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L’ARTICOLO Domenica 11 dicembre <strong>2011</strong> 5 Presentato un libro sulla vicenda giudiziaria Relatori i prof D’Agostino, Amato e Franco Piperno, il giornalista Leporace, e gli autori del testo: Kostner e Paolini A destra un momento dell’incontro, in basso il professor Franco Piperno Alla Scuola di Giornalismo dell’Università di Salerno dibattito sulla figura di Giacomo Mancini Leader per tutti, lader per i pm Il sindaco di Cosenza ed ex parlamentare socialista fu accusato dalle parole dei pentiti ma, in assenza di prove, la Corte d’Appello di Catanzaro sentenziò: “Il fatto non sussiste” E’ passato molto tempo da quegli anni (1993 - 1999) che videro il sindaco di Cosenza, nonché ex parlamentare socialista, Giacomo Mancini, coinvolto in una lunga vicenda giudiziaria “senza prove”. Una faccenda “kafkiana”, svoltasi principalmente in una piccola aula del tribunale di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, raccontata nelle pagine del libro di Enzo Paolini e Francesco Kostner “Ag guato a Giacomo Mancini” e che ha animato il dibattito tenutosi nella Scuola di Giornalismo dell’Università di Salerno. Tra i relatori, non solo gli autori del testo, ma anche i docenti del campus di Fisciano, Tarcisio Amato ed Emilio D’Agostino, il direttore de Il Quotidiano della Basilicata, Paride Leporace, il professore dell’Università della Calabria, Franco Piperno. Tutti legati a un uomo dai presenti definito un leader e non un “lader” come si scrisse sulla stampa dell’epoca. «Pur stando vicino a Mancini in quegli anni, in qualità di collaboratore al Comune di Cosenza, non avevo capito bene la gravità della vicenda giudiziaria, che ho potuto riprendere e focalizzare a distanza di molto tempo con strumenti di interpretazione e lettura migliori. Solo oggi, analizzando l’attività dei difensori di Mancini, Enzo Paolini e Tommaso Sorrentino, posso immaginare cosa significhi per un uomo esser accusato da pm che non hanno prove, riscontri». Ha esordito così Kostner che ha visto nel grande sindaco di Cosenza una vittima di un certo giustizialismo del passato, un uomo valutato con le prove dei cosiddetti pentiti, spesso opportunisti e pagati. Già i pentiti, coloro che «venivano reclutati – ha raccontato Enzo Paolini – dal colonnello Angiolo Pellegrini – girando nelle carceri di tutta Italia e mostrando ai detenuti una strana circolare, nella quale si promettevano sconti di pena e vantaggi economici a quanti fossero in grado di riferire “circostanze relative a Mancini Giacomo”». Ma chi erano costoro? Un certo Cicillino Fonti o «quanti – ha continuato Paolini - parlarono di un “summit” al ristorante “La Sirenetta” di Catanzaro (che all’epoca era chiuso) tra Giacomo Mancini e Riccardo Misasi, notoriamente avversari politici, per concertare la fuga dal carcere del fascista Franco Freda, che però in quegli anni non era ancora in prigione». A nulla servirono le testimonianze di personaggi come Michele Pantaleone, Emanuele Macaluso, Francesco Cossiga, Rosario Villari, Abdon Alinovi, Agostino Cordova, Giorgio Ruffolo, Valentino Parlato, Paolo Cabras e Luigi Lombardi Satriani. Costoro tentarono di spiegare chi fosse l’ex segretario del partito socialista, quali battaglie politiche avesse condotto contro la mafia e per l’affermazione della legalità. Tutto inutile, il tribunale diede credito alle parole di Fonti, fatte proprie dal pm Boemi, che condannò Mancini per concorso esterno in associazione mafiosa. «Lo stesso pm – ha detto Paolini - dichiarò che le inchieste di Palermo su Giulio Andreotti e di Reggio Calabria su Giacomo Mancini si sostenevano a vicenda». Sul piano giudiziario, nel 1997, la Corte d’Appello di Reggio Calabria cassò la sentenza delle inesperte magistrate di Palmi, inviando gli atti del processo, per competenza territoriale, alla procura distrettuale di Catanzaro. Nel tribunale del capoluogo calabrese, il 19 novembre del 1999, il giovane dottor Vincenzo Calderazzo, giudice dell’udienza preliminare, sentenziò che «il fatto non sussisteva». A seguire in prima persona quella sentenza fu Paride Leporace, l’unico cronista calabrese ad essere presente in aula. «La stampa nazionale – ha raccontato il direttore de Il Quotidiano della Basilicata, Leporace – aveva dato poca importanza a quell’udienza, tutti credevano fosse una fase del processo normale, per cui fui il solo a sentire e riportare le parole conclusive dell’avvocato della difesa Sorrentino. Ecco perché sono convinto che nella professione giornalistica non ci siano verità preconcette, ma sia necessario andare sempre sul campo, verificare le fonti, avere un po’ di intuito e, poi, come nel mio caso, un pizzico di fortuna. Il processo Mancini mi iniziò alla cronaca giudiziaria, in quell’occasione ebbi modo di confrontarmi sia con i testimoni della di- fesa sia con i cosiddetti collaboratori di giustizia, imparai a districarmi in un materiale per noi cronisti incandescente». Nel libro Kostner e Paolini non solo hanno riassunto il percorso del sindaco cosentino, ma hanno narrato anche di un’ostilità tra pubblici ministeri «dietro i quali – ha affermato Tarcisio Amato – forse c’era qualcuno. Ma quale suggeritore aveva ordito la trama di questa vicenda?». La conclusione è sconcertante, nelle ultime pagine è lo stesso Mancini a denunciare il vicecapo della Polizia di Stato De Gennaro, responsabile di avere fatto condannare l’ex parlamentare. Ma allora quale fu l’errore giudiziario? E in cosa sbaglia ancora la giustizia? «Il problema – ha detto Franco Piperno – è nella legislazione premiale creata dall’Italia parlamentare unita di Berlinguer nella quale Mancini (e non è un caso) non c’era, fu l’unico a votare contro tale sistema a favore dei pentiti. Si pensi che lo stesso Rocco, autore del codice elaborato negli anni ’30, era riuscito a impedire l’introduzione della legislazione premiale nel partito fascista, proprio perché è un modello che consente di salvare qualcuno affossando un altro (da notare lo scrupolo di un legislatore fascista). Non bisogna ricorrere alle più basse necessità umane di preservarsi facendo del male ad un altro, fosse anche un criminale. Ultimamente è stato scoperto che coloro che furono condannati a Palermo per la strage di Borsellino erano innocenti. Questa legislazione va rivista, dal momento che non ha neanche risolto il problema dell’esistenza dell’organizzazione criminale nel Sud». Per cui ha concluso il professore D’Agostino «il modello democratico di organizzazione della società non può dirsi realizzato; la democrazia rappresentativa è piena di incongruenze e distorsioni. Così anche la prospettiva della giustizia è indicata in direzione dell’autopossesso; se vuoi fare una causa a qualcuno o devi semplicemente difenderti da una accusa sei costretto a prendere e pagare un avvocato. E quanti possono farlo?». Pagina a cura di MARIA DI NAPOLI