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tima è quantomeno evidente, plausibile, sensata. Non<br />
posso dire che sia legittima, ma non posso neanche dire<br />
che sia legittimo legittimare qualcosa; ovvero che la<br />
legittimità sia connaturata a questo mondo. Del resto<br />
le spiegazioni sono un patrimonio tutt’altro che condivisibile.<br />
La paura invece è un sentimento comune,<br />
non meno intenso e dignitoso degli altri. Nel mio caso<br />
però ha qualcosa di ancestrale e primigenio, qualcosa<br />
di opportuno ed efficace che la rende sopportabile,<br />
preziosa.<br />
Riconosco tuttavia che riflettere lucidamene in simili<br />
circostanze potrebbe essere una forma ulteriore di delirio,<br />
una forma di terrore così alta da restare inespressa,<br />
o quasi. Non so.<br />
In questi momenti, senza grazia o peccato, l’uomo è il<br />
proprio destino, in esso s’incarna considerando non le<br />
cose, ma la sua persona come vana miseria. Da questa<br />
consapevolezza nasce una dignità nuova, decorosa: la<br />
dignità di chi affronta la morte senza strepiti suppliche<br />
o preghiere perché in fondo perde poco o nulla. Perde<br />
ciò che perse innumerevoli volte, ma senza ricordarsene.<br />
Intanto la mano verga con perizia queste magre parole<br />
nella speranza di procrastinare ciò che scrive. Forse<br />
anche questa è una forma di preghiera.<br />
So di non avere molto tempo. Sam alle mie spalle è agitato,<br />
nervoso. Si guarda intorno di continuo e io capisco<br />
che ha fretta, che vorrebbe concedermi altro ma<br />
non può. Può concedermi solo ciò che si è prefisso e,<br />
tutto sommato, sono contento che sia lui ad impugnare<br />
questa sorte: il caro fulvo e prediletto Sam.<br />
Prima del mandriano c’è l’uomo Sam: l’uomo che la sera<br />
indugiava nel patio ascoltando la storia dei padri e<br />
delle vecchie carovane del sud, l’uomo con cui guardavo<br />
la luna nel tondo liquido dei secchi fino a che l’alba<br />
non ci scopriva in terra ubriachi, l’uomo che concede<br />
sorpreso il desiderio finale di queste parole.<br />
Forse non ha un piano preciso. Forse è confuso. Forse<br />
ha più paura di me. Il suo braccio, nudo e contratto,<br />
deve colpire. La mano che strinsi nella notte ora stringe<br />
il coltello accosto alla mia gola. Il pugno è malfermo,<br />
rabbioso. Ma - se non sto diventando pazzo - è una<br />
rabbia che disapprova il gesto, una rabbia che mortifica<br />
se stessa, che vorrebbe scongiurare una volontà più<br />
grande. Questa rabbia adesso non può fallire, né vigliaccamente<br />
indietreggiare. Non sa che anch’essa è<br />
destinata a morire. Non sa che tempo caso e circostanze<br />
sono gli unici assassini della storia.<br />
Conosco Sam. Dopo l’abominio leggerà queste pagine<br />
e scoprirà che non gli serbo rancore. Scoprirà che l’attribuzione<br />
di un gesto, nel bene o nel male, è pegno casuale<br />
del tempo, e che l’amicizia può eludere le circostanze.<br />
Scoprirà che anche la sua vita - una delle sue<br />
vite - è morta in quel gesto, e che il giorno ordirà altre<br />
sorprese.<br />
A N T O N I O P E R R O T T A<br />
41<br />
Scoprirà che tra i quindici punti del mio testamento<br />
(gelosamente custodito dal notaio ***), uno contempla<br />
l’ipotesi criminosa, e che lui è il maggiore indiziato,<br />
la persona su cui - per le ragioni nel punto esposte<br />
– dovranno convergere le indagini. Scoprirà che una<br />
corda, la stessa che arrossa le mie carni, spezzerà la<br />
sua gola. Scoprirà che in caso di morte naturale egli<br />
sarebbe l’unico erede delle mie proprietà.<br />
Ma per uno scherzo del caso o del destino (i due vocaboli<br />
sono sinonimi) so molte più cose io di lui. So persino<br />
ciò che accadrà quando ormai sarò morto.<br />
Inoltre, e non è cosa comune, so che al termine di questa<br />
scrittura una lama taglierà la mia gola.<br />
Jak Osborn [Antonio Perrotta]<br />
* * *<br />
Scri to in un pomeriggio estivo del ’99, Gli infami è<br />
un racconto la cui sincerità inventiva si accordò<br />
immediatamente con quella narrativa. L’atmosfera<br />
di tragica incombenza corrisponde esattamente<br />
a quella che immaginai, e forse non è estranea ai<br />
racconti di Faulkner e alla sua contrada di Yoknapatawpha.<br />
Il lettore (se esiste) prende a cuore l’infausto<br />
destino che Jak Osborn attende. Sa che il<br />
monologo si avvia a delle conclusioni atroci e quasi<br />
si stupisce di come il narratore (ovvero il monologante,<br />
lo stesso Osborn) le accetti e addirittura<br />
giustifichi. Fin quasi alle ultime righe ne ammira<br />
stoicismo umiltà e decoro. Poi comprende che l’uomo<br />
non fu meno subdolo e infame dell’altro alle<br />
sue spalle, ma non lo deplora. In qualche modo ne<br />
apprezza vendetta rigore e perfidia. Non da ultimo,<br />
un certo qual grado di luttuosa ironia.<br />
CENNI BIOGRAFICI<br />
Antonio Perrotta nasce (volendo dar credito alla mera<br />
autorità di un ufficio cui solitamente ripieghiamo per<br />
sapere chi siamo – Anagrafe) il 28 Dicembre 1977 in<br />
Sulmona (AQ), patria dell’illustre e “giocoso cantore”<br />
Ovidio.<br />
Con la pubertà vide affacciarsi prepotentemente i sintomi<br />
di un’inguaribile vanità letteraria. Lo stimolo fu di<br />
ordine olfattivo: il pungente lezzo della carta avita nello<br />
scantinato, sede di tarlati e rescindibili libracci d’oscura<br />
provenienza. L’indiscreta manipolazione tattile<br />
dei volumi costituì il secondo grado d’intesa percettiva