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Rivista Slsi 1-4 /2004 - Slsi.It

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Ennio Flaiano marziano a Roma<br />

Figlio minore, considerato assai poco in famiglia.<br />

Forse nessuno mi aspettava più, ormai. Sono arrivato,<br />

come si dice, a tavola sparecchiata, alla<br />

frutta. Ma non può essere soltanto questa la ragione del<br />

silenzio che mi accoglie puntualmente ogni volta che rientro<br />

in casa”. In questo passo autobiografico, Ennio<br />

Flaiano (Pescara 1910 – Roma 1972) tirava le somme<br />

di un’infanzia ed un’adolescenza che lo videro sballottato<br />

fra pensionati e collegi di mezza <strong>It</strong>alia prima che,<br />

diciottenne, decidesse di staccarsi definitivamente da<br />

Pescara e dalla famiglia per trasferirsi a Roma a proseguire<br />

gli studi. Qui, svogliato studente di architettura,<br />

fece presto a liquidare i suoi conti anche con il fascismo,<br />

senza però potersi sottrarre al servizio militare e<br />

alla campagna coloniale della guerra etiopica: dall’Africa,<br />

vivendo l’avventura "senza colpo ferire", riportò<br />

suggestioni esotiche e un profondo disincanto nei confronti<br />

dei suoi simili, che, rafforzando le native inclinazioni,<br />

si affidarono ad un taccuino d’appunti (Aethiopia)<br />

in cui consistono di fatto l’esordio compiuto della<br />

vocazione letteraria e le coordinate stesse di una misura<br />

espressiva per frammenti, folgorazioni, acute impennate<br />

ironiche che, salvo pochissime eccezioni, avrebbero<br />

costituito la sua maniera di intellettuale col vizio della<br />

scrittura, compiaciuto di un senso della vita compiuto<br />

e distaccato, più tardi esplicitato nell’assioma della<br />

"futilità di aver vissuto ai margini".<br />

Nell’immediato dopoguerra, intensificandosi la sua attività<br />

di giornalista e di critico cinematografico e teatrale,<br />

presero corpo e migliore spessore le ambizioni<br />

artistiche: dalle urgenze esistenziali e dalle inquietudini<br />

mai sopite cominciò a nascere quello che epidermicamente<br />

sarebbe poi apparso uno scrittore frammentario,<br />

il brillante e umorale battutista che traduceva<br />

nella pagina, d’immediato, un conversare pausato e<br />

scoppiettante, ma in realtà architettava, fingendo persino<br />

con sé stesso di non saperlo, "un romanzo della vita,<br />

un romanzo dell’esistenza che passava, entrava e<br />

usciva dai giornali, entrava e usciva anche dai luoghi<br />

della ufficialità culturale, ma in modo più sottile e profondo<br />

non ne faceva parte".<br />

Appunto il disagio verso gli apparati culturali del suo<br />

tempo, fatti di conformismo e corsa al benessere, lo<br />

spinsero dapprima, con l’incompiuto Messia, a tentare<br />

un progetto di libro ove le angosce e le incertezze si<br />

dissolvessero nel recupero di una lezione consegnata<br />

Giuseppe PAPPONETTI<br />

52<br />

al mondo dei padri, alle radici stesse di un Abruzzo<br />

tradizionale, più sognato che effettivamente conosciuto<br />

al tempo dell’infanzia; ma fu presto il ricordo dell’esperienza<br />

d’Africa a restituirgli il filo di una storia che,<br />

sotto le apparenze di seriose vicende belliche, si proponesse<br />

in alternativa fiabesca al vagheggiamento di<br />

una impossibile purezza primigenia. Tempo di uccidere,<br />

vincitore a sorpresa del Premio Strega del ’47,<br />

offriva sì una visione amara dell’esistere quale destinazione<br />

sbagliata degli atti del protagonista, ma gli concedeva<br />

pure una finale chiave interpretativa nella rivelazione<br />

della parte sconosciuta di sé, e gli imponeva<br />

di necessità il recupero di un rigore morale per non affondare<br />

nell’indifferenza: una scoperta fondamentale,<br />

per Flaiano, nei panni vividi e seducenti dell’apologo<br />

africano.<br />

"A Roma, da giovane, ho trascorso anni in giro, la notte,<br />

col poeta Cardarelli e Guglielmo Santangelo, due<br />

maestri di indignazione e di vita. A Roma ho conosciuto<br />

i primi scrittori, i giovani che facevano la fame e le<br />

donne che ci facevano compagnia": sono gli anni in cui<br />

"il gusto per le compagnie equivoche, l’irresponsabilità,<br />

il promettere sapendo di non mantenere, la difesa del<br />

debole, la preoccupazione di piacere di primo acchito,<br />

la persistenza nell’errore, la smania di emergere" fanno<br />

incontrare Flaiano e Federico Fellini. Dalla loro collaborazione<br />

sarebbero nati film importanti per l’intelligenza<br />

e l’analisi della società italiana che riemergeva<br />

dalla guerra tra ingenuamente fiduciosa e amaramente<br />

disillusa, per avviarsi a costruire fatuamente e cinicamente<br />

la nuova faccia del consumismo, dei piaceri immediati,<br />

del vuoto e insoddisfatto abbandonarsi alla<br />

corrente dell’effimero. Dallo Sceicco bianco alla Dolce<br />

vita, passando per I vitelloni e Le notti di Cabiria,<br />

città e provincia mostravano le crepe di una crisi senza<br />

soluzione o, nei casi migliori, di un ormai attuato e irreversibile<br />

procedere stancamente, nell’ininterrotta ridiscussione<br />

di accidentali certezze.<br />

In un Flaiano calato appieno nella Roma-caos, e di essa<br />

stessa infinitesimo ma conscio attore, le urgenze<br />

etiche mai venute meno e, se vogliamo, lo zoccolo duro<br />

del provinciale e dell’abruzzese che, guardando con<br />

progressivo distacco al concittadino d’Annunzio, si<br />

erano per tempo affidate al privato vangelo dei Prome<br />

si sposi di Manzoni ("il più grande di tutti i nostri<br />

narratori moderni"), finirono per riprendere la via del-

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