Distruzione, assenza ed oblio di Nando Vitale @P. Correia «Nel corso della sua vita l’uomo non solo agisce, sogna, parla e pensa, ma tace anche qualcosa – per tutta la vita tacciamo su quel qualcuno che siamo, di cui solo noi sappiamo e di cui non possiamo parlare a nessuno. Ma noi sappiamo che quell’uomo e quel qualcosa di cui tacciamo sono ‘la verità’, siamo noi quelli di cui tacciamo». Sandor Marai, Terra, Terra!..., Adelphi, 2005, trad. Katinka Juhász «Persino adesso che sto cercando di ricordare (..) l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi ed oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno…». W.G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, 2002, trad. Ada Vigliani FUOR ASSE 66 Riflessi Metropolitani
L’interrogazione sui luoghi e sulla memoria, sul coagulo di temi ad essi legati (morte, distruzione, oblio, ricostruzione, felicità, bellezza, fughe dal mondo, corto circuiti temporali), affollano le agende del pensiero, della poesia, della letteratura, delle arti e del sistema globale dei media. Prima considerazione. Lo spettro di riflessioni sul concetto di luoghi e memoria ha accumulato una lunga e densa tradizione nei saperi disciplinari e nelle arti, definendo sui temi in questione un’articolazione ricca ed esaustiva, che rende difficoltoso ogni ulteriore spunto di riflessione. Al contrario, l’interrogativo aperto e ancora fortemente dibattuto può essere sintetizzato dall’esistenza di un mistero non svelato o almeno non del tutto esaurito, sulla relazione tra luoghi e memoria. Si tratta di un insoluto che si annida di frequente nel sostrato psichico e che non trova facili soluzioni nemmeno tra i più pirotecnici dei post-filosofi contemporanei. Derrida, in Glas (1974), sottolineava l’involontarietà della memoria di un luogo, definendola come uno spazio mentale nel quale i ricordi di un evento vengono preservati senza una deliberata volontà di chi ha vissuto l’esperienza custodita. Al contrario di monumenti, musei, archivi, biblioteche, che sono luoghi creati deliberatamente al fine di conservare la “memoria istituzionale”. Questi ultimi, diversamente dagli spazi mentali sopra descritti, vivono con l’avvento delle tecnologie digitali, una profonda, radicale dislocazione di senso e una irreversibile mutazione nelle gerarchie di conservazione storica, culturale, identitaria. Seconda considerazione. Con il trasloco dei luoghi della memoria, che si insediano nel territorio indefinito/indefinibile della rete, si produce una frammentazione delle tracce che ne mutano radicalmente il senso, trasformandosi innanzitutto in materiale manipolabile – parafrasando Blanchot – nell’era dell’infinita interpretazione. Permane tuttavia una relazione della memoria con la storia, con i luoghi materiali che la rappresentano: “la materia di cui è costituita la storia”. Questi luoghi si svuotano dell’unicità che li rende autentici, nella possibile riproducibilità attraverso l’evoluzione dei sistemi informatici e li espone a facili alterazioni semantiche. Un Benjamin dei nostri tempi rivolgerebbe il suo sguardo tra passato e memoria, requiem e futuro, verso le fantasmagorie delle tecnologie digitali ridefinendo i confini dell’impensato. I media digitali sono straordinari e pervasivi strumenti di conservazione ma anche di facili stravolgimenti. Non ci troviamo soltanto dinanzi al problema della perdita dell’aura della tragedia, della memoria e dei luoghi, ma alla possibilità di una sua simulazione infinita, a possibili narrazioni parallele, sul modello del romanzo ucronico di Philip K. Dick, La svastica sul sole (The Man in the High Castle). I luoghi commemorativi come i cimiteri di guerra, i campi di concentramento, le fosse comuni, le tracce di genocidi, si prestano a possibili spostamenti di significato, assecondando le diverse accezioni religiose, sacrali, politiche, che ciascuno può attribuire all’episodio collettivo che è chiamato a ricordare. Che si tratti di fondazione dell’identità, della memoria condivisa, compito tradizionale al quale sono da sempre consegnati, insieme alla funzione pedagogica di istruire le generazioni future attraverso i luoghi simbolici, pur con la retorica degli anniversari e delle visite sistematiche che ne depotenziano lo scopo. Cartografare la geografia mentale del ricordo di una collettività, nell’era della memoria manipolabile dalla potenza dei media digitali, può trasformarsi in un simulacro di opinabile verità. FUOR ASSE 67 Riflessi Metropolitani
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