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Rivista Slsi 1-4 /2004 - Slsi.It

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Ho vissuto talmente tante vite da non desiderarne<br />

nessuna. Non che sia un seguace di Pitagora<br />

o di Buddha, ma credo che chiunque nell’arco<br />

della propria esistenza viva tante vite. Ogni giorno,<br />

ogni ora, ogni istante siamo immersi in una vita. Ciascuna<br />

di esse mette capo ad un umore, ad una scelta,<br />

ad un caso e magari a un malinteso. La vita, ciò cui<br />

questa parola comunemente allude, non ha soluzione<br />

di continuità. È un’indomabile forra di schegge, frammenti,<br />

pezzi di destino proiettati nel tempo. Nessuna<br />

logica compone quei pezzi, nessuna sciagurata dottrina<br />

ne sonda il mistero. Il tempo, senza etica o destino,<br />

soprassiede indifferente a ciò che traccia oscura e disfa;<br />

egualmente impegna un batterio e i tuoi anni. Consuma<br />

questo passo che è una somma di altri passi, ogni<br />

vita che trascorre e dilegua. Il suo alfabeto ha i caratteri<br />

del sogno e dell’oblio.<br />

Continua, semmai, è la morte che incalza: la morte di<br />

una scelta, di un’ipotesi, di un amore. I suoi ardui profili<br />

concedono polvere e rovine. Ciascuno di essi non è<br />

meno irrimediabile e definitivo di quello che attendo.<br />

Non posso desiderarne nessuno ormai, non posso ragionevolmente<br />

biasimarne alcuno. Si può immaginare<br />

una vita; non credo si possa gioire o soffrire di ciò che<br />

non si possiede. Perdiamo solo ciò che non possiamo<br />

avere, e le vite che non avrò o non ho avute sono congetture:<br />

posso ammetterle, non bramarle o struggermi<br />

per esse.<br />

Mi dico: potrei sinceramente soffrire di non essere povero<br />

ladro armatore o poeta? No. Non posso soffrire<br />

ciò che non provo. A rigore non soffro nemmeno di ciò<br />

che mi attende, anche se ho paura, ma è una cosa diversa.<br />

Sono un ricco proprietario terriero. Non ho figli da<br />

educare né mogli da lodare. Ignoro gli alterni benefici<br />

dell’unione e della figliolanza: giovinezza pudore e disincanto<br />

mi evitarono il sinistro. Ciò comportò l’indubbio<br />

beneficio di eludere peccati rimorsi e ascendenze.<br />

Con fatiche sudori e dedizione ho accumulato fortune<br />

che qualcuno pensa non meriti. Forse perché il merito,<br />

così come il demerito, è indifferente nell’economia<br />

universale. Forse perché meritare non è più dignitoso<br />

che pretendere o mendicare. Non importa.<br />

Ho settecento capi di bestiame (perlopiù ovini e bovi-<br />

Gli infami<br />

Antonio PERROTTA<br />

40<br />

ni), circa cinquemila ettari di terreno fruttuoso e altri<br />

mille adibiti a pascolo. Produco carne latte formaggi<br />

olio birra e conserve. Per me (non meno che per loro)<br />

lavorano duecento uomini le cui fatiche sono debitamente<br />

remunerate. Altrettante famiglie conducono<br />

una vita dignitosa. Mai le mie orecchie udirono il pianto<br />

di un moccioso cui mancasse un boccone. Nessuno<br />

fu percosso bastonato o costretto a lavorare più del<br />

dovuto, sia bianco sia negro. L’ombra della verga accompagnò<br />

solo i miei passi claudicanti tra le zolle umide<br />

dei campi. Non di rado dispensai un sorriso, una parola<br />

gentile alle spalle di un bracciante.<br />

Ora ho sessantotto anni, e questa fine è auspicabile<br />

quanto le altre. Ora la vita, l’ultima forma della mia vita,<br />

incontra il profilo scuro e titubante di un uomo che<br />

accolsi come un figlio.<br />

Il volto è teso, la fronte corrugata e coperta di sudore.<br />

Un respiro incostante e affannoso sibila dai bronchi alla<br />

strozza muovendo il groviglio di capelli secchi e grigi<br />

che la mia testa ancora accoglie. Due mandibole arcuate<br />

e spigolose flettono assiduamente l’incavo del<br />

massetere producendo un clangore di denti che stridono,<br />

mentre al soffitto una ventola intrecciata di paglia<br />

cigola sul ferro ossidato di un perno. La regolare<br />

cadenza scandisce la finzione di un tempo che presumo<br />

ingannare.<br />

Seduto sul vecchio scranno di rovere, il busto e i piedi<br />

saldamente legati ad esso da una corda di canapa attorta,<br />

mendico furtivo le parole come stracci; stracci<br />

che presto la violenza di un arbitrio monderà di sangue<br />

e infamia. Un bavaglio stringe la bocca offesa e deforme,<br />

mentre la corda, ruspa e intrisa di lerciume, manda<br />

un odore di fango erba e buoi. La mano destra, risparmiata<br />

dai nodi, tenta l’insana parodia della scrittura,<br />

l’infimo conforto di queste parole che lui solo leggerà.<br />

Così, lo scrittoio che per anni fu teatro di bilanci partite<br />

costi e ricavi, perde, incontrandolo ancora, il polso<br />

di un uomo che non grida pietà o vendetta; un uomo<br />

la cui rassegnazione non è disperata, ma ostile e risoluta.<br />

Ho paura, non lo nego. Ma non è la paura che mi può<br />

riscattare, e nemmeno il coraggio. Fui tanti uomini diversi<br />

che persero la vita ogni giorno, e questa fine ul-

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