22Raffaello PasqualottoASSOCIAZIONE PRO-AMMALATI FRANCESCO VOZZAIl lavoro è sempre stato per me una grande passionee mi ha impegnato sempre molto, anche10-12 ore al giorno. Dopo aver interrotto gli studiclassici perché con la malattia di mio padre lamia famiglia non ha più potuto mantenerminegli studi, ho dovuto cercarmi un impiego,senza nessuna preparazione scolastica. A sedicianni sono stato assunto nell’ufficio contabilitàdi un’azienda vicino a casa, dove lasignora Marchi mi ha quasi adottato e mi ha insegnato“qualcosa, tanto per incominciare”.Contemporaneamente ho frequentato dei corsispecifici di contabilità, paghe e contributi. Misono poi iscritto a Ragioneria serale: è stato pesante,lavorare e studiare, ma bisognava farlo.Piano, piano, la mia esperienza aumentava,così come la mia autonomia e responsabilità.Altri corsi di formazione e di aggiornamento enel 1987 sono stato nominato dirigente in unamultinazionale, responsabile amministrativo, finanziarioe del personale.Quando ho deciso di andare in pensione nel2002, dopo quarant’anni di intenso lavoro, misono posto il problema: cosa farò ora? Il notaioPasquale Lebano, un amico con cui mi confrontavosu questo argomento, mi ha suggeritoil volontariato; “Ho io – mi disse – un’associazioneche opera al Fatebenefratelli”. “Io però ho unproblema: non ho il coraggio di avvicinarmi almalato a letto, alla sofferenza …”, risposi ma luimi tranquillizzò: “L’associazione è piccola ehanno bisogno di organizzazione, consulenza,coordinamento, amministrazione”. Si trattavadell’Associazione pro-ammalati FrancescoVozza, una Onlus che prende il nome da un ragazzomorto in questo ospedale di un male incurabilenel luglio del 1983. La nascita dell’associazionesi deve al professor Riccardo Vozza,primario della II divisione dell’Oftalmico di Milano,padre di Francesco, che con un gruppo diamici, medici e infermieri, a distanza di un anno,ha fondato l’associazione per sostenere i malatinell’ospedale dove lui ha trovato tanta comprensione,umanità e solidarietà.Mi presento, faccio il colloquio e partecipo alcorso di formazione. Mi affidano il servizio dell’Accoglienza:arrivano richieste di nuovi volontarie bisogna valutare se sono adatti e perquale attività, infine vanno preparati. Organizzoallora il servizio, predispongo idonea modulisticae partiamo. Un primo incontro, eventualecolloquio con la psicologa e il primo corso diintroduzione che prevede tre momenti: con lapsicologa per una riflessione sulle motivazioni;con la Direzione sanitaria per illustrare ciò che ilvolontario deve fare e non fare; infine uno scambiodi esperienze con alcuni volontari già in servizio.Se tutto fila come previsto, il volontarioviene assegnato a un reparto dove svolge un tirociniodi due mesi, in compagnia della coordinatriceo di un volontario esperto.All’interno del Fatebenefratelli, Oftalmico e MacedonioMelloni, i volontari tengono compagniaai malati ricoverati nei reparti; accolgono le personeche arrivano negli ambulatori per esamispecialistici; al Pronto Soccorso tengono compagniaai malati dentro l’astanteria e ai parentiin attesa fuori; alla Macedonio Melloni assistonole mamme in attesa di partorire e quante hannoappena partorito o hanno il piccolo con problemi.Si aiutano poi i degenti in condizioni economichedisagiate, si vestono quanti lo necessitanoper un ricovero improvviso, oppure unapersona indigente o gli anziani soli. Infine se unapersona sola viene dimessa ma non è ancoraautosufficiente, l’associazione la segue mandandodel personale medico o di servizio e sostieneil costo di una cooperativa convenzionata,in attesa dell’intervento dei servizi sociali ela presa in carico da parte del Comune. Infineun altro servizio molto apprezzato è il trasportoda casa all’ospedale per quelle persone che nehanno necessità per una chemioterapia, peruna dialisi, la riabilitazione dopo un intervento, uncontrollo o un esame specialistico. La nuova organizzazioneimpostata funziona, i volontari si inserisconocon maggiore coscienza e consapevolezzae la sera tornano a casa dopo il turno,magari stanchi, ma soddisfatti.Nel 2003 con il rinnovo delle cariche sociali delconsiglio direttivo e del collegio dei revisori deiconti, vengo eletto consigliere e successivamentenominato vicepresidente con delegaalla formazione dei volontari e ai rapporti conla Direzione dell’ospedale. Il “lavoro” che svolgomi impegna molto: è il mio impegno, oggi cheho 62 anni. Sono in ospedale tutti i giorni, a voltemezza giornata, altre tutto il giorno. Il “lavoro” midà grandi soddisfazioni. Anch’io alcuni giornirientro a casa stanco, ma soddisfatto. Nel miopiccolo, do anch’io un minimo contributo alraggiungimento dello scopo dell’associazione:far sì che i malati si sentano un po’ meno soli.
23Aurora PismataroASSOCIAZIONE SENECA ONLUSASSISTENZA DOMICILIARE ANZIANIMi ricordo il giorno in cui salii le scale di casasua per la prima volta, rampa dopo rampa, egià al terzo piano mi mancava il fiato. Chissàcome ci arrivava lei, al quinto piano, a più di ottant’anni….Lo capii poco a poco, conoscendoladurante i nostri incontri pomeridiani.Sentii dei passi frettolosi e la signora Agnesevenne ad aprirmi: vidi una donna piccola emagra, molto trascurata, che mi guardò negliocchi con stanchezza e diffidenza. La salutaicon un sorriso porgendole un pacchettino didolci. E fu così che riuscii a entrare.Davanti alle paste alla crema e ai budini alcioccolato cominciava sempre a sorridereanche lei e a raccontarmi che da bambina eragolosa di dolci, anche se in verità lei e i suoi cinquefratelli avevano avuto tanta fame, la famevera che le famiglie contadine avevano soffertosul delta del Po negli anni ’20. Fame e povertàavevano accompagnato la signora Agneseanche durante la guerra a Milano, dov’era venuta,ragazza, per imparare il mestiere di sarta.Mi raccontava dei bombardamenti, delle corsenei rifugi in cantina, di come cucisse bene legonne a pieghe e le camicette di seta e poi diquel bel ragazzo con cui aveva parlato duevolte ma che non era più tornato dal fronte.Ogni volta mi chiedeva che paste le avessi portatoperché non ci vedeva più granché, ma“farsi gli occhiali” – come diceva lei – “costatroppo”. E costava troppo pure il dentista: “ladentiera mi balla e la metto solo quando escoe poi mangio caffelatte e stracchino”. Peccatoche nel vassoio del pasto che il Comune lemandava ogni giorno ci fossero troppo spessobocconi di carne e pastasciutta che non riuscivaa masticare. Poi cominciava sempre a ripetermiche da trent’anni, ormai, viveva da solain quella casa. Da sola perché la sorella con cuiera venuta a Milano era morta giovane e leinon aveva mai stretto amicizia con nessun vicinoperché “sono tutti ficcanaso e non ci sipuò fidare di nessuno”. La sua paura l’avevaresa totalmente sola.Stavamo sedute a parlare davanti a un tavolo rotondo,in una stanza dai muri scrostati, con alcunifili elettrici volanti. Da una parte c’era unvecchio mobile con una vetrina da cui si vedevanotazzine spaiate piene di polvere, scatoloniper terra da cui spuntavano maglie infeltrite, eoggetti sparsi qua e là. Un bicchiere d’acqua, unvecchio carillon con una ballerina sul coperchio,una Madonnina di legno e un acquerellosbiadito con una barca sul mare. Tutto sapeva distantio. In un angolo c’era pure un piccolo mobiletto-frigopieno di cibi e scatolame scaduti. Ilfrigo non funzionava nemmeno più e la signoraAgnese non se n’era accorta perché non vedevapiù bene e la sua vita era immobile da decenni.Immobile come quel piccolo appartamentoin cui viveva, in un palazzone popolare, alquinto piano senza ascensore, con una cucinanell’incavo di una parete, un fornello con labombola del gas e un lavandino di ceramica ingrigitae piena di crepe, con un bagno che contenevasolo il water e un minuscolo lavandinosenza acqua calda. Lì dentro il tempo si era fermatoda anni, come si era fermato nel cuoredella signora Agnese. Non sognava neppurepiù una vita diversa, perché si era dimenticatache potesse esistere. Si era rinchiusa in una solitudineda cui uscivano soltanto ricordi di privazioni,delusioni e, soprattutto, rancori che l’avevanoripiegata su se stessa. Eppure l’avevo vistasorridere bevendo il tè e mangiando le pastealla crema, mentre mi raccontava i sogni cheaveva da ragazza e che ora non aveva più.Col tempo si riuscì a farle accettare un piccolofrigorifero e un televisore procurati in associazionecol passaparola, ma non si riuscì mai afarle accettare la proposta di andare a vivere inuna residenza per anziani. La signora Agnesecontinuò a fare i cinque piani di scale a piedifino al giorno in cui rientrò nella sua casa perl’ultima volta, prima di andarsene nel sonnocome mi aveva sempre detto di desiderare. E fuifelice che almeno per una volta si fosse realizzatoun suo sogno.