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Rivista Slsi 1-4 /2004 - Slsi.It

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Ci voleva Clint Eastwood (74 anni) , questa volta<br />

solo alla regia, per firmare un capolavoro asciutto,<br />

essenziale e crudele come Mystic River, tratto<br />

dall’omonimo romanzo di Tennis Lehane e sceneggiato<br />

con articolata perizia dal premio Oscar Brian Helgeland<br />

(L. A. Confidential). Con un impianto classico per<br />

pulizia di immagini, movimento lento della macchina e<br />

grande spazio all’interpretazione, l’amato Clint propone<br />

un thriller, consumato in un modesto quartiere periferico<br />

di Boston, ove si respira la soffocata opportunità dei<br />

grandi spazi, la sommersa voglia di fuggire l’angusta quotidianità.<br />

Il thriller ha tutti gli ingredienti per appassionare,<br />

è teso e fluido insieme e presenta, nel concitato finale,<br />

una doppia verità-realtà. Non domina il concetto di<br />

redenzione, di perdono o di giustizia, ma solo una brutale<br />

legge pessimistica, di marca western, vissuta dal più<br />

forte; ognuno resterà nel suo ruolo: chi nell’innocenza<br />

mancata, che nel selvaggio livore di una tragedia greca.<br />

Da un autore che ci ha regalato film indimenticabili come<br />

Una giornata particolare (1983), La cena (1988) e<br />

Concorrenza sleale (2001) ci aspettavamo con Gente di<br />

Roma un discorso più unitario e coerente. L’opera, dallo<br />

stile documentaristico, vuole coinvolgerci in svariati e<br />

talvolta slegati mosaici di situazioni vissute da figure che<br />

affrescano l’attuale Roma, quella che accoglie moltitudini<br />

di extracomunitari, ma fa vivere in pace greci e turchi,<br />

indiani e pachistani. Roma fa da sfondo con le sue immortali<br />

testimonianze di respiro storico, la città abbraccia<br />

ed accoglie nel suo ventre una variopinta carrellata<br />

di figurine che si colorano, a tratti, di venature antropologiche<br />

e guizzi auto-ironici. Purtroppo l’omaggio alla capitale<br />

di Scola, pur intriso di freschezza sperimentale,<br />

perde d’autorità nello stile e nei collegamenti, inserendo,<br />

in maniera frammentaria e riempitiva, momenti imbarazzanti<br />

per melanconia e degrado umano.<br />

Dogville, l’ultima provocazione colta del regista danese<br />

Lars von Trier è un lavoro di pretta atmosfera teatrale,<br />

sviluppato in un’unica geniale planimetria priva di am-<br />

Film visti<br />

da Gianluigi CAPITANIO<br />

63<br />

bienti divisori, impreziosito da giochi di luce atti ad esaltare<br />

la sofferta e compenetrata fisicità dei volti. L’apparente<br />

democraticità di un minuscolo ed isolato paesino<br />

americano, composto da quindici anime, viene messo a<br />

dura prova dall’improvviso arrivo di una straniera: Grace.<br />

L’avvenente giovane, ricercata dai gangster e dalla<br />

polizia, rappresenta l’ignoto, la destabilizzazione della<br />

quotidianità, l’ansia di una verità che può negativamente<br />

abbattersi come una condanna fatale nel difficile periodo<br />

della Grande Depressione. La terminale metafora<br />

del regista è spiazzante, crudele e vendicativa, ma segna<br />

il lapidario riscatto del più debole.

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