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MARCO SAMORÈ (Faenza, 1964) Le opere di Marco Samorè parlano una lingua universale, ci proiettano in una dimensione domestica alla quale noi tutti sappiamo accostare una memoria o un ricordo. L’effetto shock gioca un ruolo importante per l’artista, riesce a trasmettere alle sue installazioni, sculture o fotografi e quello spaesamento perturbante che lascia il fruitore in balia degli eventi, di fronte ad un déjà-vu destabilizzante che non riesce a controllare. “Standard” e “Domestica” non sono soltanto i titoli dati da Samorè a due mostre di qualche anno fa, questi termini sono la chiave di lettura di tutta la sua produzione. “Standard” è l’oggetto commerciale diffuso in tutte le abitazioni e ormai parte della nostra esistenza quotidiana. “Domestica” è l’atmosfera in cui questo oggetto standard risiede, cioè fra le pareti di casa. Dietro le sue belle opere studiate con grande cura formale si nasconde quindi qualche cosa di più profondo, che fa leva sulla riconoscibilità degli oggetti e degli ambienti rappresentati. A questi “oggetti d’affezione” noi tutti sappiamo accostare una memoria o un ricordo. È questa la forza celata nella ricerca artistica di Samorè, le sue opere sono capaci di parlare una lingua universale, una narrazione collettiva che fa leva sul vissuto generazionale, perché, nella società dei mass media - come fa intendere lo stesso artista nel titolo di un lavoro del 1999 - “molti ricordi sono comuni”. “Storia di uno che se ne andò in cerca della paura” ben rappresenta la poetica di Samorè. Il classico tema dell’iniziazione adolescenziale, ripreso dall’universo narrativo dei fratelli Grimm, viene qui interpretato con sottile ironia dopo essere stato catapultato nel passato prossimo di ognuno di noi. Samorè, come il giovane protagonista della fi aba in cerca della “pelle d’oca”, intraprende un lungo e faticoso viaggio per trovare qualcosa che soltanto dopo una vana ricerca si rivela essere facilmente raggiungibile senza spostarsi dal letto di casa propria. Installazioni, sculture e fotografi e, trasportano lo spettatore in sognanti atmosfere, fatte di boschi incantati, limpidi ruscelli e accoglienti tappeti. Soltanto dopo una più attenta lettura, questo immaginario da fi aba, si scopre essere terribilmente falso. L’immagine boschiva non è che una semplice stampa incollata alla parete. I tronchi di legno sparsi qua e là sono senza radici e sorretti da precari listelli di compensato con tanto di codice a barre. Un trampolino ligneo che allude ad una pista da skateboard è volutamente antifunzionale. I tappeti, tutt’altro che pregiati, sembrano mangiati da tondi e bassi sgabelli di legno. La bella ragazza che esce senza veli dal mare, purtroppo soltanto una fotografi a. Anche la grande insegna che riprende il logo del noto gruppo musicale AC/ DC, reinstallata per l’occasione qui a Chiari, è riprodotta con un legno impiallacciato modello Ikea e da una saetta illuminata con qualche decina di lampadine. Samorè, pare voglia tirare allo spettatore la stessa secchiata d’acqua fredda ricevuta da quel ragazzo “in cerca della paura”. E come quel giovane, lo spettatore si trova improvvisamente a vedere quella realtà che gli era stata occultata. Marco Samorè, come del resto i fratelli Wilhelm e Jacob Grimm, sembra condividere pienamente le parole di Herder: “si crede perché non si sa; si sogna perché non si vede”. L.P.
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JOSEPH KOSUTH, Toledo, Ohio 1945
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scrisse in una sua autobiografi a,
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BEN PATTERSON, Pittsburgh 1934 Moto
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CARLO BERNARDINI, Viterbo 1966 “O
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BEPPE BONETTI, Rovato, Brescia 1951
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