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Ho vissuto talmente tante vite da non desiderarne<br />
nessuna. Non che sia un seguace di Pitagora<br />
o di Buddha, ma credo che chiunque nell’arco<br />
della propria esistenza viva tante vite. Ogni giorno,<br />
ogni ora, ogni istante siamo immersi in una vita. Ciascuna<br />
di esse mette capo ad un umore, ad una scelta,<br />
ad un caso e magari a un malinteso. La vita, ciò cui<br />
questa parola comunemente allude, non ha soluzione<br />
di continuità. È un’indomabile forra di schegge, frammenti,<br />
pezzi di destino proiettati nel tempo. Nessuna<br />
logica compone quei pezzi, nessuna sciagurata dottrina<br />
ne sonda il mistero. Il tempo, senza etica o destino,<br />
soprassiede indifferente a ciò che traccia oscura e disfa;<br />
egualmente impegna un batterio e i tuoi anni. Consuma<br />
questo passo che è una somma di altri passi, ogni<br />
vita che trascorre e dilegua. Il suo alfabeto ha i caratteri<br />
del sogno e dell’oblio.<br />
Continua, semmai, è la morte che incalza: la morte di<br />
una scelta, di un’ipotesi, di un amore. I suoi ardui profili<br />
concedono polvere e rovine. Ciascuno di essi non è<br />
meno irrimediabile e definitivo di quello che attendo.<br />
Non posso desiderarne nessuno ormai, non posso ragionevolmente<br />
biasimarne alcuno. Si può immaginare<br />
una vita; non credo si possa gioire o soffrire di ciò che<br />
non si possiede. Perdiamo solo ciò che non possiamo<br />
avere, e le vite che non avrò o non ho avute sono congetture:<br />
posso ammetterle, non bramarle o struggermi<br />
per esse.<br />
Mi dico: potrei sinceramente soffrire di non essere povero<br />
ladro armatore o poeta? No. Non posso soffrire<br />
ciò che non provo. A rigore non soffro nemmeno di ciò<br />
che mi attende, anche se ho paura, ma è una cosa diversa.<br />
Sono un ricco proprietario terriero. Non ho figli da<br />
educare né mogli da lodare. Ignoro gli alterni benefici<br />
dell’unione e della figliolanza: giovinezza pudore e disincanto<br />
mi evitarono il sinistro. Ciò comportò l’indubbio<br />
beneficio di eludere peccati rimorsi e ascendenze.<br />
Con fatiche sudori e dedizione ho accumulato fortune<br />
che qualcuno pensa non meriti. Forse perché il merito,<br />
così come il demerito, è indifferente nell’economia<br />
universale. Forse perché meritare non è più dignitoso<br />
che pretendere o mendicare. Non importa.<br />
Ho settecento capi di bestiame (perlopiù ovini e bovi-<br />
Gli infami<br />
Antonio PERROTTA<br />
40<br />
ni), circa cinquemila ettari di terreno fruttuoso e altri<br />
mille adibiti a pascolo. Produco carne latte formaggi<br />
olio birra e conserve. Per me (non meno che per loro)<br />
lavorano duecento uomini le cui fatiche sono debitamente<br />
remunerate. Altrettante famiglie conducono<br />
una vita dignitosa. Mai le mie orecchie udirono il pianto<br />
di un moccioso cui mancasse un boccone. Nessuno<br />
fu percosso bastonato o costretto a lavorare più del<br />
dovuto, sia bianco sia negro. L’ombra della verga accompagnò<br />
solo i miei passi claudicanti tra le zolle umide<br />
dei campi. Non di rado dispensai un sorriso, una parola<br />
gentile alle spalle di un bracciante.<br />
Ora ho sessantotto anni, e questa fine è auspicabile<br />
quanto le altre. Ora la vita, l’ultima forma della mia vita,<br />
incontra il profilo scuro e titubante di un uomo che<br />
accolsi come un figlio.<br />
Il volto è teso, la fronte corrugata e coperta di sudore.<br />
Un respiro incostante e affannoso sibila dai bronchi alla<br />
strozza muovendo il groviglio di capelli secchi e grigi<br />
che la mia testa ancora accoglie. Due mandibole arcuate<br />
e spigolose flettono assiduamente l’incavo del<br />
massetere producendo un clangore di denti che stridono,<br />
mentre al soffitto una ventola intrecciata di paglia<br />
cigola sul ferro ossidato di un perno. La regolare<br />
cadenza scandisce la finzione di un tempo che presumo<br />
ingannare.<br />
Seduto sul vecchio scranno di rovere, il busto e i piedi<br />
saldamente legati ad esso da una corda di canapa attorta,<br />
mendico furtivo le parole come stracci; stracci<br />
che presto la violenza di un arbitrio monderà di sangue<br />
e infamia. Un bavaglio stringe la bocca offesa e deforme,<br />
mentre la corda, ruspa e intrisa di lerciume, manda<br />
un odore di fango erba e buoi. La mano destra, risparmiata<br />
dai nodi, tenta l’insana parodia della scrittura,<br />
l’infimo conforto di queste parole che lui solo leggerà.<br />
Così, lo scrittoio che per anni fu teatro di bilanci partite<br />
costi e ricavi, perde, incontrandolo ancora, il polso<br />
di un uomo che non grida pietà o vendetta; un uomo<br />
la cui rassegnazione non è disperata, ma ostile e risoluta.<br />
Ho paura, non lo nego. Ma non è la paura che mi può<br />
riscattare, e nemmeno il coraggio. Fui tanti uomini diversi<br />
che persero la vita ogni giorno, e questa fine ul-