalta la radicale e pregnante<br />
individualità sul piano delle immagini: un filo teso tra il magma lavico, informe, di ciò che non è<br />
ancora – e che si esprime, sottilmente, come tensione alla ricerca della struttura e del fondamento<br />
originari – e la frana di un universo imploso nella sua presunzione, tutta moderna, di ridurre il caos<br />
primigenio a ordine meccanico, controllabile, eterodiretto. Inconsciamente, credo, il poeta si pone<br />
nell’ottica dell’antico “nomotètes”, di chi stabilisce regole attraverso le quali definire i sensi futuri<br />
di un universo possibile. Il “facitore di norme”, in questo caso, agisce paradossalmente fuori e<br />
contro ogni norma, perché la sua non è la proposizione di un “kosmos” contrapposto all’informe,<br />
ma unicamente un lavoro di percorrenza e scavo che ha come ritmo il respiro affannato delle cose<br />
nel loro ultimo trascolorare e il soffio albeggiante di un mondo a venire, intravisto negli specchi<br />
della prima pronuncia, di un alfabeto che, nominando, ricrea labbra e voce.