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Rivista Slsi 1-4 /2004 - Slsi.It

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tima è quantomeno evidente, plausibile, sensata. Non<br />

posso dire che sia legittima, ma non posso neanche dire<br />

che sia legittimo legittimare qualcosa; ovvero che la<br />

legittimità sia connaturata a questo mondo. Del resto<br />

le spiegazioni sono un patrimonio tutt’altro che condivisibile.<br />

La paura invece è un sentimento comune,<br />

non meno intenso e dignitoso degli altri. Nel mio caso<br />

però ha qualcosa di ancestrale e primigenio, qualcosa<br />

di opportuno ed efficace che la rende sopportabile,<br />

preziosa.<br />

Riconosco tuttavia che riflettere lucidamene in simili<br />

circostanze potrebbe essere una forma ulteriore di delirio,<br />

una forma di terrore così alta da restare inespressa,<br />

o quasi. Non so.<br />

In questi momenti, senza grazia o peccato, l’uomo è il<br />

proprio destino, in esso s’incarna considerando non le<br />

cose, ma la sua persona come vana miseria. Da questa<br />

consapevolezza nasce una dignità nuova, decorosa: la<br />

dignità di chi affronta la morte senza strepiti suppliche<br />

o preghiere perché in fondo perde poco o nulla. Perde<br />

ciò che perse innumerevoli volte, ma senza ricordarsene.<br />

Intanto la mano verga con perizia queste magre parole<br />

nella speranza di procrastinare ciò che scrive. Forse<br />

anche questa è una forma di preghiera.<br />

So di non avere molto tempo. Sam alle mie spalle è agitato,<br />

nervoso. Si guarda intorno di continuo e io capisco<br />

che ha fretta, che vorrebbe concedermi altro ma<br />

non può. Può concedermi solo ciò che si è prefisso e,<br />

tutto sommato, sono contento che sia lui ad impugnare<br />

questa sorte: il caro fulvo e prediletto Sam.<br />

Prima del mandriano c’è l’uomo Sam: l’uomo che la sera<br />

indugiava nel patio ascoltando la storia dei padri e<br />

delle vecchie carovane del sud, l’uomo con cui guardavo<br />

la luna nel tondo liquido dei secchi fino a che l’alba<br />

non ci scopriva in terra ubriachi, l’uomo che concede<br />

sorpreso il desiderio finale di queste parole.<br />

Forse non ha un piano preciso. Forse è confuso. Forse<br />

ha più paura di me. Il suo braccio, nudo e contratto,<br />

deve colpire. La mano che strinsi nella notte ora stringe<br />

il coltello accosto alla mia gola. Il pugno è malfermo,<br />

rabbioso. Ma - se non sto diventando pazzo - è una<br />

rabbia che disapprova il gesto, una rabbia che mortifica<br />

se stessa, che vorrebbe scongiurare una volontà più<br />

grande. Questa rabbia adesso non può fallire, né vigliaccamente<br />

indietreggiare. Non sa che anch’essa è<br />

destinata a morire. Non sa che tempo caso e circostanze<br />

sono gli unici assassini della storia.<br />

Conosco Sam. Dopo l’abominio leggerà queste pagine<br />

e scoprirà che non gli serbo rancore. Scoprirà che l’attribuzione<br />

di un gesto, nel bene o nel male, è pegno casuale<br />

del tempo, e che l’amicizia può eludere le circostanze.<br />

Scoprirà che anche la sua vita - una delle sue<br />

vite - è morta in quel gesto, e che il giorno ordirà altre<br />

sorprese.<br />

A N T O N I O P E R R O T T A<br />

41<br />

Scoprirà che tra i quindici punti del mio testamento<br />

(gelosamente custodito dal notaio ***), uno contempla<br />

l’ipotesi criminosa, e che lui è il maggiore indiziato,<br />

la persona su cui - per le ragioni nel punto esposte<br />

– dovranno convergere le indagini. Scoprirà che una<br />

corda, la stessa che arrossa le mie carni, spezzerà la<br />

sua gola. Scoprirà che in caso di morte naturale egli<br />

sarebbe l’unico erede delle mie proprietà.<br />

Ma per uno scherzo del caso o del destino (i due vocaboli<br />

sono sinonimi) so molte più cose io di lui. So persino<br />

ciò che accadrà quando ormai sarò morto.<br />

Inoltre, e non è cosa comune, so che al termine di questa<br />

scrittura una lama taglierà la mia gola.<br />

Jak Osborn [Antonio Perrotta]<br />

* * *<br />

Scri to in un pomeriggio estivo del ’99, Gli infami è<br />

un racconto la cui sincerità inventiva si accordò<br />

immediatamente con quella narrativa. L’atmosfera<br />

di tragica incombenza corrisponde esattamente<br />

a quella che immaginai, e forse non è estranea ai<br />

racconti di Faulkner e alla sua contrada di Yoknapatawpha.<br />

Il lettore (se esiste) prende a cuore l’infausto<br />

destino che Jak Osborn attende. Sa che il<br />

monologo si avvia a delle conclusioni atroci e quasi<br />

si stupisce di come il narratore (ovvero il monologante,<br />

lo stesso Osborn) le accetti e addirittura<br />

giustifichi. Fin quasi alle ultime righe ne ammira<br />

stoicismo umiltà e decoro. Poi comprende che l’uomo<br />

non fu meno subdolo e infame dell’altro alle<br />

sue spalle, ma non lo deplora. In qualche modo ne<br />

apprezza vendetta rigore e perfidia. Non da ultimo,<br />

un certo qual grado di luttuosa ironia.<br />

CENNI BIOGRAFICI<br />

Antonio Perrotta nasce (volendo dar credito alla mera<br />

autorità di un ufficio cui solitamente ripieghiamo per<br />

sapere chi siamo – Anagrafe) il 28 Dicembre 1977 in<br />

Sulmona (AQ), patria dell’illustre e “giocoso cantore”<br />

Ovidio.<br />

Con la pubertà vide affacciarsi prepotentemente i sintomi<br />

di un’inguaribile vanità letteraria. Lo stimolo fu di<br />

ordine olfattivo: il pungente lezzo della carta avita nello<br />

scantinato, sede di tarlati e rescindibili libracci d’oscura<br />

provenienza. L’indiscreta manipolazione tattile<br />

dei volumi costituì il secondo grado d’intesa percettiva

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